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Autore: flatwhat    04/12/2014    2 recensioni
Quel giorno era cominciato in modo piuttosto strano, ma Jean Valjean non urlò. Il suo cervello lo fece al posto suo.
Un giorno, per quale motivo non si sa, Valjean e Javert si risvegliano l'uno nel corpo dell'altro.
Genere: Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Javert, Jean Valjean
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Questa è ufficialmente la cosa più inutile che io abbia mai scritto.
Enjoy(?).


Quel giorno era cominciato in modo piuttosto strano.
Era quello che avrebbe potuto pensare Jean Valjean, se il suo primo pensiero della mattina dopo essersi svegliato non fosse invece stato totale incoerenza in preda alla paura a vedersi osservato da quella che era, a conti fatti, la sua faccia (impaurita anche lei). Dopo aver toccato la propria faccia, non quella che era anche la sua ma che lo stava osservando dall'esterno, aveva inoltre scoperto l'esistenza di un paio di basette che non potevano essere spuntate dal nulla in una notte.
Era quindi corso allo specchio, rischiando di inciampare nella fretta ed aveva riscontrato che sì, la faccia che lo guardava dallo specchio era quella di Javert.
Quel giorno era cominciato in modo piuttosto strano, ma Jean Valjean non urlò. Il suo cervello lo fece al posto suo.
 
Jean Valjean percorreva la stanza a grandi passi.
La tentazione di chiedere a Javert "Come fai a camminare?" fu grande, ma la superò. Non era il genere di domande da fare.
Non era abituato a un corpo del genere, né a un'altezza simile. Il pavimento non era oggettivamente molto più lontano del normale, ma la differenza gli faceva comunque girare la testa, così come quando abbassava gli occhi ad osservare degli arti troppo lunghi che non erano i suoi.
Javert- che era ancora seduto sul letto ad osservare i tentativi di movimento di Valjean con l'espressione di chi si ostina a credere di stare ancora sognando- si premette una mano sul volto e sospirò a lungo.
"Non starai facendo esercizio?", disse e Valjean rabbrividì al suono della sua stessa voce pronunciata dall'esterno. Gli sembrava orrenda e trattenne una risata isterica quando pensò a come avrebbe dovuto chiedere scusa, quando parlava con qualcuno.
Si schiarì la gola, volendo provare a parlare anche lui.
"Non possiamo ragionarvi ora. Tra un po', Cosette sarà qui".
Javert si irrigidì e Valjean sospettò che avesse avuto la sua stessa reazione al suono della propria voce.
"Tua figlia... L'avevo dimenticato", sospirò di nuovo.
Erano entrambi ancora in camicia da notte.
"Dovremmo almeno fare colazione", disse, e cominciò a levarsi la camicia da notte.
Valjean si avvicinò a letto per fare lo stesso- notando solo in quel momento che effettivamente si era svegliato dal lato del letto sbagliato- quando il suo sguardo si soffermò sulla schiena nuda che fino al giorno prima era appartenuta a lui.
Non aveva mai potuto osservare in che stato fosse, anche se percorrere con le dita le parti dove riusciva ad arrivare avrebbe dovuto prepararlo alla constatazione che non era una bella visione.
In verità, aveva avuto tutta la vita per imbarazzarsi al pensiero che qualcuno avrebbe potuto vedere le sue cicatrici, ma ora che anche quello era stato superato, perché Javert le aveva viste, gli rimaneva la bizzarra esperienza di scoprirle egli stesso.
Si limitò a considerarle brutte. Per un attimo, provò a ricordare il dolore di quando gliele avevano inflitte, ma spinse quel pensiero di lato mentre si spogliava a sua volta.
"Cosa dovrei mettermi?", chiese Javert, passato quel momento di silenzio.
"Ah", Valjean non ci aveva pensato.
Prese una camicia pulita, un paio di pantaloni neri e quel gilè blu scuro che piaceva tanto a Cosette e li porse a Javert.
"Ed io?", chiese.
"Metti quello che ti pare".
Quando vide il suo stesso cipiglio corrucciato, che in quel momento stava venendo esibito da Valjean, Javert alzò le sopracciglia.
"Non fare quella faccia. La trovo disturbante".
Valjean tentò di riassumere un'espressione neutrale, ma non trattenne una risatina.
"E non fare neanche quello", puntualizzò Javert. "Ma comunque, sono serio. Metti quello che vuoi. Te ne intendi certamente più di me".
In tutta franchezza, Valjean non se ne intendeva affatto di più, ma motivato com'era dal non vestirsi completamente a caso per la visita di Cosette, sorpassò l'ostacolo della poca fantasia dei colori indossati da Javert e scelse degli abiti neri che stranamente sembravano più eleganti nel mezzo di tutto quel mare di nero e grigio.
Si vestì e si voltò verso Javert, che stava finendo di abbottonarsi le maniche della camicia. Quando ebbe finito, Javert si spinse indietro una manica e fissò il segno lasciato da una manetta.
Alzò lo sguardo e incrociò lo sguardo di Valjean.
"Ah". Riabbassò il capo e si ricoprì il polso.
"Caffè?", chiese Valjean, cercando di sorridere.
Javert sospirò
"Volentieri".
 
Fecero una rapida colazione, in cui nessuno dei due parlò di quanto stava accadendo.
L’unica vera consolazione di Valjean era potersi riempire la mente del pensiero della imminente visita di Cosette. Non che Cosette avrebbe potuto fargli dimenticare in che situazione si trovasse.
Avevano appena finito, quando qualcuno bussò alla porta.
"Sarà Cosette", disse Valjean. Poi guardò Javert.
Javert restituì lo sguardo per qualche secondo. Poi sussultò.
"Ah, già. Sono io il padrone di casa".
Vedendolo incespicare nell'alzarsi, Valjean non trattenne un'altra risatina.
Javert gli puntò un dito contro, non del tutto serio, ma neanche scherzando completamente.
"Non farlo".
Si diressero insieme verso la porta, entrambi impacciati nei corpi dell’altro. Valjean capì allora quale altra cosa gli aveva provocato sconcerto del passi di Javert: la mancanza della leggera zoppia dovuta ai diciannove anni alla catena.
 
"Buongiorno, papà!", esclamò Cosette, raggiante, quando la porta fu aperta.
"B- Buongiorno", balbettò Javert quando si rese conto che Cosette aveva parlato con lui, e sembrò sul punto di aggiungere qualcosa, quando Cosette gli gettò le braccia al collo.
Javert si irrigidì quasi completamente, e Valjean provò una fitta di compassione per lui. Lo stesso, non poté evitare di sorridere, alla vista delle smancerie che gli riservava sua figlia, credendolo sempre il suo papà.
La povera Cosette si separò da lui, un’ombra di confusione sul volto.
“Ti senti bene?”.
“Sì, certo”, rispose Javert, non suonando molto convincente. Né fu molto convincente il sorriso tirato che le rivolse.
Cosette annuì, senza che il dubbio sembrasse lasciarla, poi si volse verso Valjean e fece un piccolo inchino.
“Buongiorno, Monsieur”.
Valjean ne fece uno a sua volta.
“Buongiorno a voi, Madame”.
Cosette sorrise e piegò leggermente la testa da un lato.
“Vedo che siete di buon umore, oggi”.
Valjean annuì, decidendo di ignorare l’occhiataccia che gli stava lanciando Javert.
“Lo sono. È un piacere, trovarmi intrattenuto dalla vostra compagnia”.
“Oh, vi ringrazio”.
Prima che le guance di Cosette potessero diventare completamente rosse, Javert intervenne.
“Non so cosa abbia messo nel caffè, stamattina”, disse, forse non consapevole che la battuta ricadeva unicamente su di lui.
Ad un altro sguardo interrogativo di Cosette, si schiarì la voce.
“A proposito. Posso offrirti qualcosa?”.
E mentre Cosette accettava la proposta di un tè e si andava a sedere, Javert si trattenne un attimo, per sussurrare a Valjean.
“Io non mi comporto così”.
“No?”, Valjean alzò un sopracciglio, divertito, facendo incupire maggiormente l’espressione di Javert.
Era strano, vedere la propria stessa faccia che metteva il bronco a quel modo.
Javert sospirò.
“Sembra quasi che quanto stia accadendo non ti preoccupi minimamente, anzi, sembri trovarlo divertente”.
Questa affermazione fece provare a Valjean un improvviso senso di fastidio.
“Io sono preoccupato, Javert”, sibilò. “E solo perché al momento mi concentro sul fatto che abbiamo compagnia, non vuol dire che non lo sia”.
Javert serrò le labbra, al che Valjean pensò che la discussione fosse finita e pensò di raggiungere Cosette.
Non poté fare un passo, prima che Javert lo interpellasse nuovamente.
“Sei me, ora. Cerca almeno di ricordarlo”.
Valjean si voltò verso di lui.
“E tu sei Jean Valjean, ora. E quella seduta ora al tavolo è tua figlia”, disse.
 
Cosette rimase per un po’.
Sorseggiò il suo tè e parlò del nuovo lavoro di Marius, dei pettegolezzi a casa Gillenormand e del più e del meno.
Dopo il diverbio di prima, fu duro per Valjean prestare realmente attenzione ai suoi discorsi, benché ci provasse.
Anche Javert era distratto, e non fu meno impacciato di prima, quando Cosette si alzò, comunicando che era giunta per lei l’ora di andare.
Quando la ebbero scortata alla porta, Cosette diede un ultimo bacio sulla guancia all’uomo che credeva suo padre, facendolo diventare di nuovo di sasso.
“Insomma, papà. Che cos’hai?”, chiese Cosette, prendendolo per le mani e facendo una faccia triste.
“Non mi hai dato né una carezza, né un buffetto da quando sono qui. È successo qualcosa?”, continuò, dando alla sua voce un tono infantile che Valjean rilevò essere una maschera.
Non diede a Javert il tempo di rispondere.
“Dovete perdonarlo, Madame, ma non credo abbia riposato molto bene, stanotte”.
Valjean si accorse di star sorridendo per l’ennesima volta quando anche Cosette gli rivolse un sorriso imbarazzato.
“Allora”, disse lei, stringendo il braccio di Javert, “Prendetevi cura di lui, Monsieur”.
“Certamente, Madame”.
Disse Valjean, cercando di reprimere il desiderio di vedere la reazione di Javert a queste parole.
Cosette gli sorrise ancora, e, con un ulteriore cenno di commiato, uscì dalla porta.
 
Quando la porta si chiuse dietro di lei, Javert emise un lungo sospiro.
“Così hai dormito male, stanotte?”, chiese a Valjean, mentre strascicava la gamba sinistra per andare ad afflosciarsi sulla sedia che aveva occupato poco prima.
“No. E tu hai messo qualcosa nel caffè?”, chiese Valjean, in piedi accanto a lui.
“Lo sai che non metto neanche lo zucchero”.
Valjean sospirò a sua volta, e prese anche lui posto a sedere.
Per qualche secondo, stette ad osservare la tazza da cui aveva bevuto Cosette e che non era ancora stata pulita.
“Devi scusarmi… Per prima”, disse, con un certo imbarazzo.
Javert, evidentemente non ancora avvezzo a vedere la propria faccia mostrare quelle espressioni, ne restituì una che a Valjean parve altrettanto strana.
“Ho fatto preoccupare Cosette. Sono io che dovrei scusarmi. Avrei dovuto comportarmi come mi avevi chiesto tu”.
“No…”, Valjean gli mise una mano sulla spalla. Pure, ben conscio dell’imbarazzo che avrebbe potuto provocare, la rimosse quasi immediatamente.
“Non posso costringerti a fingere di essere chi non sei”.
“Ed io”, disse Javert, “Non posso costringerti a non trovare conforto in lei”.
Sospirò un’altra volta.
“Credi che rimarremo così per sempre?”, gli chiese, ad un tratto.
Valjean ponderò la domanda a cui non aveva realmente osato pensare fino a quel momento.
“Se devo essere sincero, mi sento come se dovessi risvegliarmi da un momento all’altro, nel mio corpo”.
“Ma questo è reale, non è vero?”.
Javert, che aveva l’abitudine di arricciarsi con le dita le basette quando era nervoso, le cercò con le mani, rinunciando un attimo dopo.
“Sembra proprio di sì”.
Valjean guardò il proprio corpo, accanto a lui, e osservò la larghezza delle spalle, i capelli bianchi che cingevano la fronte solcata da rughe e, per l’ennesima volta da quando era iniziata la giornata, si sentì profondamente a disagio.
Ora che Cosette se n’era andata, e dopo che anche la sua visita non aveva potuto portar via l’imbarazzo e lo sconforto, non riuscì a non pensare a cosa poteva attenderli.
E se non fossero più tornati come prima?
“Mi chiedo cosa diavolo abbia potuto causare una cosa simile”, disse Javert, tra i denti.
Valjean si alzò di scatto dalla sedia.
“Forse ci sono. Seguimi”, disse a Javert.
 
“Che cosa sarebbe?”, chiese Javert, sfogliando le pagine del libro.
“Quello che è successo a noi. È la storia di due fratelli che si risvegliano l’uno nel corpo dell’altro”.
Il libro fu chiuso con un tonfo da un esasperato Javert.
“Perché mai la gente dovrebbe scrivere libri del genere?”.
Valjean non si sforzò di nascondere il sarcasmo nella propria voce.
“Forse perché è interessante? E il racconto reca un buon messaggio”.
“Messaggio?”, ripeté Javert, per nulla convinto.
“Sì, ed è questo che ci interessa”.
Valjean strappò il libro dalle sue mani, e lo sfogliò rapidamente, arrivando ad uno degli ultimi capitoli. Tenendolo aperto in quella pagina, lo spinse di nuovo sotto gli occhi di Javert.
“Nel capitolo successivo ritornano ai rispettivi corpi, ed è per via della conversazione che fanno in questo”.
Quando Javert gli lanciò un’occhiata che comunicava tutta la sua irritazione al pensiero di dover leggere, Valjean roteò gli occhi e chiuse il libro.
“Riassumendo, entrambi ammettono che l’esperienza è stata utile per capirsi a vicenda”.
L’espressione di Javert sarebbe stata anche comica, se l’avesse indossata nel suo corpo.
“Mi prendi in giro?”.
“No. E c’è di più: è stato tutto per via del sortilegio di uno stregone”.
Mentre Valjean posava il libro al suo posto, Javert aveva preso a percorrere la stanza con fare irritato, le mani dietro la schiena.
“Escluderei la presenza di uno stregone, Valjean”.
Valjean fece quello che era l’ennesimo sospiro della giornata.
 “Abbiamo imparato qualcosa, almeno?”.
“Niente che già non sapessi. Ami tua figlia e…”. L’occhio gli era caduto sulla gamba claudicante, ma lasciò perdere quell’argomento.
“Forse dobbiamo imparare qualcosa su noi stessi, invece che sull’altro?”, propose Valjean.
“In quel caso”, disse Javert, “Ho imparato che ho una faccia inquietante e una voce orrenda”.
“Non me ne parlare. La mia voce non suona nemmeno la stessa”. Subito dopo, Valjean si sentì in dovere di aggiungere: “Però, a me la tua voce piace. E anche il tuo volto”.
Quella frase suonò parecchio stupida e fuori luogo, e Valjean percepì il rossore che affiorava alle guance.
Con la coda dell’occhio, vide che anche Javert era arrossito.
“Ma questo non ci aiuta”, ammise poi, tentando di riprendere il controllo. “Forse dovrei prendere un po’ d’aria”.
 
Alla fine, nel tardo pomeriggio, Valjean era uscito e Javert aveva finito per accompagnarlo.
La passeggiata si era rivelata priva di novità o accadimenti interessanti, e i due avevano camminato in silenzio, solo ricordandosi di tanto in tanto che colui che stava nel corpo di Javert avrebbe fatto bene a non spaventare i mendicanti per strada, sorridendo, e che la carità agli stessi mendicanti spettava invece all’abitante del corpo di Valjean.
Quando aveva cominciato a farsi buio, erano ritornati sui loro passi.
“Stavo pensando”, disse Valjean, quella sera, dopo aver sparecchiato i piatti che avevano usato per cenare, “Che è un bene che tu non lavori più alla polizia”.
Quella scelta di parole era forse azzardata, poiché Javert aveva in realtà sofferto molto a lasciare il suo servizio, per cui Valjean si sentì in dovere di puntualizzare.
“Voglio dire che se avessi dovuto sostituirti, non avrei saputo da dove cominciare”.
Javert gli passò accanto, dandogli una veloce pacca sulla spalla e facendogli segno di incamminarsi verso la camera da letto.
Mentre Valjean lo seguiva, Javert si rivolse a lui, con una vena di stanchezza nella voce.
“Saresti stato un poliziotto migliore di me”, disse, e Valjean, nonostante avesse voluto, trovò inutile rispondere.
E invece, pensò mentre si spogliava per indossare la camicia da notte e prendeva posto in quello che solitamente era il lato del letto in cui dormiva Javert, cosa sarebbe successo se una cosa simile fosse successa prima, nella loro vita.
“E se fosse accaduto a Montreuil?”.
Fu Javert, accomodatosi accanto a lui, a parlare. Anche lui aveva pensato a quella eventualità.
Valjean esitò. La risposta immediata sarebbe stata: “Sarei stato condannato”.
“Sarebbe stato imbarazzante”, disse invece.
“Già”, ammise Javert, con un filo di voce.
Ora anche lui stava sicuramente pensando a Tolone, pensò Valjean; sotto le coperte, forse si stava tastando le cicatrici ai polsi.
Invero, se Valjean lo conosceva bene, forse stava addirittura pensando che si sarebbe meritato di ricevere lui tutte le frustate che avevano sfregiato Valjean.
Quando Valjean rabbrividì, e volle farsi più vicino, Javert lo fermò con un secco “Non farlo”.
“Scusami. Mi fa impressione”, si affrettò ad aggiungere poi, “Ma che possiamo farci?”. “Spero ancora che si riveli essere un sogno, dopotutto”, concluse con un’aspra risata.
Valjean non volle ripetere la tiritera del “No, è reale, senza dubbio”, perché non era proprio il momento adatto.
“E se domani ci risvegliamo così?”, disse.
Non udì altro che silenzio per una manciata di secondi, poi Javert, finalmente, rispose.
“Non lo so. Posso solo promettere che cercherò di essere più simpatico con Cosette”.
Fu lui stavolta, forse inconsciamente, ad avvicinarsi.
“E magari, prima o poi, faremo come i personaggi del tuo libro e impareremo una lezione di vita che ci farà tornare nei nostri corpi”, ironizzò, senza riuscire a spezzare la malinconia del momento.
Non erano i protagonisti di un libro, e quello che era loro accaduto sembrava più dettato da qualche strano scherzo del destino, che dalla mano di un ignoto istruttore, ma Valjean non volle far vacillare la propria fede.
E, in ogni caso, non erano né a Tolone, né a Montreuil, ora, e anche solo questo riusciva a costituire l’appiglio a cui si aggrappava.
Avevano la compagnia l’uno dell’altro.
“Qualunque cosa succeda”, sussurrò, “Prometto che non ti lascerò da solo”.
Ci fu un’altra lunga pausa, prima che Javert rispondesse “Nemmeno io ti lascerò”, ma a Valjean bastò la sincerità nella sua voce per fargli chiudere gli occhi, in pace.
Domani si vedrà, pensò, prima di addormentarsi.

 
No, non continua.
Finisce così.
Perché questa storia in realtà doveva essere molto corta e molto crack, ma poi è diventata lunga e mi sono resa conto che non sapevo come concluderla, perché non mi soddisfava niente di quello che mi veniva in mente.
I due tornano nei loro corpi tranquillamente il giorno dopo? Nah.
I due restano così per sempre? Noooo ;A;
I due tornano nei loro corpi, ma solo dopo una lunghissima quest nella quale devono recuperare oggetto incantato x per conto di y, e nel frattempo succedono varie cose divertenti/imbarazzanti/inserireaggettivoqui? Forse, un giorno, quando mi sentirò più capace e meno stressata.
Se volete, immaginatela voi, la quest.
Immaginate la conclusione che vi piace di più.

Scusate il titolo orrido.
  
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