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Autore: Feynman    09/12/2014    9 recensioni
E così, lui la baciava con le sue labbra fredde e lei, con i suoi petali di rosa rossa, lo accoglieva tra le braccia e sul suo petto di spiaggia messicana, che brillava anche se pioveva; che brillava anche sotto i suoi occhi d’inverno.
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Spin-off a tema Jean e Amélie.
Tutto ciò che non è scritto in "A Midwinter's Story", potete trovarlo tra questi spaccati di vita.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime, Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
- Questa storia fa parte della serie 'Red rose lips - Cold winter eyes'
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Jean&Amélie




«Quand’è la prima volta che hai fatto l’amore?»

«La settimana scorsa»

«La settimana scorsa l’hai fatto con me»

«Non capisci proprio niente, Pointreux»
 

 
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“ Sfacchinava in quel locale quasi dieci ore al giorno, tornava a casa – quando non le dicevano di aver bisogno di lei per coprire il turno di Sarah –,  si gettava sotto l’acqua – il più delle volte fredda, perché quel coglione del suo compagno svuotava sempre lo scaldabagno – e si concedeva quella mezz’ora di pausa, quella mezz’ora senza pensieri e piena di amore per se stessa; si sfiorava, piano e gentilmente, con la spugna e sfregava la pelle, fino a farla diventare rossa, con il bagnoschiuma che sapeva di menta – come le sigarette che comprava quando era il suo compleanno.

Usciva dal bagno e non sentiva il cambiamento di temperatura. Usciva da quella mezz’ora di pace, con la pelle rossa e gli occhi stanchi, andava verso il suo compagno – stravaccato su quel divano di pelle lisa – e lo baciava anche se era un coglione; anche se la costringeva a quelle dieci ore di lavoro forzato dentro a un pub fumoso – la divisa, sapeva, avrebbe finito col donarle davvero.

Si lasciava abbracciare dall’accappatoio di spugna che, una volta, era una dolce carezza e ora, in quel monolocale sempre silenzioso nel Bronx, le graffiava la pelle che sapeva di menta e che era morbida come le spiagge messicane. I suoi capelli, dopo quella mezz’ora di pace, tornavano neri e i suoi occhi si facevano languidi – erano terra nera e fresca, pronta per la semina.

E anche se era stanca, decideva di voler amare, per una sera ancora, quel coglione del compagno che la sfruttava e che le succhiava via l’anima, il sangue dagli occhi e la passione dalle vene. Lei lo amava comunque, si lasciava accarezzare e sfilare quell’accappatoio di spugna che le graffiava la pelle che sapeva di menta… e che era morbida.

Lui, con i suoi occhi freddi e le labbra gelate, le chiedeva perdono ogni volta che lei si concedeva, gli regalava il suo amore ancora per una notte e lui – lui lo sapeva – che sarebbe durato per ore, giorni o anni anche se continuava a toglierle la passione dalle vene e il sangue dagli occhi.

Lei, silenziosamente, non lo perdonava mai e continuava ad amarlo come il primo giorno. Lui era la sua nuova passione, il suo nuovo enigma da risolvere e la ragione di quelle dieci, sfiancanti, ore in quel pub fumoso dove le cameriere, quelle come lei, erano le puttane di coglioni fortunati e pieni di sogni irrealizzabili che toglievano, a tutte loro, la voglia di baciarli dopo essersi accarezzate per una mezz’ora piena d’amore per loro stesse.

Lei continuava ad amarlo e volerlo. Lei continuava ad accettare le sue carezze. Lei continuava a non sentirsi la puttana di un coglione fortunato perché, anche se coglione, fortunato non lo era – proprio come lei e si erano incontrati.
Lei amava i suoi capelli neri e i suoi occhi di ghiaccio – che erano l’inverno e l’acqua della doccia –, le sue mani erano grandi e le sue dita gentili, il suo viso brillava sempre di sorrisi e lei non poteva sentirsi la puttana di quell’uomo, perché era lui la sua puttana.

E così, lui la baciava con le sue labbra fredde e lei, con i suoi petali di rosa rossa, lo accoglieva tra le braccia e sul suo petto di spiaggia messicana, che brillava anche se pioveva; che brillava anche sotto i suoi occhi d’inverno. ”


 
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«Sei il solito esagerato»

«Non sono esagerato»

«Sì che lo sei… rileggi quello che hai appena scritto e parliamone»

«Sai che adoro parlare di quello che scrivo. Tu mi vizi troppo»

Alzò gli occhi dal bancone di legno scuro e lo guardò.

Sorrideva appena perché non poteva incazzarsi con lui, perché lo amava. Amava leggere di se stessa che, con le sue parole, sembrava così bella mentre, ogni mattina, davanti a quello specchio sbeccato, si sentiva stanca e vecchia di vivere a soli venticinque anni – perché lavorava, sul serio, dieci ore di fila per far scrivere quel coglione del suo compagno.

«Infatti dovrei tenerti a dieta, per un po’. Ultimamente sono troppo dolce»

«Tutta colpa di New York a Natale, mia cara»

Anche lui l’amava.

Lui l’aveva amata per primo, da quel giorno di dicembre, sotto i viali alberati di Cambridge mentre lei l’aveva odiato sul serio. Lei aveva occhi per altro e non aveva certo tempo per uno come lui; per uno che aveva i sogni irrealizzabili scritti negli occhi e si perdeva in quelli di lei – lei che avrebbe conquistato il mondo comunque.

New York, a Natale, era bella sul serio e, quando lei finiva il turno, si ritrovavano a passeggiare nei viali illuminati – i viali dei ricchi, dove le vetrine splendevano e i regali avevano sei zeri. Lei non desiderava niente. Lui avrebbe voluto donarle il mondo ma poteva incartarle sono una stecca di cioccolata fondente che, ogni anno, le bastava.

Lei non aveva abbandonato i suoi sogni, li aveva ancora tutti scritti negli occhi. Sognava, di notte, quelle nuove sale piene di calcolatori rumorosi. Le sue carole di Natale sarebbero state altre. Lui lo sapeva e non poteva fare niente. Lui lo sapeva e la portava al laghetto ghiacciato per sentirla parlare dei legami dell’acqua; per sentire la sua voce che si animava davanti alle meraviglie che aveva lasciato per colpa sua.

«Amy, back to work!»

«Five minutes, Sam»

«Il tuo capo è uno stronzo…»

«Quello stronzo ci fa mangiare»

«Stop to speak French!»

«È stronzo comunque…»

Amélie prese il taccuino nero delle ordinazioni, girò intorno al bancone e baciò il suo Jean. Accarezzò, con la sua lingua, il suo palato e credette di essere tornata sotto gli alberi di Cambridge, su una di quelle panchine di marmo o con la schiena attaccata a una vecchia colonna gotica. Credette di sentire, di nuovo, l’odore di tè e dei libri antichi della biblioteca, sentì il gesso fra le dita e la polvere che ne solletica le narici. Le sembrava di essere tornata ai tempi delle formule scritte, febbrilmente, sulle enormi lavagne anche se era alle prime armi, anche se odiava tutti i corsi che stava seguendo perché nessuno – nessuno – le stava dando ciò di cui aveva bisogno davvero.

Gli occhi di Jean le promettevano le colonne di Cambridge; le mani di Amélie gli dicevano che New York le sarebbe bastata. Le sue mani non erano più sporche di gesso, ma di caffè e i suoi capelli non sapevano più di neve ma di fumo; le sue labbra, però, erano sempre morbidi petali di rosa rossa.

«Vieni a prendermi tra tre ore, signor Goodfellow»

«Non dovresti stancarti troppo… non nel tuo stato»

Amélie aveva un bel pancione. Essere al sesto mese di gravidanza, lavorare in un pub di New York, vicina al porto, dove sei solo la puttana di un coglione fortunato, non era il futuro che si sarebbe immaginata quando, a vent’anni, riempiva le lavagne verdi di gesso e si sporcava il viso con la polvere; quando Jean entrava in quelle aule che mettevano soggezione, che odoravano di sapienza e di futuro, e la baciava sconsacrando il Tempio di Newton. Non si immaginava così, a quindici anni, quando nella sua cameretta rosa sognava i cortili gotici, le pianure inglesi e le scogliere a picco sul mare grigio. Non credeva che, poco dopo aver compiuto i ventuno anni, avrebbe abbandonato la tanto sudata Inghilterra per fuggire in America – dal paese della Tradizione, al continente dell’Esagerazione.

«Stiamo bene»

Amélie, anche se non si sarebbe mai immaginata così, era felice.

Rideva, quando tornava a casa – nella loro casa – dopo quelle dieci ore di turno sfiancante. Rideva, quando si lasciava abbracciare e accarezzare il ventre prominente e pieno di vita – nuova linfa per quel vecchio mondo. Rideva, quando immaginava il volto, sempre sorridente, di suo padre se solo avesse potuto tenere in braccio la sua bambina.

«Sei sempre più bella…»

«È colpa di New York a Natale»


 
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Cos’ha, il papà?

Cosa si risponde, a una bambina di quattro anni, con i suoi piccoli dentini e i suoi grandi occhi azzurri, quando chiede a sua madre cosa passi per la testa del padre?

Le si dice “niente, piccola mia. Papà è solo un po’ stanco” e sa, mentre sputa fuori quelle parole, che è tutta una grande cazzata ma non può piangere davanti a quei grandi occhi azzurri; non può farsi vedere debole davanti a quell’uomo che ama – amava – quando le dice – quando le urla – di essere una sporca vacca, una puttana senza speranze e una stupida che non ha fatto niente, per la sua vita.

Quando fuori è notte e fa freddo, si alza avvolta nella sua coperta e si siede sul divano, davanti all’enorme finestra, e ripensa agli attimi felici – che mai ritorneranno – nelle enormi aule, nei caffè di New York, nei bistrot parigini e nelle piazze romane. Ripensa a se stessa che ha respirato il mondo, rivede i suoi occhi innamorati che si guardavano in uno specchio sbeccato, riascolta i pianti di quel frugoletto che ha avuto gli occhi sempre troppo grandi per accettare le sue bugie.

«Torna a dormire»

Le sembra che urli anche quando dovrebbe sussurrare. Non ha la forza per voltarsi e per dirgli che deve abbassare la voce, che Ophélie dorme con la porta aperta, che se lo dovesse sentire accorrerebbe subito per difendere sua madre, per proteggerla con i suoi grandi occhi azzurri – perché ha solo quattro anni ma dopotutto è figlia sua.

«Non ho sonno»

«Prenditi un cazzo di sonnifero e torna a dormire»

Sapeva che le sue erano labbra di ghiaccio, ma mai sarebbero dovute diventare di veleno. Non sapeva perché ce l’aveva con lei, non immaginava perché la odiasse. Aveva fatto di tutto, lei, per permettergli di continuare a scrivere, per donargli quella tranquillità che lo avrebbe fatto rilassare, per non farlo preoccupare delle incombenze domestiche.

Amélie era diventata, con gli anni, come suo padre che aveva amato la moglie fino alla morte, anche quando lei lo odiava, anche – e soprattutto – quando cercò di ucciderlo con quel sovradosaggio di medicinali.

Amélie s’era fatta cieca; si era cavata le orbite per quell’uomo che, da tempo, non la meritava più. Amélie aveva iniziato a inghiottire le bocconate di veleno e bile che Jean, nei deliri della droga e da vigile, continuava a vomitargli addosso. Lei lo amava. Lei era la sua donna dagli occhi di terra nera e dalle labbra di rosa rossa.

«Non posso prenderli, i sonniferi»

Lei, che non aveva mai sussurrato in vita sua, adesso era costretta a farlo. Portava della nuova linfa, in grembo, dopo cinque anni di freddo e silenzio. Violentata dal suo stesso marito...

…no, violentata da un drogato che si era introdotto, come un cancro silenzioso, in casa sua.

Jean non parlava.

Quando era in sé – ma quando era in sé? – sembrava tornare quello di sempre: prendeva Ophélie in braccio, la portava in giardino, le raccontava le storie e poi, quando la piccola urlava a gran voce il nome di sua madre, Amélie si sbrigava a portarla dentro; si sbrigava ad allontanarla dai conati di vomito di suo marito in crisi d’astinenza.

Avviluppata in quella coperta di flanella fin sopra i capelli, sembrava una piccola donna cresciuta troppo in fretta. Gli occhi grandi di terra nera, inghiottiti dal buio all’interno del suo guscio caldo. Sussultò appena quando sentì, in cucina, il rumore di qualche tazza che cadeva – che fosse la volta buona?

Non si ricorda quand’è che ha iniziato a sperare nella morte del marito. Non si ricorda quando ha iniziato ad odiarla e a dirle che era una puttana – sembrano i tempi di New York quando, puttana, poteva esserlo sul serio – e non si ricorda quando Jean, suo marito, il padre di Ophélie – e di quella nuova creatura – era diventato l’altro: l’uomo che le entrava nel letto, che le afferrava i polsi; l’uomo violento delle notti d’estate che non sembrava ricordare le parole d’amore che, un tempo lontanissimo, le sussurrava nelle orecchie.

Amélie non è più la donna con la pelle di spiaggia messicana.

Jean è rimasto l’uomo dalle labbra di ghiaccio.

«Dove l’hai messa?!»

Le urla.

Jean urlava così tanto. La sua voce non era fatta per le urla.

Jean aveva la voce calda, da vento estivo, da torrente di montagna. Jean, con quella voce, avrebbe potuto farci l’amore senza nemmeno toccare una donna e lei, in balìa di antichi incantesimi, sarebbe stata coinvolta nell’orgasmo più travolgente, totalizzante, obnubilante che un uomo fosse in grado di procurare – perché Jean aveva la voce dei torrenti di montagna e dei venti estivi.

Cercava la droga, il suo uomo dalle labbra di ghiaccio.

La voleva, il suo uomo dagli occhi d’inverno.

Lei, nel suo bozzolo di flanella tremante, si costringeva a non piangere perché era Amélie. In onore della donna che fu; per quella ragazza che aveva i sogni scritti negli occhi, per quella quindicenne che sognava tra quattro pareti rosa lei gli diceva, ogni fottuta notte, che gliel’aveva nascosta. Gli diceva che non gliel’avrebbe data.

Lui urlava.

Puttana. Stronza. Troia. Bastarda. Cagna.

Cos’ha il papà?
Niente, piccola mia. È solo stanco.

 
 
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«Ti serve una mano?»

«Lo sapevi che nessun fiocco di neve è uguale a un altro?»

No, non lo sapeva.

Jean si ritrovava a pensare che davanti a quegli occhi grandi e scuri – il colore della terra fresca dei campi, quella appena arata, quella pronta per accogliere i semi, quella che farà germogliare la lavanda e il grano –, lui non sa proprio niente.
Jean dimenticò persino il suo nome quando a chiederglielo furono quelle labbra – due petali di una rosa rossa, una di quelle grandi… com’è che si chiamano? – e fece la figura da quell’idiota che era.

«E tu lo sapevi che è maleducazione rispondere, con una domanda, a un’altra domanda?»

Ottimo, Jean. L’attacco è sempre la miglior difesa anche se, con quella pantera francese, nessuna tecnica di seduzione – eppure sei sempre stato bravo – riesce ad ottenere dei risultati.

«La mia tata era troppo occupata a leccare il culo a mia madre, per insegnarmi qualcosa di galateo»

Ed eccola lì la Amélie che ha imparato a conoscere, che ha scoperto pian piano. Un passo alla volta, si è detto dopo quella prima volta. Amélie, la Ragazza di Fisica, era diversa dalle altre e lui se ne era accorto subito.

«Adesso capisco tante cose…»

«Ho i miei seri dubbi, Pointreux»

Ed è quando alza lo sguardo, quando punta i suoi occhi così grandi e scuri su di lui che, incredibilmente, perde per la prima volta in vita sua. È quando lo guarda come uno di quei fiocchi di neve, che inizia a pensare di voler perdere tutta la vita.

Amélie se ne accorge e non parla. Continua a fissarlo come una di quelle grandi lavagne dell’aula Newton – quella grande, con i banchi in legno disposti a teatro. L’aula Newton è quella dove il sole entra alle spalle degli studenti e illumina l’insegnante. L’aula Newton è quella dove l’ha vista la seconda volta – quando era andato a cercarla, di proposito – e il sole le infiammava i capelli neri e le sue labbra era così rosse da sembrare insanguinate.

«Pointreux, sicuro di stare bene? Non è che sei deficiente sul serio?»

«La vostra bellezza fu causa di quest'effetto»

Il mondo si incrinò nell’attimo esatto in cui lei decise di sorridere. Jean sentì l’Universo intero rompersi, cadere a pezzi, infrangersi a terra. Avvertì il tempo fermarsi, collassare su se stesso e lo vide – la vide. Assistette al ritorno di fiamma del cosmo quando lei distolse i suoi occhi – neri come la terra – da quelli dell’altro – freddi e distanti come il cielo d’inverno.

«Vesto così la mia nuda perfidia, con vecchi stracci carpiti a casaccio, dai sacri testi; e mostro d'esser pio quanto più mi comporto da demonio. Riccardo III, ottima scelta ma per niente attinente al Natale»

Parlò alla finestra. Parlò ai fiocchi di neve che continuavano a cadere. Parlò per il passante che camminava, pesantemente, sul marciapiede ingombro. Parlò per chiunque, tranne che per lui.
Jean seppe, in quel momento, che Amélie apparteneva al mondo e seppe, l’attimo dopo, che avrebbe fatto di tutto per portargliela via.

«Voi sarete Anna?»

«Non credo mi convenga…»

«Sareste vittima del malvagio re Riccardo»

«Cosa ti dice che non lo sia già, Pointreux?»


 
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Perdonerai, spero, il mio eccesso…

Spera nel miracolo. Sa che non potrà mai perdonarlo – non del tutto, almeno. Quello che ha fatto, è stato troppo altrimenti non se ne sarebbe mai andata; altrimenti non l’avrebbe mai lasciato solo con i suoi demoni, con le fantasie traslucide e con tutte quelle…tentazioni.

L’aveva ferita e lo sapeva.

La sua donna dalle labbra di rosa rossa aveva gli occhi insanguinati, adesso. Aveva spaccato quella pelle morbida, liscia e lucente – così si illuminavano le spiagge messicane e così era Amélie.

Spero tu sia soddisfatto.
Non ero io, Amélie…
Sei sempre tu, invece. Tu mi hai rovinata. Tu mi hai portata via. Tu mi hai fatto questo! Il mio mondo non gira attorno a te, Jean.


…era il suo a girare attorno ad Amélie.

Io lo volevo!
E come puoi saperlo, eh?! Come puoi esserne sicuro? Non sapevi – non immaginavi – nemmeno di avermi messa incinta!
Amélie…
“Amélie” un cazzo! Questa volta è troppo anche per me… non capisci quanto male mi hai fatto, Jean? Tu pensi, davvero, che io non soffra? Ho perso mio – nostro – figlio per colpa tua e della tua maledettissima droga!
Amélie…
Adesso sei libero di distruggerti, Jean. Io non ci sarò più. Mi hai persa.
Amélie…


Amélie…

Gli era mancata la sua pantera francese. Gli era mancata la donna che bruciava di Passione, che ambiva alle vette delle montagne. Amélie era la donna che avrebbe potuto conquistare il mondo a prescindere. Solo perché era lei, sarebbe potuta diventare tutto… e lo era stata.

Non lasciarmi…
È finita.
Non lasciarmi.
È finita!


Con la consapevolezza di sentir le fiamme bruciare il suo cuore.

Con la consapevolezza di sentir le fiamme bruciare la carta…








**Angolo Autrice**

Spero possa piacere sia ai lettori di "A Midwinter's Story" - la mia long, sempre romantica, che inizia dove questa one-shot finisce - come, spero, possa piacere agli altri che non l'hanno mai letta. Le frasi - all'inizio e alla fine - scritte in corsivo nel pezzo finale, sono quelle che aprono e chiudono - rispettivamente - la lettera che Jean invia ad Amélie quando lei, ormai, gli ha detto addio. 
Spero di essere stata il più chiara possibile. 
Spero che questa storia possa piacere a voi, quanto io ho amato scriverla, immaginare questi momenti e metterla insieme. 
Sono doverosi i ringraziamenti - mai troppo pochi - a Ludovica che mi ha accompagnata nel percorso di scrittura di questa One-shot... credo sia stata una di quelle più complicate da scrivere. 

Detto questo, spero possa piacervi. 
Alla prossima, 

Feynman. 
   
 
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