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Autore: Sara Saliman    09/12/2014    6 recensioni
La bimba mette una mano in tasca: tira fuori una piuma e gliela porge.
-Questa è tua,- gli dice.-L’hai perduta in ospedale.-
-Ma davvero? E magari sai anche chi sono?-
-Sì che lo so: sei la Storia nel libro rosso, quello che mamma tiene in borsa e non apre mai. Non vedi che ha bisogno di te? Perché non arrivi?-
-Non è così semplice, marmocchia. Non so come fare!-
-Sì che lo sai! Sei la sua Storia: devi saperlo per forza!-
Genere: Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jareth, Nuovo personaggio, Sarah
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La punta dei suoi stivali sfiorava il bordo della piattaforma.
Tamburellò sulle labbra le dita guantate, sporse il mento in avanti e protese il capo. Sotto di lui si spalancava il baratro.
Dall’alto, le pareti della sala di Escher si piegavano in angoli impossibili, le colonne diventavano nicchie scavate nei muri, le nicchie colonne. Dagli archi di pietra, magnificamente decorati, spuntavano colonne perpendicolari che sostenevano altri archi. Le scale avevano angoli quasi logici se prese singolarmente, ma non era possibile stabilire da quale parte andassero percorse. Diversi piazzali rimanevano sospesi nel nulla.
Era la prima volta che faceva spaziare lo sguardo e provava ad abbracciare la sala tutta insieme: sentì lo stomaco contrarsi; la testa cominciò girare nello sforzo di dare una logica a quegli angoli incoerenti e a quelle scale senza uscita.
Lo strapiombo lo attirava.
Rimase comunque in piedi, sforzandosi di guardare sotto di sé.
La sala era silenziosa, come se l’aria fosse così rarefatta da non condurre i suoni. Qualunque cosa l’avesse abitata in passato si era consumata da tempo, lasciando solo quiete, la stasi dei muri e dei pavimenti di pietra, spogli, avvinghiati su se stessi senza più memoria di una mano che li sfiorasse, di un piede che li calpestasse o di una voce che turbasse il silenzio sotto gli archi.
La luce si spandeva su tutti quegli angoli senza proiettare nemmeno un’ombra. Come se si fosse punta con un fuso e fosse caduta morta.
O solo addormentata, pensò: una maledizione addolcita che custodisse il nocciolo asciutto di una speranza.
Inaspettatamente, sorrise.
 
In that room
 
C’è un posto dove hai paura  di andare pur sapendo che la tua vita migliorerebbe se ci andassi?
Rob Brezsny
 
Cosa ci rende vivi? Che cosa, invece, ci rende reali?
Hoggle
 
Jareth è seduto di traverso sul trono, il mantello sfrangiato raccolto sopra una spalla, con i bordi che sfiorano il pavimento. Intorno a lui, la sala è uno sfacelo: i goblin dormono nella vasca, uno russa abbracciato a un pollo, e nel sonno borbotta parole incomprensibili scalciando a vuoto. Gli angoli sono pieni di cartacce e piume, i davanzali sono sporchi di escrementi di gallina. Un barile di birra giace rovesciato accanto a un’armatura: la puzza di alcool riempie l’aria, insieme al sommesso ronfare di una ventina di goblin.
Jareth si guarda intorno e sorride, il petto gonfio d’orgoglio: è stata una splendida festa di compleanno, degna della sua regale persona.
La terza festa di compleanno in tre mesi.
I goblin hanno dato il meglio; sir Didimus ci ha messo un po’ a sciogliersi, ma dopo il primo boccale già rideva senza motivo, e al terzo cantava a squarciagola. A un certo punto ha passato un braccio attorno al collo di Ludo e gli ha sbattuto sotto il naso un bicchiere di birra, cercando di fargliela assaggiare.
A quel punto il troll ha starnutito: lo spostamento d’aria ha fatto ribaltare cinque goblin e innaffiato di muco, schiuma e birra tutta la parete.
Jareth si è battuto la mano sulla coscia e ha riso deliziato. Almeno finchè non si è accorto che un po’ di quella poltiglia è arrivata alla punta del suo stivale.
È stata una bella festa, davvero.
Avrebbero potuto continuare per giorni, ma dopo un po’ Jareth si è stufato di sentire urlare, strepitare e volare insulti, e così si è alzato in piedi, ha sollevato lo scettro e ha iniziato a cantare e ballare, finchè gli occhi non si sono chiusi e le bocche non hanno iniziato a sbadigliare, e tutti i suoi sudditi non si sono accasciati sul posto gli uni sugli altri, magicamente addormentati.
Adesso tutto è tranquillo. È stata una bella festa e Jareth ne è molto soddisfatto. Non ha motivo, proprio nessun motivo di sentirsi irritato, di battere nervosamente il piede o di tamburellare le dita sulle labbra come sta appunto facendo.
Lancia un’occhiata a destra, un’occhiata a sinistra: tutti dormono, non lo guarda nessuno.
Da sotto il mantello, Jareth estrae una sfera.
 
****
 
Certe volte, le immagini dentro le sfere gli sembrano più vivide di ciò che lo circonda, anche se non dimentica mai, mai di non poterle toccare.
Ogni tanto, attraverso i cristalli, sbircia i sorrisi di Sarah –i sorrisi che la vede rivolgere ad altri-  e rimane ad osservarli con le sopracciglia sempre più aggrottate, fin quando con un gesto stizzito non stritola la sfera tra le mani o la lancia dalla finestra.
Così, negli anni, ha appreso un po’ di cose su di lei.
Tanto per cominciare: Sarah adesso ha una figlia.
Certe sere, mentre i goblin dormono – lui fa in modo che sia sera e che dormano, e che la luna sia ben alta nel cielo, a illuminare d’argento la stanza- Jareth scruta la superficie curva di una sfera e ascolta Sarah raccontare una fiaba. La voce di lei è cangiante: si fa soave e solenne quando interpreta la regina, stridula e acida per la strega cattiva. Un attimo dopo muta ancora: diventa lieve lieve per far parlare la principessa, ferma e leale per il principe, squittisce acuta per mimare un topolino.
La bambina la guarda sgranando gli occhi, le coperte tirate sotto il mento e le labbra dischiuse per la meraviglia.
Jareth non ascolta quasi mai fino alla fine. Dopo i primi minuti, un fastidio lo punge fra le costole, quasi all’altezza del cuore, e lo costringe a sospirare e a roteare gli occhi. Allora gonfia le guance e soffia:  la sfera fra le sue dita si fa leggera, sempre più leggera, diventa una bolla di sapone, vola fuori dalla finestra, e lui la segue con lo sguardo fino a vederla scomparire contro il disco luminoso della luna.
Sarah Williams non è più la Sarah che lui conosceva: non è più la sua Sarah. Certe volte Jareth fantastica di riavvolgere il tempo e tornare alla sala da ballo di tanti anni prima. Rivede se stesso tra gli ospiti: incede sfrontato, sicuro. Si ferma dinanzi a Sarah e si specchia nei suoi occhi verdi: la sente trattenere il fiato. Le sorride invitante, famelico, le poggia una mano sopra lo sterno per sentire il suo cuore battere contro le dita rapaci. Si china su di lei, avvicina le labbra alle sue come per baciarla… e all’ultimo istante si ritrae e pronuncia il suo nome, serrando i denti di scatto come una tagliola.
Ma se anche riavvolgesse il tempo, Jareth sa che non la riavrebbe indietro: Sarah è fuori dalla sua portata, in un posto che lui non può raggiungere, dove vanno le madri, forse, o i bambini umani quando crescono.
 
****
 
Addesso, mentre i suoi sudditi dormono e la sua festa di (non)compleanno è giunta alla fine, Jareth infila una mano sotto il mantello ed estrae una sfera.
(Così, tanto per fare. Non c’è niente di male, e poi se nessuno ti vede fare una cosa, è un po’ come se tu non l’avessi fatta, giusto?)
Ruota il polso e lascia scivolare il cristallo lungo il dorso della mano, poi inclina il braccio e lo raccoglie nel palmo. Solleva la sfera all’altezza degli occhi: il suo volto si allunga e si deforma sulla superficie di vetro, poi scompare.
Dentro le pareti del cristallo, Sarah si sta guardando allo specchio: tiene una ciocca di capelli sollevata sotto il naso, e la scruta imbronciata.
Jareth getta il capo all’indietro e ride trionfante, velenoso.
(Stai contando i primi capelli bianchi, mia preziosa?)
Agita le gambe in aria e si regge la pancia con le mani, ridendo a crepapelle nella sala addormentata.
(Qui nel Sottosuolo saresti rimasta eternamente giovane! Oh, è un tale peccato che tu non abbia scelto di restare!)
I singulti di ilarità sono così forti che per poco il re non si ribalta con tutto il trono: una rapida occhiata alla poltiglia che copre il pavimento lo convince a ricomporsi in fretta.
Dentro i contorni del cristallo, Sarah scrolla le spalle e fa un sorriso. Prende la figlia sulle ginocchia e comincia a spazzolarle i capelli.
Jareth sente l’ilarità di poco prima spegnersi, il sorriso congelarsi in una smorfia.
A quanto pare, Sarah non si pente della scelta fatta.
Non desidera l’eterna giovinezza: desidera essere reale.
 
****
 
Reale: cosa vorrà dire, poi, “reale”?
Nei mesi successivi Jareth si dedica intensamente al Labirinto: crea sentieri ancora più aggrovigliati; dispone molti più Goblin al villaggio e molti più Fireys dentro la Foresta. Aggiunge un fossato con dei coccodrilli e un prato popolato da unicorni. Vorrebbe inserire da qualche parte una cascata: la vedrebbe proprio bene tra la gora e la Foresta, ma la troppa umidità gli farebbe arricciare i capelli che spettina ogni mattina con tanta cura, e allora rinuncia, seppur a malincuore.
Una volta al mese spalanca le porte del Labirinto, raddrizza i sentieri e dà un ballo in proprio onore: alle sue feste ci sono dame maliziose da sedurre, danze sfrenate a cui abbandonarsi, abiti di tulle da stropicciare e slacciare.
Ogni capriccio viene soddisfatto, ogni desiderio appagato.
E… cosa mai vorrà dire, “reale”?
La domanda viene a trovarlo nel cuore della notte, sia che dorma da solo sia che si trovi stretto nell’abbraccio di qualcuno o di qualcuna.
Una volta soltanto la sussurra ad alta voce.
La donna accanto a lui gli si stringe un poco di più al petto.
-Niente,- risponde nel dormiveglia, con voce impastata nel sonno.-Non significa niente.-
Ma il quesito è fastidioso: una scheggia sotto le unghie. Più Jareth la ignora, più la domanda penetra a fondo.
Così, dopo mesi e mesi e mesi, si ritrova seduto a gambe incrociate sul pavimento della propria stanza, al chiarore della luna, a cercare la risposta in una sfera.
Dentro il cristallo Sarah non sorride, non parla, non conta i capelli bianchi allo specchio: è stesa nel letto di un ospedale, il capo affondato nei cuscini bianchi e un ago infilato in un braccio. Il viso è più magro, un poco tirato, e lei ha gli occhi stanchi, e Jareth vi legge qualcosa che non si aspettava: un dolore paziente che prima non c’era mai stato.
Scoppia a ridere malevolo, una risata cattiva.
I suoi abiti fanno appena in tempo a cambiare, una marsina nera tempestata di gemme, calzoni e camicia dello stesso colore, chè va bene essere crudeli, ma sempre e solo con stile. Poi il re dei Goblin diventa un barbagianni dalle piume bianche e spicca il volo attraverso i mondi.
La stanza dell’ospedale è più piccola di come sembrava attraverso il cristallo: Sarah non sembra nemmeno la Sarah che lo ha sconfitto, con quegli aghi nel braccio e la faccia così pallida.
Jareth prova come una sorta di fastidio.  Vuole la sua Sarah, vuole allungare le mani verso la sua figura dormiente, strapparle le coperte di dosso e gettarle per terra. Vuole afferrarla per le spalle e scuoterla da quel letto, guardarla negli occhi snudando i denti.
(Ti diverte Sarah? Ti diverte, adesso, essere reale? Non rimpiangi la mia offerta, il mio Labirinto?)
Jareth solleva una mano, ma con titubanza, e infine si blocca col braccio a mezz’aria.
Abbassa lo sguardo sulla propria figura: attraverso il farsetto ricamato vede il linoleum verde del pavimento. Nel Sopramondo persino la luce della luna gli passa attraverso.
 
****
 
Jareth non sbircia più il Sopramondo. Non ha alcun motivo per farlo.
Visto dal Labirinto, il Sopramondo è squallido e caotico, in un modo poco divertente: le strade sono coperte di asfalto grigio, le città risuonano di rumori metallici e discordanti. Gli umani vanno sempre di fretta, con le mani affondate nelle tasche e gli auricolari nelle orecchie. Il Sopramondo puzza: non di goblin o di magia: puzza di fumo e di plastica e talvolta di malattia. I sogni sono tutti uguali e non vengono raccolti dal Sottosuolo: vengono fabbricati nel Sopramondo, venduti e acquistati con volgari strisce di carta moneta.
Jareth non spia più Sarah, però pensa molto a lei, e quando il pensiero finisce, subito ricomincia da capo.
Crede di iniziare a capire: “reale” non significa una sola cosa, ma molte.
Significa un figlio a cui raccontare fiabe e spazzolare i capelli (ma non lanciarlo nella gora, o almeno Jareth lo suppone). Significa ammalarsi, invecchiare. Significherebbe anche la possibilità di sdraiarsi vicino a Sarah e sentire il calore della sua pelle.
Sdraiato sul pavimento di pietra, Jareth fissa il soffitto, troppo assorto per vederlo davvero. Con gesti distratti e meccanici, lancia una sfera in alto e poi la riprende. Ad ogni lancio la sfera cambia: diventa un diamante, una pesca, un pugnale, ma ogni volta che atterra tra le sue mani è di nuovo soltanto una sfera.
Nel Sottosuolo lui è un re, un mago, un ingannatore, un seduttore.
Nel Sopramondo sarebbe soltanto se stesso, soltanto Jareth.
Sospira.
-E comunque, come faccio a diventare reale?-
Fa ancora un tiro ma manca la presa sul cristallo, che scivola via dalle sue dita assonnate. Quando la sfera tocca il pavimento, Jareth sta già dormendo.
 
****
 
I sogni che fa di solito sono silenziosi e bui come le stanze più interne del castello: stanze in cui non entra ormai da tempo, gli specchi coperti perché non riflettano i muri erosi dal tempo, gli arazzi stinti dai secoli, e il suo viso… il suo viso che invece è sempre uguale. 
Questa volta, invece, sogna la stanza dell’ospedale. Al posto del letto c’è una sedia, sulla sedia una bambina. Jareth impiega un istante a riconoscere la figlia di Sarah.
La bimba mette una mano in tasca: tira fuori una piuma e gliela porge.
-Questa è tua,- gli dice.-L’hai perduta in ospedale.-
-Ma davvero? E magari sai anche chi sono?-
-Sì che lo so: sei la Storia nel libro rosso, quello che mamma tiene in borsa e non apre mai. Non vedi che ha bisogno di te? Perché non arrivi?-
-Non è semplice, marmocchia. Non so come fare!-
-Sì che lo sai! Sei la sua Storia, devi saperlo per forza!-
 
****

Jareth si sveglia di soprassalto, perfettamente lucido.
La prima cosa che nota è che la sua camera da letto è scoperchiata: il soffitto è scomparso e al suo posto c’è il cielo nero nero, punteggiato di stelle.
Anche il letto e le pareti sono scomparsi, rimane solo un brandello di pavimento, sospeso nel cielo infinito.
Jareth si alza in piedi, si stiracchia pigramente e a lungo come un gatto. Cammina fino all’orlo della piattaforma e guarda verso il basso, verso il groviglio di corridoi, archi e scale.
In fondo la marmocchia aveva ragione: quello che deva fare è abbastanza ovvio: la stessa cosa che ha fatto Sarah.

In bilico sull’orlo della piatta forma, Jareth tremò di paura e di aspettativa e mosse un passo avanti.
Mentre cadeva verso il Sopramondo, un vento dolce cominciò a soffiare.
   
 
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