Fanfic su artisti musicali > Tokio Hotel
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Autore: Shayla_the_angel    02/11/2008    3 recensioni
Storia ancora in fase di sviluppo. Alena è una giovane ragazza tedesca. Non è appariscente, e non ha nemmeno un bel fisico. Lavora per il gruppo di suo fratello e una sera canta con loro in un pub. David Jost si accorge di loro e li ingaggia per aprire i concerti dei TH nel nuovo tour europeo (date di mia invenzione ovviamente)
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Tokio Hotel
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Primo capitolo di una nuova fic. Sinceramente non so come mi sia venuta in mente ^^

In ogni caso voglio tanti commentini perché almeno so cosa ne pensate. Come al solito i Tokio Hotel non mi appartengono (purtroppo) e questo scritto non è stato prodotto a scopo di lucro (???). Ok, a voi la storia.

 

La mia rivincita

 

01.

BERLINO_PER STRADA

 

Stavo camminando tranquillamente. Nessun pensiero, nessun problema. La mia vita proseguiva tranquilla. Non chiedevo niente di più di quanto avevo. Eppure quella mattina accadde.

Oh, avete ragione. Mi sono messa a parlare e nemmeno mi presento!Che sbadata. In ogni caso, mi chiamo Alena e ho diciannove anni. Al mattino lavoro in una piccola cartoleria, mentre di sera lavoro come tecnica del suono per un gruppetto poco famoso. Ok, aggiusto i microfoni e gli impianti al gruppo di mio fratello. A dirlo così però sembra patetico. Vabbè, sorvoliamo.

Quella mattina dovevo andare a prendere un paio di corde per il bassista e chiedere disperatamente al commesso se gli erano arrivati gli spartiti per tastiera degli U2. Entrai nel negozio tranquillamente e mi misi a guardare qua e là, come al solito. Ad un tratto udii delle voci. Il commesso, Daniel, stava parlando con qualcuno, di cui non conoscevo la voce. Sembrava una voce da film, di quelle che senti solo nei doppiaggi dei divi di Hollywood.

Incuriosita, mi avvicinai all’ingresso. Presi a caso una rivista dallo scaffale ed osservai la scena. Un uomo sulla quarantina si era praticamente comprato tutte le corde di chitarra e basso del negozio.

Mi avvicinai alle scatole e notai sconfortata che erano state razziate tutte. Il mio sguardo fece sorridere Daniel.

“A quanto pare oggi ti va male, tesoro” mi disse.

L’altro cliente mi guardò.

“Signorina sta cercando qualcosa?” mi domandò. Il suo sguardo mi irritò profondamente. Sembrava volesse dirmi “Mi dispiace ciccina, ma sono arrivato prima io. Ora ti attacchi!”.

“Beh, sinceramente mi servirebbero due corde…” dissi, osservando il corposo mucchio che l’uomo aveva poggiato sul bancone.

“Oh, mi dispiace, ma la prossima volta ti converrà prenderle prima di gironzolare per il negozio” disse, con un sorrisino.

Ribollii di rabbia.

“Senta, i suoi figli non si arrabbieranno di certo se mi cede due corde, o sbaglio? Ne ha lì almeno trenta per tipo” dissi, cercando di sembrare minimamente calma.

L’uomo rise.

“Ma queste non sono per i miei figli” disse, poi pagò e si allontanò, sempre ridendo.

Sospirai.

“Senti, dammi almeno una buona notizia…” dissi, rivolta a Daniel.

“Mi dispiace, ma niente U2, almeno fino al prossimo mese”.

Ero demoralizzatissima.

“Senti, ma che cazzo aveva da ridere quello lì?” domandai, ai limiti dello sconforto.

“Come? Ma davvero non l’hai riconosciuto?”

“No”

“Eppure era sulla rivista che stavi leggendo”.

Guardai la copertina del giornale.

“David Jost, il manager dei Tokio Hotel si racconta per noi”.

“David Jost…ecco dove avevo già visto quella faccia da schiaffi!” esclamai.

“Senti, te lo prendi quel giornale?” mi domandò Daniel.

“Ma sì. Fammi leggere qualche stronzata. Senti, appena arriva qualcosa di utile, chiama pure Eric”

“Sì, stanne certa. Buona giornata”.

Mi allontanai a passo svelto, leggendo il giornale.

“Stiamo cercando una giovane band ancora sconosciuta per aprire i concerti dei Tokio Hotel per il prossimo tour”. La faccenda era abbastanza interessante. Avevo già sentito parlare dei Tokio Hotel, anzi a dire la verità avevo anche proposto a mio fratello e al suo gruppo di provare qualche cover loro, perché le canzoni mi piacevano abbastanza. Strano che non avessi mai sentito parlare di quel rompi palle del loro manager.

Sospirai, poi entrai in casa. Era il mio giorno libero dalla cartoleria, quindi mi rimboccai le maniche e risistemai quel buco di appartamento dove vivevo con mio fratello e con i suoi amici.

Sì, non prendetemi per una sfigata, ma da quando io e il mio ragazzo avevamo rotto, mi ero ritrovata praticamente in mezzo alla strada e se non fosse stato per Eric, a quest’ora probabilmente non sarei nemmeno qui a raccontarvi la mia storia.

In ogni caso, i ragazzi erano tutti al lavoro. Mio fratello e Matt, il batterista lavoravano per un industria di pittura fuori città, mentre Jo, il bassista faceva il barman in un bar in centro. Erano tutti e tre sempre mega impegnati, ma la musica li rilassava e provavano sempre di sera. La fortuna era che abitavamo in una piccola palazzina fuori città e gli altri inquilini non si erano mai lamentati. Accesi lo stereo, sicura che i vicini fossero tutti fuori casa, quindi mi misi a rassettare cantando ad alta voce.

Non sentii nemmeno la porta aprirsi.

“Sorellinaaaaaaaa!” una voce deliziosa per le mie orecchie.

“Eric!” esclamai, spegnendo lo stereo e correndo tra le braccia di mio fratello.

Era più grande di me di due anni, ma era come se fosse il mio gemello.

Dietro di lui vidi arrivare anche Matt. Alto, biondo dagli occhi grigi ed un sorriso irresistibile.

“Cosa? Stai sistemando?” mi chiese il giovane, scompigliandomi i capelli. Anche lui era coetaneo di mio fratello.

“Ovvio, se non ci fossi io vivreste in un porcile!” esclamai ridendo. Era quasi l’una.

“Ragazzi, che ne dite se andiamo a mangiare da Lu?” chiesi.

Lu era la mia migliore amica. Si chiamava Ludovica, ma siccome il suo nome le faceva schifo si faceva chiamare Lu. Era proprietaria di un ristorantino niente male dove si mangiava da Dio spendendo pochissimo.

Salimmo in macchina, poi mio fratello si mise al volante.

“Oggi che giorno è?” chiese.

“Mercoledì” risposi.

“Oddio! Allora domani sera abbiamo il concerto dentro al bar di Andrea”.

Altra presentazione, scusate sto nominando parecchie persone che voi non conoscete.

Andrea era la ragazza di mio fratello. Stavano insieme dai tempi della seconda media. Una roba pazzesca. Quasi dodici anni di fidanzamento e ancora si amavano all’inverosimile.

“Beh, i pezzi che avete preparato sono bellissimi” dissi, dal sedile posteriore.

“Sì e vorremo che tu cantassi con noi” mi disse Matt.

“Cosa?!?” domandai.

“Sì, dai Ale!”. Solo lui e mio fratello mi chiamavano così.

“Ma come vi è venuta in mente questa cosa?” chiesi.

“Beh, tuo fratello canta bene, ma ci manca la ragazza immagine per il gruppo!” disse, sorridendomi.

“Io? Ragazza immagine? Ma mi hai vista?”.

Ero cicciottella, con i capelli perennemente in disordine e spessi occhiali a nascondermi il viso.

Non mi piacevo e non erano molti i ragazzi ad apprezzare il mio aspetto fisico.

“Dai, non dire così. Adesso ne parleremo a Lu. Scommetto che anche lei sarà dalla nostra parte” disse Eric, parcheggiando.

Scendemmo dalla macchina ed entrammo dentro il ristorante, dove la mia amica ci accolse.

“Ecco, lei potrebbe benissimo fare la ragazza immagine” pensai. Alta, con le gambe chilometriche e il fisico da Miss America. Lunghi capelli corvini ereditati dal padre spagnolo e occhi azzurri della madre norvegese.

“Ragazzi! Che piacere vedervi da queste parti!” esclamò, abbracciandoci.

“Senti Lu, oggi che ci proponi?” chiese Matt.

La mia amica si sfiorò il mento con una mano dalle unghie smaltate.

“Dunque, come primo un piatto di lasagne caserecce, di secondo una bella bistecca ai ferri con contorno di insalata e mais. Frutta fresca di stagione e dessert a scelta tra quelli della casa”

Il giovane bassista annuì. “Apprezzo pienamente la tua scelta!” esclamò, sorridendo.

“Senti, che ne pensi di Ale come nostra ragazza immagine?” chiese mio fratello.

“Strepitoso!” disse Lu.

“Dai, ragazzi. Non prendetemi in giro. Se vi facessi da ragazza immagine probabilmente perdereste tutti i vostri fan” dissi, avvilita.

“Eric, lascia fare a me. Ora mangiate, poi la sequestro io! Non preoccupatevi” disse la mia amica.

Dopo pranzo, infatti, lasciò la gestione del locale ad un ragazzo e mi portò a casa sua.

“Senti, perché devi buttarti giù di morale in questo modo?” mi chiese, mentre guidava.

“Perché? Dai Lu, ti sembra il caso di farmi questa domanda? Guardami…non sono per niente quella che si definirebbe una bella ragazza”

“Oh, che palle! Secondo te tutte quelle che stanno in televisione o che sono famose sono tutte delle strafighe a livello universale? No! La maggior parte sono cesse. Se solo le belle donne potessero fare spettacolo, allora saremmo messe molto male. Ci sono doti migliori della bellezza. Tu hai un cervello che farebbe invidia a molte ragazze belle, fidati. E poi, per la cronaca, se quelle veramente brutte fossero fatte come te, allora sarebbero contente”.

Lu, la mia migliore amica. Sapeva tirarmi su di morale in ogni momento.

“Senti, il trucco o make up, come preferisci chiamarlo, lo hanno inventato proprio per perfezionare i piccoli errori”

Arrivate a casa sua, mi tolsi la giacca. Ormai conoscevo a memoria quell’appartamento. Più volte ero stata invitata a vivere lì, ma mi ero sempre opposta. Preferivo stare con mio fratello.

“Dunque, siccome il concerto sarà domani…vediamo un po’ cosa si può fare. Primo, cambiare taglio di capelli. Con i capelli lunghi sembri Maria Addolorata!” esclamò. Mi fece sedere in bagno, poi cominciò a tagliare.

Aveva aperto un ristorante, ma era anche un’ottima parrucchiera ed estetista.

Quando terminò il suo lavoro mi guardai.

“Mio Dio! Ma che hai fatto?” chiesi.

Mi aveva tagliato i capelli di almeno trenta centimetri. Erano corti dietro e più lunghi davanti.

“Beh, per ora è così, ma magari più avanti puoi tingerli di biondo o di un altro colore” disse, soddisfatta.

“Ok, ora diciamo pure che sembro una povera scema”

“Non è vero. Stai benissimo”

Avevo un dannato ciuffo che continuava a finirmi davanti agli occhi.

Look molto simile a quello di una ragazzina di sedici anni.

“Non sembro un po’ troppo piccola?” chiesi.

“Guarda, fidati di me se ti dico che è sempre un bene che le ragazze sembrino più giovani”.

Sospirai. Quello era un look troppo appariscente. Troppo diverso da me. Mi sentivo a disagio.

Lu mi sorrise dal riflesso dello specchio.

“Senti, non fare quel muso lungo. Scommetto che a Matt piacerai da morire”

Arrossii. Solo lei sapeva che per Matt era più di un semplice amico.

“Senti, domani pomeriggio, prima del concerto vieni qui da me, così ti trucco e ti do dei vestiti adatti”

“Senti, niente mini gonne o top, ti scongiuro!”esclamai.

Lu rise.

“Non ti preoccupare. So quello che faccio”.

La salutai, poi presi un taxi e tornai a casa.

Eric e Matt stavano preparando gli strumenti per la prova generale di quella sera.

“Ale arrivi al momento giusto! Ce la fai a sistemare l’amplificatore?” mi chiese Matt.

“Certo” dissi, chinandomi.

“Hey, ma hai tagliato i capelli!” mi disse.

Io annuii.

“Stai molto meglio” aggiunse, sorridendo.

Io arrossii, poi mi alzai di scatto.

“Bene, qui è tutto pronto. Io vado a preparare la cena, almeno per quando arriva Jo è tutto pronto” dissi, allontanandomi.

Avevamo fatto insonorizzare la stanza per le prove, in modo che il baccano fosse attutito almeno in parte.

In compenso però, almeno una persona doveva entrare in sala prove con il cellulare acceso al massimo volume.

Più volte mi era capitato di chiamarli per minuti interi senza ottenere risposte perché non mi sentivano.

Mi misi ai fornelli e meno di dieci minuti dopo sentii la porta aprirsi.

“Sono a casa!” era Jo. Lui aveva ventitré anni ed era figlio di due immigrati argentini.

Si chiamava Joachim ed era l’uomo più buono del mondo.

Mi salutò, come suo solito, con un bacio sulla guancia.

“Buona sera tesoro” mi disse.

“Ciao maritino”.

Ci divertivamo a fare gli sposini. Ormai era un giochetto che andava avanti dai tempi delle superiori.

“Gli altri due sono in prova” dissi.

“Ah già. Domani è il grande giorno”

“Jo, ascoltami. Lo dico solo a te, perché non voglio mettere in ansia i ragazzi…” dissi a bassa voce, con aria da cospiratrice.

“Che succede?”

“Beh, credo che domani sera ci sarà una sorta di talent scout” dissi.

“Dici sul serio?” mi chiese.

“Sì, ho letto su questa rivista che il manager dei Tokio Hotel sta cercando una band che apra i loro concerti e sta girando praticamente tutta Europa alla ricerca del gruppo giusto. Lui si occupa prettamente di questa città e si da il caso che domani sera l’unico concerto live sia proprio il vostro”

“Nostro vorrai dire. I ragazzi ti avranno certo informata che canterai con noi domani…lo noto dal tuo nuovo look”

Arrossii.

“Beh, sì. Però il gruppo siete voi tre, io mi aggrego solo questa volta”.

Jo rise e mi diede una leggera pacca sulla schiena.

“Ne dubito chica!” disse ridendo.

Andò in sala prove e richiamò gli altri due. Era pronto da mangiare.

A tavola Eric mi illustrò la scaletta di brani che avremmo dovuto fare l’indomani.

“Sono tutti pezzi che conosci, li abbiamo provati migliaia di volte, quindi non ci saranno problemi” mi disse, sorridendomi.

“Ah, se farai carriera perderemo una cuoca favolosa” disse Matt, addentando un pezzetto di stufato.

Ebbene sì, me la cavavo molto bene in cucina e mi piaceva mettermi ai fornelli.

La tensione cominciava a salire. Mancavano più di ventiquattr’ore all’esibizione e già stavo male. Mi alzai per sparecchiare, ma i ragazzi mi fermarono.

“No, ora bisogna provare…a dopo i piatti” disse Jo.

Contro voglia, in quanto maniacalmente contraria al disordine, mi feci trascinare in sala prove.

Presi tra le mani il microfono e sospirai.

Mio fratello prese la chitarra, Jo il basso e Matt si sedette alla batteria.

Provammo per quasi un’ora e mezza.

“Perfetto! Se domani suoniamo così diventeremo la migliore band sconosciuta di tutta la Germania!” disse Eric, soddisfatto della prova.

“Non è detto…potremmo diventare famosi” pensai, sorridendo.

La mattina seguente, quando mi svegliai, i tre pigroni erano ancora a letto. Si erano presi tutti e tre un giorno di ferie, per prepararsi meglio alla serata.

Mi mossi lentamente dalla mia camera, andai in bagno dove mi lavai e mi vestii, lasciando il pigiama nel cesto della biancheria sporca, poi scesi al piano di sotto per preparare il caffè per tutti.

Dopo una rapida colazione mi lavai i denti, presi le chiavi di casa e della macchina, lasciando un messaggio appeso al frigorifero.

“Dopo il lavoro vado da Lu, ci troviamo direttamente da Andrea per le 21.00. Baci e non distruggete la casa! Ale”

Chiusi a chiave la porta, poi andai in garage, dove la mia piccola smart mi stava aspettando.

Arrivata in cartoleria mi misi dietro il bancone. Non avrei incontrato la mia collega almeno fino alle undici, quindi avevo ben tre ore tutte per me.

Mi sedetti e cominciai a leggere un libro che avevo iniziato qualche giorno prima.

Sentii il campanello tintinnare, quindi alzai lo sguardo.

Era una ragazzina di circa sedici anni. Stava rumorosamente masticando una cicca, sbatacchiando la bocca in maniera poco fine.

“Senti, che ce li hai gli indelebili colorati?” mi chiese, sbiascicando.

Odiavo le ragazzine che si atteggiavano.

Vestiva firmata dalla testa ai piedi.

Portava un paio di ballerine con la tela stampata di Gucci. Al braccio una borsa della Pinko. Jeans della Lee e una maglia di Dolce e Gabbana.

“Sì, sono su quello scaffale” risposi, tornando alla mia lettura.

Mancavano cinque minuti alle otto, sicuramente quella ragazza stava cercando un modo per arrivare in ritardo.

Rimase davanti a quei dannati pennarelli per quasi dieci minuti, poi si avvicinò di nuovo a me.

“Scusa, non è che ce li hai di un rosa più scuro di questo?” mi chiese, porgendomi un pennarello fucsia.

“Beh, più scuro di così c’è solo viola”

“Allora lo prendo così” disse, estraendo un borsellino della Guess.

“Un euro e trenta” dissi, preparando lo scontrino e mettendo l’indelebile in un sacchettino.

“Grazie. Ciao” disse, uscendo.

La vidi uscire dal negozio, poi fermarsi a scrivere proprio sulla colonna davanti all’entrata.

Mi chiesi come potesse essere tanto stupida. In quel momento passò una pattuglia di vigili urbani che notò la ragazzina e la multò.

Sorrisi mio malgrado. Non era nel mio stile comportarmi da stronza, eppure era necessario quel sorriso.

Ripresi a leggere, quando uno dei vigili entrò in cartoleria.

“Buon giorno signorina” mi disse.

Alzai lo sguardo. Aveva una faccia conosciuta, eppure non seppi dire dove lo avessi già visto.

“Buon giorno. Mi dica” dissi, chiudendo il libro.

“Ha venduto lei questo pennarello alla ragazzina che c’è di fuori?”

Io mi sporsi fingendo di non sapere cosa stesse accadendo.

“Ah, sì. Gliel’ho appena venduto, come mai?”

“La ragazza in questione è stata appena multata per aver scritto sul muro qui di fronte”

“Ebbene?”

“Lei è responsabile di aver venduto l’oggetto”.

“Aspetti un secondo. Io cosa c’entro?”

“Le verrà fatta una sanzione”

“Come scusi?” chiesi, sempre più allibita.

“Sì”

“No, aspetti. Se una persona vende un taglierino ad un’altra e quella commette un omicidio, è colpa del venditore?”

“In parte sì”

“Per cortesia, io la rispetto moltissimo, ma non dica cose che non stanno ne in cielo né in terra”.

Il vigile scoppiò in una sonora risata.

“Davvero non mi hai riconosciuto?” chiese levandosi il cappello.

Io lo guardai meglio.

“David?” chiesi.

Lui annuì.

Sorrisi e superai il bancone, poi lo abbracciai.

Eravamo in classe assieme alle medie.

“Come stai?” gli chiesi.

“Bene, te?”

“Bene! Allora, sei riuscito a fare quello che volevi, a quanto pare”

“Sì, te invece?”

“Io adesso lavoro qui e per il gruppo di Eric”

“Ah, beh almeno hai a che fare con la musica, come volevi, no?”

“Sì”

“Senti, ma quella ragazza quanto è stupida…ci ha visti arrivare da in fondo alla via, ma mica si è spostata…”

“Che ci vuoi fare? La gioventù furba e brillante se n’è andata con noi” dissi, ridendo.

Lui mi sorrise.

“Dai, un giorno organizziamo una rimpatriata, va bene?”

“Ok, avvisami appena sai qualcosa”.

Mi diede un leggero bacio su una guancia, poi se ne andò.

“E dire che alle medie mi rivolgeva appena la parola” pensai, sospirando.

La mattinata proseguì placidamente.

Entrò la solita vecchietta a chiedere delle cartucce per il nipote, la solita mamma ritardataria che cercava disperatamente le copertine per qualche quaderno. Il solito, come sempre.

Alle undici, a libro finito, arrivò la mia collega. Dafne.

Bella ed irritante come poche.

“Ciao Alena” mi disse con aria stizzita

“Ciao Dafne”.

Poteva permettersi di arrivare tardi solo perché era la fidanzata del figlio del proprietario e io credevo che fosse anche per quel motivo che aveva ottenuto il lavoro.

Era completamente dipendente dalle altre ragazze, me compresa. Non sapeva fare gli scontrini, non sapeva dov’erano le cose e guai a chiederle di fare l’inventario all’inizio e alla fine di ogni mese.

“Io ho una vita sociale, non posso sprecare il mio tempo in questo buco!” rispondeva regolarmente, al che io e le altre ragazze ci eravamo rassegnate al fatto che stesse in mezzo ai piedi a blaterare dei fatti suoi, mentre noi lavoravamo.

Era proprio grazie a Dafne che il direttore aveva dovuto assumere altre tre ragazze. Io e Marie non riuscivamo a fare tutto il lavoro.

In ogni caso, aspettai fino a mezzogiorno, quando arrivò Marie che mi diede il cambio.

“Buona fortuna. Oggi è di luna storta” le dissi, sorridendo.

“Oh, che meraviglia” rispose lei, sarcastica.

Me ne andai, salutando entrambe, poi corsi da Lu. Non vedevo l’ora di sapere cosa aveva in serbo per me.

   
 
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