Serie TV > Sherlock (BBC)
Segui la storia  |       
Autore: Black_Lily_13    07/12/2014    7 recensioni
C’erano molte leggende che venivano tramandate a Castlecross, la più famosa di tutte quella riguardante la figura che abitava il castello nel cuore della palude. C’era chi sosteneva che si trattasse di uno Spettro, chi di un Demone. Su una cosa però tutti concordavano: Sherlock era in grado di esaudire i desideri celati nel cuore di chi fosse disposto a rinunciare a qualcosa di prezioso. John Watson, dal canto suo, era un uomo di scienza, e non aveva la minima intenzione di farsi coinvolgere nello strano gusto per il soprannaturale che i suoi nuovi compaesani sembravano condividere. Questo, almeno, fino a quando il destino non decise di portargli via la cosa che più amava al mondo... e lui, impotente, non poté che affidare la sua unica possibilità di salvarla a chi non avrebbe mai creduto potesse esistere. Costretto in cambio a mettersi al servizio di Sherlock per un anno, John imparerà pian piano che il buono può celarsi anche laddove non dovrebbe esserci per antonomasia. E, forse, riuscirà a scoprire e salvare da una minaccia nascosta il cuore di chi credeva di avere il petto pieno di sola polvere.
Genere: Dark, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Image and video hosting by TinyPic

“La tua mente sarà come i tuoi stessi pensieri, perché l'anima si colora con il colore dei suoi pensieri.”

Marco Aurelio

 

XI.        Pitch black

Whitechapel non era sempre stato il luogo malfamato e chiacchierato che era in quei particolari anni del regno della beneamata Regina Vittoria. John ricordava chiaramente, come se non fosse trascorso più di qualche giorno, i tempi in cui era vissuto in Fleet Street con i suoi genitori e sua sorella: suo padre era un artigiano, possedeva una piccola bottega di chincaglierie in quella strada (che non aveva mai reso più di quanto fosse necessario per riempire quattro bocche costantemente affamate), mentre sua madre era sempre stata afflitta da una salute tanto cagionevole da non permetterle di dedicarsi ad alcun mestiere. In sostanza, avevano sempre vissuto alla giornata, e se John e Harry non erano stati costretti a lavorare per qualche industriale senza scrupoli -o, peggio, a diventare spazzacamini- era stato solamente perché Aengus Jonathan Watson si era sempre fatto in quattro per impedirlo. Erano stati tempi duri, in cui avevano avuto bisogno di tutto, ma John ricordava ancora con dolce nostalgia le domeniche pomeriggio di primavera, durante le quali si era recato con tutta la sua famiglia a Whitechapel per il mercato settimanale.

Lui e Harry avrebbero ricevuto in regalo un cartoccio di lupini a testa, che avrebbero mangiucchiato mentre la loro madre esaminava con occhio critico le merci esposte nei vari banchi rumorosi, o guardando mano nella mano uno dei tanti spettacolini offerti dagli artisti di strada. Chiudendo gli occhi, gli sembrava di poter ancora sentire l’odore della frutta matura che faceva capolino dalle casse di legno, o le sguaiate risate di sua sorella. Se si concentrava, anche la sensazione della mano grande di suo padre sulla sua non gli sfuggiva.

Detestava la decadenza che regnava correntemente in quel quartiere che conservava tanti dei suoi ricordi più cari… ed era sicuro che se si fosse avvicinato ad uno degli ammassi di legno e chiodi che veniva spacciato per un banchetto che vendeva lupini, il sapore d’infanzia che quelle piccole gocce di sole avevano nella sua mente sarebbe stato annegato dal gusto amaro della corruzione.

***

Il primo passo che John aveva compiuto in Whitechapel Street si era concluso su di un viscido mucchietto di sostanza indefinibile, dal vago odore di carne marciscente. Il Dottore - che di chiedersi di cosa si trattasse non aveva avuto la minima intenzione- aveva avuto la sensazione che quello fosse stato il benvenuto personale del quartiere nel suo fetido grembo.

“Che genere di persona stiamo cercando, di preciso?” aveva domandato, osservando il pasticcio che quella poltiglia aveva lasciato sulla sua scarpa con occhio disgustato e rassegnato insieme.

Non era stata la prima domanda che aveva posto al Demone, dalla piccola parentesi in Commercial Street. Neppure una di esse era stata risposta fino a quel punto. Era come se il Demone avesse voluto rifarsi di tutte le parole che aveva pronunciato a Scotland Yard -senza intenzione alcuna, come aveva tenuto a sottolineare- chiudendosi in un silenzio tombale. Questo aveva lasciato ovviamente a John tutto il tempo e lo spazio mentale possibile per rosolare ben bene nell’angoscia riguardante la sua attuale situazione di detenuto in un Castello infestato (Dio… sembrava tutto così irreale…), sentimento che era stato relegato a impercettibile ronzio solo grazie al suo coinvolgimento in quella promessa di avventura che era l’indagine che Sherlock stava portando avanti.

Forse era stato quello il motivo per cui aveva sentito il bisogno di riempire quel silenzio con una serie infinita di domande prive di qualsiasi senso. A posteriori, era quasi certo che proprio l’insensatezza dei suoi quesiti fosse stata la ragione del mutismo del Demone -in fondo, alla sua ultima domanda aveva pur risposto.

“Un uomo di mezza età, sulla cinquantina direi. Capelli chiari. Baffi. Un mercante di cotone con una moglie giovane e infedele e rapporti continuativi con una o più persone di origine americana. In sostanza, un insospettabile.”

Tutti quei dettagli da dove erano venuti fuori? John aveva seguito con molta attenzione -e meraviglia- i voli mentali in cui Sherlock si era esibito nell’archivio di Scotland Yard, ed effettivamente alcune delle cose che aveva affermato in quel momento potevano essere ricondotte a conseguenze delle sue deduzioni. Però… capelli chiari e baffi? Mercante di cotone? Moglie infedele? Come poteva Sherlock esserne così sicuro? John lo aveva ingenuamente domandato, guadagnandosi uno sbuffo e un’occhiataccia da parte del Demone.

“Nelle loro dichiarazioni, i testimoni affermano di aver visto un distinto gentiluomo abbigliato elegantemente muoversi nelle vicinanza dei luoghi in cui sono stati rinvenuti i corpi. L’hanno descritto come un uomo dai capelli chiari. I baffi sono un mio vezzo: sembra che in quest’epoca non sia accettabile per un uomo che si rispetti non avere quei cosi anti-igienici e ispidi sulla faccia. Mi ritenni fortunato quando passarono di moda le calzemaglie… invece…” aveva iniziato, borbottando e imboccando una stradina incastrata tra i grigi edifici che si stagliavano sulla destra del loro percorso con il Dottore alle calcagna, “Che sia un mercante di cotone, me l’ha detto lui stesso. No, non letteralmente, John! Tra gli indizi lasciati dallo Squartatore che ti ho mostrato prima, c’era uno scampolo di cotone: o stava dando agli investigatori un consiglio per la tappezzeria delle loro case, oppure - ed è la spiegazione più plausibile- ha voluto lasciare una piccola indicazione riguardo al modo in cui si procura il pane. Anche il fatto che il nostro uomo sia intrappolato in un matrimonio infelice è un dettaglio che mi ha comunicato lui stesso. Non ha forse strappato gli anelli di ottone che la Chapman portava all’anulare sinistro? Un simbolo matrimoniale, che probabilmente ha urtato l’orgoglio del nostro uomo. Quindi, sposato, e infelicemente, o non si sarebbe dato pensiero di privare la sua vittima di due cerchietti di metallo privi di valore. L’ipotesi di un tradimento deriva dalla brutalità con cui si è accanito sulle vittime: vedeva in loro un fantoccio della sua coniuge, su cui sfogare la rabbia, il dolore e la frustrazione che il suo comportamento gli causava. La sua ferocia è stata sfogata in tutta la sua furia distruttiva sull’ultima delle sue vittime, la Kelly, che è stata letteralmente macellata. Guarda caso, Mary Kelly è la prostituta più giovane ad essere stata uccisa dallo Squartatore: Jack è sposato con una donna molto più giovane di lui, che lo tradisce regolarmente. Davvero, sono deduzioni così ovvie che avrebbe potuto farle pure un lattante.”

Sherlock da lattante, forse. John non era stato in grado di produrle in quel frangente, e aveva faticato a star dietro al Demone nonostante la sua spiegazione fosse stata cristallina come acqua di sorgente. La probabilità che il sé bambino avesse potuto anche soltanto iniziare a grattare la superficie del mistero che era il funzionamento della mente di Sherlock era inesistente. A quel pensiero, la sua mente aveva evocato molto utilmente l’immagine di se stesso da piccolo, con il naso colante e una palla di pezza stretta fra le mani, che ascoltava Sherlock non comprendendo una sola parola di quello che gli veniva detto. La risata nervosa che quell’immagine fece gorgogliare nel suo petto era sembrata dannatamente fuori luogo anche alle sue orecchie.

Un angolo della bocca di Sherlock, quando quel suono si era alzato al cielo, si era piegato appena verso l’alto. Aveva scosso la testa, bonariamente, infilando le sue affusolate mani nelle profonde tasche del cappotto per proteggerle da una folata di vento particolarmente viziosa, che aveva fatto correre un brivido lungo la spina dorsale di John. L’uomo aveva aperto la bocca per lamentarsi, ma d’improvviso la claustrofobica protettività di quel vicolo dalle mura alte era stata sostituita dal più aperto e caotico affollamento di un vialone immenso e trasandato, e le parole gli erano scivolate via dalle labbra. Il Dottore aveva dovuto chiudere gli occhi un istante, per proteggerli dalla variazione di luminosità.

“Buck’s Row. Il luogo dove è stata rivenuta Polly Nichols.” aveva annunciato il Demone, guardandolo dall’alto in basso,

“Sì. Nell’agosto di due anni fa. Cosa potremo mai trovare ancora qui?”

Sherlock aveva sbuffato, senza però risultare realmente scocciato alle orecchie di John. Era più come se fosse stato divertito dalla sua protesta. “Quello che voi esseri umani non comprendete, è che le vostre azioni lasciano dei segni sui luoghi che le ospitano. Non parlo di segni fisici -come mobili rotti, o buchi di proiettile sui muri- ma segni non di meno. E mentre le evidenze fisiche sono spazzate via dallo scorrere del tempo, le tracce di cui parlo io rimangono indelebili per tutta l’eternità. A patto, certo, che siano ricercati da qualcuno con gli occhi giusti.”

Il Demone aveva ammiccato -e John aveva sobbalzato- per poi sollevare aggraziatamente il braccio sinistro. Il mondo era stato improvvisamente drenato dei suoi colori.

Se avesse dovuto descrivere quello che era accaduto a Hamish, o a chiunque non avesse avuto la fortuna di assistervi in prima persona, John gli avrebbe detto che mentre la mano di Sherlock fendeva l’aria, il tempo aveva iniziato a decelerare. I movimenti delle persone che camminavano frettolosamente per strada avevano rallentato man mano, come se fosse piombato su ogni singolo passante un maleficio che lo aveva tramutato pian piano in una statua di ghiaccio. Anche i suoni avevano perso velocità per poi fermarsi del tutto, e un silenzio surreale aveva avvolto l’intera strada come un invisibile, soffocante velo. I colori erano spariti subito dopo… o meglio, non erano propriamente svaniti, quanto si erano disposti sullo scenario in maniera tanto aliena da generare un senso di vertigine. Sulla strada grigia, sugli edifici ridotti alle tonalità del bianco e del nero, sulle persone che sembravano appena uscite da una monocromatica foto di giornale, John aveva potuto notare il formarsi di disordinate e dolorosamente accese macchie dei colori più disparati, di diversa dimensione e forma. I suoi occhi erano saettati dagli schizzi di rosa intenso che stavano infiammando le mani giunte di una giovane coppia al giallo intenso e accecante che sembrava colorare per intero una bambina con le treccine, rimasta bloccata nell’atto di raccogliere un torsolo di mela da terra. Aveva abbassato lo sguardo, chiedendosi se i suoi occhi non avessero avuto qualcosa di estremamente sbagliato, non riuscendo a guardare le pozze di colore disseminate sull’interezza della strada -impronte sbaffate di uomini e cavalli, segni di ruote e oggetti caduti, come impressioni di pittura sulla tavolozza di un pittore maldestro- senza rabbrividire.

Forse era finalmente impazzito.

“Sherlock?” aveva chiamato, cercando il Demone con gli occhi e soffocando nelle sue stesse parole quando si era reso conto che lui, a differenza di tutto il resto, aveva mantenuto il suo aspetto comune.

Si era affrettato a guardarsi le mani, allora, sorprendendosi di nuovo per il fatto che la sua pelle avesse mantenuto il tono vagamente bronzeo che aveva quel mattino, e che così avessero fatto anche i suoi abiti. La confusione, a quel punto, era stata tanto forte che John non aveva potuto fare a meno di guaire.

Il Demone aveva probabilmente osservato l’intera gamma di emozioni che avevano attraversato il viso del Dottore trovandole particolarmente esilaranti, perché, quando John lo aveva guardato (dopo essere riuscito a sollevare gli occhi dall’incredibile visione delle sue stesse unghie), sulla sua faccia stava campeggiando un sorriso felino così ampio da fargli comparire delle fossette nelle guance incavate. “Meraviglioso, non è vero?”

‘Meraviglioso’ non era proprio la parola che John avrebbe selezionato fra tutte quelle che conosceva per descrivere ciò che aveva visto. ‘Interessante’, magari. ‘Terrificante’, probabilmente. No, di certo non ‘meraviglioso’.

In ogni caso, per buona educazione, John aveva annuito. “Che cosa sono queste… macchie?”

“Semplice, sono le proiezioni delle emozioni che questi esseri umani provano, o hanno provato, sulle loro stesse anime. L’anima di voi esseri umani è legata in maniera imbarazzante ai sentimenti…” e il disgusto era spillato dalla voce di Sherlock come vino da un calice agitato malamente, “…quindi, quando essi sono particolarmente forti, rilasciano una traccia colorata che può rimanere impressionata sugli oggetti che la circondano. Prendi quell’ombra viola sulla porta di quella casa laggiù: ci dice che in passato qualcuno si è recato in quel luogo ammantato in un forte sentimento di tristezza. Potrei giurare che non molto tempo fa qualcuno, proprio in quel luogo, abbia commesso suicidio.”

John aveva seguito la direzione puntata dal dito guantato del Demone, deglutendo alla vista della manata violacea stampata sul legno di un portone apparentemente non diverso da tanti altri. Una giovane donna dai capelli scarmigliati (blu intenso che si sprigionava dai suoi occhi) era congelata proprio lì vicino, e aveva fra le braccia un bambino che non poteva avere più di tre anni, vestito certamente in maniera troppo leggera per la stagione; il piccolo era circondato da un alone bianco e puro come un manto di neve. Il disarmante contrasto tra quella immagine e la visione della porta aveva portato il Dottore a digrignare i denti.

Si era domandato quale colore stesse mostrando in quel frangente il suo animo, e subito si era reso conto di non volerlo sapere. Se fosse stato diverso dal nero più cupo, addolorato e pieno di rimpianto, infatti, non se lo sarebbe mai perdonato.

“Perché riesco a vederle?” aveva domandato invece, attraverso denti serrati,

“Perché te lo sto permettendo io.” gli aveva risposto Sherlock, compiaciuto di quella sua concessione.

John aveva abbassato lo sguardo, incapace per qualche strano motivo di sopportare per un solo, ulteriore istante la vista di quelle iridi impassibili. “Quindi è questo che cercheremo? Le macchie lasciate dallo Squartatore quando ha ucciso quelle povere sventurate?”

“In un certo senso. Anche se le tracce lasciate dalla disperazione e dalla paura delle sue vittime saranno probabilmente molto più evidenti.”

Sherlock aveva fatto spallucce, incamminandosi nella direzione che, John aveva ipotizzato, li avrebbe condotti esattamente nel punto di quella strada in cui Mrs. Nichols era stata rinvenuta. Punto che, viste le pennellate di nero, viola, rosso e indaco che lo inondavano disordinatamente, John aveva potuto scorgere già a metri di distanza. Sherlock si era inginocchiato nel mezzo di quei colori crudeli come un bambino in un prato di fiori, perso apparentemente in un mondo che soltanto lui era in grado di vedere; John, dal canto suo, aveva dovuto lottare contro il fiotto acido che gli aveva invaso la bocca al pensiero di ciò da cui quelle tonalità così cupe fossero scaturite. Quando il Demone aveva iniziato a sussurrare, aveva dovuto chiudere gli occhi.

“La vittima non si è accorta di quelle che erano le intenzioni dell’assassino fino all’ultimo istante. Riteneva che fosse un cliente come tanti altri, e anche quando le ha stretto il collo ha pensato -ha sperato- che fosse soltanto un suo vezzo particolare. Poi la stretta si è fatta troppo forte, e Polly ha finalmente compreso che non sarebbe sopravvissuta a quella notte. C’è tutto: lo sconvolgimento della realizzazione, il desiderio di lottare per la sua stessa vita, la paura, la rassegnazione. Posso quasi sentire il grido che la sua anima ha emesso quando ha abbandonato il suo corpo…”

Era rabbrividito, Sherlock, a quel punto, e John si era quasi sentito male. Perché non era stata un’espressione di paura, o disgusto, quella che aveva letto sul viso del Demone, ma una di puro ed animalesco desiderio. Per l’anima della povera sventurata? L’uomo si era rifiutato di domandarselo. Comunque, forse per la prima volta da quando aveva visto quegli occhi di ghiaccio, la certezza di trovarsi effettivamente alla presenza di quello che nella Bibbia era descritto come un parto dell’Inferno più profondo si era fatta strada in lui. Era stato terribile, e doloroso più di quanto gli sarebbe piaciuto ammettere.

Inconsapevole di ciò che era appena avvenuto alle sue spalle, Sherlock era scattato in piedi. “Dalla massa di colore centrale si espandono delle propaggini più luminose e brune. Ecco, queste sono le tracce del nostro assalitore.”

Aveva esteso la mano sopra quegli sbaffi color legno bruciato, dai quali di erano sollevate delle piccole luci del medesimo colore, che avevano formato un globo nel palmo del Demone. Sherlock si era portato la mano al viso, lasciando che la strana luminescenza del globo gettasse riflessi vaghi sulla sua pelle di alabastro. “Zamram ol Amayo zomdv[1].”

Di nuovo quella lingua dal suono antico. Di nuovo, John non era riuscito a capire che cosa Sherlock avesse detto. Aveva potuto farsene un’idea, però, quando la sfera di luce era letteralmente esplosa, e schegge luminose si erano infrante contro la parete dell’edificio di fronte a cui lui e Sherlock stavano sostando. Ognuna di esse aveva formato un alone luminescente, che si era poi animato di vita propria: come se fosse stato mosso dal pennello sapiente di un artista, aveva cominciato a danzare su quei mattoni unti, lasciandosi alle spalle scie di colore disordinate.

In pochi istanti, sulla parete erano comparse le immagini di un cappello di feltro, di quelli con le falde usati dai cacciatori, schiacciato su una nuca coronata da ordinati capelli biondicci; una mano sollevata nell’atto di colpire con un affilato coltello a lama sottile, poi, e un taglio di occhi chiari e crudeli.

“Queste… sono…” aveva balbettato John, senza potersi impedire di allungare una mano verso quei dipinti che, vibranti, sembravano desiderare di balzare via dalla parete.

Sherlock aveva sospirato. “Le ultime immagini che gli occhi della vittima hanno registrato prima di morire. O, meglio, le impressioni che l’anima dello Squartatore ha lasciato sulla sua un istante prima che il suo cuore si fermasse per sempre.”

John aveva ritratto subito la mano, come se le sue carni fossero state lambite da fuoco vivo. Aveva fissato quelle immagini, incapace di abbassare gli occhi, sentendo la gola seccarsi al pensiero di ciò che doveva aver provato la povera Mrs. Nichols negli istanti prima della morte: che fossero state emozioni tanto diverse da quelle che aveva provato lui stesso, quando il proiettile Jezail era penetrato nella sua spalla, frantumando l’osso, scalfendo l’arteria succlavia e incendiando le sue terminazioni nervose?

Quei pensieri amari non lo avevano abbandonato fino a quando Sherlock non aveva poggiato una mano sulla sua spalla, schioccando le dita e facendo lentamente calare un sipario su quello spettacolo di morte e rimpianto.

Nei tre successivi luoghi che lui e Sherlock avevano visitato, le cose erano andate più o meno allo stesso modo. Sherlock aveva privato il mondo dei suoi pigmenti usuali per sostituirli con colori nuovi, aveva fatto comparire le piccole sfere di luce che avrebbero proiettato frammenti dell’identità dello Squartatore nello spazio circostante, poi aveva riportato tutto alla sua rumorosa, confusa normalità. Nessuno dei passanti si era accorto di nulla: solo, ogni volta che quelle macchie nere e arrabbiate erano comparse di fronte ai suoi occhi, John aveva sentito il suo petto stringersi un po’ di più.

L’unico scenario che aveva visto un cambiamento nella procedura di indagine del Demone era stato il numero 13 di Miller’s Court, vicino a Dorset Street. John sapeva, dalle lettere del Dottor Bond così come da ciò che aveva letto sui giornali, che quello era l’indirizzo della stanza in cui era stato ritrovato ciò che restava del corpo martoriato della povera Miss Mary Jane Kelly… non sapeva però che, da quando era avvenuto quel terribile omicidio, quel luogo non era stato più dato in affitto ad anima viva. Anche se, a ben pensare, non molti avrebbero desiderato abitare in una stanza sulla carta da parati della quale era ancora possibile vedere l’impressione del sangue che vi era stato riversato.

Quella volta, quando Sherlock aveva sollevato il braccio e rivelato agli occhi di John quelle che ormai nella sua mente avevano assunto il nome di ‘macchie di colore’ (per quanto Sherlock avesse insistito che affibbiare a quelli che erano a tutti gli effetti i veri colori dell’anima umana un nome del genere sarebbe stato equivalente a chiamare ‘schizzo’ il ‘Viandante sul mare di nebbia’ di Friedrich), il Dottore aveva dovuto costatare che, più che presentare una chiazza di colore scuro come i luoghi degli altri ritrovamenti, quella stanza era letteralmente annegata nel nero più totale. Un nero minaccioso più scuro della pece, che si estendeva su ogni centimetro di quel luogo, e colava dal soffitto in grassi, unti goccioloni che producevano un tonfo umido impattando con il pavimento di tavole marce. Aveva fatto venire in mente a John una malattia, una di quelle che mangiavano le persone dall’interno fino a che non era rimasto di loro che un involucro accartocciato e spento.

“Mio Dio…” aveva sussurrato, senza potersi frenare. Quale inaccettabile, crudele e insensata barbarie doveva essersi consumata in quel luogo per aver lasciato una traccia del genere nella rete dell’esistenza?

“Non temere. Il dolore e la paura sono durati solo un istante. Era morta ancora prima di rendersi conto di quello che stava accadendo.”

La mano di Sherlock era risultata calda, sul suo avambraccio; aveva scacciato il raggelante senso di morte che gli aveva fatto dolere le ossa. Le parole del Demone, che a un orecchio diverso dal suo sarebbero potute risultare tutto meno che rassicuranti, avevano allentato il nodo in gola che stava minacciando di togliergli il fiato.

John aveva cercato gli occhi del Demone, tentando di sintetizzare in un unico sguardo lo schiacciante senso di gratitudine che provava. Il Demone, dal canto suo, aveva atteso che il corpo di John avesse smesso di tremare, prima di allontanarsi da lui. Si era poi avvicinato al lurido materasso su cui la povera Miss Kelly era stata seviziata, ed aveva portato a termine il suo luminoso rituale, stagliando nel nero untuoso immagini di mani guantate, abiti eleganti e lame affilate.

Infine, quando quei fotogrammi erano spariti, aveva sorpreso il Dottore di nuovo… con un tuffo di schiena su quel traballante e arrugginito letto sul quale poco prima aveva proiettato l’immagine di un assassino. Letto che -il Dottore non aveva potuto fare a meno di notare- era ancora macchiato del sangue della Kelly e che, in quel momento, pareva essere ricoperto di putredine nera. Non il luogo ideale per distendersi, proprio no. A John si erano drizzati i capelli sulla nuca.

“Non posso dire che visitare le scene del crimine sia stato particolarmente utile…” aveva affermato Sherlock, le mani giunte di fronte alle labbra e le palpebre mollemente chiuse, ignaro del fatto che John stesse avendo un piccolo attacco di cuore per il disgusto, “…ma, mi ha fatto capire delle cose estremamente interessanti.”

John -disperando all’idea di doversi muovere in quel luogo tanto macabro- si era avvicinato a sua volta al materasso, senza la minima intenzione di toccare la superficie ma pronto ad udire la rivelazione del Demone.

Sherlock si era schiarito la voce, solennemente. “Il nostro assassino… è un perfetto idiota.”

E… no. Quella non era stata decisamente l’illuminante rivelazione che John si era aspettato.

“P-perché?” aveva balbettato il Dottore, sperando che i suoi occhi non saltassero fuori dalle orbite per lo stupore,

“Oh, è così ovvio. Lasciando da parte il fatto che abbia seminato indizi ovunque, o che si sia esibito in  un poverissimo lavoro di chirurgia, non ha preso neppure le precauzioni necessarie affinché i vistosi abiti che indossava -portava un mantello, ti rendi conto?- non si inzuppassero completamente di sangue. Non dico quando ha tagliato la gola alle sue vittime, ma quando ha infierito sui loro corpi, capisci? Ti immagini cosa avrebbero pensato i passanti, se dopo ogni omicidio avesse preso immediatamente il treno e se ne fosse tornato a Liverpool? Bah!”

John si era concesso un momento di riflessione, giusto per far digerire al suo cervello tutte quelle nuove informazioni. Se non avesse sperato meglio, a quel punto avrebbe ceduto all’idea di essere, se comparato a Sherlock, un bambino non particolarmente sveglio con un’idea alquanto sommaria e sfocata di quello che stava accadendo intorno a lui.

“Un treno?” aveva domandato alla fine, cedendo alla curiosità che sembrava volerlo divorare dall’interno,

“Già.” aveva brevemente risposto il Demone.

“Un treno… per Liverpool.”

“Esatto.”

“Posso domandare perché?”

Sherlock aveva sospirato, il travaglio nella voce del Dottore tanto evidente da provocargli quasi fastidio. “Non è forse quello che hai fatto per tutto il giorno, chiedermi il perché di ciò che dicevo? Quello, e dirmi quanto le mie deduzioni fossero straordinarie.”

E se quelle parole avevano bruciato sulla pelle di John come braci vive, beh, lui di certo non ne avrebbe mai fatto menzione.

Si era umettato le labbra, stringendo i pugni. “Non mi sei sembrato dispiaciuto di sentirmelo dire.”

“Oh, no. Anzi, puoi continuare quanto vuoi.” aveva ammesso il Demone, dimettendo quella discussione con un gesto della mano e  balzando in piedi con un rapido, rapace movimento, per poi bloccare i suoi occhi di ghiaccio in quelli di John, “Dimmi: qual è la prima regola che, se seguita, fa di un criminale un buon criminale?”

Il Dottore era rimasto spiazzato per un istante, ma deciso a non farsi prendere di nuovo in contropiede aveva esclamato: “Non colpire mai due volte nello stesso posto.”

Sherlock aveva roteato gli occhi, esasperato. “Sbagliato. La prima regola è: mai colpire sulla soglia della propria casa.”

Dalle labbra di John era sfuggito un suono indefinibile, a metà tra uno sbuffo e un grugnito. Per quanto, infatti, Sherlock gli avesse fatto dono per tutto il giorno di rare perle di genialità, ciò che aveva appena detto era risultato talmente ovvio da parere quasi grottesco. Insomma, quale criminale sarebbe stato tanto stupido da compiere un crimine nella sua stessa casa? Non sarebbe stato forse più probabile ricadere nella lista dei sospettati, a quel modo?

Oh.

John aveva dovuto mordersi la lingua per non darsi dello stupido da solo, quando la comprensione aveva alla fine fatto breccia dentro di lui. L’espressione compiaciuta che era nata sul volto di Sherlock quando aveva scovato nei suoi occhi le tracce di quella sua improvvisa illuminazione, poi, non aveva aiutato di certo la sua già lesa autostima.

“Il nostro Squartatore non vive a Londra, John. Conosce Whitechapel come le sue tasche, probabilmente perché ha vissuto non lontano dal quartiere per qualche tempo, e giustifica le sue sortite a Londra in virtù del suo lavoro di mercante. Ma non abita qui.”

John aveva scosso la testa, sconfitto ma deciso a lottare ancora per un po’.“Perché proprio Liverpool? Non potrebbe essere Manchester, o qualche altra città?”

Sherlock gli aveva poggiato una mano sulla spalla, schioccando la lingua soddisfatto. “No, sono certo che sia Liverpool. Il perché è davvero semplice. Come ti ho detto, viste le condizioni in cui doveva ritrovarsi dopo aver commesso i suoi omicidi, è altamente improbabile che il nostro assassino se ne sia tornato a casa nell’immediato. Ha avuto bisogno di un posto dove ripulirsi, dove passare la notte e organizzarsi per il colpo successivo. Ora, la decisione più logica per una persona nella sua condizione sarebbe stata quella di rivolgersi a un dormitorio. Quei posti sono così colmi di disperati che nessuno avrebbe notato le macchie di sangue sui suoi vestiti, e anche se qualcuno avesse storto il naso, elargendo qualche moneta si sarebbe assicurato un totale silenzio. Secondo te, il nostro uomo è una persona logica?”

Quella domanda inaspettata aveva fatto sobbalzare John, che aveva guardato Sherlock con la bocca spalancata. “Lo chiedi a me?” aveva risposto, puntandosi l’indice al petto, come se avesse voluto rendere più chiaro al Demone il fatto che stesse chiedendo un’opinione proprio all’uomo privo di qualsiasi capacità deduttiva che aveva di fronte,

“Esatto. Jack lo Squartatore è una persona logica, secondo te?”

John aveva riflettuto a lungo, ponderando la possibilità che quella domanda celasse un qualche tipo di trabocchetto. Come si poteva essere certi, avendo a che fare con un Demone?

“N-no?” aveva azzardato, infine, strizzando gli occhi nella sicurezza di aver scelto l’opzione sbagliata. In fondo, non era lui quello che lanciando una moneta non era mai riuscito a indovinare se sarebbe uscita testa oppure croce?

“Esattamente! Non lo sa neppure cosa sia, quell’uomo, la logica!” aveva invece esclamato Sherlock, battendo le mani come un bambino entusiasta, “Il suo senso di superiorità non gli avrebbe mai permesso di rivolgersi a tali, infimi lidi! Ha affittato una stanza, una stanza privata. Tenendo conto della sua abitudinarietà, oserei affermare che ha scelto sempre la stessa per tutti e cinque gli omicidi.”

John aveva fissato. A lungo, e con intensità. Poi, aveva annuito. “Capisco… ma cosa c’entra questo con Liverpool?”

Il Demone aveva piroettato su se stesso, sollevando i mesi di polvere che si erano posati sul pavimento di quella minuscola stanza in una nuvola lanuginosa.

“C’entra tutto! Sostengo che lo Squartatore non sia una persona logica, non che sia uno stupido! Voleva una stanza privata, questo è certo, ma non una stanza qualunque: gli serviva una stanza situata in una strada abbastanza vicina ai luoghi dove avrebbe colpito, quindi una strada di questo quartiere; inoltre, la strada prescelta doveva avere proprietà che avvantaggiassero il nostro assassino nel compimento del suo progetto. Inizialmente, avevo isolato tre strade che, in Whitechapel, sarebbero state adatte alle sue esigenze. Adesso, sono sicuro di poter restringere il campo a una sola: Middlesex Street.”

Al Dottore aveva cominciato a fumare la testa. Troppe informazioni, troppi eventi da concatenare. Soprattutto, ancora nessun dettaglio che avesse fatto scattare nella sua mente alcuna scintilla riguardo alla necessaria ubicazione della dimora dello Squartatore nella città di Liverpool. John aveva lanciato a Sherlock uno sguardo supplice, guadagnandosi in risposta uno sbuffo scocciato.

“Middlesex Street rappresenta il confine naturale tra le giurisdizioni della Polizia Metropolitana e della Polizia della City, John. Questo ha permesso a Jack di effettuare i suoi omicidi ora da una parte, ora dall’altra della linea di demarcazione rallentando le indagini a causa delle burocrazia. Quella strada è finita anche sui giornali per essere stata teatro di agitazioni antisemite -capisci da solo che il nostro amichetto voleva scaricare la colpa sugli ebrei, o devo ricordarti il graffito che ha lasciato in Goulston Street[2]? Non ho finito: Middlesex Street non è molto distante da Cullum Street, centro importantissimo per il commercio di cotone e stoffe e, udite udite -beh… odi, odi visto che ci sei solo tu- luogo dove anni fa venne costruita una stazione da cui partono a tutte le ore treni diretti in una città in particolare. Che è…?”

Lo stava forse trattando come un bambino? Perché John aveva avuto la netta sensazione che Sherlock lo stesse trattando come un bambino. In reazione a quell’atteggiamento da parte del Demone, aveva incrociato le braccia al petto, alzandosi gli occhi al cielo in una muta richiesta di pazienza a qualunque entità fosse stata in ascolto in quel momento. Non era del tutto certo del motivo, ma aveva a certezza che in quell’anno che avrebbe trascorso al fianco di Sherlock ne avrebbe avuto un immenso bisogno.

“Liverpool?” aveva brontolato alla fine, nervoso, senza guardare il Demone negli occhi.

Di fronte al suo evidente fastidio, Sherlock lo aveva incenerito con lo sguardo. “Sì. Liverpool. La prossima volta però evita di borbottare. Potrei sempre cambiare il contratto e strapparti la lingua, sai?”

La minaccia sarebbe stata evidente in quelle parole anche se, nel pronunciarle, Sherlock non avesse scoperto i denti in un ghigno. John aveva sentito la sua pelle accapponarsi, e con gli occhi tristi della giovane Molly Hooper nella mente aveva serrato le labbra simpateticamente, come se quel gesto avesse potuto proteggere il delicato pezzo di carne che racchiudevano dalla follia del Demone che aveva di fronte.

Sherlock aveva ringhiato. “Fantastico. Adesso che abbiamo messo le cose in chiaro, direi che una sortita a Middlesex Street sarebbe d’obbligo. Mi auguro che tu non abbia fame, perché non ho la minima intenzione di perdere tempo per qualcosa di inutile come il cibo, non quando ho un Caso come questo sotto mano.”

Aveva lanciato un ultimo, glaciale sguardo a John, per poi tranciare l’aria della stanza con la sua mano affilata. I colori e i suoni di quella camera e della strada circostante avevano ripreso il loro posto prepotentemente, troppo in fretta perché i sensi di John potessero riadattarvisi senza che l’uomo sperimentasse un istante di spiazzante disorientamento. Non era stato così, le quattro volte precedenti: Sherlock aveva restituito alla realtà la sua consistenza naturale con delicata lentezza, gradualmente, come un grammofono il cui volume fosse stato aumentato pian piano per non ferire le orecchie di chi lo stesse ascoltando. Probabilmente, John aveva pensato, il Demone doveva aver esaurito la sua scorta di pazienza.

Come a voler confermare questa sua supposizione, Sherlock era uscito da quella misera stanzetta a passo di carica, chiudendosi la porta alle spalle con un tonfo assordante. Sospirando soffertamente, John aveva forzato i suoi piedi a muoversi per seguirlo.

***

C’era un unico locale, in tutta l’interezza di Middlesex Street, che offrisse un servizio di affitto di stanze a lungo o breve termine. John l’aveva definita una botta di fortuna -Sherlock, indignato, aveva sostenuto che la fortuna non avesse alcun ruolo in quello che loro due stavano facendo.

Il pub in questione, che come molti pub di Londra era situato nell’angolo dell’edificio che lo ospitava, possedeva a segnalare la sua presenza un’eccessivamente grande insegna in ferro battuto, arrugginita agli angoli e plasmata per assumere la forma di un grosso, minaccioso roditore. Il nome del posto, come quell’insegna comunicava, era ‘The Stinky Rat’… ma avrebbe potuto perfettamente chiamarsi “Mosquito”, visto il quantitativo di zanzare e altri insetti che affollavano l’aria muffosa di quel buco. Sherlock e John vi si erano introdotti con passo sicuro, certi di mescolarsi in quella babilonia di volti e corpi scoloriti che rappresentavano i clienti di quel locale senza alcuna difficoltà. Per quanto però questa certezza si fosse rivelata esatta nel caso di John -che grazie alle appariscenti macchie di fango e sporcizia, che ornavano i calzoni di fine sartoria che indossava non era apparso poi troppo diverso dai chiassosi rifiuti di strada che si erano stipati sugli sgangherati sgabelli che circondavano il bancone- per Sherlock, beh… era stata tutta un’altra storia.

Non c’era stata una singola testa, infatti, che non si fosse voltata verso di lui quando il moro aveva fatto il suo trionfale ingresso nella minuscola locanda. John aveva potuto chiaramente vedere la procace locandiera adocchiare avidamente il Demone da dietro al bancone che puliva distrattamente con un panno già sporco (uno sforzo inutile, viste le condizioni in cui lo stato della superficie versava); anche una delle sguattere non era riuscita a non perdere il suo sguardo su di lui, e per poco non aveva rovesciato il contenuto dello stracarico vassoio che portava su una coppia di clienti dall’aria losca. E non era tutto… il Dottore avrebbe potuto giurare addirittura di aver sorpreso diversi uomini nascondere dietro ai loro boccali e ai loro ispidi mustacchi dei sorrisi ambigui e insinuanti -una sensazione amara che ancora stentava ad abbandonarlo, quella che aveva provato nell’accorgersene.

Ignaro (o più probabilmente totalmente incurante) del focolaio di attenzione che aveva attirato su di sé, il Demone aveva compiuto un primo passo verso il bancone: come se avessero percepito tutta la sua potenza, i clienti di quella bettola gli avevano sgomberato il passo, creando un corridoio di volti basiti e bocche spalancate di cui anche John aveva potuto beneficiare per stare dietro alle lunghe falcate del suo compare. Raggiunto il suo obiettivo, Sherlock vi si era abbandonato contro lascivamente, attirando con uno sguardo l’attenzione della rubiconda locandiera; nascondendo il sudicio straccetto che aveva tra le mani nell’ampia tasca dell’altrettanto sporco grembiule che le stringeva la vita, la donna si era passata una mano tra i capelli, per poi rivolgersi al Demone con tono allegro.

“Cosa desiderate, signore?” aveva domandato, sporgendosi sopra il bancone con lo spudorato intento di sbattere sotto gli occhi di Sherlock la sua mercanzia - gesto che aveva fatto risalire un ringhio involontario dalla gola di John, che si era trovato costretto a simulare un colpo di tosse nel tentativo di nasconderlo.

Il Demone gli aveva lanciato uno sguardo malizioso, prima di voltarsi di nuovo verso il donnone e dire, con voce di burro: “Un brandy per me, e un boccale di birra ghiacciata per il mio amico.”

Con quali soldi sarebbero state pagate le loro ordinazioni, John non se l’era neppure domandato: la sete era stata troppa, per curarsi di quel genere di trivialità. Si era leccato le labbra, invece, mentre la locandiera riempiva fino all’orlo un boccale sbeccato di liquido dorato, cercando di non far caso alle occhiate sdegnose che la donna gli aveva lanciato durante tutto il processo e fallendo miseramente nell’intento. In ogni caso, l’irritazione che l’irriverenza della padrona di quell’osteria buia e maleodorante avrebbe potuto suscitare in lui era stata spazzata via ben presto dal refrigerio che la prima sorsata di birra gli aveva donato scendendo lungo la sua gola riarsa.

Non era forse la birra migliore che il Dottore avesse mai bevuto, ma in quel momento non aveva potuto pensare a bevanda che avrebbe avuto tra le mani più volentieri.

Mentre lui si godeva con evidente soddisfazione quello che Sherlock aveva ordinato per lui, il Demone -facendo roteare il suo brandy dentro il bicchiere con piccoli scatti del polso- aveva conversato fittamente con l’ostessa, tenendo al contempo d’occhio il locale intorno a lui.

“Bel posto, questo. Non deve essere facile gestirlo da sola.” aveva iniziato, mentendo così spudoratamente che per poco John non si era soffocato con un sorso di birra,

“No, non lo è per niente, signore. Sebbene io lo faccia più per il piacere di incontrare gentiluomini come voi, che per ricavarne denaro.” aveva sparato la donna in risposta, e in quel caso John non aveva potuto proprio farci niente: aveva riso, spillando il liquido che aveva in bocca sul bancone e mancando di poco la giacca di Sherlock.

Allo sguardo caustico del Demone, John aveva subito alzato una mano in segno di scuse, cercando di soffocare le risa e ricomporsi un minimo. Dopo avergli lanciato un’ultima occhiata di ammonimento -non priva però di una scintilla di complicità- Sherlock era tornato a rivolgersi al donnone dallo sguardo languido.

“Dicevamo…ah, sì! È stato un mio carissimo amico a parlarmi di questo posto, sapete? Ha alloggiato qui un paio di anni fa, alcune notti a qualche mese di distanza l’una dall’altra…”

“Ah, sì? Che cosa stupenda!” aveva gridato la donna, sbattendo con forza le mani sul bancone -e rischiando di far prendere a John un attacco di cuore.

Sherlock aveva sospirato, il fastidio per quell’interruzione evidente nel tono livido che aveva assunto la sua pelle. “Già… mi chiedevo, non è che per caso vi ricordate di lui? È un uomo piuttosto alto, sempre ben vestito, con occhi chiari, baffi e capelli biondicci… oh, ed è un commerciante in cotone. Ora, so che non deve essere facile ricordare le facce di tutti i clienti che abbiano pernottato qui, dato che devono essere molti…”

Stava forse scherzando? John, nascondendosi dietro il boccale di birra, aveva spostato lo sguardo dalla pila di piatti sporchi ammucchiati alle spalle della corpulenta locandiera -da cui si sollevava un nugolo di mosche dall’aria arrabbiata- all’uomo ubriaco svenuto nel suo stesso vomito del tavolo all’angolo, per poi farlo approdare sulle macchie di fango che ricoprivano il pavimento. Aveva lanciato a Sherlock un’occhiata carica di scetticismo, condendo il tutto con uno sbuffo divertito. Il Demone, senza guardarlo, gli aveva rifilato una gomitata nelle costole.

“Oh, a me la vostra descrizione non dice niente… sapete, la mia memoria non è più quella di una volta…” era stata la risposta della locandiera, che pareva non aver fatto caso alla reazione del Dottore, “… ma se c’è qualcuno che può ricordare, quella è mia… figlia. Sì, mia figlia. Non si scorda mai una faccia, quella ragazzina.”

E se quello fosse stato un complimento, oppure una critica, nessuno lo avrebbe potuto stabilire con certezza. La donna si era voltata verso una stretta porticina, nascosta da un pesante e stracciato tendaggio che, un tempo, doveva essere stato blu.

“Peg? Peggy! Vieni qui, un cliente ha bisogno di te!” aveva urlato, per poi borbottare fra sé e sé una serie di insulti biascicati e incomprensibili.

A quel richiamo, una testolina nera e arruffata aveva fatto capolino da dietro lo stipite della porta, quasi troppo spaventata dal vocione che l’aveva richiamata per uscirne completamente. ‘Peg’ si era rivelata essere una bimbetta magra in maniera quasi spaventosa, con profonde mezzelune violacee a segnarle gli occhi nerissimi e uno sguardo ben più maturo dei dodici anni che, a occhio e croce, doveva aver trascorso sulla terra. Vedendola, a John si era stretto dolorosamente il cuore.

“Eccoti qui! Forza, svelta! Non ti azzardare a far aspettare questo gentile signore, altrimenti...” aveva sbraitato la donna, afferrando la piccola per un braccio e stringendo fino ad avere le nocche bianche. In un istante John era stato sicuro che quella non potesse essere realmente la madre della bambina: non c’era alcuna possibilità, infatti, che una madre afferrasse la figlia con tale, immotivata violenza, né che vedendo avvicinare la donna che l’aveva messa al mondo una bambina si ritraesse come di fronte a un pericolo mortale.

Mascella serrata fino a far male, i pensieri di John erano corsi ad Hamish -sempre ad Hamish, solo ad Hamish- e la sua mano si era chiusa in un pugno. Svelte e silenziose, le dita di Sherlock avevano raggiunto le sue, in un gesto che aveva voluto essere al contempo mitigante e confortante. Un ‘ti capisco, ma non puoi permetterti di fare una scenata’ che aveva fatto rallentare i battiti del cuore di John e aveva scacciato -anche se solo in parte- l’amarezza dal suo umore. John non aveva allontanato la mano di Sherlock, anzi, era stato ancor più grato di quel contatto quando la terribile locandiera aveva cominciato a rivolgersi alla bambina con acido nella voce.

“Il signore chiede di un uomo coi baffi e i capelli chiari che ha alloggiato qui un paio di anni fa. Un gentiluomo, ben vestito. Ricordi niente?”

Il viso di Peg si era contorto per la concentrazione, mostrando i tratti affilati dalla fame di un viso che ancora avrebbe dovuto essere rotondo e infantile. Aveva spinto fuori le labbra, forse per il dolore che la ferra presa di colei che si era presentata come sua madre stava infliggendo al suo braccio; poi, come se avesse avuto un’illuminazione, aveva esclamato: “Lo ricordo! Ha pernottato nella stanza cinque per alcune notti.” per aggiungere, con voce flebile come una brezza estiva “È stato gentile, con me. Mi ha lasciato provare il suo cappello…”

“Bene. Vai, ora.” l’aveva quasi subito interrotta sua ‘madre’ con un sibilo, reindirizzandola verso la porticina da cui era uscita con uno spintone.

John l’aveva osservata sparire, silenziosa come un gatto, come se avesse avuto paura di disturbare -il forte furore che aveva provato come un coltello piantato nelle sue tempie. Si era morso le labbra, supplicando mentalmente che Sherlock terminasse la sua conversazione con quella donna prima che l’ira che stava crescendo in lui avesse raggiunto un impeto troppo irruento perché riuscisse a controllarla. Solo vagamente aveva udito Sherlock domandare se la stanza di cui Peg aveva parlato fosse stata libera in quel momento. Al sì della locandiera, il Demone aveva tratto dal nulla un sacchetto di velluto pieno di tintinnanti sterline, lucide e scintillanti come se fossero state appena portate via dal conio.

“Allora se non vi spiace vorremmo darle un’occhiata. Dovremmo trascorrere una notte a Londra, e quale posto migliore per farlo se non una delle vostre bellissime stanze?”

La donna aveva ridacchiato, lusingata, e in un istante il sacchettino di Sherlock era sparito nei meandri del suo grembiule. “Prego, seguitemi! Prendo la chiave, e vi porto su immediatamente!” aveva esclamato, voltando le spalle al bancone e incamminandosi verso la traballante scalinata di legno che si intravedeva appena nell’angolo più remoto del locale.

Sherlock aveva abbandonato il suo -ancora pieno- bicchiere di brandy sull’ammaccata superficie, strappando il boccale dalle mani di John e poggiandovelo vicino. Vibrante di energia si era incamminato per inseguire la locandiera, ma svelto John lo aveva afferrato per il braccio:

“La bambina, Peg!” aveva esclamato sotto voce, avvicinandosi all’orecchio del Demone perché lui soltanto potesse sentire, “Non è figlia di questa donna.”

Sherlock si era irrigidito, esalando un flebile sospiro. “Lo so.”

“Avete… hai visto come la tratta? Non possiamo far niente per aiutarla?”

In un primo istante, alla richiesta del Dottore aveva risposto solamente il chiassoso brusio del locale, tanto che John si era domandato se Sherlock lo avesse sentito. Ogni dubbio era stato fugato quando, con volto privo di qualsiasi emozione, il Demone lo aveva guardato negli occhi.

“Cosa vorresti fare? Portarla via? Affidarla ad un istituto? Non sono certo che questa sia la scelta migliore per lei. Questa donna l’ha raccolta dalla strada quando era poco più che una neonata, e l’ha cresciuta da allora. È brusca con lei, ma le offre una casa in cui vivere e cibo di cui sostentarsi: credi che ci sarebbe grata se la allontanassimo da qui? Credi che sarebbe più felice in un orfanotrofio?” gli aveva domandato, serio, aspettando che John scuotesse la testa prima di distogliere lo sguardo da lui.

Deglutendo a fatica, John aveva allentato la presa sul Demone, che veloce come un alito di vento era scivolato verso la scala che li avrebbe condotti alla fatidica stanza che aveva ospitato l’uomo cui stavano dando la caccia. Certo, quello che Sherlock aveva detto era vero, e John sapeva perfettamente quale fosse generalmente il destino di un bambino orfano in quella loro epoca -soprattutto se il bambino in questione fosse stato tanto sventurato da essere nato femmina. Gli orfanotrofi erano luoghi inospitali e freddi, gestiti da persone senza scrupoli, che avrebbero fatto qualsiasi cosa pur di lucrare sui poveri sventurati che erano affidati alle loro cure. Quante volte, durante la sua carriera di medico, gli era capitato di riportare alla salute orfani ammalatisi per aver dovuto lavorare fino allo sfinimento? Quanti piccoli corpi, viola per i lividi e neri per la sporcizia, aveva dovuto rimettere insieme dopo che l’ira della persona che avrebbe dovuto tutelarli si era abbattuta su di loro?

Eppure, nonostante quella lapidaria consapevolezza, mentre saliva pian piano le scale di legno facendo eco con i suoi passi a quelli più rapidi di Sherlock, non era riuscito a liberarsi dal forte senso di pesantezza che sembrava deciso a opprimergli il cuore.

 

 

 

 

 

 

Note dell’autrice:

Siamo in dirittura d’arrivo. Lo prometto, dopo il prossimo capitolo potremo gettarci la storia di Jack Lo Squartatore alle spalle, e non farne parola mai più. Dovevo terminarla con questo, ma ho dovuto spezzarlo a metà: avrei rischiato di pubblicare un capitolo lungo trenta pagine, ma concluso in fretta e furia. Questa mi è sembrata un’alternativa migliore xD

Grazie per la pazienza che avete ;) e soprattutto per tutto il vostro sostegno :D mi spingete a mettercela tutta, sempre, e non potrò mai ringraziarvi abbastanza per questo ;)

Se tutto andrà come deve andare, a domenica per il prossimo aggiornamento ;)

Un bisou :*

 



[1] Zamram ol Amayo zomdv: mostrami il tuo signore, mostrami chi ti genera;

[2] “Gli ebrei saranno coloro che non verranno incolpati per niente”. Ci sono trascrizioni diverse del graffito in lingua originale, tutte riconducibili a una traduzione come questa;

   
 
Leggi le 7 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: Black_Lily_13