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Autore: biberon    05/12/2014    1 recensioni
"Sento un po’ di tensione sciogliersi e raggrumarsi nelle caviglia quando improvvisamente il suo gomito colpisce il mio torace facendomi barcollare all’indietro.
Mi ha colpita al seno. Il dolore è tanto acuto da farmi dimenticare il freddo e la tensione per un momento, e sembra incredibile, ma è quasi piacevole.
Mi chiedo a cosa pensi, mentre si china sopra di me e mi afferra una grossa ciocca di capelli alla base, vicino alla nuca.
È tutto così veloce che non faccio nemmeno in tempo a chiedermi il perché.
Mi da un altro colpo, un po’ meno forte, e mi porta all’altezza del suo viso costringendomi a stare sulle punte.
Mi immagino di disegnare su un foglio un grafico. Su una scala da uno a dieci, quanto sarebbe inutile tentare di reagire in questo momento. Un bel nove e mezzo ci sta tutto."
Genere: Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Ehi, deficiente! Fermati.”
Allungo il passo, fingendo di non sentire.
Piove.
“Fermati.”
Continuo a camminare. Piove.
 
“Ti ho detto di fermarti! Mi senti? DEFICIENTE.”
I piedi mi urlano di fermarmi. Fanno male, li sento caldi e umidi. È perché ho corso, tanto. Volevo che no mi vedesse. Credevo che sarei riuscita a …
Ho una vescica sul tallone sinistro. Brucia, e sento la stoffa interna delle mie All Star di jeans strofinare contro la pelle bagnata e screpolata, nuda.
Rallento un po’, senza fermarmi del tutto, e mi volto a guardarla lentamente. Vedo un paio di piedi, e per un attimo immagino di non conoscerli. Piedi grossi, un quarantadue almeno. Blazer rosse, che starebbero bene, se non fossero abbinate con una gonna troppo corta. Chissà che ragazza mi troverò davanti. Magari è simpatica.
Sarebbe simpatica.
Piove.
 
“Ecco, brava, vedo che inizi a capire. Adesso voltati. Guardami in faccia quando ti parlo.”
Peccato che io la conosca. Fin troppo bene.
Sto ferma. Piove.
“Dai, su. Guardami in faccia”
“…”
“Voltati!”
Serro la mascella, stringo i denti.
 
Vorrei dirle di no. Vorrei fare quello che voglio, per una volta sola. Una sola, chiedo troppo?
 
Vorrei.
 Perché la mia vita deve essere così? Costretta in una stupida gabbia troppo stretta fatta di condizionali.
Condizionale, il verbo della mia vita. Il verbo che osa chiedere, ma non pretende. Il verbo che prova a chiedere, ma non abbastanza forte, mai.
 E invece Dio solo sa quanto dovrei pretenderla … un po’ di pace. Di nuovo, chiedo troppo?
Il condizionale. Io vorrei, tu vorresti, egli vorrebbe … un condizionale che mi perseguita e mi opprime, e che non diventa mai, mai imperativo.
Piove.
 
Non posso.
Alzo lo sguardo, e mi sembra di vedere solo quel suo sorriso storto e beffardo. “Va meglio. Noi siamo amiche, no? Non devi dare le spalle alle amiche. Quella troia di tua madre non tel’ha insegnato?
 
Quando ti dicono certe cose, il segreto è respirare. Prendi l’aria, mhh, una bella sorsata. Come se fosse acqua fresca dopo una seduta di esercizi in palestra o una camminata in montagna. Acqua chiara e trasparente. La butti fuori e ne prendi altra.
Che cosa bella, respirare. È semplice, è gratis. Nessuno ti chiede il conto, alla fine.
 
 
 “Mi hanno detto che sai fare il verso del cane. A lezione Sophie rideva come una matta, quando facevi i versi. Posso ridere un po’ anche io?”
 
Ripeti i verbi, ora. Devi farlo, su, dai. Okay. Domani c’è il tema. Sarebbe un disastro se sbagliassi qualche verbo.
 Sul serio, capita solo a me di andare a dormire con la paura tremenda e l’angoscia di essermi dimenticata tutto quello che sapevo e so?
 
“Io non lo so fare il verso del cane.”
“Come no?! Mi stai forse dicendo che Sophie mi ha detto una bugia?”
“Non … sì. Io non so fare niente di niente … non sono divertente. Cerca qualcun altro, io … sono noiosa, dai.”
Mi ignora. “Sophie è proprio una bella puttana, a dirmi tutte queste bugie. Ma chi si crede di essere? Dovrò farle un bel discorsetto. Nel frattempo, anche io e te dobbiamo stare un po’ insieme, non credi? Negli ultimi giorni non siamo mai uscite dopo scuola. Non abbiamo giocato a niente. Non lo trovi triste?”
Perché deve essere così volgare?! Non lo sopporto. Non che io non lo sia, ma combinato con il suo tono di voce basso e roco e la sua statura la rende ancora più imponente.
“Il passato è passato. Ora che siamo insieme, possiamo divertirci di nuovo. Mi fai sentire un po’ il verso del cane?”
 
E le preposizioni. Se mi dimenticassi anche quelle? Di, a, da. In, con, su, per … Cosa viene dopo?
 
“Non lo so fare, te … te l’ho detto.”
 
Ho paura. Fanculo le preposizioni. Sta capitando di nuovo. Fanculo.
Piove.
 
“Beh, si può sempre imparare. Solo alla morte non c’è rimedio. Dai, fammi sentire un po’. Solo per gioco.”
“è che io … non ne ho voglia.”
 
Le sue sopracciglia si alzano quasi fino all’attaccatura dei capelli, in un’espressione che dovrebbe esprimere stupore. Invece nei suoi occhi leggo divertimento e tanto, tanto odio immotivato.
 
“Non mortificarmi così, dai. Odio quando non vuoi giocare con me!”
 
Perché parla così? Perché mi prende in giro?
Ho la nausea.
    
“SCUSA. Non mi va proprio.”
Perché sto alzando la voce? Perché DIAVOLO sto
 
Si avvicina di qualche passo. Vorrei tirarmi indietro,  i miei piedi chiedono pietà, e le gambe sono di gesso.
Gambe fredde e muscoli tesi come corde di violino.
 
“Non era esattamente una proposta. Ma sai che c’è? Ho un’idea. Se non vuoi fare il cane, proverò a farti immedesimare a tal punto che cambierai idea. Non ti piace, come gioco?”
 
La paura è l’emozione più fredda di tutte.
 
“per … tra, fra.”
 
Piove.
 
 
Sento un po’ di tensione sciogliersi e raggrumarsi nelle caviglia quando improvvisamente il suo gomito colpisce il mio torace facendomi barcollare all’indietro.
Mi ha colpita al seno. Il dolore è tanto acuto da farmi dimenticare il freddo e la tensione per un momento, e sembra incredibile, ma è quasi piacevole.
Mi chiedo a cosa pensi, mentre si china sopra di me e mi afferra una grossa ciocca di capelli alla base, vicino alla nuca.
È tutto così veloce che non faccio nemmeno in tempo a chiedermi il perché.
Mi da un altro colpo, un po’ meno forte, e mi porta all’altezza del suo viso costringendomi a stare sulle punte.
Mi immagino di disegnare su un foglio un grafico. Su una scala da uno a dieci, quanto sarebbe inutile tentare di reagire in questo momento. Un bel nove e mezzo ci sta tutto.
 
“Ora me lo fai sentire il verso del cane?”
Abbozzo una specie di colpo di tosse. Dignità, dove sei?
“Sai cosa fanno i padroni ai cani disubbidienti? Li picchiano.”
Provo ad abbaiare.
Sul serio, lo sto facendo davvero?
 
“Lasciami. Per favore. Ho abbaiato. Mi fai male.” Farfuglio qualcosa del genere.
Respira. Aria pura, fresca, e …
 
Mi spinge indietro lasciandomi i capelli.
 
“Quanto sei patetica.” E ride. “Mi fai pena.” E ride.
 
Sta giocando con me. Le ragazze non giocano con i giocattoli, non sono più bambine. Non sono io a fare pena e a dover crescere, ma ovviamente non ho il coraggio di dirglielo, mi basta a malapena per pensarlo.
 
 “Facciamola breve. Quanto hai oggi?”
 
“Non ho il portafoglio. Giuro.”
 
“Oh … credo che vada bene la tua sciarpa. È molto bella.”
Mi rivolge un sorriso quasi dolce.
“Non è che potresti regalarmela? Sembra tanto soffice.”
 
Allunga la mano verso la mia sciarpa rossa, sempre sorridendo.
“Ma fa freddo.” Sussurro, vergognandomi di me stessa e delle mie gambe piene di paura.
 
“Infatti, ho freddo. E vorrei la tua sciarpa. Per favore, amica!” esclama, allungando ulteriormente le dita nodose.
Ha delle mani orrende. Ha quindici anni e le mani di un uomo di sessanta.
 
Lentamente e con movimenti meccanici mi svolgo la sciarpa dal collo e gliela porgo. È come se facessi fatica a muovere il braccio, come se l’aria fosse solida e ad un tratto meno pura. Come se fossimo sott’acqua, o sotto la neve. La tensione è palpabile e rallenta ogni mio gesto, anche semplicemente quello di abbassare e alzare il petto per avere ancora un po’ d’aria.
Le nostre mani stanno quasi per sfiorarsi. È una mia sensazione, o il tempo, lo spazio e tutto il mondo sono andati insieme a puttane?
La sua mano, prima delicata e ferma, si trasforma in uno schiaffo di rabbia che colpisce la mia, facendo cadere a terra il pezzo di stoffa. Mi muore un urlo in gola, e quella sua mano calda e severa mi colpisce la schiena, costringendomi a chinarmi per raccogliere la sciarpa. Quando mi rialzo vorrei aver raccolto non solo quell’indumenti umido di sudore e pioggia, ma anche un po’ della mia dignità, che tende sempre a rotolare nei tombini come le monetine da un penny, destinate a restare in balia di topi e tubi fognari.
Mi spinge all’indietro con un grugnito, strappandomela di mano.
 
“Fa schifo. È tutta umida. Che merda.”
.
La sua mano destra avvolge lo spallaccio destro del mio zaino e me lo strappa di dosso con violenza. In un attimo la sciarpa cade a terra, dimenticata come quella dignità che ho perso.
 
Lo apre, i libri cadono a terra uno ad uno con una serie di tonfi. Si aprono, rimbalzano e si piegano. La copertina del libro di scienze cade nel fango e genera uno schizzo che mi colpisce il polpaccio.
 
Poi, come se niente fosse, mi volta le spalle e se ne va ancheggiando, con quelle sue enormi e muscolose anche.
E piove, e i miei libri si bagnano.
Con un sospiro da anziana mi chino, li raccolgo, li metto nello zaino, anch’esso fradicio.
Bene, ora credo che … che tornerò a casa. A ripete i verbi, o le preposizioni, o qualsiasi altra cosa che possa essermi utile nel tema di domani.
Quando mi assicuro che Becky se ne sia effettivamente andata riprende a camminare, con un po’ meno paura e molta più vergogna.
La vergogna è talmente cremosa e calda che in un attimo mi sembra che la mia faccia stia per esplodere, e qualcosa devo pur buttarlo fuori.
E ripeto i verbi. “Io vorrei, tu vorresti, egli vorrebbe …”
Condizionale.
Piove.
 
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 Quando entro in casa c’è silenzio, e sto ancora ripetendo i verbi.
Ma è così buffo! I verbi io li so! Li so!
La mia cartella cade a terra insieme alla giacca, si apre e ne esce qualche libro.
Quello di storia, quello di scienze, entrambi bagnati.
Con una rapida occhiata fuori dalla finestra mi accorgo che non sta più piovendo, ma a giudicare dal cielo scuro riprenderà tra poco.
Raggiungo il frigorifero, e con un gesto che sa di abitudine estraggo due mini-lattine di birra Beck’s dal cartone nuovo e intonso di Tom.
Mentre ritraggo il braccio, la manica del maglione mi scende fino al gomito, lasciando intravedere la punta di qualche crosta rossa e irregolare.
Prendo anche un panetto di Philadelphia, chiudo lo sportello e ritorno in salotto, verso il divano.
“Io ebbi avuto, tu avesti avuto …”
Meglio, molto meglio. Molto meglio di un condizionale. Suona decisamente meglio. “Ebbi avuto”, significa che tu effettivamente hai avuto qualcosa. Ma mi da anche l’idea di un gesto passato, in effetti, passato, un’azione o un avvenimento positivo avvenuto ma conclusosi in uno spazio e soprattutto in un tempo che non potrò mai riavere indietro.
Se nel mio passato ci fosse stato davvero qualcosa di bello, se io avessi avuto qualcosa, allora credo che soffrirei molto nell’averla persa. Perciò nemmeno questo tempo verbale mi piace troppo. Insomma, io non ho mai avuto niente, ma se l’avessi avuto di certo avrei fatto di tutto per mantenerlo  costante e vivo, e non ci sarebbero state mezze misure. O l’avrei tenuto a sarei morta se non ci fossi riuscita, perché vivere con il ricordo di qualcosa di bello che si aveva e non si ha più è impossibile, se si vuole vivere bene.
Decisamente, odio questo verbo.
Forse potrei provare con un … futuro?
Stappo la lattina e mi attacco con le labbra al buco, lasciando che mi percorra il palato e la gola senza nemmeno deglutire. La lascerò lì a fermentare finché non perderà sapore.
Un futuro, ecco cosa mi ci vuole … un futuro, perché il futuro è l’unica cosa su cui non abbiamo controllo e su cui non abbiamo rimpianti.
Il futuro semplice, ecco, fantastico. Da’ proprio l’idea di una felicità, eh? Una felicità che forse arriverà o forse no, ma c’è sempre qualche speranza in un forse.
Quindi ripeterò il futuro e nel mio tema userò il futuro, perché spero sinceramente, davvero sinceramente, che le cose migliorino.
“Io avrò, tu avrai, egli avrà …”
Strano ma vero, ripetere i verbi mi rilassa sempre. Non so perché, ma mi stimolano un sacco di riflessioni, riflessioni che mi aiutano a uscire dalla realtà e a proiettarmi su delle aspettative e delle speranze per come andrà ‘poi’. Peccato che il ‘poi’ si trasforma in ‘ora’ e in ‘era’ prima ancora che il tempo dia tempo alla vita di cambiare le cose, e così non faccio che vivere e ammonticchiare pile e pile di ricordi tutti l’uno uguale all’altro, carichissimi di rimpianti.
Ad esempio, io so benissimo che questa birra che sto bevendo non cambia niente, che non è neanche buona, e che tutto quello che mi resterà dopo averla bevuta saranno una lattina vuota e del senso di colpa. Ma mi da l’illusione di cancellare la realtà, il che in un certo senso è vero. Quando bevo un po’ i bordi delle cose si fanno sfocati e si sfumano l’uno nell’altro e tutto sembra incredibilmente divertente, anche se in fondo so che non lo è. La birra per me altera la realtà, e tutto ciò che se ne distacca mi piace.
Ma alla fin fin odio pensare, perché quando penso a tutte queste cose mi sento filosofica e intelligente e invece non lo sono. So di essere una quattordicenne come tante, alta poco più di un metro e cinquantacinque, con i capelli neri e una quarantadue, che quando va in bagno e si alza la manica e si guarda nello specchio vede il riflesso di un braccio pieno di croste che formano la scritta ‘perdente’.
Ha fatto male, ma anche quel giorno è archiviato nella grande busta unta dei ricordi a cui non devo pensare.
Un intervallo, Becky, le sue amiche e la punta di ferro del compasso di Geometriche. Un po’ di sangue, delle risatine, paura e qualche lacrima.
Tutto nella busta, e faccio finta di dimenticarmelo.
 
Finisco la lattina e lasciò che rotoli a terra. Apro il Philadelphia, metto su Cartoon Network e comincio a mangiarlo direttamente dalla scatoletta con le dita.
 

 
   
 
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