N/A Ancora il risultato di una sfida con la mitica
Cartoonpeeker, verso la quale non avrò mai abbastanza parole di stima e affetto.
L’idea di una storia Raphril è ispirata dalla scena finale dell’ultima puntata
Nickelodeon, tema che ho notato essersi riacceso anche in rete, forse dopo il
film, boh (nuo nuo nuo, io preferisco sempre l’Apritello ^^’).
Racconto per “bimbi grandi”, triste (e quando mai! XD ), cattivo e un po’
perverso. Se qualcuno tra i lettori ritiene che debba alzare il rating, vi
prego, fatemelo sapere.
Mi auguro
che vi possa piacere almeno un po’. Grazie per essere qui!
Un abbraccio
che non è mai abbastanza ^_^
“Ti odio e ti amo. Forse mi chiedi come io possa
farlo.
Non lo so. Ma sento che è così e mi tormento.”
Gaio Valerio Catullo, Carme 85
Ha richiuso
la finestra, lasciando fuori il freddo e la neve. Con il rumore del vecchio
legno che sbatteva contro il marmo sbrecciato del davanzale, ha sbarrato la
violenza, la morte. La propaganda, gli slogan, che davano l’illusione di poter
ancora scegliere qualcosa. Ha chiuso fuori questa che una volta era la sua
città, e che per quanto fosse anche allora sporca, rumorosa e puzzolente come
una puttana, al ricordo adesso assumeva le luminose sembianze di un angelo, che
lo cullava tra i suoi seni, che gli sussurrava nei fori auricolari promesse di
libertà, quando con i suoi fratelli, con tutti e tre i suoi fratelli, saltava
tra i tetti assaggiando la notte.
Era un
idiota, da ragazzino.
Si è
scrollato la neve dal lacero giubbotto di pelle; l’acquosa poltiglia rosastra
si è sciolta a contatto col pavimento. Appeso accanto al materasso sfondato, uno
specchio gli ha rimandato tra le macchie del vetro l’immagine del suo corpo
sporco di sangue, del suo viso tirato, delle sue cicatrici di un verde
biancastro, del suo occhio stanco.
Ha aperto la
cerniera, e lasciato cadere per terra il giubbotto, tra i vecchi giornali e gli
scatoli sporchi, tra i manubri da venticinque libbre e le lattine vuote di
birra scadente. Il peso della battaglia si è fatto sentire tutto nei passi fino
al bagno, nei muscoli delle gambe che avevano corso troppo, combattuto troppo.
Le
mattonelle erano fresche, sotto le sue mani appoggiate al muro mentre pisciava;
un colpo di tosse le ha schizzate di rosso. Ma era solo la ferita in bocca; non
sarebbe morto, neanche questa notte.
Ha
schiacciato inutilmente il pulsante per lo sciacquone; continuava a farlo solo per
abitudine, da quando mesi prima avevano tagliato l’acqua anche in questa zona
di New York; o probabilmente, nessuno aveva mai riparato un tubo rotto.
“Servi Shredder e vivrai.”
Ha inzuppato
uno straccetto in un secchio ed ha iniziato a tirar via il sangue e la sporcizia
di dosso; il sangue non era suo. Non tutto, almeno. Ha gettato l’acqua del
secchio nel water ed è tornato in camera, si è buttato sulla brandina, dando
uno sguardo alla sveglia. Quasi mezzanotte.
A momenti, lei sarà qui.
Ha chiuso il
suo occhio, e poggiato un braccio sul viso.
…
“Capisci?
Sono così confusa… E poi, non è il momento per pensare a queste cose… Siamo
rintanati qua, la città è sotto assedio, mio padre e la famiglia di Casey…”
La sentiva
parlare, ma lui non l’ascoltava più. Improvvisamente, tutta la sua attenzione
era stata catalizzata dalla bocca di lei. Non aveva mai notato quanto fosse…
interessante, la sua bocca. Rossa, umida. Deliziosa.
Non mi stai
ascoltando, Raph.”
“Cosa?” Ha
abbassato gli occhi, imbarazzato, ed ha guardato il bicchiere tra le sue mani.
Forse era questo distillato a confondergli la testa: era la prima volta in vita
sua che beveva qualcosa del genere. Si sentiva adulto, questa sera non voleva
essere più un adolescente. E si sentiva piacevolmente stordito.
“Lascia
perdere. Non fa niente.” Lei ha bevuto dal suo bicchiere, le guance rosse come
il fuoco, uno sguardo nervoso negli occhi azzurri.
La sua gola,
bianca, sussultava ingerendo il liquido. Era bello a vedersi, sì, stranamente
bello.
“Scusa
April. Ma mi gira la testa. Questa roba che hai trovato, cosa hai detto che è?”
ha chiesto indicando la bottiglia posta tra sé e la ragazza, sul tavolo della
cucina. Il liquido ambrato riluceva sotto la luce della lampadina, e proiettava
sul legno dorate onde guizzanti.
“Whiskey,
Raph. Possibile che tu non lo conosca?”
Lui ha
arricciato un sorriso, e l’ha colpita piano ad una spalla.
“Ha parlato
la donna esperta! Ma finiscila.”
Lei inaspettatamente
ha iniziando a ridere.
La sua
risata ha scintillato nel silenzio della notte, riverberando fin fuori dalla
cucina, nel corridoio buio, nelle scale di legno, nelle stanze dove tutti gli
altri dormivano, stanchi per l’ennesima pericolosa avventura, contro quella
maledetta macchina mutante. Mentre lei, che si era attardata a lavare i piatti,
l’aveva trascinato in una serata assurda, fatta di confidenze e confessioni via
via più intime. Ed ad un certo punto aveva pure tirato fuori dalla dispensa
questa bottiglia di liquido che bruciava come il fuoco, che era disgustoso ma
irresistibile.
Lui ha preso
un altro sorso, godendo del calore che scendeva lento, riscaldava e si
irradiava nelle braccia, fino a sentirlo sotto le protezioni delle mani; inebriato
da quel tintinnare di cristalli, di campanelli celesti, infantile ed al
contempo inaspettatamente maturo. Una risata da bambina e da donna, allegra e
triste insieme, scaturita dall’alcol, alimentata dall’assurdità di quella
situazione, dalla stranezza di quella sera.
E mentre
rideva, una ciocca di capelli sfuggita alla coda le ha sfiorato il viso un po’
sudato, sussultando guizzante e fulva, ed era una fiamma come quella che lui si
sentiva dentro, ed era calda come il distillato, e viva. Gli occhi azzurri si
sono socchiusi, una mano è salita a coprire un attimo le impudiche labbra ed a
scostare quella ciocca ribelle relegandola dietro l’orecchio, e quei pochi
secondi prima che la risata si estinguesse, rapida com’era venuta, hanno dato
il via a qualcosa.
Tutt’ad un
tratto, lui l’ha capito. Ha spalancato un po’ gli occhi dalla sorpresa. Ha
sentito il suo cuore iniziare a battere più forte, e tutte le sensazioni farsi
più acute. Adesso, il vento che sbatteva contro le finestre della fattoria era
più potente, e l’odore della cucina più intenso. Ha capito, e tutto gli è
sembrato così ovvio che non riusciva a capacitarsi del perché non l’avesse mai compreso
prima di adesso.
Come se
improvvisamente avesse aperto gli occhi, tutto si è mostrato.
Lei era
bella.
Lei era
incredibilmente, dannatamente bella. Di una bellezza vera ed imperfetta,
lontana da quella delle donne stipate nelle riviste che aveva tenuto nascoste
nella sua stanza, nella vecchia tana, con la paura costante che suo padre gliele
scoprisse. Lei era bella di una bellezza unica e completa, forte e delicata, intelligente
e selvaggia, la bellezza di una lama e di un fiore di ciliegio.
E lui adesso
ha capito perché suo fratello ed il suo migliore amico si fossero innamorati di
lei.
…
Ha spostato
il braccio dal viso quando ha sentito lo sferruzzare nella toppa. Lei aveva le
chiavi. È rimasto sdraiato, con l’occhio chiuso, perché
avrebbe riconosciuto il suo passo tra mille.
Solo quando
ha avvertito che era entrata in camera, ha aperto la palpebra, per regalarsi la
visione di lei, che lo guardava dai piedi del letto.
Bella.
Pur infagottata
in abiti vecchi e vissuti. Pur con le occhiaie sotto i grandi occhi cerulei.
Pur con qualche filo di bianco tra i corti capelli rossi.
Bella,
perché gli stava sorridendo.
Si è messo a
sedere sulla brandina, guardandola meglio in viso. Un’occhiaia era troppo
visibile… Si è alzato in piedi e le si è avvicinato, le ha preso il volto
pallido nella sua ruvida mano verde. Lei continuava a puntargli addosso i suoi
fari azzurri; non avevano ancora parlato.
A dire il
vero, non che parlassero mai molto, tra di loro. Non serviva.
Non era
un’occhiaia, ma piuttosto una piccola ecchimosi. Alla tenue luce dell’unica
lampadina, un gonfiore violaceo si notava anche accanto al labbro, segnato da
una lieve contusione.
La rabbia, sua
ragione di vita, l’ha invaso. Ha fatto un piccolo sbuffo, tra i denti serrati, e
poi, mentre lei scostava il viso dalla sua mano, le ha chiesto, con la sua voce
roca: “Chi è stato?”
La donna gli
ha voltato le spalle.
“Lascia
perdere, non è niente.”
Un pensiero
l’ha colpito come uno schiaffo.
“È stato tuo marito!” ha ringhiato, afferrandola per
una spalla e costringendola a rigirarsi.
La donna gli
ha tolto la mano, con un colpo. “Non dire idiozie. Casey non lo farebbe mai.”
Lui ha scrutato
i suoi occhi, cercando di capire se potesse crederle. Effettivamente, non era
da Casey Jones. Ma dopo quello che gli aveva raccontato lei, della loro crisi, dei
loro duri litigi, poteva ancora esserne sicuro? E con quello che stava
succedendo intorno a loro, con la pazzia e la violenza che dilagavano sul
mondo, con la ferocia che violentava la libertà e le tappava la bocca, potevano
le persone essere più quelle di una volta?
No, non
potevano. Era quello che si ripeteva, quando asciugava il sangue dei suoi sai
sui pantaloni delle sue vittime.
“Allora chi
è stato?” ha chiesto ancora, stavolta a voce bassa, ma afferrandola dalle
braccia.
Lei ha
abbassato lo sguardo a fissare per qualche secondo le mani che la stringevano,
poi ha fatto un rumore con la gola ed l’ha spinto via, colpendolo sul
piastrone; lui ha mollato la presa e si è fatto allontanare. Sapeva che a lei
non piaceva essere bloccata. Glielo aveva detto mille volte.
Lei adesso
era arrabbiata. Dio, quanto lui amava la sua rabbia. Vedeva la propria, in un
volto di donna.
“Ho
sbagliato a venire.”
Lui ha avuto
paura.
“No, ti
prego. Resta.”
Si è
ritrovato a supplicare, in un sussurro. No, non voleva che se ne andasse. Doveva
averla, doveva stare con lei. Doveva toccarla, doveva stringerla ancora tra le
sue braccia. Solo il pensiero che lei potesse voltargli le spalle, questa
notte, gli ha bloccato il respiro in un irrazionale terrore. Aveva bisogno di
lei.
E la donna
ha avvertito il suo desiderio, compiaciuta; il suo sguardo è tornato dolce, le
sue labbra hanno regalato la promessa di un sorriso. Nuovamente calma, ha
iniziato a giocare.
Gli si è
avvicinata di un passo, e gli ha sfiorato il piastrone con un dito.
“Ah sì? Vuoi
che resti?” gli ha chiesto con la voce improvvisamente più bassa, più calda.
Un brivido è
partito da dove lei ha poggiato il suo dito, e si è irradiato sotto il
piastrone, e più giù. Raffaello sapeva benissimo quello che la donna stava
facendo. Stava prendendosi gioco di lui. Come sempre, come ogni volta. Proprio
di lui, che non si era mai fatto mettere sotto da nessuno, che non aveva mai
accettato comandi e che per questo aveva finito quasi per uccidere suo
fratello, che l’inferno se lo inghiotta,
maledetto cieco borioso.
Lui, che non
aveva paura di niente e di nessuno, che sfidava ogni notte la morte,
guardandola in faccia e sputandole addosso, provocandola e forse, a volte,
anelandola; lui adesso tremava davanti a questa donna, che una volta era stata
sua amica, quasi una sorella, e implorava i suoi abbracci, sopportava i suoi capricci,
elemosinava le sue attenzioni.
Nei mesi
passati, si era ripromesso più volte di finirla. Era arrivato a non aprirle la
porta, una volta; salvo poi correre il giorno dopo da lei, sfidando le
pattuglie del coprifuoco, beccandosi un’altra pallottola, solo per supplicare
il suo perdono, per avere da lei le briciole.
Gli avanzi
di suo marito, il suo migliore amico.
Il disgusto
che provava di sé era arrivato ad un punto tale da averlo assuefatto. Niente
più lacrime, né pugni sul muro, né pestaggi gratuiti agli affiliati degli
squadroni di Shredder. Ormai, l’acido della vergogna in cui era immerso non gli
dava più fastidio, avendo bruciato la sua pelle, i suoi nervi, i suoi
sentimenti ed il suo cuore. E nel momento in cui aveva capito di essere perso, visto
che la sua anima era ormai dannata, aveva trovato quasi una specie di pace, una
pace dolorosa e pungente, che lo teneva sveglio a volte la notte a fissare l’oscurità,
che lo portava ad ubriacarsi tanto da non riuscire a reggersi in piedi e
costringere quel monco del suo fratello più piccolo a cercarlo per giorni negli
anfratti delle fogne, per riportare il suo culo di peso su un letto.
“Sì, resta. Ti
prego.”
Debole. Meschino. Dannato.
…
“Ma si può
sapere che cos’hai da qualche giorno, Raph?”
Il rosso ha
abbassato l’ascia. Il colpo secco del legno che si spaccava è risuonato nell’aia.
Mikey come al solito stava badando ai polli. Casey e Donnie lavoravano ancora
sulla vecchia automobile nel granaio. E Leo gli era sempre tra i piedi, a
dargli il tormento, con quella sua smania di capire sempre ogni cosa,
controllare ogni cosa, risolvere ogni cosa.
“Fatti i
cazzi tuoi, Leo.”
Non puoi sapere sempre tutto, Senzapaura.
“Sono i fatti miei, Raph! Da giorni non ti si
può parlare che prendi fuoco, stai sempre da solo e scappi da una stanza appena
arriva April! Credi che non ce ne siamo accorti? Avete litigato? Perché?”
Non potresti sbagliarti di più.
…
Il mutante le
ha poggiato una mano sul braccio, esitante. Lei gli ha sorriso ancora, e si è
avvicinata. Ha alzato il viso, a richiedere un bacio.
Lui ha
tardato un secondo. Non vi era nulla al mondo che volesse di più che addentare
quel frutto maturo, che assaggiare ancora quelle labbra sottili, ma col tempo
aveva imparato a dilatare i tempi concessi, a spremere fino all’ultima goccia
il piacere da quei pochi momenti tormentati e felici, a gustare in pieno il
brivido dell’anticipazione. Il piacere ancor prima d’iniziare diventava affanno
e strazio, perché la sua mente ingorda non lo principiava nemmeno che già ne
paventava la fine. Sapeva ancor prima di cominciare che il dolore sarebbe stato
implacabile quando lei lo avrebbe alla fine lasciato ancora una volta solo sul
letto, tra i soliti rimpianti e sensi di colpa, a bestemmiare, a dannarsi, ad
odiarla, ad odiarsi.
Poi, ha chinato
la testa, le ha passato una mano dietro la schiena, l’ha avvicinata a sé; l’ha
quasi sollevata, ed ha per la millesima volta, come la prima, sussultato al suo
sapore, esplorato la piccola bocca umana, troppo piccola per la sua; ha sfiorato
la lingua in un brivido, e l’ha presa palpata gustata carezzata. Lei ha ripreso
fiato, soffocata, gli ha raschiato con i denti il lato della bocca verde, ed ha
iniziato a succhiarlo, a mordicchiarlo, a stuzzicarlo.
Lui l’ha
alzata ancor di più a sé, e lei adesso era in punta di piedi; l’umana si è
staccata dalla sua bocca ed ha iniziato a baciargli il mento, poi è scesa con
la lingua a lambire la pelle del collo, spessa eppur morbida, liscia come
quella di un rettile e vellutata come quella di un umano, tesa tra i rotti
sussulti del pomo.
Adesso, era
adesso il momento in cui lui avrebbe perso la testa. Ha sentito la nota
pressione sul fondo del guscio.
L’ha presa
di peso, e buttata sul materasso. Ora, comandava lui. Ora, lei era sua.
La donna ha
iniziato a respirare pesantemente, a contorcersi frenetica per togliere i
vestiti; lui le era già di sopra, a cavalcioni sul suo piccolo corpo, che
avrebbe potuto ferire e schiacciare col suo peso, col suo guscio, se non fosse
stato attento. Si è sfilato la maschera, perché sapeva che lo voleva lei,
glielo aveva chiesto una volta; l’ha gettata per terra, inutile striscia di
tessuto rosso che rappresentava un mondo, uno stile di vita, un codice d’onore
che non era più suo. Nuovamente chino su di lei, poggiando le ginocchia intorno
al suo bacino, le mani a lato della sua testa, ha piegato le braccia per
arrivare nuovamente alla sua bocca, poi al mento, poi al collo; la sentiva
scalciare per buttar via i pantaloni quando è arrivato al seno. Il reggiseno
ancora legava i frutti maturi, lei è tornata su con una mano e l’ha portata dietro
la propria schiena, per sganciarlo, ma lui le ha levato la mano, ha spostato
giù rudemente il tessuto sottile ed è tornato a poggiare la bocca, ansioso,
convulso, per la smania di assaggiare subito le note delizie. L’ha sentita
inarcare la schiena quando le ha afferrato tra i denti la pelle sottile e rosa;
i lombi si sono sfiorati e la sua virilità è sorta, pronta: si è staccato,
ancora gioendo e soffrendo d’attesa, quando di forza, come se fosse una
bambola, l’ha afferrata da sotto di lui, con un braccio solo, e l’ha spostata
di lato, iniziando a poggiarsi col guscio sul materasso.
Le azioni erano
note, provate tante, troppe volte, e la donna sapeva cosa fare: è salita adesso
sopra di lui, ristabilendo le giuste posizioni, senza il timore che il suo
amante nella passione potesse farle del male.
Le mani
bianche hanno avvolto il viso mutante, hanno strisciato su collo piastrone
braccia, arricciandosi nello scoppio della sensazione durante l’intrusione, e poi
si sono strette a quelle verdi, si sono scostate insieme alle sue come ali di
una falena e le braccia hanno sussultato con le spinte, muovendosi, dimenandosi;
il respiro di lei si è mutato in forti gemiti.
Lui ha
chiuso il suo occhio. Vi era il suo stesso respiro, basso e roco, vi era il suo
cuore, che batteva forte. Vi era il calore pulsante. Ma vi era soprattutto lei,
il suo tutto, la sua dea, la menade, la terra madre, la pace e la perdizione,
la gioia del peccato; lei che ansimava, e mormorava piano parole e sillabe
sconnesse, invocava e chiedeva, pregava e gemeva, asseriva e negava; lo chiamava.
Ma non col
suo nome.
…
“Noi… loro
non lo devono mai sapere. Mai! È stato un
errore, Raph. Solo un errore, ecco. Io… io… eravamo ubriachi. Non eravamo noi.
Non eravamo noi. Dimentichiamo, sì, dimentichiamo tutto. Torneremo a New York,
adesso abbiamo altro a cui pensare. Dobbiamo cercare mio padre, ed il tuo. Non
pensiamoci più. Non lo diremo mai a nessuno. Un errore… Io… io non ti amo
Raph.”
…
“Donnie...”
Sei lettere.
Un elettrochoc. Ha aperto l’occhio, di botto, improvvisamente congelato. Anche
lei, di sopra, si è fermata. Ha portato piano una mano alla bocca, allargando
gli occhi, consapevole del suo errore. La fiamma si è subito spenta, sotto un’onda
di ghiaccio.
Lui ha
alzato lo sguardo al soffitto. Poteva sentire ancora il suo cuore, feroce nel
petto. Nel soffitto, una macchia d’umidità.
Lui lo sapeva.
L’aveva sempre saputo. Perché allora faceva così male? Perché allora avrebbe
voluto alzarsi dal letto, prendere i suoi sai ed iniziare a straziarsi le
carni, fino e non sentire più niente? Perché avrebbe voluto afferrare tra le
sue mani quel piccolo collo bianco, e romperlo con un solo, semplice tocco?
Invece è
rimasto immobile, a guardare il soffitto, mentre lei scendeva piano dal suo inguine,
e si sedeva sul letto. Completamente nuda, si è presa la testa tra le mani.
Lo sapeva,
l’aveva sempre saputo.
Eppure, ha
chiesto.
“Verresti da
me, se lui fosse ancora vivo?” La voce è uscita flebile e stranamente calma.
April si è voltata
a guardarlo, poi senza rispondergli si è alzata in piedi ed ha iniziato a
raccogliere i suoi vestiti.
“Verresti da
me, se Donnie fosse ancora vivo?” ha chiesto adesso più forte.
Lei si è
bloccata un secondo alla menzione del nome, poi si è chinata ancora a
raccogliere i pantaloni.
Lui è
scattato, in un attimo le è stato addosso, e l’ha afferrata per un polso. Lei ha
lasciato cadere i vestiti.
“Verresti da
me?” ha urlato, e le ha stretto il polso, fino a sentire flettere le fragili
ossa.
Lei lo ha guardato
con i suoi azzurri fuochi di dolore e rabbia.
“Mi stai
facendo male. Lasciami” ha sibilato.
Il mutante ha
ringhiato, come un animale, ha continuato a stringerle il polso ed ha sputato
fuori parole che erano veleno.
“Quando scopiamo
tu pensi a mio fratello. Tu pensi a lui. Io non sono niente, per te!”
La donna ha continuato
a guardarlo, senza battere ciglio, senza un lamento per il polso che nei
prossimi giorni, lo sapeva, avrebbe fatto un po’ male.
“Cosa pretendi
che io ti dica, Raph?” La sua voce è diventata un sussurro. Ha distolto lo
sguardo.
Lui l’ha
lasciata andare, e lei si è presa il polso nell’altra mano, ed ha iniziato a
strofinarlo piano.
La neve
continuava a scendere, nonostante tutto. L’uomo tartaruga si è avvicinato alla
finestra ed il suo respiro ansimante ha disegnato un piccolo cerchio
opalescente nel vetro. Contro il nero, la sua forma riflessa si sfocava piano.
“Vattene.”
L’immagine
nella finestra guardava dritto contro le poche luci della città. I fiocchi
bianchi catturavano stancamente la luce della camera in un lento requiem
fluttuante.
La donna
dietro di lui ha finito di vestirsi e si è passata la mano tra i capelli; ha
fatto per parlare al mutante che le voltava le spalle, ma si è fermata,
scuotendo leggermente la testa.
Lui
l’avrebbe cercata domani.
Ha chiuso la
cerniera del giubbotto, controllato il tessen
e la pistola in tasca, ed è uscita dall’appartamento fatiscente.
Da fuori la
porta, ha sentito i singhiozzi.