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Autore: radioactive    08/12/2014    4 recensioni
«Dove stai andando?».
Non le rispose, aprì la porta e si fermò sul ciglio di questa, ascoltando il fruscio delle lenzuola di Sakura che si alzava e, probabilmente presa dal panico, si avvicina a lui. Lo abbracciò da dietro, poggiando la fronte sulla sua schiena. Lo teneva stretto a sé come si tengono le cose importanti. Le cose per cui vale la pena vivere.
«Non te ne andare».
«Se te ne vai giuro che urlo!» aveva detto, quella volta, ed era stata una frase così priva di senso – per lui, allora. Sakura stava già urlando.
Adesso, invece, stava in silenzio e gli respirava contro la pelle e il suono che le sue labbra produceva era tremolante.

|| primo esperimento SasuSaku • ambientato tra il 699 e il 700, possibile SPOILER! • 3700 parole circa ||
[ non tiene conto degli avvenimenti di The Last ]
[ il titolo è una citazione de «Il fuoco del mio paese» di Nino Pedretti ]
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Sakura Haruno, Sasuke Uchiha | Coppie: Sasuke/Sakura
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Dopo la serie
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Ludovico Einaudi • Nuvole Bianche

(consigliato l’ascolto durante la lettura)

 

 

 

 

 

A yingsu,

anche se sono andata

fuori prompt.

 

 

 

P AR T E – UNO

notte

 

 

La luna si colorò di rosso e si sgretolò in una pioggia di petali davanti ai suoi occhi. Le nuvole si sciolsero, diventando d’inchiostro e i suoi piedi si ritrovarono a correre su qualcosa di caldo e appiccicaticcio. Sasuke si sentiva piccolo in mezzo all’immensità delle case e delle vie da cui cercava di scappare. Tutto profumava di fiori e ferro.

Non è sangue. Non sto correndo sul sangue. Continuò a scappare chiudendo gli occhi, mentre una pioggia di fuoco gli rigava le guance con acqua e sale. Stringeva i denti talmente forte che sembravano sul punto di rompersi.

Aveva una paura folle.

Era una sensazione che non si era mai dimenticato.

Avrebbe voluto morire.

 

Le lenzuola disegnarono le pieghe dei suoi muscoli tesi, tremanti. Sakura riuscì a scorgere tagli di luce sulle sue dita lunghe che coprivano il volto e affondavano nei capelli. La schiena curva disegnava appena, con l’aiuto della luna, le vertebre che gli davano un’aria fragile e infantile. Era un bambino in un corpo troppo grande.

«Saske-kun…» lo chiamò piano, sussurrando. Il sonno le scivolò via velocemente, lasciando il posto al freddo e ad una premura quasi materna, lontana da quella che mostrava a lavoro. Accese la luce sul comodino che iniziò a scaldarsi lentamente. Sakura si allungò cautamente sul ragazzo, sfiorandogli la gamba in preda a spasmi per cercare di farla calmare.

«Va tutto bene» gli disse, sentendolo irrigidirsi ancora di più e poi rilassarsi. Sudava freddo e tratteneva gemiti di un dolore fantasma. La mano scivolò dal viso al collo, alla spalla, fino a dove la carne era stata lacerata e bruciata, chiudendosi in un laccio di tessuto e sangue appena sopra il gomito.

«Ti fa male?».

«No».

Avrebbe voluto urlarlo quel “no”, e lei lo sapeva. Avrebbe voluto urlare tante cose, Sasuke – e lo aveva anche fatto, qualche volta, in una stanza della casa che non le era permesso visitare. Il suo cimitero personale fatto di foto e candele e polvere.

La luna si rifletteva nei suoi occhi scuri e faceva nascere una stella sul fondo di questi. Era una stella morente, lontana e fredda – come la pelle di Sasuke, come il suo cuore che in quel momento sembrava così impenetrabile. Lui rimaneva ancora nella stessa posizione: schiena curva, gambe piegate, piedi puntati sul materasso e volto duro, cristallizzato in una smorfia di dolore contenuto, misto a tristezza e paura che Sakura riconosceva nei particolari del suo corpo. Sulla sua pelle scintillavano gocce di sudore che scendevano come lacrime e bagnavano lentamente la coperta bianca. Sasuke sudava sempre molto quando faceva gli incubi – tutto il suo corpo piangeva, perché i suoi occhi non volevano farlo. Perché erano quelli di suo fratello e l’ultima cosa che Itachi avrebbe voluto era vederlo piangere.

«Sei sicuro?» domandò ancora, appoggiando la mano sulla sua e assottigliando lo sguardo per scorgere qualcosa nella sua espressione.

«Il braccio non c’entra. Sakura» sentenziò.   

Sasuke sospirò e si lasciò cadere a peso morto sul letto, fissando il soffitto in legno. Chiuse gli occhi, prestando attenzione al proprio cuore e al calore del corpo di Sakura vicino a lui, che però non lo toccava. Gli stava dando i suoi spazi: li aveva imparati ed era diventata brava a rispettarli.

Si accorse dopo qualche secondo che stava nevicando – era quel freddo pungente che entrava nelle ossa al posto del dolore. Gli piaceva quella sensazione di impotenza dovuta alle temperature basse – perché poi riusciva a sconfiggerle con una naturalezza che gli sembrava quasi sovrumana. Piegò le gambe, immaginando le proprie ossa scricchiolare e gracchiare come faceva la plastica e, appoggiandosi sulla spalla, si girò dalla parte della finestra, dando le spalle alla ragazza.

«Saske-kun» si sentì chiamare. Sembrava una preghiera – ma più vera, meno lagnosa di quando erano bambini. Di quasi dieci anni fa. Gli faceva paura pensare a quanto tempo era passato, e si massaggiò la testa nella speranza di sfuggire a quella prigione che era il tempo.

«Sto bene» le disse, cercando le lenzuola con il braccio, ritrovandosi poi le coperte sulle spalle e le labbra di Sakura premute contro il collo, le sue mani – calde e soffici – sulla scapola, che gli lasciavano piccole carezze in quei punti della sua schiena che non riusciva più a raggiungere. Sentiva il suo respiro caldo, i suoi capelli divisi in sottilissime ciocche sparsi sulla sua pelle. Quando Sakura chiuse gli occhi, riuscì a percepire anche le sue ciglia contro di sé e giurò di poterle sentire sulla punta delle dita.

Era la tacita richiesta di raccontarle quello che aveva sognato. Ricordava quella sera in cui aveva alzato la voce, gridandogli che doveva parlare, che non poteva andare avanti così, che a tenersi tutto dentro una persona si rompe. E che lui sapeva che era vero.

Già. Sasuke sapeva.

Era stato bravo, da quel giorno, a svegliarsi in silenzio senza far alzare anche lei. Ad uscire di casa e rimanere sotto il mandorlo del giardino, a lanciare ciuffi di erba nell’acqua e fingere di essere interessato alle onde prodotte in superficie. Era stato bravo anche a svegliarsi e rimanere pietrificato a letto, chiudendo subito gli occhi per fingere di dormire quando la sveglia di Sakura fosse suonata.

Perché lui non era una persona mattiniera. E non voleva farla preoccupare o farle del male – ma evidentemente riusciva a ferirla nonostante i suoi sforzi.

Lui non meritava una persona come Sakura. Non meritava qualcosa di così prezioso come lei, perché non sapeva come trattarla, non sapeva come fare a prenderla senza rischiare di rovinarla, macchiarla, farla cadere e rompere a pezzi.

Sakura era come il suo nome. Un fiore di ciliegio. Da ammirare a debita distanza durante l’hanabi. Perché era bellissima così, nel suo habitat fatto di sentimenti positivi ed una sicurezza che lui non riusciva a darle.

Un amore che aveva dentro ma che non si meritava, che fingeva di non avere e lo coltivava come se fosse odio verso sé stesso.

«Era la notte del massacro» iniziò, e la sua voce uscì in un modo così limpido che gli sembrò venisse da un’altra persona, di averla solo pensata. Chiuse gli occhi, respirando a fondo, mentre la mano di Sakura ci infilava sotto il moncherino e gli stringeva il petto, appoggiando la fronte sulla sua spalla. Non voleva interromperlo, non voleva ancora condividere con lui qualcosa – qualsiasi cosa fosse. Gli stava ancora lasciando i suoi spazi.

«Solo questo. Stavo correndo sul sangue e mi veniva da vomitare. Le nuvole erano nere e si scioglievano come l’inchiostro e la luna era rossa» si sentiva un cretino. Nella sua testa era tutto reale, vivido e terrorizzante. A parole perdevano quel senso di angoscia che si era impossessato del suo corpo.

«Hai ancora paura?».

Lo sussurrò e gli sembrò la voce di sua madre, soffiata sulla sua pelle – come se gli avesse parlato un fantasma. Forse lo aveva detto davvero sua madre e lui era convinto che fosse stata Sakura, che invece si era addormentata. Ma si sentì chiamare di nuovo con quel Saske-kun e non ebbe più dubbi.

Non ebbe neanche più paura, perché non avrebbe sopportato di vedere sua madre – come avrebbe fatto a dirle che era stato lui ad uccidere Itachi?  

«Sì» lo disse senza pensarci, e si pentì, mordendosi la lingua fino a farsi male, costringendosi ad alzarsi dal letto. Con il freddo che gli accarezzava la pelle e una strana sensazione che gli faceva nascere le lacrime dal profondo del cuore. Era un prurito che gli tormentava le mani e risaliva il braccio che non c’era più. Sentiva come mani che gli sfioravano la schiena e si intrecciavano ai capelli.

Aveva voglia di urlare e scappare, senza dire niente a nessuno. Nemmeno a Sakura.

Perché di dolore ne aveva già anche lei. E la maggior parte gliel’aveva causato lui.

Cercò, inciampando nel nulla, la vestaglia – o qualsiasi cosa potesse coprirgli il petto (proteggergli il cuore). Non lo trovò, ma a questo punto non gli importava. C’era qualcosa, nel profondo delle sue viscere che lo spingeva a farsi del male, affrontare tutti i suoi errori e capire che non poteva porci rimedio. Che non voleva nemmeno trovarli.

«Dove stai andando?».

Non le rispose, aprì la porta e si fermò sul ciglio di questa, ascoltando il fruscio delle lenzuola di Sakura che si alzava e, probabilmente presa dal panico, si avvicina a lui. Lo abbracciò da dietro, poggiando la fronte sulla sua schiena. Lo teneva stretto a sé come si tengono le cose importanti. Le cose per cui vale la pena vivere.

«Non te ne andare».

«Se te ne vai giuro che urlo!» aveva detto, quella volta, ed era stata una frase così priva di senso – per lui, allora. Sakura stava già urlando.

 Adesso, invece, stava in silenzio e gli respirava contro la pelle e il suono che le sue labbra produceva era tremolante. Aveva paura? Freddo? Non lo sapeva, non riusciva a capirlo. E la cosa lo infastidiva così tanto da accrescere il suo desiderio di morire e chiederle scusa e baciarle gli occhi e le labbra e ogni centimetro di pelle che aveva a disposizione, che le cicatrici non avevano ancora macchiato.

E invece non aveva nemmeno due braccia per stringerla a sé.

«Vado solo in giardino, torna a dormire» ti prego. Ma questo riuscì a tenerlo per sé, le prese una mano, stringendola nella propria, allontanandola dal petto e lasciandola scivolare lungo il proprio fianco. Poi ritorno, Sakura.

Sentì il respiro di Sakura fermarsi. E il suo si fermò con quello di lei.

Non starci male, ti prego.

Fece un passo in avanti.

«Se te ne vai giuro che urlo!»

Un altro passo. Imboccò il corridoio, appoggiandosi al muro con la spalla. Chiuse gli occhi e sospirò, ora che non poteva vederlo.

Sei noiosa.

Non successe niente. Sakura non lo inseguì né urlò. Ma non si mosse. Stava pietrificata lì e lo guardava – sentiva i suoi occhi addosso. Erano potenti ed emanavano un fascio di luce invisibile e caldo che lo avvolgeva come una coperta soffice.

Lo aveva incatenato a lei, con quei stupidi occhi verdi. Erano gli occhi della primavera, che ti facevano venir voglia di tornare a casa.

 

Si sedette sotto il mandorlo, appoggiando la schiena al tronco, chiudendo gli occhi.

Dalla finestra della loro camera si vedeva quell’albero. Lontano, offuscato dalla neve che cadeva lenta e dalla nebbia della notte. Forse Sakura lo stava controllando, da lontano. Forse si era stesa dalla sua parte del letto e inspirava profondamente dal suo cuscino. Gliel’aveva già visto fare: arrotolarsi nei propri vestiti, dormire abbracciata al proprio cuscino.

Chissà cosa ci trovava di così bello nel suo odore, si chiedeva.

Sasuke profumava come quel mandorlo, a forza di starci sotto. Lo aveva visto crescere, elevarsi al cielo, ammalarsi. Lo aveva abbandonato il giorno del massacro degli Uchiha, e francamente si stupiva che fosse sopravvissuto durante tutti quegli anni.

Il mandorlo era anche il suo albero preferito, ma nessuno lo sapeva.

La neve cadde dai rami, coprendogli i piedi, congelandogli le ossa. Faceva davvero troppo freddo – ma non voleva tornare dentro ed essere circondato da quelle pareti intrise di ricordi e sangue. Li vedeva, lui, gli schizzi vermigli che ricoprivano le porte e le finestre. Rivedeva la sagoma di suo fratello, come rivedeva i corpi dei suoi genitori e l’ombra del mandorlo proiettata nella stanza.

Quel giorno i fiori dell’albero sembravano di sangue. Nei suoi sogni, quei fiori erano occhi rossi che lo fissavano e gli congelavano i nervi.

Strinse le palpebre e respirò, affondando la mano nella terra fredda, lasciando che leggere fitte di dolore gli tormentassero le dita. Aprì le labbra e fu sul punto di urlare. Ma i polmoni gli parvero di pietra e il cuore sembrò fermarsi. Le gambe erano in preda a quel solito tremore che non riusciva più a controllare, che lo coglieva nei momenti più improvvisi della giornata e lo costringevano a sedersi.

C’erano un sacco di cose che non funzionavano più nel suo corpo. E primo fra tutti era il cuore. Ma non voleva dirlo a Sakura, nonostante lei si offrisse sempre di aiutarlo – perché sarebbe stato un altro peso aggiunto a quella povera schiena che aveva ammirato tante volte, che aveva accarezzato senza mai toccare veramente. Quante volte avrebbe voluto baciarla, vertebra per vertebra, sperando che quel gesto potesse renderla più forte, rinvigorirle i muscoli, chiudere le crepe dei suoi organi e dei suoi muscoli e della sua pelle e di lei, semplicemente.

Strinse un pugnetto di terra e richiuse le labbra, mordendosele, riaprendole, soffiando fuori l’aria e infine richiudendole in una morsa dolorosa. Sentiva i polmoni rompersi, gli ingranaggi del cuore farsi più pesanti, difficili da muovere.

Si stava fermando tutto, dentro di lui.

Ma, in fondo, morire sotto il mandorlo non era un’idea così pessima.

 

 

 

P AR T E – DUE

giorno

 

 

Sakura era uscita in giardino e gli aveva appoggiato sul petto una coperta, incitandolo poi a rialzarsi e tornare a casa.

Lui, come un bambino, aveva acconsentito. E, appoggiandosi a lei, era rientrato. La neve gli cadeva sulle spalle e sul collo, sciogliendosi e trasformandosi in rivoli di acqua che gli accarezzavano il corpo.

Ricordò di essersi appoggiato sul materasso a pancia in giù. Le coperte lo avevano avvolto come avevano fatto quando si era svegliato per l’incubo. Sakura lo abbracciò, baciandogli la spalla fasciata, allungandosi sulla spalla, incastrando il viso nell’incavo del suo collo e respirandogli sulle labbra.

«Naruto ha ragione quando ti chiama Teme» gli disse, e sembrò quasi che scherzasse, con quella voce assonnata e preoccupata e innamorata. La mano di Sakura scivolò sulla sua schiena, lavandone via la neve e i dolori. «Stare fuori a quest’ora senza nemmeno una maglietta» era premurosa e le sue labbra sfioravano quelle di lui, mentre il suo corpo si fondeva lentamente con quello di Sasuke.

Si addormentò quando il cuore ritornò a pompare il sangue e i polmoni a funzionare nel modo giusto. Le gambe smisero di tremare quando Sakura le intrecciò alle sue.

 

Si svegliò lentamente, come se stesse riemergendo dall’acqua.

Istintivamente allungò il braccio destro per cercare Sakura al suo fianco, e non la trovò. Sospirò, affondando il viso sul cuscino. Era andata a lavorare.

Scivolò fuori dal letto, cercando con lo sguardo la vestaglia, riuscendo finalmente a trovarla e indossarla.

C’era una strana tranquillità, in casa. E anche una luce strana, quasi primaverile. Come se l’inverno fosse andato via con i sogni e quella tensione che si era creata che minacciava di romperlo ancora una volta.

Hai ancora paura?

Sì.

Non te ne andare.

Ricordava solo questo. I suoi occhi e il proprio cuore battevano. I piedi che facevano quello che volevano e un braccio che non esisteva più che lo tormentava – come lo tormentavano i sogni e gli occhi e il sangue e quel senso di non poter amare, perché non si meritava un sentimento del genere.

Andò a rendere onore ai suoi familiari, pregando in ginocchio, con la fronte per terra, respirando polvere e lacrime versate in altre occasioni. Non chiese a loro di proteggerlo, perché non se lo meritava. Pregò che stessero bene, come faceva sempre.

In cucina, un cesto di pomodori regnava al centro del tavolo. Sakura aveva fatto anche la spesa – aveva aperto le finestre e aveva cambiato aria. Come se volesse lasciar andar via tutta quella carica negativa che lui (era sempre lui) aveva liberato.

C’era un biglietto, sotto il cesto.

 

TORNO PRESTO, OGGI

PRIMA DI CENA

 

                                        - Sakura

 

PS: COPRITI CHE FA FREDDO!

 

 

Fece quello che c’era scritto: si lavò e si vestì con vestiti puliti e caldi. Rifece il letto – cosa che gli impiegò parecchio tempo, con un braccio solo – preparò anche il tè e ne bevve due tazzine, seduto sul divano, osservando i raggi di sole che batteva sulle finestre delle altre case e disegnava le ombre sul giardino.

Lesse pure qualche capitolo di un libro di cui non ricordava il nome. Lucidò la katana, riordinò la scrivania e i vasi sulle mensole.

 

Si preparò per uscire di casa, dirigendosi in quel negozio di fiori che Ino gestiva, al centro di Konoha. Sapeva che era aperto e sapeva che lei non lo avrebbe trattato così male come era possibile succedesse con altre persone.

Quando aprì la porta, il campanello trillò e una vecchia signora si girò a guardarlo, Sai smise di ridipingere il negozio e Ino alzò gli occhi dal bouquet che stava componendo per accogliere il suo nuovo cliente.

«Sasuke! Come posso aiutarti? Sai, puoi completare il bouquet della signora, per favore?». La ragazza si pulì le mani nel grembiule e gli si avvicinò con un sorriso cortese sul viso.

«Hai dei semi di ciliegio?».

«Di ciliegio?». Cosa c’era di strano nel ciliegio?

«Lo so» ribatté, guardandosi le scarpe. «Vorrei piantarne uno in giardino» continuò «hai dei semi o qualcosa del genere?».

Ino ci pensò, tenendosi il mento tra le dita. Nel frattempo, la vecchia aveva finito le sue compere ed uscì furtivamente dal negozio, guardandolo con un’espressione a cui Sasuke evitò di farci caso, ma che gli liberò una scarica elettrica lungo la spina dorsale.

«Sul retro dovrei averne! Ma è troppo tardi per piantarli» lo ammonì, e sparì dietro la tenda rossa e bianca.

Sai ritornò a dipingere le pareti e tutto fu silenzio, fino a quando Ino non appoggiò il pacchetto di semi sul bancone, invitandolo ad avvicinarsi.

«Eccoti» gli disse, Sasuke annuì, mormorando un “li prendo”, tirando fuori dalla tasca i soldi.

Ino fece le cose con molta lentezza: impacchettò i semi in un foglio di carta, poi in un pezzo di stoffa e lo rilegò con dello spago. Sasuke non voleva regalarli, e di certo non era andato lì per quello. C’era qualcosa di strano, nel comportamento della Yamanaka. Uno sguardo inquisitore e curioso.

«Allora, come vanno le cose tra te e Sakura?». Sai sospirò, evidentemente sapeva che la ragazza sarebbe arrivata a quello. «Non ti si vede mai in giro… c’è qualcosa che non va?».

«Nulla» le rispose, allungò la mano per prendere i suoi semi, lasciò i soldi sul bancone e fece dietro front. «Tolgo il disturbo».

Ino mormorò un «figurati» e Sasuke chiuse la porta dietro di sé.

 

 

 

P AR T E – TRE

sera

 

 

Sasuke piantò i semi di ciliegio sul retro della casa, e uno vicino al mandorlo. Nascose il pacchetto vuoto e si lavò, sciacquandosi via la terra. Ino aveva detto che era troppo tardi per piantare i ciliegi – ma lui sperò che si sbagliasse. Forse sarebbero comunque cresciuti – come aveva fatto il mandorlo.

Sakura rientrò quando il sole era già tramontato. Appese il cappotto di fianco alla porta e si fiondò subito sul divano vicino a lui, lasciandogli un bacio sulla guancia e appoggiandosi poi alla sua spalla.

«Com’è andata?» le chiese. Non era veramente interessato alla sua giornata – ma sapeva che era una cosa carina da chiedere, e voleva farla stare meglio.

Per questo aveva piantato i ciliegi ed era intenzionato a tenerglielo nascosto finché non sarebbero nati.

Ascoltò della sua giornata, di un bambino che si era infilato un pezzo di un qualche giocattolo nella narice e di come lei lo aveva spronato ad essere coraggioso. Parlava con una tale passione per il suo lavoro che Sasuke non poté non pensare a come fosse immatura, Sakura, quando facevano ancora parte del Team Kakashi.

Se te ne vai giuro che urlo!

«A te come è andata, Saske-kun?».

«Bene» le sussurrò.

Sakura non sapeva.

Non sapeva che voleva provare ad essere una brava persona, almeno con lei. Che il freddo lo aveva congelato, ma gli aveva fatto capire che prima era vivo. E che forse era vivo per lei – perché era l’unica che rispettava i suoi spazi e che riusciva ad intromettersi nella sua vita con quella facilità e quella leggerezza di cui lui aveva bisogno. Il suo giardino aveva bisogno dei fiori di ciliegio per rinascere – Sasuke voleva immaginarselo in un tappeto di petali rosa come i capelli di Sakura.

Voleva che tutto, in quella casa, portasse il suo profumo.

«Ho fatto un giro in paese» continuò, giocherellando con il lembo della propria maglietta, «e mi sono vestito bene, come mi avevi chiesto» continuò. C’era un certo piacere nel parlarle così… sinceramente. Abbandonarsi a quei piaceri della vita che credeva infimi, a cui lui non poteva adattarsi.

Ma Sakura era la sua famiglia ora, e lui doveva fare di tutto per proteggerla.

 

Sasuke amava il mandorlo perché rappresentava la speranza, la fragilità sotto una corazza dura. Era un albero come lui. Nel suo giardino, era solitario ma regnava su un territorio che non aveva più senso. I suoi fiori, nel giro di una settimana perdono colore e cadono al suolo, inermi.

Era sopravvissuto a tutto, quel mandorlo. Come Sasuke. E come Sasuke aveva visto il sangue e la morte – era cresciuto con quello, senza l’aiuto di nessuno. Ce l’aveva fatta nonostante tutto.   Aveva ricevuto le cure di Itachi e poi di Sakura. Era stato rimesso in sesto, raccolto da terra, era rifiorito già una volta e stava sopravvivendo all’inverno.

Renderò le tue giornate più felici. Aveva proposto Sakura.

Lo aveva già fatto, lo aveva già reso più felice.

Sasuke desiderava ardentemente che quel ciliegio nascesse vicino al mandorlo, che i loro fiori si mescolassero, nonostante fiorissero in due periodi completamente diversi. Desiderava vederli assieme, intrecciati, supportarsi e sopportarsi a vicenda.

Istintivamente, allungò un braccio sulle spalle di Sakura e la strinse a sé, con una premura che non sapeva di avere. Si chinò a lasciarle un bacio sulla fronte, poi sugli occhi e infine sulle labbra.

La baciò più volte, lentamente, assaporando il burro cacao e il suo sapore dolce, quell’amore che provava così forte e concreto da trasformarsi in nettare che gli esplodeva sulla lingua. La tenne a sé come lei lo abbracciò quella notte. Come si tengono le cose importanti.

Le sfiorò di nuovo la fronte e gli occhi con le labbra, mentre sentiva il cuore di Sakura battere più velocemente e le sue mani stringersi alla sua maglia.

Sasuke aveva visto, coperti dai fiocchi di neve, i fiori del mandorlo aprirsi durante la notte.

Il mandorlo era il primo fiore a sbocciare… quindi era arrivata la primavera.

Inspirò il profumo di Sakura, chiudendo gli occhi e sfregando le labbra sulla sua pelle.

La primavera. Gli sembrava una cosa impossibile.

«Stanotte il mandorlo ha messo i fiori».

   
 
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