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Autore: hikachu    10/12/2014    6 recensioni
Resoconto dei trentuno giorni che sconvolsero la vita di Usagi Tsukino, strappandola alla sua ordinaria vita da ordinaria liceale. Oppure: di come le favole siano solo sogni ad occhi aperti, e i mostri spesso si travestano da principi.
Genere: Angst, Drammatico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Demando/Diamond, Seiya, Un po' tutti, Usagi/Bunny | Coppie: Mamoru/Usagi, Seiya/Usagi
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Nessuna serie
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Capitolo I: 1/8/1992



Mi chiamo Usagi Tsukino. All'epoca dei fatti, avevo compiuto diciotto anni da appena due mesi. Erano quelle le mie ultime vacanze da liceale. Le mie amiche ed io trascorrevamo le giornate ingozzandoci di gelati, rotolando in panciolle sul pavimento di casa con l'ultimo numero di Jump tra le mani, accarezzando il sogno lontano di una spiaggia tropicale. Stavamo insomma facendo del nostro meglio per dimenticare i compiti estivi e, soprattutto, le scelte che ci avrebbero atteso da un mese a quella parte. Ad eccezione di Ami che aveva sempre lavorato sodo in vista di un'ambizione che l'aveva accompagnata sin dall'infanzia, l'idea di dover dare una direzione precisa alle nostre vite ci spaventava. Per la prima volta, dovevamo guardare ai nostri sogni con occhi diversi: i se e i forse i certamente che ci avevano sostenute in una vita spensierata si facevano sempre più evanescenti; erano, anzi, fantasmi da rifuggire adesso. Il mondo che ci avrebbe trattate come bambine ancora per qualche anno, ci chiedeva di essere adulte. Era tempo di gettare via quei progetti che erano poco più che sogni ad occhi aperti, scenari che inconsciamente sentivamo non si sarebbero mai tramutati in realtà.

Così, quel primo agosto, avevamo sistemato il ventilatore che di solito presiedeva la cameretta di Rei nel soggiorno in stile giapponese – che pure ne era stato già fornito poco prima della fine della scuola, quando in vista degli ultimi esami ci riunivamo lì per studiare insieme – e fissavamo, mute, il soffitto. Avevamo i capelli appiccicati al viso e i vestiti, abitini di cotone sottili come carta, erano una costrizione. Ricordo che tra il sudore e la consistenza ruvida del tatami, la nuca mi prudeva da matti, ma anche solo sollevare il braccio per grattarla mi pareva un'impresa monumentale.

Il frinire delle cicale sembrava destinato a continuare per sempre: mi aveva dato il buongiorno quando mi ero sollevata a sedere nel mio letto quel mattino, e da allora non mi aveva lasciata per tutto il tragitto verso il tempio della famiglia di Rei, nemmeno per un solo secondo. Mentre incespicavo sulle scale dopo il primo torii, il suono si amplificava nella mia testa, gradino dopo gradino; forse quelle creaturine mi stavano incoraggiando a modo loro, o forse ridevano di gusto di me, delle mie amiche, di quelle sciocche, ingombranti creature in procinto di squagliarsi al sole che non avrebbero mai saputo cantare le lodi dell'estate—che non avrebbero mai saputo amarla instancabilmente come facevano loro. Ma, oh, piccole cicale, di amore noi ne avevamo tanto...

In quel periodo, Tokyo era piena solo a metà. Chi non era costretto a restare dal lavoro era felicemente migrato altrove, magari proprio su quella spiaggia tropicale che noi, squattrinate liceali, non potevamo permetterci al di fuori delle nostre fantasie. Era così che anche il tempio restava privo di visitatori per lunghi intervalli, eccezione fatta per alcune signore anziane che abitavano nei dintorni. Se le ragazze non fossero state con me in quella stanza, avrei creduto di essere stata catapultata in una città fantasma. Non vi era rumore che facesse intuire la presenza di altri esseri umani, se non quello distante del bus che si fermava ogni venti minuti all'incrocio sottostante. Persino il canto delle cicale, forse perché tanto persistente, era come parte del silenzio stesso. E il silenzio ci schiacciava, assordante.

Ripensandoci adesso, credo che quei lunghi silenzi tra di noi fossero uno sforzo, tanto simultaneo quanto inconscio, per prolungare al massimo quei momenti surreali, in cui il tempo sembrava essersi fermato. Istanti rubati al mondo in cui poter essere ancora noi, troppo piccole per pensare davvero al domani; per poter credere che da un momento all'altro ci saremmo messe a ridere come sceme, come sempre, complottando per decidere se trascorrere l'indomani al caffè di Motoki a provare i nuovi videogiochi oppure se fuggire a Ginza, per dare una sbirciata a quel mondo di adulti raffinati così distanti da noi, tra un sospiro e l'altro davanti alle vetrine di Gucci e Bulgari. La verità, naturalmente, era che quel periodo delle nostre vite stava giungendo al tramonto, che quel pomeriggio ci eravamo riunite per discutere, magari decidere. Eravamo lì per potare, tagliare via i boccioli nascenti di quei sogni che non avrebbero mai visto la luce per permettere ad un'unica ambizione di prendere vita.

Persino Ami, che di norma non avrebbe esitato a rimproverarci di prendere più sul serio il nostro futuro, se ne stava quieta, un'espressione vagamente triste stampata in volto: persino a lei, che non aveva dubbi e sarebbe di sicuro entrata nella prima università di sua scelta, restava un demone da affrontare. Quello della separazione. Non potevamo sapere dove queste scelte, una volta fatte, ci avrebbero condotto, e c'era d'altronde la possibilità che, dopo il diploma, Ami stessa dovesse seguire negli Stati Uniti sua madre, impegnata in un importante progetto di ricerca. Di certo, in America non le sarebbero mancate ottime opportunità di studio: i college avrebbero fatto a gara per accaparrarsi una studentessa dotata come lei; le avrebbero offerto borse di studio al cui confronto qualsiasi proposta locale sarebbe impallidita.

Io, la sciocca Usagi, la piagnucolona Usagi, sapevo bene di non avere nessun talento particolare, né potevo dire di avere una qualche attitudine allo studio—non quando anno dopo anno me l'ero sempre cavata per il rotto della cuffia. Le mie amiche, invece, possedevano tutte una qualche inclinazione, una piccola fiammella che bruciava nel loro petto e nutriva un sogno ben diverso dalle mie infantili fantasticherie di futura pop star o principessa. Loro, ne ero sicura, sarebbero riuscite a realizzare quei desideri. Passata la tempesta dell'adolescenza, lavate via le incertezze di quel periodo in cui ci sembrava di camminare al buio, ne sarebbero emerse come farfalle da un bozzolo, ormai tramutate in splendide donne. Avrei voluto trovare le parole per spiegare quel presentimento ogni volta che scorgevo l'incertezza sui loro lineamenti, ma avevo paura di ferirle. Egoisticamente, non volevo pensassero che stessi sottovalutando le loro difficoltà. Non volevo che mi odiassero. Le volevo vicine a me, come sempre, allora più che mai. Avevo paura di restare sola e non sapevo come scacciare quell'ansia che mi faceva pesare il cuore: più osservavo le ragazze e più mi sentivo dieci, venti, cento passi indietro rispetto a loro. Era una voragine che si allargava giorno dopo giorno. Mi stavo rendendo conto di essere viziata, che fino ad allora mi ero nutrita del loro affetto, mi ero rifugiata nei loro abbracci, avevo messo il broncio quando punzecchiandomi cercavano di invitarmi a fare di più, a fare del mio meglio, ed avevo continuato così ad essere la sciocca Usagi, la piagnucolona Usagi, che non fa nulla di buon grado se non mangiare, schiacciare pisolini e giocare.

Avevo avuto la grande fortuna di essere così amata e protetta e sentivo di averla sprecata. Avrei potuto intraprendere qualsiasi cosa con tutto il sostegno che quelle persone meravigliose mi avrebbero dato, e non l'avevo fatto. Se pensavo a Makoto, la dolcissima, fortissima Makoto, che i genitori li aveva persi a sette anni e nonostante tutto si era sempre presa cura di se stessa e di chi le stava intorno, mi sentivo terribilmente in colpa. Mi ero lasciata inebriare dalle gioie momentanee di una torta o il nuovo capitolo del manga che seguivo ossessivamente, ma anche dall'affetto delle mie amiche, della mia famiglia e della persona che più di tutte mi stravolgeva il cuore: Mamoru, il mio principe senza corona. L'incarnazione dei miei sogni di bambina—quel frammento di essi che credevo sarebbe sopravvissuto al momento del diploma e al mondo esterno che ci stava strappando all'infanzia.

Mamoru, che con un sospiro da adulto mi diceva, Usako, dovresti impegnarti di più, e si offriva di aiutarmi con i compiti nei pomeriggi piovosi che ci intrappolavano in casa sua, ma poi mentre cercavamo di afferrare un libro o una penna le nostre mani si sfioravano e l'intreccio delle dita diventava un bacio, poi due, poi tre, ed io non lo lasciavo andare fino a sera, quando la strada era pervasa dal profumo della cena che si consumava nelle abitazioni circostanti ed io dovevo correre per non perdere l'ultimo bus. Mamoru, che avevo baciato per l'ultima volta nel mese di aprile, in cima alle scale mobili dell'aeroporto; la prima separazione portata da quella tempesta che non vedeva l'ora di inghiottirmi. Mamoru, il mio bellissimo Mamo-chan, era intelligente e lavorava sodo e spesso parlava di cose che non capivo, ma era così entusiasta quando mi raccontava dei progressi che lui e i suoi colleghi all'università stavano facendo, che non avrei mai e poi mai potuto fare altro che fingermi interessatissima. L'avevo visto avanzare su per la strada del successo senza davvero accorgermene o comprendere fino in fondo la magnitudine del suo impegno: e così, in un giorno di febbraio, sotto un cielo insolitamente terso che profumava un po' di primavera, noi eravamo al parco, sulla solita panchina, e lui mi aveva stretto entrambe le mani e sorridendo aveva detto, Usako, buone notizie, Usako. Aveva sciorinato poi: risultati nuovi progetti borsa di studio estero due anni, e il suo sorriso si era diluito in un velo di tristezza come se avesse appena realizzato appieno cosa stava per accaderci, ma per me erano ancora tutte parole disconnesse, nient'altro che il preannunciarsi di un bel mal di testa e la sensazione appiccicaticcia delle lacrime sulle mie guance. Perdonami, gli avevo detto quando la prima mi era scivolata tra le labbra, ma sono stupida e mi ci vuole tempo, tu lo sai, gli avevo detto, sebbene lui non potesse sapere del vuoto che in quei momenti avevo in testa. Ma sarebbe stato impossibile per Mamoru esser cieco davanti alla mia tristezza, e così mi aveva presa tra le braccia, stringendomi forte, ed io avevo preso a singhiozzare come se stessi per morire, senza vergogna, mentre le altre coppie e le famiglie che passeggiavano per il parco si voltavano a fissarci. Ci eravamo baciati, poi, e in quel bacio avevo conosciuto per la prima volta il sapore della rassegnazione.

Stretti forte al punto di provare dolore, con le ossa di uno che premevano contro la carne dell'altra, su quella panchina, Mamoru continuò a baciarmi, sperando forse di fermare le mie lacrime. Tuttavia, anche quando ebbi smesso di piangere, quel sapore non mi abbandonò per tutto il giorno, né in quelli successivi, né – naturalmente – al momento della partenza. Quel giorno, al tempio, mi impregnava ancora il fondo della lingua per risollevarsi come un'onda ad ogni pensiero amaro. Era divenuto terribilmente familiare, il sapore della perdita che non avevo mai conosciuto prima di allora. Dopotutto, all'epoca, era impossibile per me discernere qualsiasi distanza tra me e la persona che amavo che non fosse quella fisica: credevo ciecamente che l'amore fosse abbastanza—no, che semplicemente non vi fosse bisogno d'altro, per colmare quelle crepe che per natura esistono tra due solitudini. L'amore era per me la forza assoluta, inequivocabile, imprescindibile: un mito colto tra romanzetti d'amore e manga rosa che, in mancanza d'ostacoli, sovrapponevo sicura alla realtà. Trascorrevo dunque le mie giornate tra la casa di un'amica e la sala giochi, ingannando il tempo prima della telefonata serale di Mamoru. Per me, il ciclo di ventiquattro ore terminava e si resettava lì; ciò che veniva prima o dopo era spesso come un vago sogno, una nebbia da tagliare faticosamente fino al raggiungimento di quei fatidici dieci, quindici minuti, e poi, punto e accapo.

Anche quel giorno, nonostante tutti i pensieri che mi affollavano la mente, o forse proprio a causa di tutte quelle preoccupazioni, decisi finalmente di ignorare il senso di fiacchezza che mi avvolgeva come un sudario per lanciare uno sguardo all'orologio digitale, sistemato sullo scaffale più alto della libreria come veloce rimpiazzo per quello da muro – un vero pezzo di antiquariato prodotto agli albori dell'epoca Showa – rotto per sbaglio dall'apprendista sacerdote durante le pulizie primaverili. Ecco, eccomi che mi tiro a sedere; ecco che la persona che ero si solleva: prima sui gomiti, poi tutta la schiena, si trascina gradualmente fino ad ergersi per bene con le spalle dritte. Rivedo i movimenti uno per uno, come in un libro illustrato o la pellicola di un film. Fase uno, fase due e fase tre che passano veloci in un frangente unico. Eppure, in quei tre passi ho già smesso di essere la persona che ero mentre mi stiracchiavo sul tatami. L'idea che io sia sempre io è una convenzione, necessaria e di comodo, certo, ma pur sempre una certezza inaccurata e senza un fondo concreto di verità. L'Usagi che controlla l'ora e fa un breve conto dei minuti che la separano dalla voce del suo ragazzo non è l'Usagi che sta scrivendo queste pagine.

Ecco dunque l'Usagi che ero, quella che sono stata e non sarò mai più, che si volta: Rei le sta dicendo qualcosa con aria seccata. Credo che il nonno abbia finito l'ultima bottiglia di mugicha e per di più manca il gelato, proclama; è appena tornata dalla cucina e ha le mani sui fianchi, la schiena appena incurvata in un'espressione di resa—una posizione che assume solamente quando è seccata. Minako sgrana gli occhi, passi niente tè, ma il gelato di questi tempi è essenziale, non può credere all'affronto; si tira su a sedere anche lei ed abbraccia il cuscino che dovrebbe usare per sedersi come fosse un orsacchiotto. Io, no, Usagi si unisce alla protesta. Quando si tratta di fare capricci, Minako e Usagi si intendono come se condividessero un legame telepatico. La tensione si è spezzata. Adesso le ragazze sono tutte prese da uno di quelli che sono stati gli unici loro problemi per anni: chi va al conbini? Per qualche ora sarà tutto di nuovo normale. Si aprono i borsellini – colorati, a fiori, decorati con personaggi dei cartoni animati o qualche mascotte della Sanrio – e le monete cadono giù, tra le ragazze inginocchiate in circolo, con un fragoroso tintinnio. Si conta tutto fino all'ultimo spicciolo: basterà, ce la facciamo o no. Poi si stila la lista—la scrive Ami, perché lei e Rei sono le uniche la cui grafia sia veramente leggibile, e a Rei non va di scrivere; sono la padrona di casa, dice convinta come se ci fosse un nesso logico tra le due cose. Ora si individua la vittima: in questo caso il rituale scelto è un match di sasso-carta-forbici, che Usagi perde in maniera spettacolare. Viene messa alla porta con la lista e gli spiccioli di tutte in mano; in uno slancio di generosità che forse comprende un po' di rimorso, Makoto le porge il parasole decorato con le roselline di seta che si è portata dietro. Torna presto, le dicono all'unisono, e poi, slam!, la porta scorrevole si chiude senza pietà. Usagi rabbrividisce: se non avesse ritratto subito la mano, le avrebbe troncato le dita. Che razza di amiche. La mandano fuori con quest'afa e le dicono pure torna subito, nemmeno buona fortuna, o fai attenzione. Più tardi pretenderà un morso dalla merenda di tutte e ruberà quella di Minako, che è passata subito dalla parte del nemico quando si è trattato di decidere chi dovesse addossarsi lo sporco ruolo di fattorino. Ecco, sì, se si concentra sul gelato e le bibite e il ventilatore che l'aspettano, camminare è un po' più facile. Come ogni altra volta. In questo momento, Usagi è di nuovo una ragazzina spensierata.

È durante il viaggio di ritorno che qualcosa cambia. Un elemento estraneo, un fattore imprevisto si frapporrà tra lei e la sua vita normale, ma Usagi, naturalmente, non lo sa ancora. È stanca, sudata, ansima. Cammina senza pensare, tanto il suo corpo conosce il percorso intrinsecamente, le sue gambe imboccano la strada giusta con la stessa naturalezza con cui si respira. Il palmo sinistro le fa leggermente male: il manico del parasole ha una forma particolare, scolpita nelle sembianze di una testa di gatto, e diventa scomoda da tenere dopo un poco. Le dita della mano destra sono rosse e formicolano perché il manico della busta di plastica le sta tagliando la circolazione. Le mattonelle del marciapiede producono rumori secchi quando lei le pesta, rumori che le ricordano biglie di vetro che si scontrano l'una con l'altra oppure ossa—gli ossicini di pollo che s'impilano nei piatti a Natale, e quando sua madre li butta via, fanno plic-plic-tunk mentre cadono nel cestino. La pavimentazione andrebbe controllata e forse rifatta, perché alcune mattonelle si alzano e si abbassano quando lei ci cammina sopra, e forse, se gli addetti municipali se ne fossero già occupati a quel punto, la vita di Usagi sarebbe stata molto diversa, perché quello che accade dopo è che lei si trova ad un bivio. Per una mattonella.

Per cogliere questo momento bisognerebbe scattare tante foto una dopo l'altra, come i fotogrammi di un cartone animato. Clic. La punta della scarpa di Usagi incespica in un dislivello della pavimentazione. Clic. Il corpo di Usagi sobbalza, lei perde la presa sul parasole che vola in strada e la busta le sfugge, si apre e bottigliette e gelati sono sospesi a mezz'aria. Clic. Il tè di Rei e Makoto rotola fino all'altro marciapiede, quello di Ami resta intrappolato nel canale di scolo, il Pocari Sweat di Minako è ancora impigliato nella busta; i gelati sono frittatine sull'asfalto; Usagi è sbalzata in avanti: si rende conto che sta per cadere sulla faccia, pensa: accidentaccio perché sempre a me. Clic. L'elemento estraneo, il fattore imprevisto entra infine in gioco salvandola dalla sorte che è già toccata ai gelati. Clic. Usagi strabuzza gli occhi perché anche una tonta come lei sa distinguere la consistenza del marciapiede da quella di un corpo umano. Clic. Solleva il viso e nota che il fattore imprevisto ha la forma di un uomo appariscente: affascinante, straniero e tutto vestito di bianco; arrossisce perché Usagi è tonta e questo significa che non sa nascondere i propri pensieri, non sa non fidarsi e di conseguenza non sa dire di no. Clic. L'elemento estraneo sorride, proprio come farebbe il protagonista di un film romantico, uno che non ha dubbi su se stesso o il futuro. Ti sei fatta male, chiede. Usagi scuote la testa freneticamente. La tua spesa, fa lui contrito, come se fosse colpa sua. Lei dice: non fa niente, e invece fa, perché le altre la tormenteranno per il resto della settimana per questo incidente, e cerca di ridere e di rimettersi in piedi perché non vuole fare altre brutte figure davanti a questa persona bellissima, ma quando poggia il piede sinistro a terra una scossa elettrica le pervade la gamba e perde l'equilibrio. L'uomo la afferra in tempo per la seconda volta e la informa che così non può andare da nessuna parte. Ti porto al pronto soccorso, annuncia con un tono che non ammette repliche, ma Usagi dice comunque no, non posso, le mie amiche mi aspettano. L'uomo ci pensa un po', pollice sotto il mento e l'indice che gli sfiora la punta del naso. Va bene, dice, va bene, ma permettimi almeno di accompagnarti da loro, se ti lasciassi sola in queste condizioni non me lo perdonerei mai.

Clic.

Ecco, questo è il climax. Il punto in cui si decide tutto. Vorrei gridare disperatamente ad Usagi di rifiutare, di strisciare fino al tempio piuttosto, che lei non sa nulla di quest'uomo e non ha nessun motivo per fidarsi. Sciocca, vorrei dirle. Scema. Lascia perdere. Scappa. Ma il passato non esiste più se non nei ricordi, ed è quindi inalterabile. Non posso far altro che riportare passo dopo passo come ho rovinato la mia vita e quella delle persone che amo. Dunque, Usagi tentenna un po', giusto per non sembrare troppo sfacciata, e poi annuisce: se proprio insiste... L'uomo sorride, se la carica sulle spalle come fosse una bambina, e segue le sue indicazioni come un maggiordomo fedele. Si ferma addirittura presso i distributori automatici per comprare bibite e merendine di sua tasca. So che non sono le stesse, si giustifica mentre le infila nella busta del conbini, dove restano solo il Pocari Sweat e la coppetta di Häagen Dazs che Usagi aveva comperato per sé. Lo dice con un dispiacere sincero, come se la sbadataggine di lei fosse colpa sua. Usagi si vergogna da morire ma è anche lusingata e, resa ancora più sicura – e ancora più sciocca – da questa vanità infantile, si lascia trasportare docile come un agnellino. 

Quel che non sa—Quel che non potrà sapere se non quando sarà già troppo tardi, è che sta praticamente conducendo per mano l'uomo che sarà il suo carnefice nella propria vita.

In questo tiepido giorno d'autunno, mentre scrivo alla luce del sole morente, io ho un solo desiderio: tutti voi che avete vissuto quei trentuno giorni con me... spero intensamente che possiate perdonarmi.







 


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