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Autore: Shomer    09/12/2014    7 recensioni
Quando eravamo piccoli, le stelle le vedevamo ogni notte. Prima di andare a dormire, gli scienziati Sovrumani ci concedevano due ore di libertà in una specie di foresta grande almeno due chilometri quadrati, che però era recintata ai lati e superiormente da rete elettrificata.
In un posto come Città Regresso, invece, dove ci vivono tossici e ubriaconi, dove puoi morire come un cane in mezzo alla strada senza far voltare nessuno, dove la gente si accoltella nei vicoli... di stelle non ce ne sono mai.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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3.Tì




Il piano di Mail era spaventoso e, semplicemente, sbagliato.
Durante la mia esistenza, seppur breve, avevo imparato che non importa quanto tu abbia sofferto, che non conta il fatto che meriti un po' di felicità, conta il modo in cui quella felicità te la prendi.
Io lo sapevo bene: avevo ucciso degli uomini – che sicuramente avevano compiuto molte azioni deplorevoli – per salvare la vita dei miei amici e la mia, avevo mentito, avevo rubato, avevo fatto del male a persone che nemmeno conoscevo, tutto per proteggermi e per proteggere quelli che mi erano più cari al mondo. E dopo quello che avevo passato, chi avrebbe potuto biasimarmi? Non meritavo forse anch'io un po' di sicurezza, un po' di felicità? Non meritavo anch'io di vivere?
Ma in questo mondo non funziona così: non contano gli scopi, contano solo i mezzi usati per ottenerli. E se i mezzi sono sbagliati, paghi il pegno.
Io avevo pagato ogni singola cattiva azione che avevo commesso: l'avevo pagata con la paura, la solitudine, gli incubi, con il desiderio costante di consegnarmi ai Sovrumani e non poterlo fare.
Anche Jay aveva pagato. E anche Mail, a modo suo, l'aveva fatto.
Ma adesso mi aveva messo di fronte all'ennesimo vicolo cieco: avrei dovuto compiere un altro gesto ignobile per salvarmi la vita.
Mi aveva concesso un po' di tempo per pensarci, ma come avrei potuto dire di no? Avrei davvero potuto rifiutare, ben sapendo che né lui né Jay sarebbero andati avanti senza di me?
Avrei davvero potuto tirarmi indietro cancellando così ogni possibilità di Mail di costruirsi una vita lontano da noi e dal nostro ricordo?
Se fossi stata più meschina, l'avrei fatto. Mi sarei vendicata per tutte le cose orribili che mi aveva detto poche ore prima, per il modo in cui mi stava facendo sentire, per la confusione in cui mi aveva gettata. Gliel'avrei fatta pagare per aver detto di volerci cancellare. Per avermi dimenticata.
Ma non ero fatta così. E mi ritrovai a pentirmene.
«Posso farlo io al posto tuo.»
La voce di Jay era un sussurro appena accennato. Era sdraiato per terra avvolto da un paio di coperte, proprio accanto al divano su cui invece ero coricata io. La lampada era spenta, ma dalle tende scure filtrava una flebile luce che veniva dalle illuminazioni della città. Non era notte fonda, anzi il sole era appena calato: avevamo deciso di riposarci qualche ora in modo da non recarci alla fossa comune troppo stanchi. Alle due di notte saremmo usciti di casa e avremmo cominciato ad attuare il piano di Mail.
«No» mormorai «Devo farlo io. Posso usare il mio potere... tu, invece... non voglio che ti metti a spostare cadaveri al mio posto.»
Jay sospirò. Non potevo vederlo al buio, ma sapevo che mi stava guardando.
«Mail ti ha chiesto di farlo solo per punirti. Lo sai, vero? Non gli sarebbe mai venuto in mente, altrimenti. L'avremmo fatto io e lui senza neanche porci il problema.»
Strinsi gli occhi. «Lo so.»
«Lascia che lo faccia io» insistette.
«No» ripetei «Forse è quello che mi merito. Però... potresti starmi vicino.»
Lo dissi tutto d'un fiato, arrossendo nel buio della stanza.
Jay non rispose, però tutto d'un tratto cominciai a sentire un fruscio di coperte. La sua mano si insinuò sotto la mia trapunta e le sue dita fredde si intrecciarono alle mie.
Mentre sentivo quel familiare formicolio che partiva dalla punta delle mie dita, pensai che forse Mail aveva ragione e che era vero che quando ero turbata, infelice, persa, era Jay che volevo accanto. Perché sapevo che dopo tutto quello che avevo passato, nonostante tutte le cose che ci univano e ci dividevano, lui ci sarebbe stato e avrebbe trovato il modo di aiutarmi. E non con i suoi poteri, ma con un semplice sguardo, con una carezza. Mi bastava sapere che lui c'era, che esisteva, e mi sentivo meglio.
Ma quella volta, però, mi fece un regalo: il formicolio che partiva dalla sua mano si estese dalla punta delle mie dita fino a percorrermi tutto il braccio. Quando, dopo una manciata di secondi, travolse tutto il mio corpo, sentii un'ondata di pace e tranquillità pervadermi e sprofondai in un sonno senza sogni.




Mail ci aveva spiegato che quel posto si chiamava “Cimitero Discarica” e quella fossa che avevamo visto era il posto in cui gli storpi gettavano i drogati di Mevitol dopo averli giustiziati. La sorveglianza si riduceva a quattro uomini che si alternavano in turni di dodici ore l'uno nell'arco della settimana, ma lo storpio che aveva il turno di notte il mercoledì si addormentava sempre, quindi quello era il momento giusto per introdurci dentro e rubare i cadaveri.
Muovere gli ingranaggi che costituivano la serratura del cancello sarebbe stato un gioco da ragazzi per me, in condizioni normali, ma in quel momento le mani mi tremavano talmente tanto ed ero talmente agitata che non sapevo nemmeno da dove cominciare.
Da qualche parte dietro di me, Mail sbuffò. Questo era un suo atteggiamento che mi era totalmente estraneo: era Jay, quello che sbuffava. Era Jay quello che si lamentava, quello che infieriva, quello che scuoteva la testa. Era lui la serpe, non Mail.
Lentamente mi voltai a guardarlo, con gli occhi che pizzicavano. E mi resi conto che quel mostro l'avevo creato io.
Lui si riscosse, forse accorgendosi che non era un atteggiamento degno di lui.
«Scusa» disse, guardando da un'altra parte. Si avvicinò a me e mi poggiò delicatamente una mano sulla spalla. «Puoi farcela. Concentrati.»
Jay, dietro di noi, osservava la scena impassibile.
Feci un profondo sospiro, mi girai verso in cancello e tentai di concentrarmi.
Sentivo la lieve pressione della mano di Mail sulla spalla e questo contribuì ad infondermi un po' di sicurezza.
Di solito immaginavo l'oggetto che si spostava nella mia mente e questo si muoveva, andando nella posizione che desideravo. Questa volta, però, non potevo semplicemente spostare il cancello, perché avrebbe fatto troppo rumore.
Dovevo immaginare quella piccola levetta che scattava, nonostante non l'avessi mai vista. Era un pochino più difficile del normale.
Respirai a fondo e chiusi gli occhi. Dovevo farcela: il cancello era troppo alto per essere scavalcato e, se volevo fare in modo che Mail si creasse una vita felice, dovevamo entrare là dentro. Non potevo fallire.
«Apri gli occhi, Tì» disse Mail.
«Ancora un attimo» dissi «Posso farcela, aspettate un altro po'.»
«Tì, il cancello è aperto» fece Jay «Ci sei riuscita.»
Aprii gli occhi. Il cancello si era mosso di pochi centimetri. Ci ero riuscita e nemmeno me ne ero accorta.
Non sorrisi. Forse una parte di me non voleva realmente entrare in quel posto a disturbare i morti.
«Andiamo» borbottò Mail, superandoci e spingendo con forza le sbarre di ferro.
Io e Jay ci scambiammo un'occhiata veloce e poi lo seguimmo all'interno.
All'apparenza, quel posto era un cimitero normale. C'erano croci sparse in giro per il prato, cappelle, tombe un po' più articolate, ma Mail non le degnò di uno sguardo. Girava con sicurezza per quei sentieri, senza esitare nemmeno per un attimo; mi domandai quante volte avesse percorso quella strada, di giorno, per preparare il piano.
Ad un certo punto, dopo aver camminato per almeno quindici minuti, arrivammo davanti a quello che sembrava il baracchino del custode. Era di legno e malconcio, ma dalla finestra si riusciva ad intravedere una luce. Mail ci fece segno di stare fermi e si avvicinò per controllare che si fosse già addormentato.
«Via libera» mimò con le labbra e noi gli andammo incontro.
Superò lo stabile e scavalcò agilmente il muretto dietro esso, con noi che ripetevamo le sue mosse. Poi, ci ritrovammo di fronte ad una specie di palazzo.
«Devi aprire un'altra porta, Tì.»
Il palazzo era a due piani, ma il secondo era costruito a metà. Non c'era nessuna finestra e solo una piccola porta arancione. “Vietato l'ingresso”, c'era scritto sopra.
Quella volta non fu difficile come la precedente. Riuscii immediatamente a far scoccare la serratura e la porta si aprì. Fu in quel momento che cominciammo a sentire la puzza.
Mail la ignorò ed entrò, deciso.
Io esitai. Quell'odore rivoltante mi faceva venire i conati di vomito e la testa mi girava.
Jay mi passò un braccio intorno alle spalle, l'espressione amara e gli occhi socchiusi.
«Coraggio, Tì» mormorò «Un ultimo sforzo.»
Feci un profondo sospiro, chiusi gli occhi ed entrai.




I morti non dovrebbero essere disturbati.
Questo era quello che avevo pensato mentre con i miei poteri spostavo un cadavere dopo l'altro, nella spaventosa ricerca di tre ragazzi che ci somigliassero almeno un po' come corporatura.
Jay e Mail li avevano esaminati meticolosamente, bocciandoli dopo una rapida occhiata: «Questo è troppo grosso» diceva Mail, «Questa è troppo giovane», «Questo andrebbe bene se solo non gli mancasse una gamba».
E io li avevo spostati, uno dopo l'altro, con le mani che mi tremavano e le narici pregne di quella puzza di morte che, lo sentivo, mi si stava attaccando ai vestiti, ai capelli, stava cominciando a scorrermi nelle vene.
I morti non dovrebbero essere disturbati.
Per tutto il tempo trascorso dentro quella stanza fatiscente mi ero chiesta quale sarebbe stato il prezzo per un'azione così deplorevole, se sarebbe stato più alto di quelli che avevo dovuto pagare in passato. Mi ero chiesta se un giorno mi sarei liberata di quel ricordo o se avrei passato tutta la vita a sognare le facce di quei tossici di Mevitol morti, molti dei quali lì per causa mia.
Mail non mi aveva degnata di uno sguardo per tutto il tempo. Se mi avesse guardata probabilmente avrei pianto, ma non so se il motivo per cui non lo fece fosse questo. Fatto sta che aveva passato quelle ore impartendo ordini dall'altra parte della stanza, dicendomi: «Questo non va bene, rimettilo a posto», «Prova con questo sotto il ragazzino», «Cerca di essere più ordinata, altrimenti non capiamo quali abbiamo già visto e quali no».
Jay gli aveva lanciato occhiatacce di tanto in tanto, ma non aveva detto niente, probabilmente troppo nauseato per parlare. Forse pensava che se solo avesse aperto bocca quell'essenza di morte gli sarebbe entrata dentro.
Quando finalmente Mail trovò i corpi che cercava, io avevo pensato di essere già morta.
Li avevamo trasportati dentro dei sacchi fino alla mia macchina e li avevamo accasciati nel cofano, ma la puzza arrivava fino all'abitacolo.
Adesso eravamo al fiume che separava Città Regresso dal nulla più completo.
Mail aveva detto che potevamo far finta di esserci accampati lì per scappare dai Sovrumani e perciò avevamo montato una tenda e acceso un fuoco.
«Come stai?»
La voce di Jay sembrava lontana anni luce da me. Lanciava sassi sulla superficie del fiume cercando di fargli fare qualche rimbalzo, ma non ci riusciva.
«Bene» mentii.
Lui ridacchiò tristemente e lanciò un altro sasso, questa volta con più rabbia di prima.
Il fiume, di cui non conoscevamo il nome, scorreva veloce guidato dal vento freddo che ci scompigliava i capelli. Mi domandai se, immergendomi completamente nelle sue acque, avrei potuto levarmi di dosso tutto quello sporco che mi stava prendendo anche l'anima.
«È qui che ho buttato la mia moto» disse Jay «Quella che avevamo rubato dal parcheggio del cinema. Quella nera.»
«Immaginavo fosse sempre la stessa» borbottai.
«L'ho buttata perché non volevo che ci rintracciassero a causa di essa... e poi scopro che il piano di Mail prevedeva proprio il farci rintracciare. Insomma, ho perso la moto senza motivo.»
«Brutta storia.»
«Già» lanciò un altro sasso e questa volta fece un rimbalzo «L'avevo riverniciata, sai? Insieme a Dylan. L'avevamo fatta rossa.»
«Un colore che non attira l'attenzione, insomma.»
Jay rise. Non era mai stato attento e meticoloso come me e Mail, proprio per questo ero sempre stata convinta che sarebbe stato il primo ad essere preso.
«È il colore preferito di Dylan» si giustificò con un'alzata di spalle.
«Anche il mio.»
«Lo so.»
Mi strinsi le ginocchia al petto, appoggiandoci sopra la testa. Il rumore dei sassi contro la superficie dell'acqua mi trapanava le orecchie e in lontananza riuscivo a sentire anche le dita di Mail che battevano furiosamente sulla tastiera. Forse stava sincronizzando le bombe con il telecomandino che si era portato dietro.
«Se sopravviveremo a questa notte... pensi che tornerai da lui?» domandai, atona «Da Dylan.»
Jay si passò una mano sul mento e sulla bocca. «No» rispose, secco.
«Lui lo sa?»
«Gli ho lasciato un biglietto sul frigo.»
«Capisco.»
Feci un mezzo sorriso. Jay non era fatto per gli addii: a volte perché non gliene importava niente, a volte perché gliene importava troppo. Mi domandai in quale categoria di persone rientrasse questo Dylan e in quale rientrassi io. Probabilmente eravamo entrambi nella seconda, ma tanto lui non l'avrebbe mai ammesso. Mail era sicuramente nella seconda.
Due anni prima, quando avevamo scelto di dividerci, ci aveva guardati a lungo. Poi aveva alzato piano la testa, aveva deglutito guardando Mail, gli aveva fatto un cenno e aveva dato gas alla moto.
Non si era voltato indietro nemmeno per un attimo. Forse quella era stata la seconda volta in cui mi aveva spezzato il cuore.
«Ce l'hai un posto dove andare?» gli chiesi.
«No. Tu?»
«No. Farò come l'altra volta... prenderò un treno a caso e scenderò in una stazione a caso.»
Lui rimase in silenzio, guardando il suo riflesso sporco sulle acque limpide.
«Jay...» cominciai, esitante.
«Dimmi.»
«Secondo te ci rivedremo, prima o poi?»
Jay si passò una mano sulla testa e alzò lo sguardo al cielo. «Le nostre vite scorrono insieme, Tì. Non te lo dimenticare.»
«Mail non vorrà vederci mai più. Per colpa mia.»
«Che bel regalo che mi hai fatto, eh?» disse a denti stretti. Mi guardò senza rabbia, senza accusa, ma il suo tono era amaro.
Deglutii, sentendo gli occhi che mi pizzicavano. Mi maledissi per non aver ascoltato Mail, il giorno prima. Lui l'aveva detto, che era meglio non parlare. L'aveva detto, che così facendo ci saremmo portati dietro un brutto ricordo. E di fatto, parlando, avevamo scombinato le carte in tavola. E avevamo rovinato tutto.
Ci sono cose che non si devono dire. E ferite che non si devono riaprire.
«Ti ricordi i primi mesi da fuggiaschi?» domandai, sentendo che le unghie mi si stavano conficcando nei palmi.
Jay, accanto a me, si mosse nervosamente. «Sì» disse.
«Avevamo paura di dormire da soli» continuai «Quindi dormivamo tutti e tre nello stesso letto, ma stavamo stretti. Mail è un gigante, si prendeva tutta una piazza...»
«Tu stavi schiacciata come una sottiletta e tremavi come una foglia.»
«E tu ti lamentavi perché non riuscivi a dormire e mi dicevi di smetterla, altrimenti te ne saresti andato sul divano. Mail ti diceva di piantarla e di fare silenzio, ma anche lui sapeva che non te ne saresti mai andato.»
Jay mi sfiorò le nocche della mano chiusa a pugno con le sue dita incredibilmente fredde. «Magari prima o poi mi avresti esasperato talmente tanto che me ne sarei andato. Chi lo sa?»
«Facevi in quel modo ogni notte» continuai, ignorandolo «Dopo un po', quando non ne potevi più, mi mettevi una mano sul collo e io cominciavo a sentire quel formicolio strano... e poi mi addormentavo.»
«Dove vuoi arrivare?»
«Ha ragione Mail» mormorai. «Sei sempre stato tu. Sarai sempre tu, Jay.»
«Lo so» rispose lui.
Chiusi gli occhi. Il venticello che si era alzato era gelido e sferzava la superficie dell'acqua. Poi alzai lo sguardo: i piccoli sassolini sembravano riflettere la luce e pensai che somigliassero a tantissime stelle. Da lontano riuscivo a sentire il ticchettare frenetico delle dita di Mail sulla tastiera.
Pensai che quello era un bel posto per morire.
«Tì, io...»
«Non importa» lo interruppi «Non c'è bisogno che mi rispondi. L'abbiamo già fatto questo discorso, no? Anni fa... Va bene così. Mi basta che tu ci sia.»
Jay mi cinse le spalle con un braccio. Mi voltai a guardarlo a notai che aveva gli occhi un po' lucidi, anche se la bocca era incrinata in un mezzo sorriso. Appoggiai la testa sulla sua spalla e lui mi strinse più forte.
«Vorrei poter continuare ad esserci» sussurrò «Lo vorrei davvero.»
«Lo vorrei anche io.»





Era tutto pronto. Mail aveva piazzato le bombe che aveva costruito tutte intorno al perimetro, avevamo fatto sparire i sacchi per i cadaveri – che ancora giacevano nel bagagliaio – e tenevamo vivo il fuoco vicino alla tenda. Eravamo riusciti a creare un ambiente particolare: sembrava che avessimo davvero deciso di stabilirci in quel posto.
Aspettammo tutta la notte e il giorno successivo, ma quando il sole calò di nuovo e la luna si liberò alta nel cielo, vedemmo il furgone blindato arrivare.
Eravamo pronti.
Sapevamo che le possibilità di successo erano scarse e che avremmo dovuto essere scaltri, attenti, furbi.
Ci alzammo tutti e tre.
Jay si voltò a guardarmi. «Non preoccuparti, Tì» sussurrò, sfilandosi la pistola dai pantaloni. «È un bel posto per morire.»
Non dissi niente.
Mail, accanto a me, stringeva spasmodicamente il piccolo telecomandino per azionare le bombe. Con l'altra mano mi passò una pistola. Mi sembrava quasi che mi stesse ustionando la mano, talmente era gelida.
Quando i nostri sguardi si incrociarono, abbozzò un sorriso nervoso. Mi domandai se fosse felice perché da lì a poco le nostre strade si sarebbero divise per sempre.
Dal furgone scesero cinque persone: tre uomini e due donne, tutti vestiti di nero, segno che erano cacciatori di taglie. Non erano Sovrumani: lo capivo dai loro visi, dalla loro corporatura, dalle loro espressioni.
I Sovrumani erano bellissimi e la loro bellezza risplendeva tutta intorno a loro, quasi abbagliando coloro che li guardavano. Avevano espressioni fiere e altezzose, senza nessun segno di paura o nervosismo, guardavano coloro che ritenevano inferiori con disgusto e pena.
No, loro erano semplicemente Rieducati di primo livello, ciò che saremmo dovuti diventare noi se non fossimo scappati. Probabilmente i Sovrumani avevano pensato che non valeva la pena scomodarsi per tre scarti come noi.
Niente di più sbagliato.
Alzarono le armi e una delle due donne, con un'espressione talmente cattiva da ricordarmi un diavolo, parlò. «Non opponete resistenza e nessuno si farà male» disse, ma dal suo sguardo riuscivo a capire che non desiderava altro che piantarci una pallottola in fronte. «Abbassate le armi.»
Jay non diede segno di averla sentita e tenne ancora più alta la pistola.
«Sono troppi» disse Mail in un sussurro appena percettibile «Non posso controllarli tutti. Tre di loro devono morire.»
Serrai la bocca nervosamente. Li passai in rassegna uno ad uno, cercando di immaginare quali di loro sarebbero morti da lì a poco o se sarebbero stati più furbi di noi e ci avrebbero fatto fuori prima che potessimo premere il grilletto.
Lanciai un'occhiata a Jay vedendo che non stava battendo ciglio. Forse aveva già deciso che sarebbe stato lui a farlo.
«Abbassate le armi» ci intimò uno dei Rieducati. «È finita, ragazzi.»
Jay e Mail si scambiarono un veloce cenno di intesa e le abbassarono.
Sembrava che il tempo stesse scorrendo molto più lentamente di quello che era in realtà: vedevo quei cinque uomini avvicinarsi con passo calmo e le pistole alzate, sentivo il rumore del fiume che scorreva alle mie spalle, lo scoppiettio del legno che bruciava alla mia destra.
Poi, Mail ci guardò, ci fece l'occhiolino e premette il pulsante.






Da quel momento in poi successe tutto velocemente. Ciò che dovevamo fare ci era stato spiegato minuziosamente da Mail, quindi eravamo preparati, sincronizzati, precisi. Ci fu solo un piccolo cambio di programma: non appena le bombe esplosero e gli alberi cominciarono a bruciare, nella baraonda che si creò e di fronte alle espressioni stupite dei Rieducati, Jay premette il grilletto cinque volte talmente velocemente che i miei occhi non riuscirono a registrare alla perfezione ciò che stava succedendo.
Vidi due uomini e una donna cadere a terra: uno con un foro sulla fronte e gli altri con due buchi nel petto.
Prima che i due superstiti potessero rendersene conto, Mail alzò un braccio e chiuse il pugno: gli stava facendo ciò che lui chiamava “ipnotizzazione con stile”.
«Forza!» gridò «Adesso!»
Jay gettò la pistola per terra, più padrone di sé di quanto sarei stata io se avessi appena sparato a tre persone, e corse verso di me.
Aprì il cofano dell'auto e insieme cominciammo a tirare fuori i tre cadaveri, mentre il puzzo di morte mescolato al fumo causato dall'incendio ci impregnava le narici, i vestiti, i capelli.
Mail, a pochi metri da noi, aveva gli occhi chiusi stretti stretti e il pugno serrato in aria.
L'uomo e la donna davanti a lui erano immobili, le braccia lasciate libere lungo i fianchi, gli occhi aperti e i visi completamente inespressivi.
Io e Jay sistemammo i corpi in auto: uno sul sedile anteriore, al volante, e gli altri due nei sedili posteriori.
Dall'esterno feci in modo che la chiave girasse nella toppa, che il piede del cadavere che doveva essere Mail premesse sull'acceleratore, che la macchina partisse.
Jay andò vicino ai Rieducati, sfilò lentamente le loro due pistole dalle mani e sparò una raffica di colpi all'auto che, finita sugli alberi infuocati, prese fuoco.
Dopo, risistemò le pistole nelle mani dei proprietari.
«Mail!» gridò «Andiamocene!»
Lo afferrò per un braccio e lo guidò mentre lui stava ancora con gli occhi chiusi. Lo portò lontano dall'incendio, lontano dal fumo, abbastanza lontano da poter scappare. Io li seguivo e, quando fummo ad una cinquantina di metri da loro, nascosti dietro degli alberi, Mail aprì gli occhi e abbassò il pugno, segno che “l'incantesimo” era finito.
Sentimmo uno dei Rieducati urlare all'altro di chiamare i rinforzi, i pompieri, un'ambulanza, qualcuno.
Sapevo perfettamente ciò che avevano visto: noi che correvamo verso la macchina e Jay che ci seguiva dopo aver sparato a tre di loro, mentre cercavamo di ripararci dalle pallottole. Il fumo che copriva tutto, gli alberi che bruciavano.
Mail che metteva in moto mentre noi salivamo sul sedile posteriore. La macchina che barcollava mentre cercavamo di scappare, ma non ci riuscivamo perché loro ci sparavano addosso colpendo vetri, gomme, serbatoio.
E poi, quando ormai il veicolo non poteva in nessun modo continuare a muoversi, nelle loro menti finiva tra le fiamme, impedendoci di uscire e bruciandoci vivi.
Eravamo morti. Forse anche per davvero.




Nella mia mente la stazione di Città Regresso era più un simbolo che un luogo. Rappresentava la sconfitta, la malinconia, la solitudine.
Rimetterci piede dopo due anni fu strano.
Vedevo Sovrumani in giacca e cravatta che camminavano lentamente, composti, forse per prendere qualche coincidenza; storpi che si aggiravano per quelle vie senza una meta precisa, senza nessuno scopo a parte il rimanere in vita; mamme che guardavano i loro figli tristemente, pensando al giorno in cui glieli avrebbero portati via.
Nei due anni in cui avevo vissuto a Città Regresso avevo pensato spesso a mia madre. Mi ero chiesta dove si trovasse, se fosse ancora viva. Mi ero ritrovata più volte a sperare che fosse morta e che avesse smesso di soffrire.
Quando vivevo al Centro 23, speravo sempre che un giorno o l'altro sarebbe venuta a prendermi e mi avrebbe portata via con sé. L'avevo confidato a Mail e lui mi aveva risposto che probabilmente le avevano manomesso il cervello talmente tanto che mi aveva dimenticata.
Io invece non l'avevo dimenticata. Non avrei mai dimenticato nessuno di loro: mia madre, Jay, Mail.
Li avrei sempre custoditi gelosamente in un angolo del mio cuore, pensando a loro costantemente, ripercorrendo con la mente i momenti più felici.
Non avrei mai parlato di loro con nessuno, in modo che rimanessero solo miei. E avrei accettato tutti i sentimenti contrastanti che forse solo in quel momento, quello dell'ennesimo addio, riuscivo a comprendere completamente. Li avrei accettati e li avrei fatti miei, senza mai cercare di cancellarli.
Perché avevo capito che quei sentimenti non li potevo combattere.
Avrei passato il resto della vita sperando di rivedere Jay, un giorno o l'altro. E sperando di non rivedere mai più Mail.
Lo guardai. Lui mi sorrise per un solo istante.
«È andato tutto bene» sussurrò «Adesso è arrivato il momento di levare le tende.»
Jay alzò il capo e respirò a fondo. Si sistemò gli occhiali da sole sulla testa, il viso deformato da un'espressione che non riuscivo a riconoscere.
Le luci blu elettrico del bagno in cui ci eravamo rifugiati mi confondevano e creavano giochi particolari negli occhi di Mail, che strinse le labbra e si voltò dall'altra parte. Avrei tanto voluto sapere che cosa gli passasse nella mente in quel momento, perché ciò che immaginavo mi faceva solo stringere il cuore in una morsa dolorosa.
Jay si appoggiò alla parete, le mani congiunte dietro la schiena.
«Facciamo al solito modo, allora. Scegliete un treno qualsiasi e salite» disse a denti stretti «Non voltatevi mai indietro. Forse ci rivedremo, un giorno... in un'altra vita.»
Mail stringeva spasmodicamente i pugni. Deglutì, prima di parlare. «Non ci rivedremo» soffiò «Non stavolta.»
Ci guardò intensamente per una manciata di secondi. I suoi occhi scuri erano lucidi e coperti a tratti da riccioli ribelli, ma il suo viso non fu attraversato da niente che ricordasse la tristezza o il rimpianto.
Jay strinse le labbra. «Mail...» tentò, facendo qualche passo deciso verso di lui.
«No, Jay» disse Mail, indietreggiando e alzando le mani a mo' di resa. «Io... so che hai sentito quello che ho detto ieri. Non avrei voluto, ma... quel che è fatto è fatto, insomma. So che non è colpa di nessuno. Non posso farci niente.»
«Se mi lasciassi spiegare...» feci io, anche se in realtà non avevo idea di che spiegazione avrei potuto dare.
«No, Tì» rispose Mail «Ma mi avete visto? Non sono io questo. Non voglio essere così. Le cose che ho detto... le penso davvero, ma... è colpa mia. Non avrei dovuto intrufolarmi nei tuoi sogni, Tì. Ma il pensiero di... mi fa impazzire, lo capite?»
Mail gesticolava e sbatteva frequentemente le palpebre. Non sembrava avere ben chiare in testa le cose che voleva dirci. In lui riconobbi un po' del Mail che avevo conosciuto anni prima.
Né io né Jay aprimmo bocca.
«Devo prendermi una pausa. Una pausa dagli appostamenti notturni, dagli storpi che mi passano informazioni, dalle telecamere infrarossi... non ce la faccio. Devo iniziare da capo. E voi fate parte di un periodo della mia vita che voglio dimenticare.»
Nessuno si mosse. Rimanemmo lì, immobili, a guardarci per un lungo periodo. Le parole di Mail pesavano sulla mia schiena e sul mio stomaco come macigni. Non provai nemmeno l'impulso di piangere.
Fu lui il primo ad interrompere il contatto visivo. Chiuse gli occhi, girò la testa di lato e strinse il pugno.
«Allora io vado» disse.
Mi passò una mano sulla guancia, facendomi rabbrividire, e abbracciò Jay.
Poi si voltò e si chiuse la porta alle spalle. Noi due rimanemmo a fissarla per un po', sentendo ancora il rumore nelle orecchie.
Mi voltai verso Jay. Aveva gli occhi chiusi e le labbra strette, come se stesse cercando di metabolizzare senza riuscirci, come se da un momento all'altro si sarebbe messo ad urlare e a tirare pugni agli specchi. Ma sapevo che non l'avrebbe fatto. Infatti sospirò e aprì gli occhi, con la malinconia che attraversava ogni tratto del suo viso pallido.
«Cambierà idea» dissi «Lo conosco.»
«Non lo farà» rispose senza guardarmi «È proprio perché lo conosci che sai che non lo farà.»
«Ma...»
«Non possiamo farci niente, Tì. Alcune persone se ne vanno e basta.»



 
4.La stazione di un'altra città




È Jay ad interrompere il silenzio. Ha passato gli ultimi quindici minuti guardandosi intorno con discrezione, battendo quasi impercettibilmente l'indice sulla coscia, forse pentendosi di essere salito sul quel treno con me. «Questo è l'unico che va a nord» ha detto, a mo' di giustificazione «E io voglio andare a nord.»
Quando sento che sta parlando, non mi giro. Non voglio guardarlo. Riesco ad avvertire che il treno comincia a perdere velocità e so che il momento sta arrivando.
«Devo scendere» sussurra al mio orecchio «È stato già abbastanza rischioso salire.»
Sento che gli occhi mi si stanno riempendo di lacrime, allora mi sforzo di continuare a guardare il paesaggio che scorre sempre più lentamente fuori dal finestrino.
Riesco ad avvertire la presenza nervosa di Jay al mio fianco e cerco di imprimermi nella mente la sensazione che provo nel sapere che è lì, vicino a me.
«Se per qualche assurdo motivo dovessero continuare a cercarci...» comincio, la voce bassa e tremolante «E non lo faranno, perché ci credono morti... in ogni caso cercherebbero tre ragazzi, Jay.»
Lui respira velocemente dal naso. Mi sembra quasi di avvertire il suo cuore battere e il suo cervello lavorare.
«Non me lo chiedere, Tì» dice.
Arrossisco, vergognandomi del mio egoismo. Sapevo fin dal primo momento che gliel'avrei chiesto.
«Jay...»
Lui mi prende la mano, stringendo forte, e con l'altra mi obbliga a voltare il capo nella sua direzione. Ha il volto pallido, cadaverico, gli zigomi sporgenti e gli occhi liquidi.
«Non chiedermi di restare» mormora.
«Resta.»
Ci guardiamo a lungo. Il treno cammina sempre meno velocemente e so che abbiamo pochissimo tempo prima che si fermi.
«Devo scendere» dice lui con voce spezzata «Non c'è alternativa e lo sai.»
«Staremo attenti!» rispondo, sentendo le lacrime che cominciano a rigarmi il viso. «Non pretendo niente da te, Jay, te lo giuro... però... non voglio rimanere di nuovo sola.»
Lui mi abbraccia, nascondendo il mio viso nell'incavo del suo collo. Le volte in cui mi ha abbracciato, da quando lo conosco, le posso contare sulle dita di una mano. Forse adesso lo sta facendo solo perché qualcuno dei passeggeri potrebbe chiedersi come mai sto piangendo. Sicuramente non vuole attirare l'attenzione.
«Lo so, Tì, lo so» mormora «Ma non possiamo... proprio adesso...»
Mi passa una mano prima su una guancia e poi sull'altra, asciugandomi le lacrime. Alzo lo sguardo su di lui e mi accorgo che i suoi occhi, talmente chiari da sembrare grigi, sono tormentati. So che in questo momento molto probabilmente sta pensando a Mail, ma io sono talmente egoista da cercare di trattenerlo.
So anche che non avrò mai Jay per me, non sono stupida, e rimpiango costantemente i giorni in cui credevo di essermi liberata dell'ossessione che nutro per lui. I giorni in cui, nonostante il suo viso apparisse costantemente nella mia mente, accantonavo tutto facendo finta di niente e mentendo a me stessa.
So che quei giorni non torneranno mai più. E so che questo è un regalo che mi ha fatto Mail. Mi ha donato un'esistenza di ossessioni e rimpianti.
Jay mi stringe forte e io mi aggrappo alle sue spalle.
«Due anni fa avevo giurato che non sarei mai venuto da nessuno di voi» sussurra al mio orecchio «Adesso invece ti prometto un'altra cosa. Quando le acque si saranno calmate, quando i Sovrumani si saranno dimenticati di noi... verrò a cercarti. Non so quanto tempo ci vorrà, ma quando quel momento sarà arrivato, Tì, ti cercherò e ti troverò.»
«Giura che verrai.»
«Lo giuro.»
Jay scioglie l'abbraccio, si sistema gli occhiali da sole sugli occhi e raccoglie lo zaino da terra.
Proprio mentre si sta alzando, il treno si ferma e le porte si aprono.
I punti in cui il suo corpo ha aderito al mio adesso sono gelidi.
Lo seguo con lo sguardo finché non scende dal treno e poi lo cerco tra la folla fuori dal finestrino.
Prima di voltarmi le spalle e andarsene, sorride.




 





E anche questa è fatta. Sicuramente non è la storia migliore che abbia mai scritto, ma ho avuto una specie di impulso qualche mese fa e insomma non poteva rimanere a marcire nella mia testa. 
Ringrazio tutti coloro che hanno recensito e messo la storia nelle varie liste (siete tantissimi, non mi aspettavo un tale seguito per una storia del genere!). Siete dei tesori :)
Soprattutto ringrazio Alessia (ale93) ribadendo che questa è per te tesoro, se non fosse stato per te probabilmente Jay non sarebbe mai nato, quindi... è tutto tuo! XD
Grazie mille a tutti, ragazzi! Vi lascio il mio link facebook, nel caso qualcuno volesse contattarmi: 
https://www.facebook.com/shomer.efp
e tutti gli altri (twitter, ask e credo basta) li trovate sulla mia pagina autore.
Un bacio a tutti e a presto!!! 

 
   
 
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