Fanfic su artisti musicali > One Direction
Ricorda la storia  |      
Autore: Sakura Kurotsuki    09/12/2014    1 recensioni
Chicago è la città dove ricchezza e povertà dimorano fianco a fianco.
Harry ha un angelo custode e lavora in un lussuoso Hotel del centro.
Lou è un violinista, suona nell’Hotel dove Harry lavora.
Ma il violinista non è un violinista e Harry vive nel ghetto.
Genere: Generale, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harry Styles, Louis Tomlinson
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Image and video hosting by TinyPic

 





Harry

 
 
Ero sfiancato e non ero neanche alla metà del turno. Quel giorno più degli altri non era stato facile riemergere dal mio sonnellino pomeridiano per scivolare nella divisa elegante dell’Hotel, composta da un pantalone scuro e camicia nera. Mi ero guardato allo specchio ed era stato come guardare una foto in bianco e nero, con il pallore del mio viso che spiccava sulla camicia un po’ attillata. Le uniche macchie di colore erano i miei occhi verdi, anche se arrossati e con tanto di occhiaie.
“Abbiamo fatto le ore piccole, Styles?”
La voce profonda di Liam, accompagnata da una pacca amichevole sulla mia spalla, arrivò giusto in tempo per far sì che il preziosissimo bicchiere di cristallo che era nelle mie mani non andasse in frantumi mentre io mi addormentavo in piedi.
Risposi con un grugnito, niente di troppo elaborato, mentre riponevo il bicchiere appena usato da un cliente insieme a quelli da lavare.
Il mio lavoro consisteva nello stare dietro al banco bar di uno degli Hotel più in vista di Chicago. Avevo scelto di fare il turno serale per il semplice motivo che di giorno non avevo nient’altro da fare. Liam mi affiancava, ed era lui ad occuparsi delle mansioni per le quali occorreva una certa esperienza, mentre io per lo più giravo tra i tavoli e servivo ai clienti i cocktail che lui preparava. Nulla di troppo complicato e la paga era buona.
Dovevo molto a Liam; era stato lui a  farmi avere quel posto.
Quando lo avevo visto per la prima volta, Liam era un ragazzo ricco che ogni tanto scendeva nel bronx con la sua piccola cerchia di amici ricchi, mentre io ero un ragazzino smarrito appena maggiorenne, da poco sbarcato in un paese che non era il suo. Avevo guardato quel ragazzo con gli stessi occhi con cui ero abituato a vedere quelli come lui; come un rampollo di una famiglia ricca che ogni tanto scendeva dal suo olimpo personale per mescolarsi con i comuni mortali con il solo scopo di aumentare il suo ego. Quella era stata la mia visione delle cose, ed era la visione di un ragazzo che aveva vissuto la crisi economica del suo paese d’origine, guardando sua madre mentre sacrificava la sua vita per sostenere una famiglia da sola.   
Poi, inaspettatamente, Liam mi aveva preso sotto la sua ala e grazie ai suoi contatti mi aveva fatto avere quel posto in Hotel, dove avevo scoperto lavorasse anche lui. All’inizio ero rimasto spiazzato dal fatto che una persona più che benestante come Liam sentisse il bisogno di lavorare, ma più di tutto non riuscivo a capire il perché avesse scelto me tra tanti, quando non avevo proprio nulla di speciale. Lui mi aveva detto che voleva stare al banco perché gli piaceva essere a contatto con le persone, e probabilmente era stato allora che avevo cominciato a rivalutarlo sul serio, mentre per il secondo interrogativo avevo dovuto aspettare un po’. Solo dopo un anno dalla nostra conoscenza, avevo finalmente capito il motivo del suo interessamento alla mia sorte; Liam aveva perso suo fratello nel bronx. Si chiamava Zayn e aveva solo un anno in meno di lui. Quando erano entrambi adolescenti, Zayn si era trascinato nel bronx e ci era morto, devastato dalle droghe, prima leggere, poi sempre più pesanti. Liam aveva visto in me il fratellino che non era riuscito a salvare, e a me era toccata la fortunata sorte di assorbire le sue facoltà di fratello maggiore.
Mi passai una mano sugli occhi stanchi, appoggiandomi al banco con i gomiti. Sentivo la testa pulsare fastidiosamente per le ore sottratte al sonno. Non mi accorsi che Liam era sparito finché non rialzai lo sguardo.
Il banco bar era situato nell’ampio atrio dell’Hotel, le cui vetrate, che andavano dal pavimento fino al soffitto, davano sulla piscina esterna. Di giorno l’ambiente doveva essere arioso e luminoso, anche se io non lo vedevo mai. Era sfarzoso come poteva esserlo un qualunque Hotel a quattro stelle, ma non troppo da mettere a disagio. Una bella differenza con il mio appartamento nel ghetto del South Side di Chicago, eppure sapevo che non sarei mai riuscito a vivere in un posto come quello. Mi piaceva immergermi in quell’ambiente ordinato e pulito per alcune ore, ma poi ero sempre felice di tornare nella mia ‘tana’, il mio piccolo appartamentino disordinato.
L’ora di cena era passata e quello era il momento in cui agli ospiti piaceva radunarsi nell’atrio, occupando le eleganti poltroncine nere o bianche, oppure sedendosi ai tavolini del bar. I primi tempi in cui ero venuto a lavorare qui, avevo guardato quelle persone con gli stessi occhi con cui avevo guardato Liam la prima volta che lo avevo visto e dopo due anni le cose non erano cambiate. Ingioiellati dalla testa ai piedi, se ne stavano lì seduti, protetti dalla loro aura di ricchezza e benessere, ignari dei mali del mondo. Non c’era traccia di cultura nelle chiacchiere che coglievo ogni tanto girando tra quei tavoli e la cosa mi aveva sempre fatto ribollire il sangue nelle vene. Quelle persone, con più chili di gioielli di quanti non ne avessero nel corpo – e non che nel corpo ne avessero pochi – avrebbero potuto permettersi la migliore istruzione, mentre io avevo faticato a sostenere la quota del liceo della mia città. Alla fine continuavo ad essere il ragazzino con i sacrifici della madre sulle spalle, come Liam continuava ad essere l’eccezione alla regola.
Ero intento ad asciugare distrattamente un bicchiere già asciutto, quando una voce cristallina mi fece alzare lo sguardo.    
“Un ‘Long Island’, per favore”
Alzai lo sguardo su un ragazzo minuto in un completo nero elegante, seduto con le braccia incrociate sul banco e lo sguardo fisso su di esse.
Liam ancora non si vedeva e per un attimo andai nel panico, perché era lui l’addetto alla preparazione dei cocktail. Poi mi ricordai del foglietto attaccato sul retro del banco, proprio sotto al mio naso, dove lui mi aveva scritto la preparazione dei cocktail più richiesti, per le ‘emergenze’. Fortunatamente il ‘Long Island’ era nella lista. Gli servii quello che mi aveva chiesto e nella frazione di secondo in cui i nostri occhi si incrociarono, pensai che i suoi fossero davvero belli, così celesti e affilati.
Tornai alle mie mansioni, ma il mio sguardo continuava a ricadere su di lui, sugli zigomi pronunciati e le labbra sottili che si posavano sull’orlo del bicchiere, mentre beveva distrattamente.
Attirava il mio sguardo come una calamita; forse perché quando mi ero chinato su di lui per passargli il drink avevo scorto le sue gambe penzolare dallo sgabello, troppo corte per arrivare al pavimento, o forse era per l’aria smarrita e quel velo di tristezza che avevo colto nei suoi occhi.
Quando, per la milionesima volta da quando si era seduto, il mio sguardo tornò su di lui, ebbi un piccolo tuffo al cuore perché per un attimo mi sembrò che stesse guardando me. Solo poi mi accorsi che stava fissando qualcosa alle mie spalle. Mi voltai e vidi un manifesto appeso al muro, vicino agli scaffali con le bottiglie. Era lo stesso che da un po’ di giorni vedevo appeso un po’ ovunque nell’Hotel, ma non mi ero mai accorto che ci fosse anche lì.


 
Serata musicale

 
con l’Interpretazione del violinista

 
Louis Tomlinson


 
 
Seguivano il nome dell’Hotel e un breve trafiletto sugli studi che il violinista aveva condotto, a quanto pare con i migliori maestri e in uno dei migliori Conservatori a livello mondiale.
Mi voltai di nuovo verso il ragazzo e questa volta non c’erano dubbi che stesse guardando me. Collegai il tutto, colto da una sorta di illuminazione.
“Sei tu?”
Lui annuì, riluttante, e mi ricordai di ciò che gli avevo servito.
“Bevi prima di esibirti?”
“Devo ancora provare” rispose, neutro.
“Ok, allora, bevi prima di fare le prove?”
Lui scrollò le spalle.
“Sei nervoso per l’esibizione?” azzardai. Il ragazzo, Louis Tomlinson, non diede alcun segno di avermi sentito, anche se era semplicemente impossibile, visti i pochi centimetri che ci separavano.
“Non sono nervoso” tagliò corto e io capii di aver commesso un errore. Feci per allontanarmi, quando mi bloccò.
“Aspetta, scusami, non andartene” disse, abbandonando di colpo il tono aspro di poco prima. “Non volevo dire così. Scusami.”
Sulle prime rimasi stizzito, ma poi tornai su di lui, curioso di vedere dove mi avrebbe condotto quegli occhi cristallini.
“Quindi non sei nervoso” dissi, stupidamente. “Grande.”
Liam mi aveva passato le nozioni basilari per quanto riguardava l’interazione con i clienti, il minimo indispensabile per servirli, il che non prevedeva una conversazione vera e propria con uno di loro; senza contare che le mie capacità oratorie erano pari a quelle di un fermacarte, che la persona in questione aveva chiaramente bisogno di aiuto e lo stava ricercando in me, che non ero in grado neanche di far star bene me stesso. Non sapevo perché continuavo a parlargli, perché mi importasse conoscere – mi importava? -  la ragione di quel suo evidente disagio. C’era qualcosa nel modo in cui si rigirava il bicchiere vuoto tra le mani che mi tratteneva lì, accanto a lui. Era una strana sensazione per me che non ero solito preoccuparmi degli altri all’infuori di me stesso, se non si contavano mia madre e mia sorella. C’era Liam, ma era sempre lui a preoccuparsi per me, che stessi bene, raramente accadeva il contrario.
Notai che il ragazzo mi lanciava occhiate di sottecchi. Forse aveva sbirciato le increspature sul mio viso, tentando di tradurre i miei pensieri. Poi all’improvviso parlò, cogliendomi di sorpresa.
“Hai mai voluto scappare da qualcosa, sapendo di non poterlo fare?”
Diamine sì.
“Aspetta, non rispondere, non so perché te l’ho chiesto. Lascia perdere.” aggiunse poi, e mi scoprii dispiaciuto nel vederlo fare marcia indietro.
Allora decisi di ignorarlo.
“Da che cosa stai scappando?”
Mi accorsi di essermi involontariamente teso in avanti, su di lui.
Adesso mi guardava apertamente. Se all’inizio lo avevo scambiato per un ragazzo della mia età, se non addirittura più piccolo, mi ricredetti non appena lo guardai in viso. I suoi lineamenti erano delicati e minuti come tutto il resto, ma il tormento che c’era nei suoi occhi era molto più antico.
Da che cosa stai scappando, Louis Tomlinson?
“Da me stesso” sussurrò.
Rabbrividii, perché tutto il dolore del mondo era racchiuso in quelle tre parole.
“C’è sempre un modo” dissi, dal nulla. “Una via d’uscita”
“Io non credo”
“Ti assicuro che c’è”
“E allora perché io non la vedo?”
“Forse non stai guardando”
Lo vidi arrossire, sotto il mio sguardo intenso.
Non sapevo davvero cosa stessi dicendo, volevo solo che lui continuasse a parlare con me. Per nulla al mondo avrei permesso che la strana connessione venutasi a creare tra noi in pochi minuti, andasse in frantumi.
“Signor Tomlinson?”
Troppo tardi.
La testa bionda di Niall parve materializzarsi dal nulla e la bolla che ci circondava esplose in mille pezzi.
Niall era il receptionist dell’Hotel, ed era un giovane dagli occhi cielo, fresco di assunzione.
“La sala concerti è pronta” disse, leggermente trafelato.
Il violinista annuì mestamente, come rassegnato.
“Dica pure a mio padre che lo raggiungerò tra cinque minuti”
A quel punto Niall si schiarì la gola, visibilmente a disagio e quando parlò la sua voce era acuta per il nervosismo.
“Suo padre ha detto che deve raggiungerlo subito in sala concerti…” balbettò, con l’aria di aver imparato il discorso a memoria, “perché qualsiasi cosa lei stia facendo in questo momento, sarà sempre meno importante delle prove e, ehm, della sua carriera, e…”
“Ho capito, non preoccuparti” lo interruppe Louis. Notai che aveva abbandonato il tono formale, probabilmente perché aveva notato quanto giovane fosse Niall, o forse perché era difficile mantenere un atteggiamento formale davanti alla perenne aria da cucciolo smarrito del biondo, anche nella divisa elegante dell’Hotel. Il violinista si alzò con una certa rassegnazione e lasciò delle banconote sul banco.
“Sono per te” disse quando gli ricordai che in quanto ospite dell’Hotel non avrebbe dovuto pagare il servizio. Poi si avvicinò a Niall e gli mise in mano un altro mucchietto di banconote. “Mi dispiace che ti abbia usato come ambasciatore” disse al biondo, che balbettò qualcosa di incomprensibile.
Prima di andarsene, il piccoletto si voltò verso di me, lanciandomi un’occhiata che non seppi decifrare. Poi si voltò e sparì nel corridoio che conduceva all’area dell’intrattenimento.
“Wow, non sembra troppo felice, vero?”
Sussultai leggermente, perché mi ero quasi dimenticato della presenza del biondo, troppo occupato a fissare la schiena di Louis Tomlinson che si allontanava.
Lo guardai; Niall era bravo nel suo lavoro, senza dubbio un buon acquisto per l’Hotel, ma era praticamente impossibile prenderlo seriamente. L’elegante gilet nero sulla camicia bianca completa di pantalone scuro, invece di conferirgli un’aria professionale, lo facevano apparire come una caricatura di se stesso. Niall era una sagoma, non c’era nulla da fare in proposito e il bello era che i clienti lo adoravano, soprattutto i bambini.
Mentre ancora lo fissavo, senza in realtà vederlo, gli scivolò dalle mani un piccolo tagliando. Si chinò a raccoglierlo, non prima che io potessi scorgervi il nome “Tomlinson” scritto sopra. Glielo tolsi di mano con la mancata eleganza che mi contraddistingueva.
“Devo fotocopiarlo e distribuirlo in sala” disse, guardandolo tra le mie mani, “e a quanto pare è una questione di vita o di morte, quindi è meglio che mi sbrighi”
Era il programma della serata e subito vi riconobbi nomi come Bach e Paganini; ne dovevo la conoscenza al mio professore di musica delle medie, che anche in una scuola modesta come la mia, aveva trovato il modo di introdurci quei grandi nomi. Da lì era partita la mia passione per la musica e con quel professore avevo un debito di vita.
“Lo faccio io”
“Ma non puoi lasciare tutto qui” ribatté lui, guardandomi come se fossi impazzito. Guardai dubbioso il banco vuoto e riconobbi che aveva ragione; non potevo lasciarlo incustodito. Se solo ci fosse stato Liam…
“Stai tu al mio posto”
“Cosa? No Harry, aspetta, io non so come fare e poi devo stare dietro agli ospiti…”
“Ma Liam tornerà tra poco” mentii prontamente, “devi solo servire i clienti, vedi, è facile…”
E poiché sembrava ancora dubbioso, giocai il mio asso nella manica.
“Se mi fai questo favore, ti faccio fare un giro sulla mia moto, da solo.”
La mia preziosissima moto. Quella a cui lui sbavava dietro da almeno un anno.
Sapevo che non avrebbe resistito.
 
 

 

Louis
 
 

L’archetto passava da una nota all’altra guidato dai movimenti automatici del mio braccio, producendo una sequenza di note perfettamente corretta quanto anonima.
L’enorme sala era vuota, tranne che per la presenza solitaria di mio padre che, seduto al centro della prima fila, supervisionava in silenzio le mie prove.
Finii il primo pezzo del programma e presi un respiro profondo; tenni lo sguardo fisso sullo spartito, per non rischiare di incontrare quello di mio padre, poi partii con il brano successivo.
Non ero mai nervoso, prima di un’esibizione, per il semplice motivo che non me ne importava nulla. Mi seccava viaggiare, essere sballottato da una città all’altra – a volte anche da un paese all’altro – per concorsi o concerti, con l’obbiettivo, di mio padre, di promuovere il mio nome come violinista.
Il bello era che i concorsi li vincevo; avevo sempre pensato che mio padre fosse in un certo senso giustificato nel vedere in me un genio della musica, ma non ero mai riuscito a capire come una commissione di professionisti potesse apprezzare un suono asettico e privo di espressione come il mio, nonostante l’impeccabile esecuzione del brano. Ogni volta guardavo gli altri concorrenti camminare nervosamente avanti e indietro, o appostarsi davanti alla porta dell’aula per ascoltare l’esibizione del candidato, e puntualmente mi sentivo in colpa ad andarmene con il primo premio, io che non avrei nemmeno voluto essere lì. Più riconoscimenti ottenevo, più il sogno di mio padre di vedermi violinista, un giorno, prendeva forma nella sua mente.
Ogni volta che passavo davanti a quelle targhe con su incisa la mia vittoria o ai violini in miniatura che affollavano gli scaffali del mio salotto, mi veniva una gran voglia di prenderli tutti e  farne un falò.
Mi stavo avvicinando alla conclusione del secondo brano, quando un movimento in fondo alla sala catturò la mia attenzione. Alzai lo sguardo appena oltre il bordo del leggio, saltai accuratamente la sagoma di mio padre, e con un tuffo al cuore riconobbi la testa riccia del ragazzo del bar. Quello che c’è sempre una via d’uscita, mi aveva detto mentre mi trafiggeva con i suoi occhi che ricordavo essere di un verde stupefacente. Forse non stai guardando.  
Quelle parole, pronunciate dalle sue labbra morbide dal contorno definito, mi erano quasi sembrate vere.
La voce di mio padre riecheggiò nella sala vuota, ma non fu quella a farmi capire di essermi incantato; fu lui, il ragazzo riccio che dal fondo della sala alzò lo sguardo su di me, paralizzandomi il cuore per un istante.
“Vuoi fare una pausa, Louis?”
Non risposi e mi affrettai a rovistare tra i fogli disordinati sul leggio, che come ogni volta mi ero dimenticato di rilegare, attaccando con il pezzo successivo.
Di solito, sia per le prove che durante le esibizioni, tenevo gli occhi fissi sul leggio, non per leggere le note che avevo già mandato a memoria, ma perché non avrei saputo dove altro dirigere lo sguardo. Preferivo non affrontare la platea che mi si stagliava davanti, e il leggio aveva proprio la funzione di frapporsi tra me e il pubblico, una marea di persone per la quale non provavo nulla. Senza, mi sarei sentito nudo.
Ma adesso c’era qualcosa che aveva il potere di attrarre il mio sguardo oltre il bordo nero del leggio. A tratti facevo vagare lo sguardo per la sala, mentre il mio braccio si muoveva da solo, come staccato dal resto del corpo.
Il riccio era più alto di quanto appariva da dietro il banco, anzi, la sua figura era decisamente longilinea. Mi persi nel dondolio dei suoi fianchi stretti, posti sulle gambe chilometriche fasciate nei pantaloni scuri, mentre volteggiava tra le poltroncine lussuose della sala lasciando quelli che presumevo fossero i programmi della serata. Le mani mi sudavano e avevo inconsapevolmente accelerato il tempo della sonata, cosa che non mi era mia successa prima. Sembrava quasi che il ritmo accelerasse man mano che lui si avvicinava al palco. Era la prima volta che venivo travolto da un’emozione così forte mentre suonavo, anche se non avrei saputo dire se si trattasse di una carica positiva o negativa.
Era così vicino che potevo distinguere chiaramente i morbidi ricci danzargli sulle spalle.  
Arrivai alla fine con il fiato corto, proprio nel momento in cui il ragazzo passava davanti al palco per uscire dalla sala, spostando l’aria al suo passaggio e lasciandola impregnata del suo profumo così dolce.
Appoggiai il violino e l’archetto prima che potessero scivolarmi dalle mani; poi mi precipitai fuori dalla Sala, intravedendo di striscio – e ignorando spudoratamente - la faccia sbigottita di mio padre.
 
“Ehi!”
Il corridoio era bianco e curvo, e le luci bianche del soffitto lo facevano apparire come una specie di limbo, dove il tempo non scorreva.
Il ragazzo si voltò verso di me in un turbinio di ricci.  “Che fai, mi segui?” disse muovendo le labbra perfette come al rallentatore.
Allora seppi che era reale.
“Sei tu che segui me o sbaglio?” replicai, con un coraggio che sorprese anche me.  “Decisamente non sei il biondino che mio padre ha rimandato indietro. Cosa ci fai qui?”
“Ho distribuito i programmi” ribatté lui con falsa innocenza, muovendo appena le labbra perfette. La sua voce graffiante fu la causa del brivido che mi attraversò la schiena. “Ma se preferisci lui, te lo mando subito”.
Si era avvicinato mentre parlava, mettendo lentamente un passo davanti all’altro, facendomi girare la testa. Mi chiesi se fosse consapevole dell’effetto che poteva provocare anche con un movimento così semplice.
Seguì un breve silenzio imbarazzato. Troppo intimidito per guardarlo negli occhi, tenevo i mie fissi sul suo mento, pericolosamente vicino al contorno delle labbra, che si mossero poco dopo.
“Dovevi dirmi qualcosa?”
Fu con una crescente sensazione di panico che realizzai di non avere idea del motivo per cui gli fossi corso dietro. Mi sentii patetico, e pensai a come dovessi apparirgli, lì in piedi con le braccia mollemente abbandonate lungo i fianchi, la bocca socchiusa e gli occhi vitrei.
Forse intuì la mia piccola crisi interiore, perché di nuovo fu lui a parlare, evitandomi di rispondere alla sua stessa domanda.
“Stavo ripensando a quello che mi hai detto prima…”
“Dimenticatelo” lo interruppi, riacquistando di colpo l’uso della parola. “Non ero in me”
Mi fissò per un istante, accigliato.
“Come vuoi” disse poi, senza scomporsi più di tanto. Mi scrutava con sospetto, cercando di leggere il mio volto. Capii che non mi credeva e mi sentii ancora più miserabile per non essere neanche in grado di mettere su una bugia come si deve.
Il riccio fece per andarsene ma, di nuovo, lo fermai. Non avevo idea del perché continuassi a farlo.
“Sul serio, perché sei venuto fin qui?”
“Volevo sentirti suonare”
“E come suono?” mi arrampicai, non sapendo più come trattenerlo lì, neanche fossi la piccola fiammiferaia che esauriva i fiammiferi per tenere viva l’immagine della nonna.
“Be’, non è che abbia le competenze per giudicare…”
“Dimmelo” insistetti. “Per favore”
Lui inarcò le sopracciglia e sbatté le palpebre un paio di volte.
“Sei freddo” dichiarò, e mi sentii di nuovo trapassato dal suo sguardo affilato.
“Tutti credono che io sia un genio” buttai lì, sentendomi ancora più stupido.
Al che lui alzò le mani in un ironico segno di resa, prima di tornare serio e rispondere: “Forse lo sei. Ma sei distante mentre suoni. Forse l’ho capito da cosa stai scappando” disse, facendomi rizzare i peli sulle braccia. ”Io mi chiamo Harry, comunque. E adesso scusami, ma ho lasciato il biondino al banco e non ho idea di cosa stia combinando, quindi…”
Voltò le spalle e se ne andò, lasciandomi lì in mezzo al corridoio, come pietrificato.

 
 
 

Harry


 
Era quello il momento della serata che preferivo, quando gli ospiti migravano - di solito per uscire alla ricerca di divertimenti serali –dissolvendosi man mano in un tintinnio di gioielli e un miscuglio improbabile di profumi costosissimi. Allora l’atrio rimaneva deserto, una sorta di calma dopo la tempesta e io amavo quel silenzio, amavo rimirare lo specchio d’acqua della piscina, che a quell’ora era chiusa, la cui vista mi era offerta dalle grandi vetrate dell’atrio.
Liam stava finendo di dare una ripulita ai tavoli con uno straccio umido e un’aria stanca in viso, mentre io ero stravaccato sul banco bar con la mente già alla mia moto che mi aspettava fuori per riportarmi a casa.
Inspiegabilmente pensai a Louis Tomlinson e al suo concerto che ormai avrebbe dovuto essere quasi finito, ma non feci in tempo a domandarmi il perché mi fosse venuto in mente proprio in quel momento, che la voce profonda di Liam riecheggiò nell’atrio vuoto.
“Penso che andrò a vedere quel concerto”
“Che?” dissi, riemergendo dalla trance in cui ero caduto.
“Qui abbiamo finito. E se non faccio subito qualcosa finisco come te” fece, accennando alla mia aria stanca. “Puoi venire con me, oppure restare lì e addormentarti per terra, con il rischio di restare chiuso dentro fino a domani”
Ci pensai un attimo.
“Credo che resterò qui”
Liam era interdetto.
“Davvero? Credevo ti piacesse, quel violinista”
“È per questo che hai lasciato il suo bicchiere sul banco?”
Quando ero tornato dalla Sala Concerti, avevo trovato il bicchiere di Louis Tomlinson ancora sul banco, e mi ero chiesto il perché Liam non l’avesse messo a lavare con gli altri. Sapevo che era il suo perché era esattamente nello stesso punto dove lui lo aveva lasciato. Cercando di non dare nell’occhio, avevo preso quel bicchiere dalla forma allungata ed elegante e me l’ero rigirato tra le mani, sfiorandone i bordi dove presumevo che si fossero posate le labbra del violinista. Un attimo dopo mi ero vergognato di me stesso, e lo avevo messo frettolosamente tra gli altri bicchieri da lavare.
“Probabile” ammiccò Liam.
 
La sala era gremita di gente, molta della quale era in piedi a formare una piccola folla in fondo alla sala; scorsi anche alcuni membri del personale, accorsi per sentire lo strabiliante violinista.
Più lo guardavo e più me ne convincevo: il suo braccio, quello che muoveva l’archetto, doveva essere staccato dal resto del corpo. Non poteva essere altrimenti, perché era l’unica parte del suo corpo che si muoveva. Probabilmente, per molte delle persone presenti, la visione di quel braccio che si muoveva in modo forsennato mentre tutto il resto rimaneva immobile, rappresentava una perfetta dimostrazione di controllo. Per me significava solo mancanza di trasporto.
Allora guardai le persone attorno a me; erano tutte rapite dal piccolo uomo che suonava sul palco, ma ero pronto a scommettere che nessuno di loro avesse percepito la mancanza di una delle componenti fondamentali che rendevano un brano perfetto: il colore. Non ce n’era. Una sonata in bianco e nero.
La sala era così piena e io così lontano, che fui certo di essermi sbagliato quando credetti di vedere i suoi occhi soffermarsi sui miei per qualche istante.
Ma dovetti ricredermi.
Perché subito dopo Louis cominciò a sbagliare.
 


 
 
Louis
 
 

I dieci minuti che avevo passato aspettando che mio padre irrompesse sbraitando nel camerino, erano stati i più lunghi della mia vita. Ma se immaginarlo era stato terribile, era niente in confronto al vederselo arrivare in carne e ossa, esattamente com’era nel mio immaginario, e forse anche peggio.
“Che cosa ti è preso?”
“Calmati, non se n’è accorto nessuno…” trovai il coraggio di mormorare, fingendo di sistemare la custodia del violino per evitare di guardarlo.
“Certo che se ne sono accorti!” urlò ancora più forte, perso ogni controllo.
Non l’avevo detto solo per tentare – inutilmente - di placarlo; ero pressoché certo del fatto che nessuno avesse notato niente di strano, visto che alla fine ero stato applaudito con tanto di pubblico in piedi e occhi adoranti, malgrado avessi cannato tutta la seconda parte del programma.
“Il concorso, te lo sei dimenticato?” riattaccò lui. “Se non riesci neanche a sostenere un pubblico mediocre come questo, come puoi pensare di presentarti ad una commissione…”
La sua voce non mi era mai sembrata tanto fastidiosa come in quel momento. Avrei dato qualsiasi cosa pur di smettere di sentirla.
Non ero mai stato abbastanza forte, questa era la verità. Abbastanza forte da sovrastarlo, contraddirlo, o semplicemente… Andarmene. 
Ma non avevo paura, adesso.
C’è sempre un modo, disse una voce dentro di me, una voce incorporea tranne che per un paio di occhi verdi.
Possibile che quella forza inaspettata venisse da lui?
Mio padre continuava a urlare, ma io non stavo più ascoltando. Spinto da una forza misteriosa uscii dalla stanza lasciando lì il violino, ed attraversai a grandi passi il corridoio bianco e curvo, fino a sbucare nell’atrio. Istintivamente guardai il banco bar, ma era vuoto.
Allora, sempre guidato da una pulsione indefinibile, mi precipitai fuori e lui era lì. Appoggiato ad una moto, lui era lì. E stava aspettando me. 
Forse non stai guardando, ma ora la vedevo, la mia via d’uscita.
Mi avvicinai barcollando come un bambino che ritrova la madre dopo averla persa e risentire il graffio della sua voce mi disse che non stavo sbagliando.
“Dimmi se vuoi che ti porti via”
L’ultima cosa che vidi prima che la mia vista si riducesse ad un miscuglio di colori, fu mio padre precipitarsi fuori dalla porta urlando il mio nome.
Ma il rombo della moto lo coprì e prima che l’eco svanisse ero già lontanissimo da lui, dall’Hotel e da tutti i miei casini.
 
 

 

Harry

 

 
Quando varcai la porta di casa mia, l’inconfondibile odore di chiuso mi arrivò alle narici, pizzicandole fastidiosamente. Solitamente non avevo ospiti, a parte Liam che veniva ogni tanto a controllare che mi alimentassi decentemente ( “Ma mangi solo cose in scatola?”) e che il posto in cui vivessi assomigliasse il meno possibile ad una discarica (“Come fai a vivere in questo caos?”). Di fatto, mi piaceva vivere nel caos, o meglio, ci ero abituato; e poi il mio appartamento non era disordinato, era caratteristico.
Il salotto era attraversato da una striscia di luce proveniente dalla cucina. Lasciavo sempre una luce accesa, per dare l’impressione che la casa non fosse vuota, vista la zona infelice in cui vivevo.
Schiacciai alla cieca un interruttore alla mia destra e il salottino minuscolo venne illuminato davanti a noi.
Avanzai con i passetti nervosi del violinista che risuonavano alle mie spalle. Probabilmente avrei dovuto far entrare prima lui, ma non ero un esperto nel fare gli onori di casa.
Lo osservai mentre si guardava intorno girando su se stesso, con aria sinceramente meravigliata, benché ci fosse ben poco da vedere.
Mi sedetti sul divanetto presente nella stanza credendo, o forse sperando, che mi seguisse. Invece continuò a girare lentamente su se stesso, catturando con gli occhi ogni singolo particolare della stanza, dondolando leggermente da un piede all’altro.
Mi sentivo troppo impacciato per chiedergli di accomodarsi a parole, così rimasi in silenzio, aspettando la sua mossa.
Scorsi il mio grasso gatto appallottolato sulla poltrona, nel tentativo – riuscito - di mimetizzarsi con i cuscini; avevo sempre pensato che il suo pelo, di un incredibile rosso fiammante, costituisse un singolare pezzo d’arredamento.   
La mia casa non era particolarmente ammobiliata, viste anche le dimensioni, eppure era piena. Quei pochi ripiani presenti erano ricoperti da oggetti di ogni tipo; alcune cornici che mi ritraevano insieme alla mia famiglia, i regali che mia madre mi inviava a Natale e compleanno da quando me n’ero andato, e cappelli di ogni forma e dimensione sparsi in giro neanche li avessi usati come freesbee.
Per il resto erano presenti solo un piccolo divano e una poltrona, se non si contava la minuscola libreria. Guardai il violinista inclinare leggermente la testa da un lato per leggere i titoli dei pochi libri che Liam si era ostinato a regalarmi, all’inizio; poi la sua attenzione si spostò sui muri, foderati di CD, altri regali di Liam quando aveva capito il tipo di linguaggio che il mio cervello recepiva. Lo vidi adocchiare le casse, e l’mp3 ancora collegato.
“Posso?” chiese nella mia direzione. Annuii.
Lo accese e la riproduzione riprese da dove si era interrotta la sera prima; gli accordi di una chitarra cominciarono a vibrare nell’aria.
“Free Falling?” chiese.
Inarcai le sopracciglia.
“Un violinista che conosce la musica leggera?”
Lui fece una smorfia.
“Comunque sì, questa è la Free Falling di John Mayer” dissi. “Ma è una cover…”
“Lo so, in realtà è di Tom Petty” mi interruppe voltandosi con un sorrisetto, spiazzandomi nuovamente.
Lo guardai; aveva l’aria impeccabile di chi era sempre stato servito e riverito. Un principino, nella mia tana di periferia. Eppure, per qualche motivo, la sua presenza non stonava affatto tra le quattro mura della mia minuscola abitazione. Forse perché in lui non c’era niente, capi firmati a parte, che mi riportasse al suo ceto di appartenenza.
Ripensai a pochi minuti prima, mentre sfrecciavo per le vie illuminate di Chicago che si facevano sempre più rade man mano che mi allontanavo dal centro; avevo realizzato solo in quel momento che la stretta ferrea che mi stringeva la vita era quella di uno sconosciuto. Soprattutto perché non avrei mai pensato che delle braccia così sottili potessero sprigionare una forza tale da mozzarmi il fiato.
E non sapevo nemmeno se fosse maggiorenne.
“Ho ventidue anni!” aveva urlato il ragazzo in risposta alla mia domanda, cercando di sovrastare il rombo del motore.
Quella cosa minuscola dietro di me aveva ventidue anni.
“Quasi ventitré” aveva precisato una volta scesi dalla moto, stizzito e un po’ traballante.
Quindi, o io ero un gigante a vent’anni, o quel ragazzo aveva un problema ormonale.
Ma mi ero trattenuto dal chiederglielo.
“Tu odi suonare” affermai dopo qualche istante di silenzio, riempito solo dalla versione lenta e graffiante di Free Falling.
Aveva ripreso a muoversi per la stanza, ma questa volta era diverso; lo faceva distrattamente, fissando lo sguardo su cose che in realtà non vedeva, e avevo la sensazione che lo facesse per evitare di guardarmi. Stette in silenzio come se non mi avesse sentito, respirò profondamente e quando parlò, la sua voce era priva di espressione.
“Mia madre è morta che avevo un anno. Non mi ricordo neanche la sua voce. E mio padre vuole che io suoni il violino perché lo suonava lei, ma io non voglio. Lo ritieni sconveniente?”
L’aveva detto senza quasi respirare e ora mi guardava apertamente, le vene del collo tese, cercando la condanna nei miei occhi.
“No” dissi sinceramente, sostenendo il suo sguardo inquisitore. “Qualsiasi cosa sia successa a tua madre, tuo padre non ha il diritto di decidere della tua vita, né di fare di te un’ombra di quello che era lei.”
Le parole che uscirono dalla mia bocca mi lasciarono stupefatto. Raramente mi ero espresso in modo così incisivo sulla vita di qualcun altro, io che a malapena ero riuscito ad aggiustare la mia; ma con Louis sentivo di doverlo fare, come per tirarlo fuori da quell’esistenza tristemente limitata. Di solito era Liam quello bravo in certe cose.
Per un attimo ebbi paura di essere stato troppo duro, ma evidentemente non fu così, perché subito le spalle di Louis si rilassarono, come se il mio diniego lo avesse assolto da un’orrenda colpa.
Free Falling era appena finita, lasciando quella stanza ora troppo silenziosa.
Mi alzai per farla ripartire, poi, spinto da un istinto misterioso, mi avvicinai a Louis e gli presi la mano, facendolo girare lentamente sul posto. Fortunatamente mi assecondò, perché non avrei saputo cosa fare in caso contrario.
“Non so ballare” borbottò sotto il mio mento.
“Neanch’io”    
Allora mi portai le sue braccia al collo, piegandomi leggermente in avanti, con il risultato che le punte dei miei capelli andarono a sfiorargli la fronte. Lo sentii rabbrividire e subito dopo si appoggiò al mio petto, perché nonostante mi fossi piegato in avanti, le sue braccia erano sempre troppo corte per permettergli di starmi lontano anche solo di qualche centimetro.
Continuammo così, ballando – se quello si poteva definire ballare – sul posto, in quel dondolio patetico, senza neanche andare a tempo.
Al termine della canzone, Louis non si staccò subito da me, e io non lo mandai via. Restammo lì ancora qualche secondo, senza più muoverci.
Finché, senza nessun preavviso, si alzò sulle punte e premette le sue labbra sulle mie, inesperto e maldestro. Preso alla sprovvista, mi allontanai da lui negandogli quell’accesso che, con una certa goffaggine, stava cercando di ottenere. Solo quando vidi la sua espressione disorientata capii di aver commesso un errore.
“Non capisco…”
“Scusami” dissi avvicinandomi di nuovo. “Non volevo rifiutarti in quel modo. Solo, mi hai preso alla sprovvista”
“Ma come, non vuoi…” mormorò lui, lasciando la frase in sospeso.
Lo guardai senza capire.
“Insomma, mi hai portato qui, abbiamo ballato…”
Allora sbarrai gli occhi e scoppiai a ridere. Risi perché credeva che fossi uno di quei tipi che raccattavano la gente per strada per portarsela a casa e scoparsela.
Quando rimisi a fuoco il suo viso, era semplicemente sconcertato.
“Louis” dissi, tornando serio. “Tuo padre non sa che sei gay, vero?”
“Io non sono gay” disse meccanicamente, come se fosse abituato a farlo. Ma parve rendersi conto da solo dell’enorme contraddizione che c’era nelle sue parole, perché subito dopo arrossì vistosamente.
“Mi hai baciato e mi hai appena chiesto di fare sesso. Se adesso ti metti a negare è offensivo”
“Non ti ho chiesto di… Lasciamo perdere” si arrese.
 
Avevamo dormito, tutto qui. Non era stato nei piani originali, solo che a un certo punto ci eravamo seduti sul divano e avevamo cominciato a parlare, parlare veramente.
Lo avevo visto sobbalzare al suono del suo telefono e non mi era sfuggita l’espressione che aveva messo su nel tirarlo fuori, come se sapesse già chi fosse. E del resto non era difficile da immaginare.
“Mio padre” aveva detto, in risposta al mio sguardo interrogativo, dopo aver spento il telefono con un gesto secco. Poi, dopo una breve pausa: “Domani mattina devo prendere un aereo. Per un concorso, in Germania”
“E hai intenzione di prenderlo?”
Non aveva risposto e io non lo avevo forzato, così avevamo ripreso da dove ci eravamo interrotti.
Gli avevo raccontato la mia vita tutta d’un fiato, dicendogli cose che nemmeno Liam sapeva; gli avevo raccontato di mia madre e mia sorella, di quanto terribilmente mi mancassero, di come avessi incontrato Liam che, come un angelo custode, mi aveva indicato la via.
“Ma perché vivi ancora qui? Con quello che guadagni potresti permetterti di meglio” mi aveva detto, stupito. Gli avevo risposto che lì mi sarei sentito più a mio agio che in qualsiasi altra casa, perché quello era il luogo dove Liam mi aveva trovato, e in una casa così piccola potevo sentire di meno la solitudine. Senza contare che molto di quello che guadagnavo lo mandavo a mia madre e a mia sorella.
Lui mi aveva rivelato di aver avuto la passione del calcio fin da piccolo, ma che era stata considerata ‘non adeguata’ e quindi proibita dal padre.
Avrei mentito a me stesso se avessi detto che per tutto il tempo in cui ero stato con lui, non mi fosse mai venuto in mente di andare oltre; era indiscutibilmente bello, seppur in modo inconsapevole, avrei sfidato chiunque a dire il contrario.
Il sesso l’avevo sempre vissuto come un gioco, fin da quando avevo perso la verginità a quattordici anni con un ragazzo molto più grande di me, che mi aveva ‘usato’ per una scommessa. Ma la cosa non mi aveva turbato allora, e di sicuro non lo faceva adesso. Avevo sempre concepito il sesso come qualcosa di separato dall’amore, che peraltro non avevo mai provato in vent’anni di vita. Ero sempre stato troppo occupato a combattere i miei demoni, per preoccuparmi di avere qualcuno al mio fianco.
Non che per questo avessi l’abitudine di andare a letto con il primo che capitava; avevo avuto rapporti con più persone, tutte di cui mi fidavo o che mi erano particolarmente vicine in quel momento, se non si contava l’addetto alle pulizie delle camere, un bel ragazzo con gli occhi nocciola con cui avevo trascorso un piacevole quarto d’ora nella camera in cui lo avevo beccato a riordinare.
Il rapporto sessuale era un divertimento da condividere con le persone che mi stavano accanto e anche il mio modo – un po’ distorto, lo ammetto - di dimostrare loro il mio affetto.
Ma Louis, lì seduto a raccontarmi la sua storia, aveva qualcosa addosso per la quale avrei preferito di gran lunga restare ad ascoltarlo tutta la notte, piuttosto che sbattermelo su quel divano come avrei benissimo potuto fare.
Forse perché era troppo simile a me, oppresso dalla smania di proteggere un padre già ferito, da un dolore che non voleva dargli.
Io avevo risolto la cosa andandomene, per non essere più costretto a convivere con la sofferenza di mia madre, tentando di aiutarla da lontano. La mia famiglia mi mancava, ma quella era un’altra storia.
 
“Devo andare”
Il mugolio poco convinto di Louis mi risvegliò da un sonno in cui non ricordavo di essere caduto. Sentivo i muscoli del collo irrigiditi per la posizione scomoda in cui mi ero addormentato.
Le prime luci dell’alba entravano dalla finestra.
Guardai Louis mentre si alzava controvoglia dalle mie gambe, dove si era appisolato, e accendeva il telefono che subito cominciò a squillare come un forsennato per ricordargli tutte le chiamate perse, sicuramente di suo padre.
Non erano affari miei, ma non riuscii a trattenermi dal chiederglielo.
“Hai intenzione di prendere quell’aereo?”
Evitò di guardarmi per qualche istante.
“Non lo so. Non so cosa farò.”
“Potresti stare qui” azzardai.
Guadagnavo abbastanza per tutti e due. L’idea che rimanesse lì con me, per un attimo mi sembrò talmente vicina da sembrare realizzabile.
“Sarebbe bello” mi rispose, ma l’uso del condizionale mi fece intendere che era un’ipotesi ancora troppo lontana per lui, e che lo sarebbe stata finché non si fosse liberato dai suoi fantasmi.
“Allora ti accompagno” feci alzandomi.
“No, non fa niente” mi bloccò. “Vedrò come tornare”
“Non sai neanche dove siamo” ribattei, ormai alle sue spalle.
“Vedrai che…”
Ma non finì mai la frase, perché scelsi proprio quel momento per lasciar andare le inibizioni; lo presi per le spalle e lo intrappolai al muro, baciandolo con un trasporto che lui ricambiò all’istante, quasi se lo aspettasse.
“E comunque si fa così” ansimai sulle sue labbra, quando entrambi rimanemmo senza fiato.
Non avrei saputo dire se mi avesse sentito o no; se ne stava con gli occhi chiusi, tremando leggermente dall’eccitazione, ancora intrappolato tra le mie braccia puntate ai lati delle sue spalle. Le lasciai cadere e mi allontanai da lui di un passo per permettergli di ricomporsi.
Quando riaprì gli occhi, notai le pupille leggermente dilatate sull’azzurro cielo dei suoi occhi.
“Sei sicuro che non vuoi un passaggio?” gli chiesi, come se non lo avessi appena appeso al muro per infilargli la lingua in gola.
“Non c’è problema” mi resse il gioco lui, ancora rosso in viso.
Sperai che fosse un modo per non tornare da suo padre, anche se ero comunque preoccupato a saperlo in giro in una città che non conosceva, per di più in una zona come quella.
Non ci abbracciammo e di sicuro non ci furono altri baci.
Mi ringraziò prima di uscire e io ricambia con un “Ci vediamo” borbottato e patetico.
Sapevo che lo avrei rivisto.
 
 
 
 
 
Le luci della città si spengono a mezzanotte,
una “Notte Ubriaca” danza stanotte
 
Su questa città la Luna non c’è,
C’è soltanto solitudine qui.
Brividi di dolore scuotono la pace,
Questa città è come una perla perduta.
 
Tu, lascia che veda il tuo sorriso,
Senza motivo, senza pensieri, è…
E’ un nuovo fantastico inizio.
E così arriva l’alba.
[*}
 
 
 
 
  
 
 
 
~º~º~º~º~º~º~
 
 
 
 


Venti pagine di OneShot credo di non averle mai fatte, spero che non sia troppo lunga.
Questa storia è nata alla fine di quest’estate e tra tutte le OS Larry pubblicate finora, è stata la prima ad essermi venuta in mente.
Mi trovavo proprio in un Hotel ed ero lì per un concerto. Ho visto il banco del bar e ho visto Harry, ho percorso il corridoio bianco e curvo, e ho anche distribuito i programmi in sala, immaginando di essere Harry.
La fanart è mia (le immagini del bar e della sala non sono quelle dell’Hotel in cui sono stata).
Due parole sui personaggi:
Harry e Lou condividono il dolore di aver visto soffrire i loro genitori, Harry assistendo al sacrificio di sua madre, Lou guardando suo padre cercare di costruire in lui un pallido ricordo della sua. Hanno reagito in modo diverso, Harry in un modo attivo, andandosene e cercando di aiutare sua madre da lontano, e Lou in modo passivo, preferendo vivere una vita d’inferno per assecondare suo padre.
Nella coppia tendo a vedere Harry come la parte più “debole” e Lou quella “dominante”, anche se in questa storia ho fatto il contrario.
L’ho ricontrollata più volte, ma siccome è lunga, spero che non mi sia sfuggito qualcosa. In caso, segnalatemelo  =)
Grazie per essere arrivati fin qui, angolo autrice compreso, e sarei molto contenta di ricevere i vostri commenti.
 
*Traduzione di Black Night Town, una Opening di Naruto da cui ho preso il titolo per questa Fanfiction. Ah, l’unione tra fandoms! *___* 

 

 

Twitter ---> @KurotsukiEfp

Facebook ---> Kurotsuki Efp
 
Con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere dei personaggi, nè offenderli in alcun modo
   
 
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > One Direction / Vai alla pagina dell'autore: Sakura Kurotsuki