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Autore: Angye    07/12/2014    6 recensioni
"E’ buio, piove a dirotto e il mio battere incessante si mescola allo scrosciare della pioggia sul tetto, eppure lei non ha esitazioni: apre la porta, senza accendere la luce della veranda, senza controllare lo spioncino, senza paura."
Le scelte che compiamo non sempre si rivelano esatte, proprio come i sentimenti, che, a distanza di tempo, cambiano radicalmente.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Carlotta 'Carly' Shay, Fredward 'Freddie' Benson, Samantha Joy 'Sam' Pucket
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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E’ buio, piove a dirotto e il mio battere incessante si mescola allo scrosciare della pioggia sul tetto, martellante e inquieto, eppure lei non ha esitazioni: apre la porta, senza accendere la luce della veranda, senza controllare lo spioncino, senza paura.
E, in fondo, perché dovrebbe averne?
Lei è forte, più forte di qualsiasi altra persona io abbia mai conosciuto e non solo fisicamente.
Lei è testarda, violenta, aggressiva, prepotente, insicura, sensuale, dolce e bellissima; strega, guerriera o fata?, non credo lo capirò mai.
Lei è Sam Puckett, non c’è bisogno di aggiungere altro.
Lei, ancora oggi, dopo anni da quel “ti amo”, pronunciato nel montacarichi di un vecchio appartamento, è la mia ossessione, la mia condanna, la mia rovina, la mia salvezza.
Perché lei, nonostante tutto, è rimasta l’altra, perché lei, oggi, non è la mia donna.
La guardo, i miei occhi la accarezzano, divorandola, nonostante il buio della notte: è vestita di una vecchia felpa e un paio di pantaloni che so perfettamente di averle già visto indosso, perché ricordo ogni cosa che la riguardi in maniera ossessivamente scrupolosa.
Ha i capelli spettinati, riccioli biondi e ribelli, a sfiorarle il viso diafano e sparsi lungo le spalle; con una mano tiene la porta mentre l’altra penzola, inerme, lungo un fianco pronunciato.
Alza un sopracciglio biondo scuro, assumendo un’espressione sarcastica e insolente al contempo.
– Benson. Che ci fai qui, a quest’ora?- mi chiede, con quel tono di voce che, da ragazzini, mi faceva venir voglia di prenderla a schiaffi ma che, oggi, scatena in me un istinto diverso, più profondo, violento, maschio.
Non sembra importarle che io sia completamente zuppo d’acqua, come testimonia la pozza formatasi ai miei piedi e le intrepide goccioline che si tuffano dai miei capelli sul viso e, del resto, mi sorprenderebbe se fosse il contrario: noi non ci preoccupiamo l’uno dell’altra, è il – tacito – patto che abbiamo stipulato mesi prima.
Noi ci facciamo del male, consapevolmente, lo desideriamo, senza sapercene spiegare la ragione o lo scopo.
La sua pazienza, da sempre scarsa, viene presto a mancare e, con una scrollata di spalle, si accinge a sbattermi la porta in faccia, salutandomi con un: - Quando ti passa la paralisi, tornatene a casa.- per niente amichevole.
Sollevo un braccio a bloccare la porta ed entro, senza chiederle il permesso – come, infondo, succede ogni volta -, spingendo lei indietro e sbattendomi l’uscio alle spalle.
Sam resta zitta, con le braccia incrociate sul petto florido, un piede a scandire ritmicamente il tempo sul parquet lucido, le labbra contratte in una morsa infastidita.
Stoicamente testarda, non accenna a pronunciar parola, e io so bene che, quando è tanto furiosa, non c’è modo di convincerla a cedere e venirmi incontro, lasciar perdere, dimenticare.
Esasperato, mi passo le mani tra i capelli zuppi, gettandoli indietro, sospirando; anche io sono furioso e frustrato, così disperato che potrei distruggere qualsiasi cosa mi capitasse a tiro e, inevitabilmente, il mio bersaglio è sempre lei.
Mi guarda, leggendomi negli occhi ogni singola emozione e, ben consapevole di cosa io stia per fare, si sposta leggermente all’indietro, verso la scala che porta al secondo piano.
- Torna a casa.- dice e la sua voce suona più roca e bassa, stanca quanto me e nei suoi occhi leggo desiderio e disprezzo misti al fuoco incandescente che da sempre la divora.
E’ un attimo e le sono addosso, le mie labbra s’impossessano delle sue, le mie mani s’infilano, possessive, tra i suoi capelli, sotto la felpa, scivolandole lungo i fianchi; è lei a interrompere quel bacio, bisognosa d’aria, ansante, mentre io l’afferro con tutta la forza che posseggo, stringendomela contro, come se, a quel modo, lei potesse divenire mia.
E pensare che, un tempo, anche solo l’idea di sfiorarla mi era parsa pura utopia.
Adesso, a troppi anni dal nostro primo bacio, quello di toccarla è letteralmente un bisogno fisico, primario, per di più, proprio come il nutrirsi o respirare.
I suoi pugni sono ben piantati sul mio petto, il suo sguardo sprezzante e furioso è fisso nel mio mentre si dimena, tentando di liberarsi dalla gabbia delle mie braccia.
E’ assurdo pensare a quanto è forte e, al contempo, debole nelle mie mani.
La penombra che divora la stanza ci ha avvolto, quasi sapesse che, come i più oscuri peccati del mondo, anche noi dobbiamo essere nascosti.
Quella lotta muta, fatta di odio e passione, non durerà a lungo, lo sappiamo perfettamente entrambi, perché è sempre così: ci basta sfiorarci, avvertire il profumo dell’altro, sapere di essere nella stessa stanza, per perdere ogni sorta di controllo.
Le bacio il collo, irruento, costringendo il suo capo a chinarsi da un lato e la sento rilassarsi, mentre le mani s’infilano tra i miei capelli, artigliandone le ciocche con prepotenza; la spingo contro il muro lì accanto, i vestiti cominciano a essere un intralcio e, senza bisogno di parlare, ce ne liberiamo, aiutandoci a vicenda.
E’ lei a baciarmi, stavolta, mentre si contrae, spasmodicamente, contro di il mio corpo, che la insegue, bramando un maggiore contatto.
Più la accarezzo, più la sua pelle incendia la mia, più il suo profumo mi stordisce, avvolgendomi e penetrandomi la carne, più il mio cuore accelera i battiti, più la odio.


Lei, la mia Ossessione.
E i ricordi prendono a vagare.
Come ogni cosa, tra noi, ricominciò a causa della mia ossessione per lei: mi fu sufficiente guardarla chiacchierare, bellissima e sorridente, nel mezzo di una cena a casa mia – nostra, casa nostra, mia e della mia donna -  assieme ad un tipo, un idiota imbellettato, tutto abbronzatura e tavole da surf.
Non saprei dire perché, quella volta, vederla flirtare suscitò in me una tale rabbia da farmi serrare la mascella e assottigliare lo sguardo; non era certo la prima volta che Sam aveva un ragazzo e la cosa non mi aveva mai creato problemi.
Mentre stritolavo il bicchiere di cristallo tra le mani, tanto da farmi sbiancare le nocche, tentai, invano, di allontanare lo sguardo da lei, avvolta in un abito color smeraldo, col trucco appena accennato, intenta a dare sfoggio della sua classe facendo a braccio di ferro col tipo, ma non vi riuscii.
E, quella notte, non riuscii a chiudere occhio e smettere di pensare a lei, al suo vestito verde, alla pelle candida della mano che stringeva quella del tizio e a quando ci aveva salutato, spiegando di aver accettato un passaggio a casa da lui.
Al mattino, ansante e sudato, scattai giù dal letto e corsi fino a casa sua, solo per accertarmi che si fosse addormentata nel suo letto, da sola e non tra le lenzuola libidinose di un altro.
Spiegarle cosa ci facessi lì, di prima mattina, fu tutt’altro che semplice, eppure Sam parve credermi, quando le dissi che mi trovavo a passare da quelle parti, per caso.
E quando, dopo avermi ordinato di preparare del caffè mentre lei si faceva una doccia, mi osservai intorno e non trovai tracce del passaggio di quel tizio, sentii i miei muscoli rilassarsi all’istante.
Da quel giorno, ogni potenziale nuovo ragazzo era per me motivo di angoscia e gelosia indicibile e la sua vita privata divenne il fulcro dei pensieri.
La mia ossessione: lei.
 
 
La bacio ancora, mentre le sue mani percorrono la mia schiena, aggrappandovisi con possessività, proprio come le mie che, spinte da un bisogno insopportabile, percorrono ogni lembo di pelle.
Le lascio strisce umide di saliva sul ventre, scivolando in basso, fino ad arrivare ai fianchi, che marchio come miei, mordendoli, dopo aver fatto scivolare via la stoffa sottile degli slip.
Sam sospira, scossa da brividi che sono di entrambi e si morde le labbra, abbandonandosi alle sensazioni.
 
Condanna.
Come dovetti affrontare le settimane e i mesi successivi, trascinandomi addosso la consapevolezza di aver scelto la vita sbagliata e impossibilitato a fare ammenda.
Condannato nel ruolo di primo amore e caro amico, costretto a imbrigliare la miriade di sentimenti che mi esplodevano dentro, celando rabbia, gelosia, frustrazione, dolore, agli occhi di tutti.
Io, il ragazzo perfetto, che aveva raggiunto ogni obbiettivo prefissatosi e non aveva mai deluso familiari e amici, divenuto, d’improvviso, un bastardo tormentato dal desiderio di tradire ogni promessa e rinnegare ogni valore, per lei.
E lei sempre lì, per uno strano scherzo del destino, come una tentazione mortale: tanto vicina al mio tocco, quanto distante dal cuore.
Lei ridente, spontanea, felice, senza di me, ignara del fatto che ogni volta che s’innamorava il mio cuore andava in pezzi e la mia anima si lacerava.
Condannato all’inferno: bruciare per lei.

 
Mi attira a sé e io le succhio un labbro, mentre le accarezzo un seno e la sollevo, poggiandola contro il muro.
Un sospiro sfugge alle sue labbra e l’alito caldo mi solletica l’orecchio, mentre mi chino a morderle una spalla, spingendomi in lei, inspirando quel profumo che sa di casa.
Tremiamo entrambi, scossi dall’eccitazione e dal desiderio, tanto bramosi l’uno dell’altra da non dar il tempo ai nostri corpi di star dietro alle emozioni.
Sam getta il capo indietro e io le poggio la mano sul collo, scivolando, lentamente, fino al punto in cui i nostri corpi si incontrano.
Il primo gemito è suo e quanto si china su di me, artigliandomi le spalle e facendo penetrare le unghia nella carne, muovendosi in perfetta sincronia con me, la seguo, mordendomi le labbra nel tentativo di controllarmi.
 
 

Rovina.
Come quando guardarla da lontano cominciò a non bastarmi più, quando gli innocenti sfioramenti casuali lasciarono il posto alle carezze sospette, quando agli abbracci amichevoli si sostituirono quelli bramosi.
Il suo sconcerto, la mia frustrazione, un miscuglio di litigi e recriminazioni, urla e lacrime, porte sbattute e giorni senza vedersi.
Come spiegarle cosa provavo?
Non mi credeva, non mi avrebbe creduto mai e, del resto, non potevo darle torto. 
Ci eravamo lasciati anni prima e nessuno dei due aveva mai mantenuto quella promessa: tornare insieme se fossimo diventati abbastanza normali o anormali per l’altro.
Di noi, da allora, non avevamo più parlato e la vita ci era scivolata addosso, rapida e inarrestabile, trasformandoci in due adulti, troppo lontani dai ragazzini che si erano amati tanto profondamente da esserne spaventati.
Eravamo tornati gli amici di un tempo, con le dovute eccezioni che l’essere un uomo e una donna comportavano nel nostro rapporto e, per lunghi anni, fummo entrambi convinti che i ruoli che ci eravamo scelti fossero quelli a noi destinati.
Egoista fino in fondo, rischiando di rovinare definitivamente ogni cosa ottenuta e costruita a fatica, mi precipitai da lei, quella prima notte, proprio come adesso.
E fu l’inizio della fine, della distruzione, del vortice di passione e sentimenti che nessuno dei due avrebbe più saputo arrestare.
Rovinato dal desiderarla più di ogni altra cosa.
 
 
La sostengo contro il muro con un braccio attorno alla vita, lei è aggrappata a me, con le caviglie incrociate dietro la mia schiena, le mie spinte si fanno più profonde e la mia presa sul suo fondoschiena più prepotente.
- Ti odio.- gemo, ansante.
Lei tace, con i capelli che sobbalzano attorno al viso, celandola alla mia vista per qualche istante, ma il suo cuore impazzito rimbomba tra i nostri sospiri e il mio lo insegue, in una gara a chi si schianterà per primo.
- Ti odio.- ripeto, rabbioso, mentre il piacere si mescola a un calore nel petto; piccole gocce di sudore scivolano lungo il suo collo, obbligandomi a posarvi ancora le labbra, incapace di accettare l’idea che possa esserci altro, oltre alle mie mani, ad accarezzarla.
- Ti odio.- è divenuto un sussurro, il mio, contro la sua carne, immerso nei suoi capelli, inebriato del suo odore; il ritmo rallenta fino a fermarsi, lei respira a fatica nel mio orecchio, io la tengo ancora stretta addosso, terrorizzato all’idea di lasciarla andare.
Poggio la fronte contro la parete, chiudo gli occhi: mi odio, mi faccio ribrezzo, sono disgustato da me stesso.
Le sue braccia si stringono intorno alle mie spalle, rimane zitta, eppure sono aggrappato a lei, dentro di lei, unica ancora in grado di trarmi in salvo, ancora una volta.
 
 
Salvezza.
Come quando compresi che, anche lei, non aveva dimenticato, che l’amore impossibile, complesso e distorto che provavamo l’uno per l’altra non era mai svanito, che la sua incapacità di innamorarsi davvero derivava dal non aver mai saputo cancellarmi dal cuore.
Furono i primi momenti insieme, dopo aver fatto l’amore, mentre fuori era buio e le tende chiuse a nascondere il nostro peccato al mondo, a regalarci ancora qualche respiro di vita.
Fu l’esserci, in qualunque momento, per qualunque problema, a qualunque costo, nonostante tutto, ad insegnarci che non saremmo stati mai soli, finché l’altro sarebbe esistito.
Fu l’amarci, in modo tanto prepotente, profondo, ossessivo, violento, invincibile, ad assolverci da ogni tradimento al resto del mondo.
Lei, unico spiraglio di luce, unica brezza d’aria pura, unica sorgente d’acqua dissetante, unico calore in grado di scaldare.
Lei, tormento eterno del cuore, salvezza dell’anima.
 
 
Le mie lacrime le piovono addosso, bagnandole la pelle nuda del collo, delle spalle, fino al seno; il mio pugno batte contro la parete, violento.
- Ti amo.-
La mia voce è straziata, esasperata, inudibile, eppure decisa e solenne.
Quelle parole straccerebbero la mia carne, pur di essere pronunciate, lo sento nel sangue, che affluisce prepotente al cuore.
- Lo so.-
Si libera dalla mia presa e, lentamente, torna a posare i piedi a terra, costringendomi a fare un mezzo passo indietro e guardarla.
I suoi occhi, i suoi amatissimi occhi, sono quasi trasparenti dal pianto, eppure nessuna lacrima le disegna le guance – lei è forte, sempre.
- Torna da tua moglie, adesso.- mi dice, chinandosi a raccogliere il mio maglione e porgendomelo, poi si solleva sulle punte per baciarmi una guancia ed è pronta a salire le scale.
La afferrò per un braccio, costringendola a voltarsi: non sono pronto a lasciarla andare, ho bisogno di lei, ancora, ho bisogno di sentirmi dire che mi ama, perché ho troppa paura del giorno in cui l’unico sentimento per me a restarle nel cuore sarà l’odio.
Il suo polso è sottile tra le mie mani possenti, la sua pelle tanto chiara da sembrare trasparente e le labbra sono tinte di scarlatto a causa delle mie.
Sam è una rosa, una bellissima rosa di brina, splendida e fragile, che si erge, sfrontata e invincibile, anche durante una tempesta di neve.
- Sam… -
- Carly ha bisogno di te, Freddie. E’ notte e l’hai lasciata da sola, a più di venti chilometri da qui, mentre diluvia e aspetta un bambino. Torna a casa, Benson.- quasi lo sputa, il mio cognome, liberandosi dalla mia stretta e sparendo oltre le scale.
La porta della sua camera da letto sbatte e io mi porto entrambe le mani al viso, scuotendo il capo in un gesto disperato.
Mi odio, perché ho sposato la donna che credevo avrei amato per tutta la vita, senza rendermi conto di quale sciocchezza stessi commettendo e quanto cieco fossi, ad illudermi che quei sentimenti provati da ragazzino sarebbero rimasti gli stessi in eterno.
Mi odio, perché mi sono reso conto tardi che la persona che avrei voluto accanto per tutta la vita è la stessa che, il giorno del mio matrimonio, entrò in chiesa come damigella d’onore della sposa, facendomi sorridere affascinato e domandarmi come sarebbe stata, lei, in bianco.
Mi odio, perché tradisco mia moglie, la mia migliore amica, la futura madre di mio figlio, con la sua migliore amica, senza che lei sospetti nulla, ritenendoci entrambi troppo leali per una cosa del genere.
Mi odio, perché sono la causa della frattura eterna tra Carly e Sam, due persone complementari, bisognose l’una dell’altra, più legate di vere sorelle, incapaci di percorrere la propria strada senza l’altra accanto.
Mi odio, perché ho costretto la donna che amo a confessare i sentimenti che, per la mia felicità e quella di Carly, aveva soppresso e sotterrato nel fondo del cuore, pronta al sacrificio di non rivelarli mai.
Mi odio, perché poco dopo l’inizio della nostra relazione, Sam ha scoperto di non poter avere figli e, da quel momento, pensa che sia la sua punizione e che io faccia l’amore con lei solo perché non c’è rischio che rimanga incinta e si odia per entrambe le possibilità.
Mi odio, perché sono troppo egoista affinché rinunci a lei, perché sono troppo codardo per distruggere la vita perfetta che ho creato – lavoro, famiglia, amici -, perché mio figlio non avrà gli occhi azzurri e non percepirà mai quanto suo padre ami sua madre.
Mi odio, perché Sam deve guardare il ventre di Carly crescere assieme a mio figlio, deve fingersi felice per noi e, soprattutto, perché so che vuole realmente bene a questo bambino, nonostante il dolore straziante che le provoca.
Mi odio, perché sono motivo di sofferenza, rabbia, dolore immenso per la persona che più amo al mondo e per la quale darei la vita.
Mi odio, perché anche questa volta, dopo infiniti giuramenti di non ricaderci, dopo l’ennesima, violenta e furibonda lite, causata dalla mia gelosia ossessiva e assurda, non ho resistito a rischiare ogni cosa e precipitarmi da lei.
Mi odio, ma sapere che lei mi ama è abbastanza.

 
  
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