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Autore: L o t t i e    10/12/2014    2 recensioni
One-shot che utilizza il mio original character William Leroy dalla long-fic “Vampire, or maybe no..?” senza interferire sulla storia originale in alcun modo. Il secondo personaggio da me usato non mi appartiene in alcun modo, in quanto è un personaggio originale dell'autrice qui su EFP _Night ed anche mia Senpai. ☆
Dal testo: “Will?” quasi le parve di sentirla davvero, quella voce calda e gentile, degna di un buon padre, carezzarle l'udito mentre la vista le si appannava.
Perché dopo quasi un anno se ne era andata? Fuggire ancora dall'affetto di qualcuno era probabilmente la cosa che le riusciva meglio? Evidentemente sì, la risposta le arrivò in automatico.
Si osservò intorno, meccanicamente ― ed un altro ricordo le arigliò prepotente la mente.
Genere: Malinconico, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Deliri Note dell'autrice:
Mh.
L'intenzione era quella di pubblicarla quanto più vicino alla data venticinque dicembre, ma la Senpai non riesce ad aspettare, inoltre anche io voglio pubblicarla diciamo dal mese scorso, quindi why not? :]
Sì, questa è proprio William e sì, quello è Takeshi di Vampire Devil. ((trovate la storia nel profilo di _Night. *spaccia ff senza rimpianto alcuno*))
Non chiedete come si conoscono, non chiedete come si son trovati a vivere insieme, non chiedete e basta.
L'unica cosa che forse potrà aiutarvi a non farvi venire un'emicrania (?) è: tutto questo non ha nulla a che fare con le storie originali, giacché è frutto di molte role.
Se invece siete capitati qui per caso: godetevi la one-shot da inconsapevoli quali siete.
―L o t t i e.












J o y e u x N o ë l.





Con passo felino, quella dote che aveva affinato nel tempo, si introdusse nell'appartamento come una ladra.
Una fuggitiva.
Ancora una volta lasciava qualcuno che amava.
Era passato solo un mese e quell'idiota le mancava da morire ― ah, morire.
Teneva stretto al petto qualcosa che sarebbe sembrato un libro e, in effetti, in un certo senso, lo era. Non lo sentiva e la cosa le dispiacque molto; chissà dov'era, se la cercava o, peggio ― cosa che la spaventava di più ― l'aveva dimenticata.
Una lacrima le corse fredda sulla guancia andando a schiantarsi sul pacchetto blu elettrico col fiocco argentato e ― un miagolio.
Senza pensarci, gli angoli delle labbra si alzarono a formare un sorriso nostalgico, divertito. Kōun'na, fino a qualche mese fa era un semplice randagio, quell'estate era diventato il loro gatto.
Le faceva compagnia quando era costretta a rimanere a casa per colpa del sole e come dimenticare tutti i graffi che si era beccata! Il felino le si avvicinò con disinvoltura, zompettando fin le sue gambe coperte dalle parigine bianche, come se non se ne fosse mai andata da lì. Altro miagolio ed iniziò a carezzarla con il pelo morbido e lucido.
«Ti sono mancata?» ridacchiò tristemente chinandosi per carezzargli la testolina, dietro le orecchie ― facendo fare le fusa al micio.
Poco dopo però si rimise dritta: doveva mettere in atto ciò che aveva ben progettato in mente. Lasciò il micio che se ne andò nella stanza da letto dove si accucciò sul piumone del letto matrimoniale.
Sorrise un ultima volta, poi percorse il corridoio non molto lungo per raggiungere la cucina.
Oh.
Una dolorosa morsa le si strinse intorno al cuore, mentre osservava il piano della cucina lindo.
Lì aveva cucinato per entrambi, eccome se lo aveva fatto! Facendo anche provare dei piatti tipicamente francesi a Takeshi, dove gli aveva preparato i gyoza quando si era ammalato e dove l'aveva “aggredito” la prima volta, in preda alla sete.

«E poi...», voltò lo sguardo altrove, le iridi celesti che divenivano lentamente scarlatte. Deglutì a vuoto. «...hai un odore strano: dolce.»
Quindi si strinse nelle spalle, inconsapevole del cambiamento appena avvenuto, mentre il moro betteva le palpebre, un po' sorpreso, anzi, perplesso.
«Sarà il mio shampoo?» e piegò ingenuamente il capo di lato, fingendo di non aver appena visto i due rubini brillanti.
E di non aver già vissuto una scena simile.
«È alla pesca, d'altronde. La pesca è dolce.» un nodo alla gola gli tenne presente cosa, a breve, sarebbe per forza successo.
La vampira si costrinse di non tornare a guardarlo, attratta da quel profumo tanto invitante.
«Già, forse», sussurrò serrando le labbra, avvertendo distintamente le punte dei canini fremere.
L'uomo distolse lo sguardo anche lui, schiarendosi nuovamente la gola e continuando a mangiare, fino a spazzolare via tutto. Si alzò per lasciare le stoviglie nel lavandino della cucina, fermandosi lì di spalle, in pratica temporeggiando. L'albina nel giro di qualche secondo gli si ritrovò vicino, se non appiccicata contro ― il moro non riuscì a trattenere un sobbalzo avvertendo la conformazione fisica della ragazza contro di lui.
«Questo buon profumo...» gemette lei, quasi con sofferenza, non riuscendo ad arrivare al punto desiderato: il collo.
«Will!» esclamò lui, girando il viso di lato per guardarla senza riuscirci; sentiva chiaramente un tono diverso di voce, più caldo, graffiante e tutto quello, in qualche modo, gli era familiare. Con la differenza che era stato dieci volte più doloroso, la prima volta.
«Quindi...» si girò di scatto, attento a non far cadere né colpire la ragazza; le avvolse i fianchi con entrambe le braccia, sollevandola da terra per porgerle, senza esitare un istante, il collo bianco. William socchiuse gli occhi annusando già fremente il lato del collo, leccandolo successivamente, avvertendo le pulsazioni correre veloci sotto la pelle. Poco dopo, i canini mai utilizzati ed aguzzi furono piantati nella carne dell'uomo.
«Gh―!», ah, tutto gli tornò alla mente come un pugno in faccia: doloroso. Chiuse gli occhi, Takeshi, prima strizzandoli, poi con aria stanca e sofferente, senza però allontanare William da sé, né togliere forza alla presa alla vita. Anzi, se possibile, la strinse maggiormente, tenendola su.
«Will...» sussurrò in un bisbiglio appena udibile ― ma sapeva che lei aveva sentito. Avvertiva quella parte del collo messa a dura prova, tormentata, ammorbidita. «...dovrai offrirmi la cena.» disse infine, in un mormorio spezzato, mentre incurvava leggermente la schiena.
Poi non ce la fece più. Le forze gli vennero meno, man mano che William continuava a nutrirsi ― incapace di tenerla ancora sollevata, scivolò al pavimento, strisciando la schiena contro l'armadietto basso della cucina. Anche la presa intorno ai suoi fianchi divenne più debole, ormai erano braccia lasciate a penzolare lì vicino. Provò solo a richiamarla un ultima volta, sussurrando ancora il suo nome.
E fu come rivivere in qualche secondo l'esperienza più traumatizzante della sua vita, con la sola differenza che ora era lei ad infliggere dolore ― oh, la voce di Takeshi era così flebile eppure abbastanza forte da farla tornare alla realtà. Ormai a cavalcioni sull'uomo, il quale era crollato sfinito, si fermò colta da un lampo di lucidità, ciò che forse poteva definire un brandello d'umanità. Quando allontanò il viso dal collo di Takeshi, sfilando dalla sua pelle i canini, lo osservò sconcertata.
Stordito, lui chiuse lentamente le palpebre, aggrottando appena la fronte quando l'albina si mosse ― schiuse le labbra. Sentiva la testa più pesante e la vista era appannata, quasi gli avessero bendato gli occhi per anni e anni.
«Va avanti», disse senza esitazione, ma a bassa voce, costretto dalla stanchezza fisica.
L'aria era tersa, impregnata dall'odore ferreo del sangue e― poi i suoi occhi si concentrarono su quelli tornati celesti della vampira. Oh, era davvero...
«Will... hey.» cercò di avvicinare il viso invano, in quanto lei si ritrasse ulteriormente trattenendo per attimi interminabili il respiro, portando un mano alle labbra imbrattate, quasi a constatare la sua colpevolezza. Ora, però, quell'aroma pungente che prepotentemente le si insinuava nelle narici, le dava la nausea costringendola a trattenere un conato.
Dopo qualche altro secondo di smarrimento, Takeshi riuscì finalmente a vedere più chiaramente e, più importante, a capire la gravità della situazione. Esterrefatto ed invaso dall'odore sanguinoso, notò il colorito della ragazza che andava impallidendosi sempre più. Forse stava avendo una reazione al contrario, una sorta di disgusto per ciò che le era accaduto con quel vampiro?
«Aspetta, resisti.» con le poche forze rimastegli in corpo, l'avvicinò ancora a sé per prenderla in braccio e mettersi in piedi insieme a lei. Appurando quanto si fosse macchiata la felpa che aveva, se la sfilò di dosso ― restando in questo modo a torso nudo ― buttandola nel lavandino.
«Will?» la chiamò, incerto.



“Will?” quasi le parve di sentirla davvero, quella voce calda e gentile, degna di un buon padre, carezzarle l'udito mentre la vista le si appannava.
Perché dopo quasi un anno se ne era andata? Fuggire ancora dall'affetto di qualcuno era probabilmente la cosa che le riusciva meglio? Evidentemente sì, la risposta le arrivò in automatico.
Si osservò intorno, meccanicamente ― ed un altro ricordo le arigliò prepotente la mente.
In quella cucina aveva festeggiato anche il suo diciassettesimo comoleanno; compiva gli anni il primo di giugno, ma, beh, con il trambusto che c'era stato in quel periodo l'aveva pure dimenticato, inoltre si era anche beccata la febbre!
Era il tre di giugno, quando si era alzata dal letto per raggiungere Takeshi che l'aveva invitata in cucina.

Forse aveva un po' esagerato.
Tutto sommato era fiero del risultato ― ma, come sempre, lo voleva nascondere. Come William gli stava nascondendo qualcosa. Ma capiva che a volte, c'erano cose che non si riuscivano a dire e basta.
«Ben arrivata», per questo, con tutto ciò che aveva fatto, non voleva appropriarsi di niente; non voleva conquistare la sua fiducia o addirittura comportarsi come ai tempi del liceo, facendo innamorare di sé ogni umana che respirasse e portasse la gonna. Se aveva spento le luci, serrato per bene le finestre e nascosto la luce del giorno con le tende, se aveva cosparso il soggiorno con candele e lanterne... non c'era un vero motivo.
A parte, forse, rendere felice qualcuno. Dare a qualcuno la voglia di vivere.
«Uhm, buon... compleanno?» con tono dubbioso, guardò la stanza; le candele e le lanterne erano davvero ovunque: sul tavolo, sul ripiano della cucina, sul frigorifero, persino nell'altro bagno. E per questo, l'ambiente aveva una luce propria, calda, soffusa. Sul tavolo, al centro di esso, c'era persino una torta che ovviamente non aveva fatto lui, o sarebbe stata tutta cadente da un lato, pure bruciata. Con diciassette candeline, a formare una stella.
Nervoso, si piegò sui talloni per trafficare con una radio.
E rise, tremendamente sconvolto, trovandone quella canzone1 che cominciava, lenta e melodiosa. Sì, non si aspettava proprio quella ― ma, d'altronde cosa poteva aspettarsi da Yuka? In quella stanza illuminata dalla forza di volontà, da un lieto evento passato di testa, che, altrimenti, sarebbe stata completamente buia.
Le pupille e le iridi erano illuminate, come un flash, da quella luce.
E lei, che era arrivata lì con un sorrisetto forzato, era rimasta a dir poco... scioccata. Piacevolmente, scioccata. E man mano, specialmente dopo aver sentito quella canzone ― Dieu, le labbra andavano allargandosi da dole, mostrando anche un accenno di denti, in un sorriso ebete.
Prese a ridere, decisamente imbarazzata. Oh, se lo era, fino al midollo! L'occhio poi le cadde sulla torta ― bellissima.
Si era incollata alla parete, non riuscendo a fare un altro passo: se l'intento era renderla felice, sì, poteva tranquillamente affermare “missione compiuta.”
«Se avessi avuto una trentina di anni in meno, stai sicuro che mi sarei innamorata di te», affermò con tranquillita a quell'uomo cinquantenne con l'aspetto di uno di trenta, portandosi una mano in fronte a spostare la frangia, non riuscendo a formulare qualsivoglia pensiero... forse solo uno.
Solo due persone riuscivano a lasciarla così piacevolmente stupita, almeno fino ai dodici anni; e in Takeshi aveva iniziato a vederne proprio una di queste. Piegò il capo in avanti, lasciando andare al pavimento quelle gocce altrimenti finite sulle sue guance. Forse aveva l'aria un po' da pazza. Però riuscì a vederlo, quel viso, quel sorriso, quell'uomo del quale portava fieramente il cognome e che proprio adesso le mancava più che mai.
Del quale chiedeva solo un ultimo abbraccio.
«S-sono... felice», mormorò scacciando le altre lacrime che minacciavano la caduta, un po' per rassicurare Takeshi.
«Davvero? A-allora perché...» perché piangi?, avrebbe voluto dirlo e basta, ma le parole gli morirono in gola. Infine scosse la testa: nessuna domanda... giusto? Si limitò ad alzarsi dai talloni e camminare da lei, accorciando quella già breve distanza con dei passi coccolati dalla musica. Le porse una mano abbozzando una risata. «Ma come? Per te l'età è importante, mh? Innamorati di questa bellissima faccia!» disse così perché in parte lo credeva, l'età era davvero nulla. Beh, certo... anche se lui di certo non rientrava tra un'età meno... fraintendibile. Ma neanche questo era importante. In quel momento, coleva solo gongolare del fatto di averla resa felice.
Anche se quelle lacrime...
«...posso avere l'onore di un ballo, milady
Piegò leggermente il capo di lato, un dolce sorriso che brillava tenue sulle labbra.



Avevano ballato fino alla fine della canzone, l'uno contro l'altra ― lui abile compagno, lei rigida come una tavola di legno.
La torta era al caramello e cioccolato: deliziosa.
Come Takeshi, i suoi occhi marroni, caldi, a volte persi; aveva imparato a coglierne ogni sfumatura.
Finalmente si mosse, avanzando fino al tavolo, poggiando lì il pacchetto ― nonostante se ne fosse andata, non aveva smesso un attimo di pensare al suo regalo di Natale: non voleva scendere sul classico, voleva regalargli qualcosa che gli fecesse venire in mente lei, la sua peste albina, la sua brontolo, ragazzina, William.
Per questo aveva perfezionato l'arte della soggiogazione, anche se un po' le dispiaceva per quel signore tanto gentile che le aveva fabbricato a mano quel libricino dalla copertina in cuoio beige e non aveva ricevuto comoenso.
Sul davanti aveva fatto incidere una scritta argentata: “L'uomo di Cioccolato: a latte, bianco e fondente.”
«Oh...» esclamò piano, ricordandosi di un piccolo particolare molto importante.
Lasciando lì il pacchetto, entrò in camera da letto dove dormiva il micio, aprì un cassetto del comò. Sapeva cosa era contenuto in quel cassetto ― con una mano dalle dita affusolate e bianche, scartò alcune fotografie de giorno del suo compleanno e prese un foglio bianco insieme ad una penna. Tornata in cucina, fece per scrivere più volte...

“Dannazione, non pensavo fosse così difficile scrivere un biglietto! Forse perché ciò che vorrei dirti è troppo per questo pezzo di carta?
Scusa.
Per il dolore e il disturbo che ti ho recato ― non lo negare, sai quanto sono testarda. Quindi cerca di ricordarmi per tutte le cose belle che abbiamo fatto insieme. Se me ne sono andata non è colpa tua e non è stata una decisione mia.
Forse però è la paura di affezionarmi più quanto non lo sia a tenermi ancora lontana da te.
Grazie.
Per ogni cosa, di avermi dato uno stimolo per vivere nonostante tutto ed avermi reso pertecipe di un pezzetto della tua vita.
Kōun'na mi ha salutato; non lo lasciare solo a casa, ne soffre anche lui, sai?”

«Sai...―» disse con voce spezzata, scoppiando a piangere senza freno, singhiozzando. La mano tremava, impedendole di continuare la scrittura mentre con l'altra cercava invano di frenare le lacrime copiose che cadevano anche sul foglio come macigni. Perché? Dopo qualche istante e dei respiri profondi, profondissimi, riprese seppur con qualche difficoltà a scrivere.

“Vorrei salutare anche te con un abbraccio e una battuta sarcastica, ma sicuramente intuirai guardando questo foglio che non me la sento nemmeno di trattenere il pianto.
Volevo apparire ancora forte―”

Si interruppe nuovamente, sentendo il portone aprirsi e dei passi; la tentazione di rimanere era davvero molta.

“Ora però stai salendo le scale ed è meglio che vada, non è un addio.
Dalla tua coinquilina pestifera, ti voglio bene.
William Leroy.”

Aggiunse con un sorrisino piegando poi il foglio a metà, lasciandolo vicino al libro. Quindi svelta uscì nel balcone della camera da letto, dove vi erano le scale d'emergenza.
Era una giornata tersa quel venticinque dicembre, il cielo costellato di riccioli di panna grigi, nevicava ― piacevolmente i fiocchi candidi e freddi si fondevano con i suoi capelli di altrettanto colore e rimanevano impigliati nelle lunghe ciglia bianche. Arricciò appena il nasino all'insù, leggermente arrossato, ed incurvò le labbra rosee tagliate in qualche punto in un sorriso di conforto, mentre stretta nel suo maglioncino celeste ghiaccio e la gonna morbida appena sopra il ginocchio si apprestava a scendere le fredde e pericolosamente scivolose scale di metallo.
Ancora pensava al regalo che gli aveva fatto, scrollò le spalle ed il capo abbozzando una risatina e un motivetto malinconico a labbra chiuse. Si diede uno slancio con la gamba destra e saltò quel metro che la divideva dal marciapiede; atterrò sulla morbida neve perfettamente integra.
L'uomo di cioccolato: a latte, bianco e fondente” non era altro che un intero libro lasciato in bianco, fatta eccezione per la prima pagina, sulla quale vi era scritta una brevissima storiella inventata da lei.
Ah-a.
D'altronde, quasi scoppiò a ridere in mezzo alla strada immaginandosi la faccia di Takeshi a quella “sorpresa”. Anzi, vergona era più adatto a quella situazione. Perché certo lei non era tipo da scrivere una storia senza cadere nel demenziale ― figuriamoci qualcosa che doveva avere una sorta di morale! Sbuffò dalle labbra una nuvoletta di vapore che si dissolse poco dopo nell'aria fredda di dicembre e continuò a camminare lentamente, calpestando la neve immacolata del vicolo nella quale si era addentrata.











Altri deliri Note dell'autrice:
[...]quella canzone1[...]: The Meaning Of Us di Namie Amuro, la consiglio. uvu
― Gcchan. ♪ o L o t t i e, se preferite.
  
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