Ludovico
Einaudi • Nuvole Bianche
(consigliato
l’ascolto durante la lettura)
A
yingsu,
anche
se sono andata
fuori
prompt. ♥
P AR T E – UNO
notte
La luna si
colorò di rosso e si sgretolò in una pioggia di petali davanti ai suoi occhi. Le
nuvole si sciolsero, diventando d’inchiostro e i suoi piedi si ritrovarono a
correre su qualcosa di caldo e appiccicaticcio. Sasuke
si sentiva piccolo in mezzo all’immensità delle case e delle vie da cui cercava
di scappare. Tutto profumava di fiori e ferro.
Non è sangue. Non sto correndo sul sangue. Continuò a
scappare chiudendo gli occhi, mentre una pioggia di fuoco gli rigava le guance
con acqua e sale. Stringeva i denti talmente forte che sembravano sul punto di
rompersi.
Aveva una paura
folle.
Era una
sensazione che non si era mai dimenticato.
Avrebbe voluto
morire.
Le lenzuola
disegnarono le pieghe dei suoi muscoli tesi, tremanti. Sakura riuscì a scorgere
tagli di luce sulle sue dita lunghe che coprivano il volto e affondavano nei
capelli. La schiena curva disegnava appena, con l’aiuto della luna, le vertebre
che gli davano un’aria fragile e infantile. Era un bambino in un corpo troppo
grande.
«Sas’ke-kun…» lo
chiamò piano, sussurrando. Il sonno le scivolò via velocemente, lasciando il
posto al freddo e ad una premura quasi materna, lontana da quella che mostrava
a lavoro. Accese la luce sul comodino che iniziò a scaldarsi lentamente. Sakura
si allungò cautamente sul ragazzo, sfiorandogli la gamba in preda a spasmi per
cercare di farla calmare.
«Va tutto bene»
gli disse, sentendolo irrigidirsi ancora di più e poi rilassarsi. Sudava freddo
e tratteneva gemiti di un dolore fantasma. La mano scivolò dal viso al collo,
alla spalla, fino a dove la carne era stata lacerata e bruciata, chiudendosi in
un laccio di tessuto e sangue appena sopra il gomito.
«Ti fa male?».
«No».
Avrebbe voluto
urlarlo quel “no”, e lei lo sapeva. Avrebbe voluto urlare tante cose, Sasuke – e lo aveva anche fatto, qualche volta, in una
stanza della casa che non le era permesso visitare. Il suo cimitero personale
fatto di foto e candele e polvere.
La luna si
rifletteva nei suoi occhi scuri e faceva nascere una stella sul fondo di
questi. Era una stella morente, lontana e fredda – come la pelle di Sasuke, come il suo cuore che in quel momento sembrava così
impenetrabile. Lui rimaneva ancora nella stessa posizione: schiena curva, gambe
piegate, piedi puntati sul materasso e volto duro, cristallizzato in una
smorfia di dolore contenuto, misto a tristezza e paura che Sakura riconosceva nei
particolari del suo corpo. Sulla sua pelle scintillavano gocce di sudore che
scendevano come lacrime e bagnavano lentamente la coperta bianca. Sasuke sudava sempre molto quando faceva gli incubi – tutto
il suo corpo piangeva, perché i suoi occhi non volevano farlo. Perché erano
quelli di suo fratello e l’ultima cosa che Itachi
avrebbe voluto era vederlo piangere.
«Sei sicuro?»
domandò ancora, appoggiando la mano sulla sua e assottigliando lo sguardo per
scorgere qualcosa nella sua espressione.
«Il braccio non
c’entra. Sakura» sentenziò.
Sasuke sospirò e si
lasciò cadere a peso morto sul letto, fissando il soffitto in legno. Chiuse gli
occhi, prestando attenzione al proprio cuore e al calore del corpo di Sakura
vicino a lui, che però non lo toccava. Gli stava dando i suoi spazi: li aveva
imparati ed era diventata brava a rispettarli.
Si accorse dopo
qualche secondo che stava nevicando – era quel freddo pungente che entrava
nelle ossa al posto del dolore. Gli piaceva quella sensazione di impotenza
dovuta alle temperature basse – perché poi riusciva a sconfiggerle con una
naturalezza che gli sembrava quasi sovrumana. Piegò le gambe, immaginando le
proprie ossa scricchiolare e gracchiare come faceva la plastica e,
appoggiandosi sulla spalla, si girò dalla parte della finestra, dando le spalle
alla ragazza.
«Sas’ke-kun» si sentì chiamare.
Sembrava una preghiera – ma più vera, meno lagnosa di quando erano bambini. Di
quasi dieci anni fa. Gli faceva paura
pensare a quanto tempo era passato, e si massaggiò la testa nella speranza di
sfuggire a quella prigione che era il tempo.
«Sto bene» le
disse, cercando le lenzuola con il braccio, ritrovandosi poi le coperte sulle
spalle e le labbra di Sakura premute contro il collo, le sue mani – calde e soffici – sulla scapola, che gli
lasciavano piccole carezze in quei punti della sua schiena che non riusciva più
a raggiungere. Sentiva il suo respiro caldo, i suoi capelli divisi in
sottilissime ciocche sparsi sulla sua pelle. Quando Sakura chiuse gli occhi,
riuscì a percepire anche le sue ciglia contro di sé e giurò di poterle sentire
sulla punta delle dita.
Era la tacita
richiesta di raccontarle quello che aveva sognato. Ricordava quella sera in cui
aveva alzato la voce, gridandogli che doveva parlare, che non poteva andare
avanti così, che a tenersi tutto dentro una persona si rompe. E che lui sapeva
che era vero.
Già. Sasuke sapeva.
Era stato bravo,
da quel giorno, a svegliarsi in silenzio senza far alzare anche lei. Ad uscire
di casa e rimanere sotto il mandorlo del giardino, a lanciare ciuffi di erba
nell’acqua e fingere di essere interessato alle onde prodotte in superficie.
Era stato bravo anche a svegliarsi e rimanere pietrificato a letto, chiudendo
subito gli occhi per fingere di dormire quando la sveglia di Sakura fosse
suonata.
Perché lui non
era una persona mattiniera. E non voleva farla preoccupare o farle del male –
ma evidentemente riusciva a ferirla nonostante i suoi sforzi.
Lui non meritava
una persona come Sakura. Non meritava qualcosa di così prezioso come lei,
perché non sapeva come trattarla, non sapeva come fare a prenderla senza
rischiare di rovinarla, macchiarla, farla cadere e rompere a pezzi.
Sakura era come
il suo nome. Un fiore di ciliegio. Da ammirare a debita distanza durante l’hanabi. Perché
era bellissima così, nel suo habitat fatto di sentimenti positivi ed una
sicurezza che lui non riusciva a darle.
Un amore che
aveva dentro ma che non si meritava, che fingeva di non avere e lo coltivava
come se fosse odio verso sé stesso.
«Era la notte del
massacro» iniziò, e la sua voce uscì in un modo così limpido che gli sembrò
venisse da un’altra persona, di averla solo pensata. Chiuse gli occhi,
respirando a fondo, mentre la mano di Sakura ci infilava sotto il moncherino e
gli stringeva il petto, appoggiando la fronte sulla sua spalla. Non voleva
interromperlo, non voleva ancora condividere con lui qualcosa – qualsiasi cosa fosse. Gli stava ancora lasciando i suoi
spazi.
«Solo questo.
Stavo correndo sul sangue e mi veniva da vomitare. Le nuvole erano nere e si
scioglievano come l’inchiostro e la luna era rossa» si sentiva un cretino.
Nella sua testa era tutto reale, vivido e terrorizzante. A parole perdevano
quel senso di angoscia che si era impossessato del suo corpo.
«Hai ancora paura?».
Lo sussurrò e
gli sembrò la voce di sua madre, soffiata sulla sua pelle – come se gli avesse
parlato un fantasma. Forse lo aveva detto davvero sua madre e lui era convinto
che fosse stata Sakura, che invece si era addormentata. Ma si sentì chiamare di
nuovo con quel Sas’ke-kun e non ebbe più dubbi.
Non ebbe neanche più paura, perché non avrebbe
sopportato di vedere sua madre – come avrebbe fatto a dirle che era stato lui ad uccidere Itachi?
«Sì» lo disse
senza pensarci, e si pentì, mordendosi la lingua fino a farsi male,
costringendosi ad alzarsi dal letto. Con il freddo che gli accarezzava la pelle
e una strana sensazione che gli faceva nascere le lacrime dal profondo del
cuore. Era un prurito che gli tormentava le mani e risaliva il braccio che non
c’era più. Sentiva come mani che gli sfioravano la schiena e si intrecciavano
ai capelli.
Aveva voglia di
urlare e scappare, senza dire niente a
nessuno. Nemmeno a Sakura.
Perché di dolore
ne aveva già anche lei. E la maggior parte gliel’aveva causato lui.
Cercò, inciampando
nel nulla, la vestaglia – o qualsiasi cosa potesse coprirgli il petto (proteggergli il cuore). Non lo trovò, ma
a questo punto non gli importava. C’era qualcosa, nel profondo delle sue
viscere che lo spingeva a farsi del male, affrontare tutti i suoi errori e
capire che non poteva porci rimedio. Che non voleva nemmeno trovarli.
«Dove stai
andando?».
Non le rispose,
aprì la porta e si fermò sul ciglio di questa, ascoltando il fruscio delle
lenzuola di Sakura che si alzava e, probabilmente presa dal panico, si avvicina
a lui. Lo abbracciò da dietro, poggiando la fronte sulla sua schiena. Lo teneva
stretto a sé come si tengono le cose importanti. Le cose per cui vale la pena
vivere.
«Non te ne
andare».
«Se te ne vai giuro che urlo!» aveva detto,
quella volta, ed era stata una frase così priva di senso – per lui, allora.
Sakura stava già urlando.
Adesso, invece,
stava in silenzio e gli respirava contro la pelle e il suono che le sue labbra
produceva era tremolante. Aveva paura? Freddo? Non lo sapeva, non riusciva a
capirlo. E la cosa lo infastidiva così tanto da accrescere il suo desiderio di
morire e chiederle scusa e baciarle gli occhi e le labbra e ogni centimetro di
pelle che aveva a disposizione, che le cicatrici non avevano ancora macchiato.
E invece non
aveva nemmeno due braccia per stringerla a sé.
«Vado solo in
giardino, torna a dormire» ti prego.
Ma questo riuscì a tenerlo per sé, le prese una mano, stringendola nella
propria, allontanandola dal petto e lasciandola scivolare lungo il proprio
fianco. Poi ritorno, Sakura.
Sentì il respiro
di Sakura fermarsi. E il suo si fermò con quello di lei.
Non starci male, ti prego.
Fece un passo in
avanti.
«Se te ne vai giuro che urlo!»
Un altro passo.
Imboccò il corridoio, appoggiandosi al muro con la spalla. Chiuse gli occhi e
sospirò, ora che non poteva vederlo.
Sei noiosa.
Non successe
niente. Sakura non lo inseguì né urlò. Ma non si mosse. Stava pietrificata lì e
lo guardava – sentiva i suoi occhi addosso. Erano potenti ed emanavano un
fascio di luce invisibile e caldo che lo avvolgeva come una coperta soffice.
Lo aveva
incatenato a lei, con quei stupidi occhi verdi. Erano gli occhi della
primavera, che ti facevano venir voglia di tornare a casa.
Si sedette sotto
il mandorlo, appoggiando la schiena al tronco, chiudendo gli occhi.
Dalla finestra
della loro camera si vedeva
quell’albero. Lontano, offuscato dalla neve che cadeva lenta e dalla nebbia
della notte. Forse Sakura lo stava controllando, da lontano. Forse si era stesa
dalla sua parte del letto e inspirava profondamente dal suo cuscino.
Gliel’aveva già visto fare: arrotolarsi nei propri vestiti, dormire abbracciata
al proprio cuscino.
Chissà cosa ci
trovava di così bello nel suo odore, si chiedeva.
Sasuke profumava come
quel mandorlo, a forza di starci sotto. Lo aveva visto crescere, elevarsi al
cielo, ammalarsi. Lo aveva abbandonato il giorno del massacro degli Uchiha, e francamente si stupiva che fosse sopravvissuto
durante tutti quegli anni.
Il mandorlo era
anche il suo albero preferito, ma nessuno lo sapeva.
La neve cadde
dai rami, coprendogli i piedi, congelandogli le ossa. Faceva davvero troppo
freddo – ma non voleva tornare dentro ed essere circondato da quelle pareti
intrise di ricordi e sangue. Li vedeva, lui, gli schizzi vermigli che
ricoprivano le porte e le finestre. Rivedeva la sagoma di suo fratello, come
rivedeva i corpi dei suoi genitori e l’ombra del mandorlo proiettata nella
stanza.
Quel giorno i
fiori dell’albero sembravano di sangue. Nei suoi sogni, quei fiori erano occhi
rossi che lo fissavano e gli congelavano i nervi.
Strinse le
palpebre e respirò, affondando la mano nella terra fredda, lasciando che
leggere fitte di dolore gli tormentassero le dita. Aprì le labbra e fu sul
punto di urlare. Ma i polmoni gli parvero di pietra e il cuore sembrò fermarsi.
Le gambe erano in preda a quel solito tremore che non riusciva più a
controllare, che lo coglieva nei momenti più improvvisi della giornata e lo
costringevano a sedersi.
C’erano un sacco
di cose che non funzionavano più nel suo corpo. E primo fra tutti era il cuore.
Ma non voleva dirlo a Sakura, nonostante lei si offrisse sempre di aiutarlo –
perché sarebbe stato un altro peso aggiunto a quella povera schiena che aveva
ammirato tante volte, che aveva accarezzato senza mai toccare veramente. Quante
volte avrebbe voluto baciarla, vertebra per vertebra, sperando che quel gesto
potesse renderla più forte, rinvigorirle i muscoli, chiudere le crepe dei suoi
organi e dei suoi muscoli e della sua pelle e di lei, semplicemente.
Strinse un pugnetto di terra e richiuse le labbra, mordendosele,
riaprendole, soffiando fuori l’aria e infine richiudendole in una morsa
dolorosa. Sentiva i polmoni rompersi, gli ingranaggi del cuore farsi più
pesanti, difficili da muovere.
Si stava
fermando tutto, dentro di lui.
Ma, in fondo,
morire sotto il mandorlo non era un’idea così pessima.
P AR T E – DUE
giorno
Sakura era
uscita in giardino e gli aveva appoggiato sul petto una coperta, incitandolo
poi a rialzarsi e tornare a casa.
Lui, come un
bambino, aveva acconsentito. E, appoggiandosi a lei, era rientrato. La neve gli
cadeva sulle spalle e sul collo, sciogliendosi e trasformandosi in rivoli di
acqua che gli accarezzavano il corpo.
Ricordò di
essersi appoggiato sul materasso a pancia in giù. Le coperte lo avevano avvolto
come avevano fatto quando si era svegliato per l’incubo. Sakura lo abbracciò,
baciandogli la spalla fasciata, allungandosi sulla spalla, incastrando il viso
nell’incavo del suo collo e respirandogli sulle labbra.
«Naruto ha ragione quando ti chiama Teme» gli disse, e sembrò quasi che scherzasse, con quella voce
assonnata e preoccupata e innamorata. La mano di Sakura scivolò sulla sua
schiena, lavandone via la neve e i dolori. «Stare fuori a quest’ora senza
nemmeno una maglietta» era premurosa e le sue labbra sfioravano quelle di lui,
mentre il suo corpo si fondeva lentamente con quello di Sasuke.
Si addormentò
quando il cuore ritornò a pompare il sangue e i polmoni a funzionare nel modo
giusto. Le gambe smisero di tremare quando Sakura le intrecciò alle sue.
Si svegliò
lentamente, come se stesse riemergendo dall’acqua.
Istintivamente
allungò il braccio destro per cercare Sakura al suo fianco, e non la trovò.
Sospirò, affondando il viso sul cuscino. Era andata a lavorare.
Scivolò fuori dal
letto, cercando con lo sguardo la vestaglia, riuscendo finalmente a trovarla e
indossarla.
C’era una strana
tranquillità, in casa. E anche una luce strana, quasi primaverile. Come se
l’inverno fosse andato via con i sogni e quella tensione che si era creata che
minacciava di romperlo ancora una volta.
Hai ancora paura?
Sì.
Non te ne andare.
Ricordava solo
questo. I suoi occhi e il proprio cuore battevano. I piedi che facevano quello
che volevano e un braccio che non esisteva più che lo tormentava – come lo
tormentavano i sogni e gli occhi e il sangue e quel senso di non poter amare,
perché non si meritava un sentimento del genere.
Andò a rendere
onore ai suoi familiari, pregando in ginocchio, con la fronte per terra,
respirando polvere e lacrime versate in altre occasioni. Non chiese a loro di
proteggerlo, perché non se lo meritava. Pregò che stessero bene, come faceva
sempre.
In cucina, un
cesto di pomodori regnava al centro del tavolo. Sakura aveva fatto anche la
spesa – aveva aperto le finestre e aveva cambiato aria. Come se volesse lasciar
andar via tutta quella carica negativa che lui
(era sempre lui) aveva liberato.
C’era un
biglietto, sotto il cesto.
TORNO PRESTO, OGGI
PRIMA DI CENA
-
Sakura
PS: COPRITI CHE FA FREDDO!
Fece quello che
c’era scritto: si lavò e si vestì con vestiti puliti e caldi. Rifece il letto –
cosa che gli impiegò parecchio tempo, con un braccio solo – preparò anche il tè
e ne bevve due tazzine, seduto sul divano, osservando i raggi di sole che
batteva sulle finestre delle altre case e disegnava le ombre sul giardino.
Lesse pure
qualche capitolo di un libro di cui non ricordava il nome. Lucidò la katana,
riordinò la scrivania e i vasi sulle mensole.
Si preparò per
uscire di casa, dirigendosi in quel negozio di fiori che Ino
gestiva, al centro di Konoha. Sapeva che era aperto e
sapeva che lei non lo avrebbe trattato così
male come era possibile succedesse con altre persone.
Quando aprì la
porta, il campanello trillò e una vecchia signora si girò a guardarlo, Sai
smise di ridipingere il negozio e Ino alzò gli occhi
dal bouquet che stava componendo per accogliere il suo nuovo cliente.
«Sasuke! Come posso aiutarti? Sai, puoi completare il
bouquet della signora, per favore?». La ragazza si pulì le mani nel grembiule e
gli si avvicinò con un sorriso cortese sul viso.
«Hai dei semi di
ciliegio?».
«Di ciliegio?».
Cosa c’era di strano nel ciliegio?
«Lo so» ribatté,
guardandosi le scarpe. «Vorrei piantarne uno in giardino» continuò «hai dei
semi o qualcosa del genere?».
Ino ci pensò,
tenendosi il mento tra le dita. Nel frattempo, la vecchia aveva finito le sue
compere ed uscì furtivamente dal negozio, guardandolo con un’espressione a cui Sasuke evitò di farci caso, ma che gli liberò una scarica
elettrica lungo la spina dorsale.
«Sul retro
dovrei averne! Ma è troppo tardi per piantarli» lo ammonì, e sparì dietro la
tenda rossa e bianca.
Sai ritornò a dipingere
le pareti e tutto fu silenzio, fino a quando Ino non
appoggiò il pacchetto di semi sul bancone, invitandolo ad avvicinarsi.
«Eccoti» gli
disse, Sasuke annuì, mormorando un “li prendo”,
tirando fuori dalla tasca i soldi.
Ino fece le cose
con molta lentezza: impacchettò i semi in un foglio di carta, poi in un pezzo
di stoffa e lo rilegò con dello spago. Sasuke non
voleva regalarli, e di certo non era andato lì per quello. C’era qualcosa di
strano, nel comportamento della Yamanaka. Uno sguardo
inquisitore e curioso.
«Allora, come
vanno le cose tra te e Sakura?». Sai sospirò, evidentemente sapeva che la
ragazza sarebbe arrivata a quello. «Non ti si vede mai in giro…
c’è qualcosa che non va?».
«Nulla» le
rispose, allungò la mano per prendere i suoi semi, lasciò i soldi sul bancone e
fece dietro front. «Tolgo il disturbo».
Ino mormorò un
«figurati» e Sasuke chiuse la porta dietro di sé.
P AR T E – TRE
sera
Sasuke piantò i semi
di ciliegio sul retro della casa, e uno vicino al mandorlo. Nascose il
pacchetto vuoto e si lavò, sciacquandosi via la terra. Ino
aveva detto che era troppo tardi per piantare i ciliegi – ma lui sperò che si
sbagliasse. Forse sarebbero comunque cresciuti – come aveva fatto il mandorlo.
Sakura rientrò
quando il sole era già tramontato. Appese il cappotto di fianco alla porta e si
fiondò subito sul divano vicino a lui, lasciandogli un bacio sulla guancia e
appoggiandosi poi alla sua spalla.
«Com’è andata?»
le chiese. Non era veramente interessato alla sua giornata – ma sapeva che era
una cosa carina da chiedere, e voleva farla stare meglio.
Per questo aveva
piantato i ciliegi ed era intenzionato a tenerglielo nascosto finché non
sarebbero nati.
Ascoltò della
sua giornata, di un bambino che si era infilato un pezzo di un qualche
giocattolo nella narice e di come lei lo aveva spronato ad essere coraggioso.
Parlava con una tale passione per il suo lavoro che Sasuke
non poté non pensare a come fosse immatura, Sakura, quando facevano ancora
parte del Team Kakashi.
Se te ne vai giuro che urlo!
«A te come è
andata, Sas’ke-kun?».
«Bene» le
sussurrò.
Sakura non
sapeva.
Non sapeva che
voleva provare ad essere una brava persona, almeno con lei. Che il freddo lo
aveva congelato, ma gli aveva fatto capire che prima era vivo. E che forse era
vivo per lei – perché era l’unica che rispettava i suoi spazi e che riusciva ad
intromettersi nella sua vita con quella facilità e quella leggerezza di cui lui
aveva bisogno. Il suo giardino aveva bisogno dei fiori di ciliegio per
rinascere – Sasuke voleva immaginarselo in un tappeto
di petali rosa come i capelli di Sakura.
Voleva che
tutto, in quella casa, portasse il suo profumo.
«Ho fatto un
giro in paese» continuò, giocherellando con il lembo della propria maglietta,
«e mi sono vestito bene, come mi avevi chiesto» continuò. C’era un certo
piacere nel parlarle così… sinceramente. Abbandonarsi
a quei piaceri della vita che credeva infimi, a cui lui non poteva adattarsi.
Ma Sakura era la
sua famiglia ora, e lui doveva fare di tutto per proteggerla.
Sasuke amava il
mandorlo perché rappresentava la speranza, la fragilità sotto una corazza dura.
Era un albero come lui. Nel suo giardino, era solitario ma regnava su un
territorio che non aveva più senso. I suoi fiori, nel giro di una settimana
perdono colore e cadono al suolo, inermi.
Era
sopravvissuto a tutto, quel mandorlo. Come Sasuke. E
come Sasuke aveva visto il sangue e la morte – era
cresciuto con quello, senza l’aiuto di nessuno. Ce l’aveva fatta nonostante
tutto. Aveva ricevuto le cure di Itachi e poi di Sakura. Era stato rimesso in sesto,
raccolto da terra, era rifiorito già una volta e stava sopravvivendo
all’inverno.
Renderò le tue giornate più felici. Aveva proposto
Sakura.
Lo aveva già
fatto, lo aveva già reso più felice.
Sasuke desiderava
ardentemente che quel ciliegio nascesse vicino al mandorlo, che i loro fiori si
mescolassero, nonostante fiorissero in due periodi completamente diversi.
Desiderava vederli assieme, intrecciati, supportarsi e sopportarsi a vicenda.
Istintivamente,
allungò un braccio sulle spalle di Sakura e la strinse a sé, con una premura
che non sapeva di avere. Si chinò a lasciarle un bacio sulla fronte, poi sugli
occhi e infine sulle labbra.
La baciò più
volte, lentamente, assaporando il burro cacao e il suo sapore dolce,
quell’amore che provava così forte e concreto da trasformarsi in nettare che
gli esplodeva sulla lingua. La tenne a sé come lei lo abbracciò quella notte.
Come si tengono le cose importanti.
Le sfiorò di
nuovo la fronte e gli occhi con le labbra, mentre sentiva il cuore di Sakura
battere più velocemente e le sue mani stringersi alla sua maglia.
Sasuke aveva visto,
coperti dai fiocchi di neve, i fiori del mandorlo aprirsi durante la notte.
Il mandorlo era
il primo fiore a sbocciare… quindi era arrivata la
primavera.
Inspirò il
profumo di Sakura, chiudendo gli occhi e sfregando le labbra sulla sua pelle.
La primavera. Gli sembrava una cosa impossibile.
«Stanotte il mandorlo ha messo i fiori».