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Autore: LaraPink777    07/12/2014    5 recensioni
Raph e April. Quando l’amore è passione, rimpianto, sofferenza. Tra presente 2k12 e futuro SAINW.
Genere: Drammatico, Erotico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: April O'Neil, Raphael Hamato/ Raffaello
Note: Lemon | Avvertimenti: Triangolo
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Raphril

 

N/A Ancora il risultato di una sfida con la mitica Cartoonpeeker, verso la quale non avrò mai abbastanza parole di stima e affetto. L’idea di una storia Raphril è ispirata dalla scena finale dell’ultima puntata Nickelodeon, tema che ho notato essersi riacceso anche in rete, forse dopo il film, boh (nuo nuo nuo, io preferisco sempre l’Apritello ^^’).
Racconto per “bimbi grandi”, triste (e quando mai! XD ), cattivo e un po’ perverso. Se qualcuno tra i lettori ritiene che debba alzare il rating, vi prego, fatemelo sapere.

Mi auguro che vi possa piacere almeno un po’. Grazie per essere qui!

Un abbraccio che non è mai abbastanza  ^_^

 

 

 

 

“Ti odio e ti amo. Forse mi chiedi come io possa farlo.

Non lo so. Ma sento che è così e mi tormento.”

Gaio Valerio Catullo,  Carme 85

 

 

Ha richiuso la finestra, lasciando fuori il freddo e la neve. Con il rumore del vecchio legno che sbatteva contro il marmo sbrecciato del davanzale, ha sbarrato la violenza, la morte. La propaganda, gli slogan, che davano l’illusione di poter ancora scegliere qualcosa. Ha chiuso fuori questa che una volta era la sua città, e che per quanto fosse anche allora sporca, rumorosa e puzzolente come una puttana, al ricordo adesso assumeva le luminose sembianze di un angelo, che lo cullava tra i suoi seni, che gli sussurrava nei fori auricolari promesse di libertà, quando con i suoi fratelli, con tutti e tre i suoi fratelli, saltava tra i tetti assaggiando la notte.

Era un idiota, da ragazzino.

Si è scrollato la neve dal lacero giubbotto di pelle; l’acquosa poltiglia rosastra si è sciolta a contatto col pavimento. Appeso accanto al materasso sfondato, uno specchio gli ha rimandato tra le macchie del vetro l’immagine del suo corpo sporco di sangue, del suo viso tirato, delle sue cicatrici di un verde biancastro, del suo occhio stanco.

Ha aperto la cerniera, e lasciato cadere per terra il giubbotto, tra i vecchi giornali e gli scatoli sporchi, tra i manubri da venticinque libbre e le lattine vuote di birra scadente. Il peso della battaglia si è fatto sentire tutto nei passi fino al bagno, nei muscoli delle gambe che avevano corso troppo, combattuto troppo.

Le mattonelle erano fresche, sotto le sue mani appoggiate al muro mentre pisciava; un colpo di tosse le ha schizzate di rosso. Ma era solo la ferita in bocca; non sarebbe morto, neanche questa notte.

Ha schiacciato inutilmente il pulsante per lo sciacquone; continuava a farlo solo per abitudine, da quando mesi prima avevano tagliato l’acqua anche in questa zona di New York; o probabilmente, nessuno aveva mai riparato un tubo rotto.

“Servi Shredder e vivrai.”

Ha inzuppato uno straccetto in un secchio ed ha iniziato a tirar via il sangue e la sporcizia di dosso; il sangue non era suo. Non tutto, almeno. Ha gettato l’acqua del secchio nel water ed è tornato in camera, si è buttato sulla brandina, dando uno sguardo alla sveglia. Quasi mezzanotte.

A momenti, lei sarà qui.

Ha chiuso il suo occhio, e poggiato un braccio sul viso.

“Capisci? Sono così confusa… E poi, non è il momento per pensare a queste cose… Siamo rintanati qua, la città è sotto assedio, mio padre e la famiglia di Casey…”

La sentiva parlare, ma lui non l’ascoltava più. Improvvisamente, tutta la sua attenzione era stata catalizzata dalla bocca di lei. Non aveva mai notato quanto fosse… interessante, la sua bocca. Rossa, umida. Deliziosa.

“Non mi stai ascoltando, Raph.”

“Cosa?” Ha abbassato gli occhi, imbarazzato, ed ha guardato il bicchiere tra le sue mani. Forse era questo distillato a confondergli la testa: era la prima volta in vita sua che beveva qualcosa del genere. Si sentiva adulto, questa sera non voleva essere più un adolescente. E si sentiva piacevolmente stordito.

“Lascia perdere. Non fa niente.” Lei ha bevuto dal suo bicchiere, le guance rosse come il fuoco, uno sguardo nervoso negli occhi azzurri.

La sua gola, bianca, sussultava ingerendo il liquido. Era bello a vedersi, sì, stranamente bello.

“Scusa April. Ma mi gira la testa. Questa roba che hai trovato, cosa hai detto che è?” ha chiesto indicando la bottiglia posta tra sé e la ragazza, sul tavolo della cucina. Il liquido ambrato riluceva sotto la luce della lampadina, e proiettava sul legno dorate onde guizzanti.

“Whiskey, Raph. Possibile che tu non lo conosca?”

Lui ha arricciato un sorriso, e l’ha colpita piano ad una spalla.

“Ha parlato la donna esperta! Ma finiscila.”

Lei inaspettatamente ha iniziando a ridere.

La sua risata ha scintillato nel silenzio della notte, riverberando fin fuori dalla cucina, nel corridoio buio, nelle scale di legno, nelle stanze dove tutti gli altri dormivano, stanchi per l’ennesima pericolosa avventura, contro quella maledetta macchina mutante. Mentre lei, che si era attardata a lavare i piatti, l’aveva trascinato in una serata assurda, fatta di confidenze e confessioni via via più intime. Ed ad un certo punto aveva pure tirato fuori dalla dispensa questa bottiglia di liquido che bruciava come il fuoco, che era disgustoso ma irresistibile.

Lui ha preso un altro sorso, godendo del calore che scendeva lento, riscaldava e si irradiava nelle braccia, fino a sentirlo sotto le protezioni delle mani; inebriato da quel tintinnare di cristalli, di campanelli celesti, infantile ed al contempo inaspettatamente maturo. Una risata da bambina e da donna, allegra e triste insieme, scaturita dall’alcol, alimentata dall’assurdità di quella situazione, dalla stranezza di quella sera.

E mentre rideva, una ciocca di capelli sfuggita alla coda le ha sfiorato il viso un po’ sudato, sussultando guizzante e fulva, ed era una fiamma come quella che lui si sentiva dentro, ed era calda come il distillato, e viva. Gli occhi azzurri si sono socchiusi, una mano è salita a coprire un attimo le impudiche labbra ed a scostare quella ciocca ribelle relegandola dietro l’orecchio, e quei pochi secondi prima che la risata si estinguesse, rapida com’era venuta, hanno dato il via a qualcosa.

Tutt’ad un tratto, lui l’ha capito. Ha spalancato un po’ gli occhi dalla sorpresa. Ha sentito il suo cuore iniziare a battere più forte, e tutte le sensazioni farsi più acute. Adesso, il vento che sbatteva contro le finestre della fattoria era più potente, e l’odore della cucina più intenso. Ha capito, e tutto gli è sembrato così ovvio che non riusciva a capacitarsi del perché non l’avesse mai compreso prima di adesso.

Come se improvvisamente avesse aperto gli occhi, tutto si è mostrato.

Lei era bella.

Lei era incredibilmente, dannatamente bella. Di una bellezza vera ed imperfetta, lontana da quella delle donne stipate nelle riviste che aveva tenuto nascoste nella sua stanza, nella vecchia tana, con la paura costante che suo padre gliele scoprisse. Lei era bella di una bellezza unica e completa, forte e delicata, intelligente e selvaggia, la bellezza di una lama e di un fiore di ciliegio.

E lui adesso ha capito perché suo fratello ed il suo migliore amico si fossero innamorati di lei.

Ha spostato il braccio dal viso quando ha sentito lo sferruzzare nella toppa. Lei aveva le chiavi. È rimasto sdraiato, con l’occhio chiuso, perché avrebbe riconosciuto il suo passo tra mille.

Solo quando ha avvertito che era entrata in camera, ha aperto la palpebra, per regalarsi la visione di lei, che lo guardava dai piedi del letto.

Bella.

Pur infagottata in abiti vecchi e vissuti. Pur con le occhiaie sotto i grandi occhi cerulei. Pur con qualche filo di bianco tra i corti capelli rossi.

Bella, perché gli stava sorridendo.

Si è messo a sedere sulla brandina, guardandola meglio in viso. Un’occhiaia era troppo visibile… Si è alzato in piedi e le si è avvicinato, le ha preso il volto pallido nella sua ruvida mano verde. Lei continuava a puntargli addosso i suoi fari azzurri; non avevano ancora parlato.

A dire il vero, non che parlassero mai molto, tra di loro. Non serviva.

Non era un’occhiaia, ma piuttosto una piccola ecchimosi. Alla tenue luce dell’unica lampadina, un gonfiore violaceo si notava anche accanto al labbro, segnato da una lieve contusione.

La rabbia, sua ragione di vita, l’ha invaso. Ha fatto un piccolo sbuffo, tra i denti serrati, e poi, mentre lei scostava il viso dalla sua mano, le ha chiesto, con la sua voce roca: “Chi è stato?”

La donna gli ha voltato le spalle.

“Lascia perdere, non è niente.”

Un pensiero l’ha colpito come uno schiaffo.

È stato tuo marito!” ha ringhiato, afferrandola per una spalla e costringendola a rigirarsi.

La donna gli ha tolto la mano, con un colpo. “Non dire idiozie. Casey non lo farebbe mai.”

Lui ha scrutato i suoi occhi, cercando di capire se potesse crederle. Effettivamente, non era da Casey Jones. Ma dopo quello che gli aveva raccontato lei, della loro crisi, dei loro duri litigi, poteva ancora esserne sicuro? E con quello che stava succedendo intorno a loro, con la pazzia e la violenza che dilagavano sul mondo, con la ferocia che violentava la libertà e le tappava la bocca, potevano le persone essere più quelle di una volta?

No, non potevano. Era quello che si ripeteva, quando asciugava il sangue dei suoi sai sui pantaloni delle sue vittime.

“Allora chi è stato?” ha chiesto ancora, stavolta a voce bassa, ma afferrandola dalle braccia.

Lei ha abbassato lo sguardo a fissare per qualche secondo le mani che la stringevano, poi ha fatto un rumore con la gola ed l’ha spinto via, colpendolo sul piastrone; lui ha mollato la presa e si è fatto allontanare. Sapeva che a lei non piaceva essere bloccata. Glielo aveva detto mille volte.

Lei adesso era arrabbiata. Dio, quanto lui amava la sua rabbia. Vedeva la propria, in un volto di donna.

“Ho sbagliato a venire.”

Lui ha avuto paura.

“No, ti prego. Resta.”

Si è ritrovato a supplicare, in un sussurro. No, non voleva che se ne andasse. Doveva averla, doveva stare con lei. Doveva toccarla, doveva stringerla ancora tra le sue braccia. Solo il pensiero che lei potesse voltargli le spalle, questa notte, gli ha bloccato il respiro in un irrazionale terrore. Aveva bisogno di lei.

E la donna ha avvertito il suo desiderio, compiaciuta; il suo sguardo è tornato dolce, le sue labbra hanno regalato la promessa di un sorriso. Nuovamente calma, ha iniziato a giocare.

Gli si è avvicinata di un passo, e gli ha sfiorato il piastrone con un dito.

“Ah sì? Vuoi che resti?” gli ha chiesto con la voce improvvisamente più bassa, più calda.

Un brivido è partito da dove lei ha poggiato il suo dito, e si è irradiato sotto il piastrone, e più giù. Raffaello sapeva benissimo quello che la donna stava facendo. Stava prendendosi gioco di lui. Come sempre, come ogni volta. Proprio di lui, che non si era mai fatto mettere sotto da nessuno, che non aveva mai accettato comandi e che per questo aveva finito quasi per uccidere suo fratello, che l’inferno se lo inghiotta, maledetto cieco borioso.

Lui, che non aveva paura di niente e di nessuno, che sfidava ogni notte la morte, guardandola in faccia e sputandole addosso, provocandola e forse, a volte, anelandola; lui adesso tremava davanti a questa donna, che una volta era stata sua amica, quasi una sorella, e implorava i suoi abbracci, sopportava i suoi capricci, elemosinava le sue attenzioni.

Nei mesi passati, si era ripromesso più volte di finirla. Era arrivato a non aprirle la porta, una volta; salvo poi correre il giorno dopo da lei, sfidando le pattuglie del coprifuoco, beccandosi un’altra pallottola, solo per supplicare il suo perdono, per avere da lei le briciole.

Gli avanzi di suo marito, il suo migliore amico.

Il disgusto che provava di sé era arrivato ad un punto tale da averlo assuefatto. Niente più lacrime, né pugni sul muro, né pestaggi gratuiti agli affiliati degli squadroni di Shredder. Ormai, l’acido della vergogna in cui era immerso non gli dava più fastidio, avendo bruciato la sua pelle, i suoi nervi, i suoi sentimenti ed il suo cuore. E nel momento in cui aveva capito di essere perso, visto che la sua anima era ormai dannata, aveva trovato quasi una specie di pace, una pace dolorosa e pungente, che lo teneva sveglio a volte la notte a fissare l’oscurità, che lo portava ad ubriacarsi tanto da non riuscire a reggersi in piedi e costringere quel monco del suo fratello più piccolo a cercarlo per giorni negli anfratti delle fogne, per riportare il suo culo di peso su un letto.

“Sì, resta. Ti prego.”

Debole. Meschino. Dannato.

“Ma si può sapere che cos’hai da qualche giorno, Raph?”

Il rosso ha abbassato l’ascia. Il colpo secco del legno che si spaccava è risuonato nell’aia. Mikey come al solito stava badando ai polli. Casey e Donnie lavoravano ancora sulla vecchia automobile nel granaio. E Leo gli era sempre tra i piedi, a dargli il tormento, con quella sua smania di capire sempre ogni cosa, controllare ogni cosa, risolvere ogni cosa.

“Fatti i cazzi tuoi, Leo.”

Non puoi sapere sempre tutto, Senzapaura.

“Sono i fatti miei, Raph! Da giorni non ti si può parlare che prendi fuoco, stai sempre da solo e scappi da una stanza appena arriva April! Credi che non ce ne siamo accorti? Avete litigato? Perché?”

Non potresti sbagliarti di più.

Il mutante le ha poggiato una mano sul braccio, esitante. Lei gli ha sorriso ancora, e si è avvicinata. Ha alzato il viso, a richiedere un bacio.

Lui ha tardato un secondo. Non vi era nulla al mondo che volesse di più che addentare quel frutto maturo, che assaggiare ancora quelle labbra sottili, ma col tempo aveva imparato a dilatare i tempi concessi, a spremere fino all’ultima goccia il piacere da quei pochi momenti tormentati e felici, a gustare in pieno il brivido dell’anticipazione. Il piacere ancor prima d’iniziare diventava affanno e strazio, perché la sua mente ingorda non lo principiava nemmeno che già ne paventava la fine. Sapeva ancor prima di cominciare che il dolore sarebbe stato implacabile quando lei lo avrebbe alla fine lasciato ancora una volta solo sul letto, tra i soliti rimpianti e sensi di colpa, a bestemmiare, a dannarsi, ad odiarla, ad odiarsi.

Poi, ha chinato la testa, le ha passato una mano dietro la schiena, l’ha avvicinata a sé; l’ha quasi sollevata, ed ha per la millesima volta, come la prima, sussultato al suo sapore, esplorato la piccola bocca umana, troppo piccola per la sua; ha sfiorato la lingua in un brivido, e l’ha presa palpata gustata carezzata. Lei ha ripreso fiato, soffocata, gli ha raschiato con i denti il lato della bocca verde, ed ha iniziato a succhiarlo, a mordicchiarlo, a stuzzicarlo.

Lui l’ha alzata ancor di più a sé, e lei adesso era in punta di piedi; l’umana si è staccata dalla sua bocca ed ha iniziato a baciargli il mento, poi è scesa con la lingua a lambire la pelle del collo, spessa eppur morbida, liscia come quella di un rettile e vellutata come quella di un umano, tesa tra i rotti sussulti del pomo.

Adesso, era adesso il momento in cui lui avrebbe perso la testa. Ha sentito la nota pressione sul fondo del guscio.

L’ha presa di peso, e buttata sul materasso. Ora, comandava lui. Ora, lei era sua.

La donna ha iniziato a respirare pesantemente, a contorcersi frenetica per togliere i vestiti; lui le era già di sopra, a cavalcioni sul suo piccolo corpo, che avrebbe potuto ferire e schiacciare col suo peso, col suo guscio, se non fosse stato attento. Si è sfilato la maschera, perché sapeva che lo voleva lei, glielo aveva chiesto una volta; l’ha gettata per terra, inutile striscia di tessuto rosso che rappresentava un mondo, uno stile di vita, un codice d’onore che non era più suo. Nuovamente chino su di lei, poggiando le ginocchia intorno al suo bacino, le mani a lato della sua testa, ha piegato le braccia per arrivare nuovamente alla sua bocca, poi al mento, poi al collo; la sentiva scalciare per buttar via i pantaloni quando è arrivato al seno. Il reggiseno ancora legava i frutti maturi, lei è tornata su con una mano e l’ha portata dietro la propria schiena, per sganciarlo, ma lui le ha levato la mano, ha spostato giù rudemente il tessuto sottile ed è tornato a poggiare la bocca, ansioso, convulso, per la smania di assaggiare subito le note delizie. L’ha sentita inarcare la schiena quando le ha afferrato tra i denti la pelle sottile e rosa; i lombi si sono sfiorati e la sua virilità è sorta, pronta: si è staccato, ancora gioendo e soffrendo d’attesa, quando di forza, come se fosse una bambola, l’ha afferrata da sotto di lui, con un braccio solo, e l’ha spostata di lato, iniziando a poggiarsi col guscio sul materasso.

Le azioni erano note, provate tante, troppe volte, e la donna sapeva cosa fare: è salita adesso sopra di lui, ristabilendo le giuste posizioni, senza il timore che il suo amante nella passione potesse farle del male.

Le mani bianche hanno avvolto il viso mutante, hanno strisciato su collo piastrone braccia, arricciandosi nello scoppio della sensazione durante l’intrusione, e poi si sono strette a quelle verdi, si sono scostate insieme alle sue come ali di una falena e le braccia hanno sussultato con le spinte, muovendosi, dimenandosi; il respiro di lei si è mutato in forti gemiti.

Lui ha chiuso il suo occhio. Vi era il suo stesso respiro, basso e roco, vi era il suo cuore, che batteva forte. Vi era il calore pulsante. Ma vi era soprattutto lei, il suo tutto, la sua dea, la menade, la terra madre, la pace e la perdizione, la gioia del peccato; lei che ansimava, e mormorava piano parole e sillabe sconnesse, invocava e chiedeva, pregava e gemeva, asseriva e negava; lo chiamava.

Ma non col suo nome.

“Noi… loro non lo devono mai sapere. Mai! È stato un errore, Raph. Solo un errore, ecco. Io… io… eravamo ubriachi. Non eravamo noi. Non eravamo noi. Dimentichiamo, sì, dimentichiamo tutto. Torneremo a New York, adesso abbiamo altro a cui pensare. Dobbiamo cercare mio padre, ed il tuo. Non pensiamoci più. Non lo diremo mai a nessuno. Un errore… Io… io non ti amo Raph.”

“Donnie...”

Sei lettere. Un elettrochoc. Ha aperto l’occhio, di botto, improvvisamente congelato. Anche lei, di sopra, si è fermata. Ha portato piano una mano alla bocca, allargando gli occhi, consapevole del suo errore. La fiamma si è subito spenta, sotto un’onda di ghiaccio.

Lui ha alzato lo sguardo al soffitto. Poteva sentire ancora il suo cuore, feroce nel petto. Nel soffitto, una macchia d’umidità.

Lui lo sapeva. L’aveva sempre saputo. Perché allora faceva così male? Perché allora avrebbe voluto alzarsi dal letto, prendere i suoi sai ed iniziare a straziarsi le carni, fino e non sentire più niente? Perché avrebbe voluto afferrare tra le sue mani quel piccolo collo bianco, e romperlo con un solo, semplice tocco?

Invece è rimasto immobile, a guardare il soffitto, mentre lei scendeva piano dal suo inguine, e si sedeva sul letto. Completamente nuda, si è presa la testa tra le mani.

Lo sapeva, l’aveva sempre saputo.

Eppure, ha chiesto.

“Verresti da me, se lui fosse ancora vivo?” La voce è uscita flebile e stranamente calma.

April si è voltata a guardarlo, poi senza rispondergli si è alzata in piedi ed ha iniziato a raccogliere i suoi vestiti.

“Verresti da me, se Donnie fosse ancora vivo?” ha chiesto adesso più forte.

Lei si è bloccata un secondo alla menzione del nome, poi si è chinata ancora a raccogliere i pantaloni.

Lui è scattato, in un attimo le è stato addosso, e l’ha afferrata per un polso. Lei ha lasciato cadere i vestiti.

“Verresti da me?” ha urlato, e le ha stretto il polso, fino a sentire flettere le fragili ossa.

Lei lo ha guardato con i suoi azzurri fuochi di dolore e rabbia.

“Mi stai facendo male. Lasciami” ha sibilato.

Il mutante ha ringhiato, come un animale, ha continuato a stringerle il polso ed ha sputato fuori parole che erano veleno.

“Quando scopiamo tu pensi a mio fratello. Tu pensi a lui. Io non sono niente, per te!”

La donna ha continuato a guardarlo, senza battere ciglio, senza un lamento per il polso che nei prossimi giorni, lo sapeva, avrebbe fatto un po’ male.

“Cosa pretendi che io ti dica, Raph?” La sua voce è diventata un sussurro. Ha distolto lo sguardo.

Lui l’ha lasciata andare, e lei si è presa il polso nell’altra mano, ed ha iniziato a strofinarlo piano.

La neve continuava a scendere, nonostante tutto. L’uomo tartaruga si è avvicinato alla finestra ed il suo respiro ansimante ha disegnato un piccolo cerchio opalescente nel vetro. Contro il nero, la sua forma riflessa si sfocava piano.

“Vattene.”

L’immagine nella finestra guardava dritto contro le poche luci della città. I fiocchi bianchi catturavano stancamente la luce della camera in un lento requiem fluttuante.

La donna dietro di lui ha finito di vestirsi e si è passata la mano tra i capelli; ha fatto per parlare al mutante che le voltava le spalle, ma si è fermata, scuotendo leggermente la testa.

Lui l’avrebbe cercata domani.

Ha chiuso la cerniera del giubbotto, controllato il tessen e la pistola in tasca, ed è uscita dall’appartamento fatiscente.

Da fuori la porta, ha sentito i singhiozzi.

 

 

  
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