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Autore: EsterElle    12/12/2014    4 recensioni
Inverno è alla ricerca.
Inverno è stanca di inseguire, di essere in viaggio. Inverno vuole solo tornare a casa e dimenticare tutto. Ma non sa che la magia è dietro l’angolo, pronta a coglierla di sorpresa e a regalarle meravigliosi ricordi delle sue mille vite passate.
È la magia di un bosco d’autunno, che resterà per sempre nel suo cuore.
(Prima Classificata al Contest: "Autumn winds" indetto da Chaotic Alaska e giudicato da DarkElf13 sul forum di Efp)
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nome EFP/Forum: EsterElle/Ester.EFP
Titolo storia: Diario di Inverno
Genere: Fantasy
Rating: Verde
Avvertimenti: Nessuno
Lunghezza: 3.937 parole (contatore Word)
Breve introduzione:
Inverno è alla ricerca. Inverno è stanca di inseguire, di essere in viaggio. Inverno vuole solo tornare a casa e dimenticare tutto. Ma non sa che la magia è dietro l’angolo, pronta a coglierla di sorpresa e a regalarle meravigliosi ricordi delle sue mille vite passate.
È la magia di un bosco d’autunno, che resterà per sempre nel suo cuore.
 
N.B.: Ronja _ leggi Ronia
 
 
 
 
Diario di Inverno
 
 
 

 
Giorno 247
Aveva lo sguardo perso, Inverno, quella mattina, lo sguardo stanco.
Viaggiava da sola, accompagnata dalla sua borsa di tela e dalle sue fantasie. La corriera era affollata e lei era stretta tra un uomo decisamente in carne e un’anziana signora che, tremando e bisbigliando, sgranava un rosario.
Viaggiava per le regioni remote della Svezia da qualche giorno, ormai.
Viaggiava per tornare a casa.
Duecento giorni non le erano bastati per esplorare in lungo e in largo le nazioni dell’Europa, gli anfratti più bui e le città più belle, alla ricerca. Aveva frugato ogni costa, ogni pianura ed ogni montagna, aveva stanato topi di fogna, ladri e pacifici agricoltori, inciampato nelle reti dei pescatori, soggiornato in topaie e ricche locande di paese; ma di lui, nemmeno l’ombra.
Inverno sospirò, seduta al suo posto, mentre osservava il suo vento  spazzare la strada e imbiancare il cielo.
- Sono diventata proprio brava- pensò, agitando lievemente le dita candide della mano destra.
“Ronja Lindgren?”
Qualcuno la distolse dai suoi pensieri bruscamente.
La ragazza si voltò, mentre il vento cessava di soffiare alle spalle del bus.
Erano trascorsi diciotto anni, eppure ancora faticava a riconoscersi in quel nuovo nome.
“Si?”
“Deve scendere”
L’uomo in divisa aveva lo sguardo severo e il corpo molle, il ventre prominente.
“Adesso?”
“Immediatamente. Il suo biglietto ha perso di validità mezz’ora fa”
“Oh, certamente” mormorò lei, senza spaventarsi.
Viaggiava leggera, Inverno: prese la sua borsa di tela, sistemò meglio lo scialle di lana sul maglione e si affrettò giù dalla corriera.
L’anziana donna la guardò quando lei le passò davanti, gli occhi spalancati, il bisbiglio morente sulle labbra. Inverno agitò una mano, a mo’ di saluto: di tanto in tanto, accadeva che qualcuno la riconoscesse. Una volta a terra, il rombo del bus che si allontanava la disturbò: non riusciva a sentire, non riusciva a capire!
Quindi si piegò delicatamente, fino a che l’orlo della sua gonna rossa non sfiorò la strada ghiacciata. Avvicinò un orecchio all’asfalto, incurante delle poche auto che sfrecciavano alle sue spalle. Per tornare a casa bastava seguire il fiume, lo sapeva bene. Ma quello si addentrava tanto profondamente nelle foreste da essere invisibile ai viandanti; l’unica soluzione era sentirlo.
 
Inverno era Inverno da sempre; della vita prima del freddo, non ricordava nulla.
Inverno non ricordava quante volte era nata e quante volte era morta: cambiava sempre, eppure era  sempre se stessa. 
Inverno era sempre bambina, sempre ragazza, sempre donna.
Quest’ultimo ciclo l’aveva mutata in una piccola dai ricci capelli biondi e occhi di pece; minuta e aggraziata, si muoveva per le strade del mondo in incognito, legata ai suo compagni di vita, di doppia vita, e alla sua nuova famiglia.
Ogni nascita era amnesia, era dimenticanza: la memoria tornava piano piano, scendeva lenta lungo tutta la vita, fino all’età adulta.
Ronja Lindgren aveva diciotto anni, ma Inverno sapeva che ancora mancava un tassello, che ancora doveva ricordare qualcosa di davvero importante. 
 
Si raddrizzò, spolverando i frammenti di ghiaccio dalla gonna di panno: mosse i primi passi nella neve ammassata sul ciglio della strada a cuor leggero, completamente a suo agio. Non appena il numero dei rami e dei cespugli innevati fu sufficiente a nasconderla, sfilò le vecchie scarpe e avanzò con solo le calze di lana ai piedi.
Il friabile, il fresco sotto le dita, era vita, per lei. Tornò il colore sulle sue guance, e la luce nei suoi occhi.
Tornava a casa a mani vuote, ma tornava!
Non era riuscita a ritrovare Autunno; poco male.
Un altro anno senza autunno, un altro anno di duro lavoro per lei ed Estate. Era abituata, ormai.
Quando aveva cominciato il nuovo ciclo, quando era nata Ronja, Autunno era già sparito da quasi cinquant’anni: quindi, erano almeno due cicli che Inverno ignorava il suo volto. Non ricordava niente di lui, nessun ricordo delle vite precedenti era ancora giunto a rivelarle qualcosa, a svelarle il segreto. Forse perché non lo aveva mai incontrato, forse perché lui non si era mai fatto vedere dopo l’ennesima, ultima, nascita; di fatto, nessuno di loro, Inverno, Primavera e Estate, aveva più saputo nulla del loro compagno per tutti quegli anni.
-È come cercare un ago nel pagliaio- pensò, scuotendo il capo, mentre un cumolo di neve fresca le precipitava sulla testa.
Ritrovarlo era importante; era importante per i suoi cari, sua madre, suo padre, per le foreste che tanto amava, per la terra intera, per gli uomini tutti. Ma lei, in quel momento, era davvero stanca di correre dietro ad un ragazzino capriccioso.
-Io me ne torno a casa!- pensò.
Sorrise.
 
 
Giorno 253
Come dal nulla, Inverno si fermò.
Vide le betulle e i frassini, i salici sparsi, tutti coperti di foglie dorate, alcune rosse e marroni, e gli abeti, verdi e vitali. All’improvviso, sotto i suoi piedi, sentì fango molle e aghi secchi, pungenti. Di punto in bianco, una foglia volteggiò davanti al suo volto, ai suoi occhi sgranati.
Aveva trovato l’autunno.
Sulla strada di casa, tanto vicina alla meta, Inverno restò ferma e immobile, mentre un vento tiepido le agitava la gonna rossa tra le ginocchia, il maglioncino legato alla vita, la camicetta spiegazzata senza pietà.
Sulla via del ritorno, aveva trovato l’autunno.
Era lì, davanti ai suoi occhi: il cielo era azzurro chiazzato di nuvole bianche e l’aria profumava di resina ed erba.
-Allora è questo, l’autunno- pensò, mentre si chinava a raccogliere una palla di piccole spine.
Voltò le spalle a quel colore, al calore del vento, alla luce del sole; ecco dietro di lei apparire i suoi pini innevati, il ghiaccio e la brina, l’aria fredda che tinge le guance di rosso.
Com’era possibile, cos’era successo in quel posto incantato, in quel ritaglio di bosco? Un passo indietro, ed era inverno, uno avanti, ed ecco l’autunno.
Inverno chiuse gli occhi.
Com’era possibile che, così per caso, era tanto vicina alla soluzione di quell’enigma?
Niente paura, niente paura. Adesso fai un passo oltre e poi un altro, ecco, così.
Non c’era tempo da perdere, doveva indagare, dove cercare anche laggiù, tra i boschi vicino alla sua casa. Se l’autunno era arrivato solo lì, lui non sarebbe rimasto nascosto per molto.
 
 
Giorno 254
Inverno era pallida e debole, camminava pian piano, col respiro affannato e le labbra dischiuse. Il sole era alto e le nubi rade; luminosi raggi piovevano sui suoi capelli chiari in quella mattina di fuoco.
Inverno non amava il calore nemmeno un po’.
Lei ed Estate erano deboli e fragili, vittime del cielo e del tempo, del caldo e del freddo; ora, la pelle troppo chiara bruciava e le guance erano rosse.
Dove sei, maledetto te?
Il terreno coperto di foglie era umido e scricchiolante, il caldo arancione sembrava tingere e portare con sé ogni cosa. Eppure, quei mille colori nascosti, quell’aria dolce e amara, quel refolo di profumo di pioggia, quel sentore di terra umida, quel cielo azzurro, chiaro: sembrava un ricordo fumoso, il sogno di un sogno.
 
Una mano sulla spalla, un tenero abbraccio.
Una risata calda.
Tazze di tè. 
 
Inverno si passò una mano sulla fronte, per scacciare i pensieri pesanti, per scacciare ricordi estranei ma suoi, e sulla testa calda, bollente.
Doveva trovare riparo fino al tramonto.
Il rumore di passi la spaventò solo un momento: poi, qualcuno la afferrò per le spalle.
“Cosa ci fai, tu, qui?” chiese la voce di un uomo dietro di lei.
“Mi sono persa” improvvisò.
Lui la voltò, per guardarla dritto negli occhi.
“Ma guarda come è conciata” borbottò al vento.
Inverno era a piedi nudi e senza calze, il maglione e lo scialle gettati sui primi alberi bassi.
Lui era alto, molto, e una lunga sciarpa rossa e marrone gli scendeva sul petto, sopra la maglia pesante; ben piantato in terra, gli stivali di pelle e un coltello alla cintura, sembrava cupo e burbero mentre ancora la teneva per le braccia.
“Dove sei diretta?”
“Sto tornando a casa”
Lei lo guardò dritto negli occhi, chiari, alla ricerca.
“Dov’è questa casa?” chiese lui, esasperato.
“A nord, sulle rive dell’Indal”
“Ti sei allontanata parecchio, allora. Viaggi da sola?”
“Si” mormorò lei, afflitta.
“Non sono posti sicuri, questi boschi, per una ragazzina come te” commentò allora, lasciandola andare e raccogliendo una pesante cesta carica di legna.
“Buona fortuna” salutò, gli occhi immobili ed un piccolo cenno della mano, mentre si incamminava verso ovest.
Ma Inverno non poteva lasciarlo scappare.
Chi era quell’uomo spuntato dal nulla e per quale motivo era lì, al centro esatto dell’autunno? Troppe domande che volevano risposte: non poteva arrendersi ora!
“Ehi!” urlò allora, arrancando tra le foglie umide.
“Ehi, tu! Per favore, non lasciarmi sola”
Correre la stancò presto; il sole era ancora alto e il caldo era troppo forte per una creatura del freddo.
Il ragazzo girò appena il volto.
“Non posso accompagnarti al fiume, mi dispiace; è troppo lontano” si scusò, senza convinzione.
“Allora indicami un posto dove stare al riparo fino al tramonto”
Lui rimase fermo a guardarla per qualche secondo: lei, furba, una mano dietro la schiena, agitò il vento più freddo.
“L’aria è gelata, qui, non ti farà bene. Ed io non voglio avere una ragazzina sulla coscienza” commentò, osservando i suoi piedi nudi e sporchi di terra.
“Seguimi”.
 
 
Giorno 257
L’odore del legno era forte e piacevole, nel sottotetto di quella baita.
Inverno si svegliò in un comodo letto, vestita della sola sottoveste di cotone, le coperte ammassate ai suoi piedi. Sentì i suoni dal piano di sotto e sorrise.
“Ronja?” domandò una voce di ragazza su per la scala a pioli.
“Ronja, sei sveglia?”.
“Si, arrivo, Margret!” esclamò lei, inconsapevolmente felice, assolutamente determinata.
Il giorno prima era arrivata in quella casa in punta di piedi, muta come un pesce, al seguito del burbero Johan. Ora, sentiva di essere vicina, molto vicina, alla soluzione del problema che aveva afflitto il mondo intero per decenni.
Ancora non se la sentiva di correre ad avvisare Estate e Primavera, sperduti nel mondo e presi dalla loro ricerca; ancora non poteva essere totalmente sicura.
Johan l’aveva portata a casa sua, un posto rassicurante, asciutto e accogliente, fin troppo caldo: ad Inverno non era servito molto tempo per capire che quella casa era l’unica costruzione presente nel raggio di miglia. Non era servito molto tempo per capire che i suoi abitanti vivevano isolati dal resto del mondo, come in un rifugio tutto loro, rosso e dorato, nel cuore dell’autunno perduto.
Si passò una mano tra i ricci, per districare qualche nodo: infine, Inverno si vestì del leggero abito di cotone a stampe che Margret le aveva gentilmente prestato. La sua missione iniziava ogni mattina col sole, in quella casa, tra quelle persone; Autunno si nascondeva tra loro, ormai ne era certa, e lei l’avrebbe stanato.
Al piano di sotto l’attendeva la colazione.
Birgit, la madre, trafficava attorno a piccoli fornelli da campo, austera e molto seria. Inverno percepiva la sua diffidenza, la sua paura: se non fosse stato per il desiderio dei suoi figli, era certa che la donna non l’avrebbe tenuta sotto il suo tetto.
“Buongiorno a tutti” salutò, sorridendo.
Doveva farsi voler bene, dovevano fidarsi di lei.
“Ronja!” esclamò il piccolo di casa, un bel bambino di otto anni dalle guance rosse e il nasino all’insù.
“Felice di rivederti, Anders” lo salutò lei.
Il bambino la trascinò fino al tavolo apparecchiato, mentre Margret, sua sorella maggiore, posava sul piano già ingombro una teiera fumante.
Il fuoco ardeva nel camino alle sue spalle e Inverno sentiva già la schiena, il collo, la nuca andare in fiamme; eppure, quel fuoco allegro e bello, rosso e blu, le piaceva.
 
Profumo di cuoio, profumo di terra.
La furia del vento.
“Resta con me”.
 
Sorrise, a disagio, ed afferrò il pane. La tormentavano, questi ricordi lontani, da quando era arrivata.
“Del tè?” chiese Margret, gentile.
Sollevò la teiera, rosso d’autunno, margherite dipinte, e il calore dei fumi le tinse le guance e gli occhi scuri.
Che fosse lei, l’Autunno disperso?
Dolce da sempre, un sorriso felice, lavorava in casa e tra i boschi coi fratelli più grandi; unica ragazza in mezzo al deserto dorato di quell’incantesimo, poteva essere il tassello mancante, la chiave di volta.
Inverno doveva indagare.
 
 
Giorno 268
Il vento spazzava il pendio nord di quel bosco d’autunno, il cielo era cupo, le nuvole grigie.
“Ronja, corri, ti bagnerai!”
Inverno sorrise alla sua nuova amica e spiccò una corsa leggera, i piedi nudi graffiati dagli aghi, dai ricci, dalle pietre taglienti.
“Possiamo restare, se vuoi. L’acqua mi piace” le disse, afferrando lo scialle che Margret le porgeva, afferrando il manico del cestello di vimini.
“Sei pazza? Ci ammaleremmo e saremmo costrette ad arrivare in città” ribatté lei, gli occhi sgranati.
Un tuono scosse l’aria attorno alle ragazze, il vento e le foglie sollevarono le gonne.
Si avviarono a testa bassa, i volti coperti, le mani strette.
 
Pioggia sottile.
Fiori d’autunno, erica viola.
“Ti penserò”
 
Ignorare le voci e le immagini nella sua testa era la sua unica possibilità di sembrare normale.
Camminarono a lungo, finché la pioggia fredda non le colse alla sprovvista, inzuppando i capelli, le guance, i vestiti.
Rideva Ronja, e stava fuori dal riparo di rocce che Margret aveva scelto per sé. La pioggia sembrava casa, sembrava acqua e neve, sapeva d’inverno. Lei l’adorava.
“Sei tutta pazza, tu” commentò la sua compagna, scuotendo il capo.
 “Amo il freddo, tutto qua” disse lei, semplicemente, inginocchiandosi sul fondo di foglie bagnate.
Che profumi, che colori sotto la pioggia!
L’autunno era bello e lei non lo sapeva.
“Sei davvero fortunata, tu, che hai girato il mondo, sai?” mormorò Mag, più cupa.
“Perché dici così? Che cosa c’è?”
“Niente. Sono secoli che dico alla mamma di andare via, di cambiare casa; i fratelli non mi appoggiano, ma io non desidero altro” iniziò a raccontare, abbracciandosi le gambe e posando il mento sulle ginocchia.
“Non desidero che sole e caldo, e i fiori profumati che esistono solo nei libri. Vorrei vedere il mare d’estate e i gabbiani volare alti nel cielo, come in quel disegno, in camera mia” continuò, iniziando a dondolare, i capelli bruni che cadevano flosci sulle spalle.
Inverno tratteneva il respiro.
Ci siamo!
“Sono grande, ormai, ma conosco solo questo bosco, il rosso e l’oro, le foglie che cadono. Sono stanca di questa malinconia, della vita dimessa, delle serate intorno al fuoco; io voglio la vita, quella vera. Voglio andare via” disse, e sollevò gli occhi, castani e profondi, infuocati.
Ronja non capiva, non poteva.
Le sorrise “Quando andrò via, se vorrai, potrai venire con me”.
“Davvero? Ed i fratelli’”.
“Non preoccuparti, qualcuno verrà con te”.
“Come puoi dirlo?”
“Fidati di me”
Si abbracciarono, povere creature zuppe e alla ricerca, sicure di aver scoperto qualcosa di vero, qualcosa di bello.
Ronja non aveva trovato Autunno, è vero; ma aveva fatto meglio.
Aveva guadagnato un’amica.
 
 
Giorno 276
“Johan, ti dispiace aiutarmi qui?”
Inverno era in bilico sulla vecchia scala a pioli, le braccia cariche di calde coperte.
Birgit sedeva sulla sedia a dondolo, la finestra aperta e il sole leggero sui capelli ingrigiti, tra le mani il lavoro di cucito. Inverno sentiva i suoi occhi, freddi ed inquisitori, frugare lei, la sua persona, le sue parole.
Come una leonessa, continuava a fare la guardia ai suoi piccoli già cresciuti, pronta a difenderli; lei sapeva, lei fiutava il pericolo. Sapeva che Inverno avrebbe distrutto la sua famiglia.
Johan si alzò, grugnendo qualcosa di indistinto, abbandonando il giocattolo di legno che stava intagliando per il fratellino.
“Non vedo l’ora che Jesper ritorni” mugugnò, tendendo le braccia per prendere il fardello dalle mani della ragazza.
Jesper, il fratello maggiore; Inverno non se ne sarebbe andata prima del suo arrivo, di questo era sicura.
“Dai, accompagnami fuori” gli sorrise, volteggiando giù dalla scala e prendendogli una mano.
Johan divenne scarlatto in viso, ma non si lamentò nel seguirla all’aperto.
Anders era già lì, che nascondeva ghiande agli scoiattoli, ai piedi dei frassini che circondavano la loro casa.
“Eccovi, finalmente!” esclamò, correndo incontro ai ragazzi, abbracciando stretta la vita di Inverno.
“Hai fame?” gli chiese lei, scompigliandogli i capelli.
“Tantissima!”.
Stesero le coperte sul piccolo spiazzo piano, ricoperto di foglie rosse e gialle. Da un cestino, Inverno tirò fuori pane, marmellata d’arance, la teiera rossa, fumante.
Lo sguardo di Birgit, dall’interno della casa, le bruciava la nuca, mentre sistemava teneramente la sciarpa gialla al collo di Anders.
Un pizzico sul naso, un buffetto sulla guancia: adorava quel bambino!
Sorridendo al cielo nuvoloso, al piccolo impaziente, sedette, sistemandosi sulle ginocchia una grande tovagliolo colorato.
 
Un fazzoletto di seta, verde e dorato.
Occhi nocciola, umidi.
Un bacio a fior di labbra.
 
Il cuore batteva nel suo petto, veloce, violento, adesso.
Cos’era quel ricordo, arrivato così all’improvviso? Perché non riusciva a capire, perché si sentiva, tutto ad un tratto, tanto agitata?
Le guance porpora, gli occhi luminosi, restò ad osservare il profilo di Johan, il naso dritto, la mascella squadrata, le labbra sottili; che fosse lui, il ricordo caldo, l’immagine bella?
Chi era stato, davvero, Autunno, per lei?
“Ronja, guarda che bello!”la richiamò, Anders, dalle sue fantasie.
“Tieni, è per te” le porse un fiore viola, gentile.
Col sorriso sulle labbra, si avvicinò.
“È bellissimo, piccolo” replicò lei, ancora svagata. “E adesso che fai?”
Le sue mani grassocce erano tra i suoi capelli, impacciate e imbranate tra i riccioli biondi.
“Johan, dai, aiutami tu!” chiamò, il visetto corrucciato.
“Cos’è che vuoi fare, noioso bambino?”
“Credo voglia appuntarmi il fiore tra i capelli” mormorò Inverno, un tenero rossore diffuso sulle guance, gli occhi bassi.
“Ovvio!” cantilenò Anders. “Ti prego, ti prego, ti prego!” supplicò il fratello.
Johan teneva le mani sprofondate nelle tasche mentre si avvicinava alla coppia; la sciarpa pendeva dal collo e le sopracciglia restavano ferocemente aggrottate.
Le mani grandi, ruvide e scure, non avrebbero saputo essere più delicate; un soffio di vento, la brezza di primavera, reggeva il fiore dai petali morbidi sul palmo calloso.
I volti vicini, il sole e la neve, respiri sottili; un piccolo gesto, un momento, un lampo.
“Contento adesso?” un mugugno.
No, Inverno era triste.
Voltò il viso, le labbra contratte; le iridi verdi, chiare, belle, le ciglia scure, di Johan vorticavano davanti ai suoi occhi.
Come poteva essersi tanto sbagliata?
“Anders, torna dentro, da bravo! E tu, Johan, portami dell’acqua per la cena!”.
Eccolo, il rumore di speranze distrutte.
 
 
Giorno 279
La borsa di tela era piena.
Margret, nel sottotetto, la stanza di Inverno, piegava e ripiegava una morbida sciarpa azzurra, decorata di rosso. Le mani lievi, cianciava di nulla, ansiosa di riempire l’ennesimo triste silenzio.
“Poi, verrai a trovarci. In fondo l’Indal non è così lontano” spiegò, raddrizzando la schiena, inarcando le sopracciglia.
“Verrò, lo giuro”.
“Non far caso alla mamma. Lei non si fida di nessuno”.
“Ti prego, salutami Johan. Sono giorni che non lo vedo”.
“Viaggia per me, trova l’estate al mio posto, amica mia”.
“Sicura di voler restare?”
“Si, hanno bisogno di me”.
“Sei speciale, Mag, lo sai?”
“Posso abbracciarti?”
Il profumo di legna, di cenere e fuoco, leggero sugli abiti di Margret, era caldo e accogliente mentre Inverno stringeva la testolina bruna al suo petto.
“È stato bello averti qui con noi”.
Di nuovo lei, l’Inverno dei boschi innevati, delle strade ghiacciate, della rossa gonna di panno, scese al piano di sotto.
Le lacrime di Anders, il sorriso di Birgit, l’assenza di Johan, l’affetto di Margret: ecco la sua ultima immagine mentre dava le spalle alla porta.
Ecco l’autunno che conosceva.
“Addio, e grazie di tutto!” urlò.
Le mani sollevate, i capelli mossi dal vento.
Frassini rossi, marroni e arancioni, svettavano sopra di lei; abeti verdi, aghi perduti.
“Ciao, caldi colori, sole dimesso, profumo di terra” mormorò, carezzando le cortecce scrostate, gli occhi umidi.
Inverno era triste. Conosceva l’autunno, adesso, ma doveva lasciarlo.
Aveva sentito la brezza del vento, la resina ambrata sotto le scarpe, la pioggia sottile sulla sua pelle; aveva capito che cambiare è possibile, mutare è bello e naturale. Dal verde, al giallo, al rosso, fino a cadere, sulla nuda terra, per non essere più.
Le pigne e i ricci, che non conosceva, ora sapeva dove cercarli. Il fuoco caldo e aranciato, non disperato e agognato come d’inverno, era bello. Era bello restare fuori, i piedi scalzi, la sciarpa allentata, ridere insieme.
Il vento forte e non freddo, che scombina i capelli e non gela.
L’umidità odiosa, che fa sentire vicini, meno per mano, a respirare insieme.
Il volteggiare del mondo, che sia alza e poi scende, come in tutte le cose.
Teiere rosse, con le margherite, biscotti croccanti, una casa di legno odoroso.
Amava l’autunno, ora ricordava.
Ecco un tassello di sé che ritrovava.
Camminava, Inverno, per quel bosco segreto, sperduto tra la neve d’inverno, il ghiaccio del vento, incastonato per sempre nel suo cuore eterno.
Sarebbe tornata, certo che si.
Avrebbe trovato Autunno, prima o poi, avrebbe riportato quella magia alla sua gente.
 
 
Giorno 281
Ed, all’improvviso, lui era lì.
Era venuto fuori dal nulla, da un cumulo di foglie cadute, da un cespuglio verde e giallo.
Lui era lì, le spalle cariche di uno zaino pesante, il sole sulla fronte chiara.
Era lì, e la guardava, guardava lei, che procedeva nella direzione opposta, verso l’inverno poco distante.
Un vento forte la travolse, tiepido, bello, le sciolse la coda con cui aveva legato i capelli.
Le emozioni sul volto dell’altro, gli occhi nocciola sgranati, il profumo di terra smossa dall’aria d’autunno erano tutto, per lei. Occhi negli occhi, respiri veloci.
E poi, un fiume di ricordi.
 
Mani tra le mani, un prato cosparso di foglie.
Lei, le guance rosee; lui, che alza il cappuccio della sua mantella leggera. 
Lui, che le sorride.
“Ti ricordi di me, adesso?”
Un momento, un giorno, da vivere insieme; profumo di pane e di fumo, una teiera calda, le coperte, le nuvole grigie.
“Resta, ti prego”.
Il silenzio della pioggia che cade, gentile, e loro accoccolati vicini.
Una mano, la sua, tra i rossi capelli di lui, a scombinarli.
“Non posso, lo sai”.
L’inverno che bussa alle porte, l’autunno che deve cedere il passo: i momenti corrono, lei glielo legge negli occhi.
“Quando tornerai?”
La mano di lui sulla sua guancia bollente, bianca e chiazzata di rosso, occhi di pece lucente.
“Io sto bene con te”.
“Sei importante per me”.
E poi, ricordi.
Ricordi di vite loro, passate e dimenticate; il nitrire dei cavalli poco lontani, il sole tra le colonne di un tempio, i cuscini di velluto di una bella casa.
Loro, le teste vicine, il rosso violento della vita che cade, il biondo pallido della vita che muore; loro, più vivi che mai.
Nasi contro nasi, fronti contro fronti; il respiro ghiacciato di lei che riempie ogni spazio.
“Ti amo, lo sai”.
Erica rossa, erica viola.
Un bacio a fior di labbra.
Una mano calda sul cuore.
 
Ed allora fu corsa, matta e disperata corsa; e fu sorrisi e splendidi occhi nocciola nei suoi.
E fu vento e neve insieme, dal cielo a cadere su loro, finalmente abbracciati, finalmente se stessi.
“Jesper, allora sei tu” un bisbiglio sull’incavo del collo.
“Scappavo da te, cercavo te; ma l’avevo dimenticato” una voce profonda, arrochita da un lungo silenzio.
“Adesso non andare più via”.
Lui le prese una mano, abbandonando lo zaino pesante sul manto di foglie morte.
Lentiggini rosse, la candida pelle di lei, che prendeva calore da quell’abbraccio.
Nessuna parola, solo fiducia e tiepida pioggia, trasformata in rugiada di notte ancor prima di giungere a terra. Nessuna parola, solo ricordi vecchi di sempre, ricordi di un amore eterno nel tempo. Dimenticato ogni volta, riscoperto ad ogni ciclo, il tassello mancante.
Trovando Autunno, ho trovato me stessa: ora, sono davvero completa.
 
 
 
 


Note
Questa storia è nata in un momento, ispirata dalla sola, prima, lettura del bando del contest di Chaotic Alaska Autumn winds, sul forum di Efp, a cui la storia, ovviamente, partecipa.
Mi è piaciuto davvero molto scrivere di Inverno e delle sue avventure, immaginare il suo mondo: spero possa piacere anche a voi che leggete!
Saluti,
EsterElle
  
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