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Autore: _Ametista_    06/12/2014    0 recensioni
A volte si fa di tutto per riavere le persone che si amano.
Ma Ashira, figlia di uno scriba, è talmente affezionata al padre che, quando esso muore assassinato, lei parte a cercarlo per riaverlo e vendicare il suo nome.
La coraggiosa ragazza compirà un mirabolante viaggio verso un posto in cui nessun egizio era mai, realmente, arrivato...
S'incroceranno i destini di una giovane e coraggiosa figlia di scriba, una svampita figlia di visir (con un'inaspettata storia alle spalle), uno schiavo che sogna ribellione e libertà, un figlio degli dei, un gatto che cerca se stesso e un'insolita creatura...
Genere: Avventura, Fantasy, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Antichità
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Prologo
La luce tenue che filtra dalle stuoie poggiate sulle finestre mi inonda le palpebre di calore, colorandole d’arancio.
Sulle prime l’intorpidimento dato dal sonno non mi fa capire nulla, non penso, e mi limito a guardare con aria persa le pareti di legno della mia camera, colme di papiri colorati e comodini grondanti di sontuosi gioielli.
Ma poi qualcosa mi scatta dentro, come una trappola che ha avvinghiato la preda.
Il rituale. L’adolescenza. Sì! Uno dei momenti più importanti della mia vita sta per essere portato a compimento.
Sbadiglio e mi gratto gli occhi. Nonostante l’improvvisa ondata di emozione che mi è montata dentro, il torpore del sonno non vuole lasciarmi, ma anzi, sembra sussurrare:
Vieni tra le mie spire…Suvvia Ashira, non hai voglia di dormire un altro po’?
La voce di mia madre riscuote tutti i principi di sonno, la mia mente si fa lucida tutta s’un colpo e mi alzo di scatto.   
-Arrivo, mamma, arrivo!- grido all’ennesimo richiamo.         
Mi tolgo la canottiera di lino, per poi indossare il corto vestitino bianco, leggero e svolazzante come ali di ibis. Frugo fra i miei preziosi ornamenti e scovo i più belli, li metto ai polsi, oro lucente e freddo contro la mia pelle ramata. Qua e là, qualche rubino, sembrano quasi gocce di sangue chiaro sparsi sulle mie polsiere.                        
Allaccio il collare d’oro, calzo i sandali in pelle. Poi, cammino verso lo specchio, uno di quei strani oggetti che ti riflettono chiaramente, quasi come l’acqua del Nilo.
“Strane cose fanno i Sumeri! Guarda questo: non è meraviglioso? Chissà a quale genio è venuta in mente questa idea!”
Aveva detto mio padre porgendomelo, euforico, era appena tornato da uno dei suoi viaggi. Sorrido al ricordo. Ero solo una bambina. Innocente, treccia dell’infanzia, giocavo alla cavallina e al gioco della stella, mentre guardavo con invidia i cacciatori e le loro armi, di quel legno lucente e levigato.
Ora, sto per diventare una donna. Delle armi, non me ne devo curare. La mia vita sarà fatta di trucchi, abiti, gioielli, cucina. Non mi piace affatto il pensiero. Vorrei vivere da cacciatrice, arco in spalla, coraggio, forza, determinazione.
Intingo un dito nel kahal nero e mi segno le palpebre con una linea lunga, dritta.    
La persona che mi guarda nello specchio non è la “io” di sempre: i suoi occhi di un nero profondo hanno una scintilla insolita…
Le labbra a cuore sono increspate in un sorrisetto lieve; nella pelle ramata, nelle guance, incastrato fra le lentiggini, vi è un lieve rossore, dato dall’agitazione, l’attesa.
Sorrido a me stessa. Accarezzo la treccia dell’infanzia, i miei capelli neri lucenti che, tra poco tempo, saranno solo un mucchietto di peli troppo cresciuti stesi sul pavimento di marmo del tempio.
Esco dalla mia stanza. Sono sicura, determinata, orgogliosa.
Mia madre sta maneggiando un’anatra. Sembra impegnata: i capelli bianchi e corti che le ricadono sul viso sembrano non infastidirla per niente; l’espressione dei suoi occhi azzurri è seria e concentrata, ha le sopracciglia fini aggrottate.
-Io vado- annuncio avvicinandomi a lei. Distoglie lo sguardo dall’anatra che stava rimpinzando di patè.  
-Ciao, tesoro. Buon rituale. E non emozionarti, altrimenti il kahal cola tutto- mi fa l’occhiolino, e io ridacchio. Con un movimento rapido, afferro un po’ di ripieno e me lo porto alla bocca, gustandomelo. Il suo sapore speziato m’inonda il palato.
-Ashira…- sibila mia madre fingendosi minacciosa. Io la saluto con un cenno della mano ed esco dalla porta.
Il villaggio è in fermento: madri, ragazzine, bimbi, tutti sciamano verso un'unica destinazione: il tempio. Nell’aria vi è calore, si spargono delle chiacchiere e aleggia un piacevole profumo di carne arrostita. 
L’edificio, anche se di modeste dimensioni, trasmette comunque potenza: le pareti ornate di dipinti di processione divine narrano storie arcane e antiche.
Davanti al piccolo ingresso vi è una statua di misure esponenziali, che raffigura un faraone, sulla testa, la corona del Basso Egitto. Il suo sguardo sembra fissare il sole, severo, incorruttibile.
Entro.
Ai lati del muro vi sono altre statue di dei, in alabastro rosato. Il sacerdote Krukoslik, un vecchio dall’età assai veneranda, sta facendo il discorso d’apertura della cerimonia.
Mi affretto a raggiungere il gruppetto di ragazzine schierate, in ginocchio, davanti al sacerdote. Intravedo la mia migliore amica, Shabti, e la saluto con un cenno del capo.
Lei ricambia, i suoi occhioni languidi e castani sembrano parlare di ciò che sta pensando: “che emozione, finalmente adolescenti! Felice, Ashira?”                              
Dopo aver recitato con la sua voce gracchiante, preghiere in nome di Iside, Ra, e altri dei, Krukoslik inizia a tagliare le trecce. Per la stanza immersa nel silenzio semi totale si captano continui zak zak di capelli troncati.
Appena arriva a me, il mio corpo si mette a tremare. Il cuore palpita sempre più veloce, l’emozione mi risale dentro a grandi ondate.
Zak.
E i miei capelli sono a terra.
L’adolescenza è arrivata da me.
La cerimonia procede per un altro paio di momenti. Quando finalmente Krukoslik ci congeda, io e un’accozzaglia di giovani usciamo dalla porta del templio, spintonandoci a vicenda. Tutti corrono verso casa, o alle rive del Nilo, dove di sicuro avranno inaugurato dei giochi o delle gare. Fuori dalla porta rimaniamo solo io e Shabti.
-Adolescenti!- esulta stringendomi le braccia al collo. E’ entusiasta, il cuore le batte ancora forte.
-Già. Andiamo a prendere le parrucche? Mi sento nuda senza capelli- mormoro passandomi la mano destra sulla testa liscia. Ho un brivido.
-Va bene. Le troveremo sicuramente nella stanza vicino allo scrittoio dello scriba. Vieni!- mi prende la mano e, fra corse e risate, raggiungiamo la villa del faraone, a cui io e Shabti abbiamo libero accesso, essendo nipoti del sovrano.
Io figlia di scriba, lei di visir.
L’interno della villa è vuoto. Molto probabilmente, il faraone è a Tebe per qualche ricevimento.
-Via libera! Non c’è lo zio- mugola Shabti concitata, scivolando sul pavimento.
-La treccia te la sei tagliata per un motivo! Non sei più una bambina!- la rimprovero falsamente scocciata, guardandola fare la sciocca, correndo per i corridoi.
-Na na na na na na- m’ignora lei aprendo tutte le porte e lasciandole aperte.
Io le richiudo, come una madre prudente che ripara i pasticci della figlia ribelle.
-Eccole qua! Parrucchine della mamma!- esclama spalancando una porta ed entrandoci. Io la seguo.
La stanzetta è piccola e sa un forte odore di polvere. La luce entra da qualche minuta finestrella. Su un tavolo di legno di betulla, l’unico mobilio della piccola sala, sono stese due parrucche: una è semplice, corta, nera, con un fiore di loto trattenuto da una fascia frontale; l’altra è lievemente più elaborata, con due ciuffi lisci e una coda alta trattenuta da un prezioso fermacapelli dorato, screziato di pietre rosse ed azzurre.
-Sono delle vere meraviglie degne di Hathor!-
Shabti trotterella allegramente verso il tavolo, afferra la parrucca con il fiore di loto e se la mette in testa. Le dona veramente molto: i capelli neri le sfiorano gli angoli del viso tondo, incorniciandolo alla perfezione.
Prendo la mia parrucca e la poggio sul capo, sospirando allietata: ora che sono coperta da capelli, non mi sento più nuda, vuota e incompleta.
Avverto un vociare proveniente dalla stanza di fianco, quella di mio padre. Incuriosita, mi sporgo dallo stipite.
-Dove vai?! Dobbiamo vedere come ci stanno. Ho trovato uno specchio-
annuncia Shabti indicando un vetro riflettente a lato della stanza.
-Non preoccuparti, ora arrivo. Vado a controllare una cosa, tu aspettami qui-
ordino a mezza voce uscendo dalla porta e affiancandomi a quella dello scrittoio di mio padre, a qualche cubito più avanti.
-Ti aspetto, fai in fretta!- la sento urlare.
Sospiro e mi apposto al muro, accanto alla porta dello scrittoio, il freddo della parete è a diretto contatto con la mia schiena nuda che presto si ricopre di brividi.
Fortunatamente la porta è aperta, solo per un piccolo spiraglio, ma basta per farmi udire la conversazione:
-Dànik, i patti sono patti. Sai cos’ hai in ballo e sono ben sicuro che non vuoi perderlo-
E’ la voce di mio zio Anchesenaphy, visir di corte e uomo più folle d’Egitto, a mio parere.
Sta parlando con mio padre e il suo tono non è dei più gentili. Aguzzo l’udito.
-Anchesenaphy, sto seriamente pensando di conferire a Ramses di tutto questo; insomma, non puoi ricattarmi! Sono tuo fratello e scriba di corte, non una palma che si flette ad ogni tuo capriccio-
Bravo papà. Rinfaccia a quel topo che tu sei più abile di lui.
Un ricatto. Mio padre è stato ricattato. Da quanto tempo può essere andata avanti questa storia? Giorni? Mesi? E se fossero…Anni?
E chi è l’ostaggio? La carriera? La reputazione? La sua stessa vita?  
Anchesenaphy è capace di fare qualsiasi cosa per ciò che vuole.
-Ah, fratellino, non mi fai paura. Certo, Ramses è una bell'impiglio se me lo trovo per via. Ma anche i faraoni lasciano la terra-
Rumore di nocche sul legno. Mio padre sta tamburellando, è in preda ad una decisione molto importante.
-Va bene, verrò con te. Ma che questa sia l’ultima volta-
-Non te ne pentirai- sghignazza il visir. Stanno per uscire. Scatto verso la stanza in cui è rifugiata Shabti.
Li guardo allontanarsi. Mio padre è preoccupato e Anchesenaphy ha un’espressione strafottente. Ha in mente qualcosa, qualcosa di sporco.
E io non sono certo la tipa che sta a guardare…
 
 
   
 
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