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Autore: MarsRose    14/12/2014    1 recensioni
Kathleen Collins si ritrovò sola. E la causa di tutto ciò era un suolo uomo: il Dottore. Cosa può fare, ora, se non cercare quella persona che le ha tolto la sua famiglia?
La prima parte della fanfiction è ambientata tra la seconda e la terza stagione (nuova serie), come se ci fosse una stagione alternativa nel mezzo. Le ultime parti della storia, invece, si rifanno in particolare alla 4x13 (nuova serie).
|| Per l'aspetto fisico di Kathleen mi sono ispirata a Shelley Hennig ||
Genere: Angst, Generale, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Doctor - 10
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Jackie? Rose? C’è qualcuno?-
Aprii cautamente la porta della mia stanza, uscendo nel salotto. Il silenzio era opprimente, così come il caos che regnava nella piccola casa. Mi lasciai cadere sul divano, guardandomi attorno; da quando ero andata lì, quasi quattro anni prima, non molto era cambiato, solo le persone che vi abitavano, io per prima. Certo, per far notare il cambiamento, forse dovrei prima raccontare il mio passato.
Mi chiamo Kathleen Collins, sono nata nei primi giorni del freddo gennaio 1987 in una delle famiglie più disastrate della Gran Bretagna. Vivevo a Brixton, insieme ai miei genitori, i miei nonni paterni e sette fratelli maggiori… tutti maschi. Ma la mia non era una famiglia incasinata solo perché vivevamo in dodici in una casa decisamente troppo piccola… il problema più grande era mio padre. Secondo i nonni, lui era il figlio perfetto: ottimo padre, ottimo marito, ottimo lavoratore. Ovviamente, nessuna di queste cose si avvicinava alla realtà. Nessuno, in famiglia, conosceva il suo impiego, il luogo in cui spendeva circa sei ore al giorno. Ma se c’era un fatto di cui tutti erano informati, tranne quei ciechi dei miei nonni, era la passione di papà per la violenza. Non i film in cui qualcuno si sparava contro con delle pistole finte, assolutamente no; quell’uomo –ancora oggi mi viene da vomitare se ci ripenso- amava picchiare mamma, i miei fratelli e me. Oh, quale gioia gli aveva procurato la mia nascita: ora aveva un altro giocattolino.
Avevo appena compiuto otto anni, quando sentii la porta della mia camera aprirsi. Ero già sotto le coperte, pronta per dormire, quando lui entrò, dicendomi che andava tutto bene. Mi aveva promesso un regalo speciale, qualcosa che avrei ricordato per tutta la vita… mantenne la sua promessa. Quella notte ebbi il mio primo rapporto sessuale. E continuò così, tre sere a settimana, per i restanti sette anni che spesi in quella casa. Vivendo in questo clima così sbagliato, non potei fare a meno di crescere con delle idee terribilmente malate. Credevo fosse una cosa giusta, normale, quella che mio padre mi faceva… diceva che tutti i papà lo facevano, con le loro figlie. Trovavo normali anche i regali che era solito farmi. A dieci anni, mentre eravamo sdraiati nel mio letto, m’insegnò a fumare le sigarette e, pochi mesi dopo, iniziò a procurarmi delle canne. L’anno dopo, mi regalò un tatuaggio: su mia richiesta, mi feci tatuare una piccola cabina blu della polizia dietro la spalla sinistra, un aggeggio che infestava i miei sogni sin da piccola. Ho anche un altro paio di tatuaggi, insieme al regalo che ricevetti per il mio tredicesimo compleanno: un piercing sulla lingua. Nonostante io fossi totalmente contraria, papà insistette tanto per farmi bucare la lingua… diceva che lo avrebbe eccitato di più, durante i nostri rapporti orali.
Nonostante i buchi e l’inchiostro che avevo sul corpo, da sempre ero a conoscenza degli sguardi che attiravo. Sin dall’inizio della mia Secondary Education, avevo l’abitudine di andare in giro… beh, non come una londinese. Presente come sono quelli, no? Sempre in tiro, perfettini fino alla morte… puah. Mi piaceva distinguermi: uscivo di casa in minigonna e canotta anche quando era freddo.
“Mostrare il proprio corpo non è sbagliato, specialmente se lo mostri a me.” diceva sempre papà. A farmi capire in quale errore io stessi vivendo, fu una cosa successa nella primavera del 2002. Ero da poco entrata nei miei quindici anni, la sera stavo fuori fino a tardi, insieme a ragazzi di venti o venticinque anni, a fumare o mostrarci “fighi” in qualche altro stupido modo. Comunque, uno di quei giorni, iniziai ad avere dei ritardi nel ciclo, cosa che mi fece completamente uscire di testa. All’insaputa di mio padre, mamma mi portò a fare un’ecografia, la quale confermò i miei peggiori sospetti: ero incinta. Vedere quel grumo grigio sguazzare nel mio utero mi riportò con i piedi per terra: le altre quindicenni non avevano rapporti sessuali con il proprio padre, non andavano in giro vestite da prostitute, non avevano tatuaggi o piercing, non fumavano e, soprattutto, non aspettavano un figlio.
Quella sera, dopo aver finto di essermi coricata, uscii cautamente dalla finestra, stringendo in una mano le chiavi dell’auto di mio nonno. Non avevo mai guidato, ma non m’importava… non per quello che stavo per fare. Guidai per un po’, fino ad arrivare quasi vicino a Londra, quando decisi che ne avevo abbastanza. Girai bruscamente il volante, andando a schiantarmi contro un albero.
I ricordi che seguivano quell’incidente, erano molto confusi: fui portata in ospedale, dove mi dissero che avevo perso il bambino. Stavano per rispedirmi da mio padre, così scappai, di notte, e mi ritrovai a girovagare per la favolosa Londra. Alle prime luci dell’alba ero davanti alla porta dell’appartamento di una cugina di mamma, con gli abiti laceri e il viso sconvolto dal sonno.
Mi guardai attorno, ricordando il viso sconvolto di Jackie quando mi aveva aperto la porta di casa. Mi aveva fatta sedere su quello stesso divano, mandando Rose a prendere una tazza di tè, mentre io le raccontavo tutto. Non mi limitai all’incidente, le dissi di tutte le cose che mi aveva fatto mio padre, mostrandole il tatuaggio sulla spalla, le due stelle sopra il sedere e la scritta “Freiheit” appena sotto l’ombelico; mi tolsi, quasi strappandoli, il piercing alla lingua e quello al naso, mentre calde lacrime mi rigavano le guance. Le raccontai della gravidanza, dell’incidente e, infine, della mia poca voglia di tornare a casa. Jackie mi disse di andare a dormire un po’ nella stanza di Rose, mentre questa andava a scuola e lei al lavoro; ci avremmo pensato poi a cosa fare.
Da quel meraviglioso giorno del 2002, vissi in casa Tyler, imparando finalmente cosa era giusto e cosa sbagliato. Cambiai scuola, per prima cosa, poi cambiai look: un paio di pantaloni lunghi non erano tanto male, infondo. Rimisi i piercing, però, poiché i buchi aperti mi facevano parecchio senso.
Passai tre anni stupendi, dormendo nella stessa stanza di Rose e vivendo con lei come con una sorella, mentre Jackie mi cresceva come se fossi figlia sua. Poi, una sera, Rose tornò a casa sotto shock. Il negozio in cui lavorava era appena andato a fuoco e lei non voleva parlarne con nessuno. Ventiquattro ore dopo, Mickey, il suo ragazzo, venne a trovarci e ci comunicò la notizia: Rose era scappata con un quarantenne che si faceva chiamare Dottore.
Non per sempre, sia chiaro, ogni tanto tornava. Quel Natale, Rose tornò a casa con un altro uomo –decisamente più attraente- dicendo che era sempre lui, sempre il Dottore. L’uomo passò quasi tutta la giornata a dormire, poi, quando la sua cabina blu fu trasportata sull’astronave di un gruppo di alieni chiamati Sycorax, decise che aveva finito il suo pisolino e poteva anche salvare l’umanità. Dopo che ebbero risolto tutto, l’uomo si fermò alla cena di Natale con noi, poi ripartì insieme a Rose. Mentre li osservavamo sparire, la mia mano scattò al tatuaggio dietro la spalla, accorgendomi che ne avevo l’esatta riproduzione davanti ai miei occhi.
E ora, eccomi qui, a domandarmi dove fossero finite tutte e due. Nel periodo in cui la Terra era stata invasa dai fantasmi, mi ero recata un paio di settimane a Parigi, per studiare il francese. Quando la sera prima ero tornata a casa, non mi ero preoccupata nel trovarla vuota; insomma, le cause potevano essere numerose: alieni, una gita in campagna, alieni, un’uscita fra madre e figlia, alieni, Jackie che usciva con un nuovo uomo, alieni…
Ma in quel momento, iniziai a capire che, forse, era qualcosa di più grosso. Insomma, era mezzogiorno! Con uno sbuffo, accesi il televisore, cercando di capire se fosse successo qualcosa. Subito, una donna si mise a parlare d’invasioni aliene e di un uomo che era riuscito a salvarli tutti. “Non sappiamo chi sei o perché l’hai fatto…” disse a un certo punto “… ma noi ti ringraziamo, per aver curato l’umanità dalla piaga degli alieni.”
Se la giornalista avesse usato delle altre parole, probabilmente, non mi sarebbe mai nemmeno passato per l’anticamera del cervello che potesse essere lui. Eppure, ora, era tutto così chiaro: Rose e Jackie erano sparite e l’umanità era stata curata. Chi era l’unica persona in grado di curare qualcosa? Un dottore. E chi poteva far sparire le mie Tyler? Il Dottore.
Mi alzai di scatto, dirigendomi in camera a grandi falcate, per poi iniziare a rovistare nella valigia, estraendo abiti a caso. Dopo aver indossato un paio di jeans a sigaretta, una felpa enorme e gli anfibi, mi posi davanti allo specchio, osservandomi per qualche secondo. Nonostante gli anni, continuavo sempre a rivedermi nella ragazzina di quindici anni che vendeva il suo corpo in cambio di qualche grammo di cocaina. Le differenze fisiche non erano molte: i miei capelli si erano allungati e, per colpa degli esperimenti di Jackie, ora ero mezza bionda; ero diventata notevolmente più alta e anche piuttosto magra, ma la cosa non mi faceva piacere come in passato. Anzi, ora mi ritrovavo a guardare le altre ragazze e trovarle bellissime, se portavano con fierezza qualche chilo in più. Che poi, in più di cosa?
- Non è il momento per fare ragionamenti filosofici.- dissi al mio riflesso, per poi voltarmi. Dovevo trovare le mie Tyler.
°°°
Era passato oltre un mese, ormai, da quando ero rimasta sola. Avevo ispezionato tutta Londra e il Dottore non si era fatto vedere, mai. Non per un secondo avevo sentito quel meraviglioso suono o intravisto una cabina blu. Eppure, ogni giorno, mi vestivo e uscivo di casa per cercarlo.
Anche quella mattina di ottobre, dopo essermi svegliata all’alba, indossai una camicia a maniche lunghe nera, un paio di jeans e gli anfibi, poi mi recai al lavoro.
- Ciao Sally, tutto okay?- chiesi a una ragazza bionda, infilandomi il grembiule di Starbucks.
- Nessun avvistamento della tua misteriosa cabina blu, se è questo che t’interessa.- mi disse con un sorriso falso. Era risaputo, ormai, che tra noi due non scorreva buon sangue.
Non avendo voglia di risponderle, iniziai a spostarmi per il negozio, prendendo ordinazioni e portandole in cucina e poi facendo il percorso inverso. Ogni giorno fingevo un sorriso allegro, mentre parlavo con i clienti e, fingendomi un’appassionata di antiquariato, chiedevo se avessero notato una vecchia cabina blu della polizia.
Alla fine di un’altra interminabile e infruttuosa giornata, mi spogliai del grembiule verde, poi uscii per una delle mie solite ispezioni serali dei dintorni. Il cielo era plumbeo e un lieve vento mi muoveva i capelli; nonostante fossero solo le sei del pomeriggio, le strade non erano molto affollate… probabilmente a causa del tempo che non prometteva decisamente bene.
Camminavo per Leicester Square, facendo scorrere gli occhi su ogni singola cabina telefonica, quando la voce di una bambina attirò la mia attenzione.
- Volava! Mamma, ti dico che volava!-
- Non dire bugie, insomma.-
- Ma mamma! Era una cabina blu e volava!-
Mi voltai di scatto, fissando la bimba che si allontanava, tirando la madre per la manica del cappotto. Quante possibilità c’erano che, nell’universo, vi fossero ben due cabine blu volanti? Ero molto tentata di rincorrerle per chiederle dove l’avesse vista, ma mi bloccai. Non per imbarazzo o altro, fu un rumore a fermarmi. Era un suono strano… come un’aspirazione intermittente. Lo avevo già sentito in passato, sapevo cosa stava per arrivare.
Mi voltai di scatto, appena in tempo per vedere i contorni della mia amata cabina blu materializzarsi. La porta si aprì e, prima che potesse sparire di nuovo, passai sotto il braccio teso dell'uomo sull’uscio, entrando in quel piccolo spazio. O almeno, credevo fosse piccolo: mi trovai davanti un’enorme stanza circolare, sorretta da colonne dalle forme bizzarre, tutta sui toni del giallo e marrone.
Letteralmente a bocca aperta, percorsi una stretta passerella, arrivando nel punto centrale della stanza: un grande macchinario tondeggiante, sormontato da una colonna azzurrina.
- Le ho chiesto chi è, signorina, e cosa ci fa nel mio Tardis.- l’uomo mi aveva raggiunta, dopo aver chiuso la porta, e ora mi guardava con un misto di curiosità ed irritazione.
- Tardis, eh? Bel nome.- cercando di arginare lo stupore, mi sedetti sulla ringhiera che circondava quello strano aggeggio, poi guardai il Dottore: capelli castani in disordine, occhi scuri, magro come un chiodo, modo di vestire bizzarro e espressione accigliata… non era cambiato per niente. – Strano che non mi riconosca, ad ogni modo, ci siamo visti un paio di volte.-
L’uomo mi si avvicinò quasi di corsa, indossando un paio di occhiali rettangolari. Quando fu davanti a me, i suoi occhi guizzarono su ogni minimo particolare del mio corpo, come se cercasse qualcosa di nascosto o che so io. Dopo qualche minuto di silenzio totale, il Dottore si passò una mano tra i capelli, quasi in segno di frustrazione.
- Ho incontrato tante persone, mi è difficile ricordarle tutte.-
- Okay. Se le dico Tyler? E’ un cognome piuttosto comune, ma sono certa che per lei vuol dire qualcosa.-
Il suo sguardo si fece ombroso, mentre dalle mie labbra uscivano quelle due sillabe. Era evidente che ricordava… brutte cose, direi, osservando attentamente la sua espressione. Dopo qualche secondo in cui sembrò combattere con se stesso, si schiarì la gola, tornando a concentrarsi su di me.
- Ci sono molte persone che si chiamano…-
- Rose e Jackie Tyler.- lo interruppi, stanca di quei giochetti. Poteva pure far finta di non conoscerle, ma io avevo bisogno di risposte e alla svelta. Il Dottore rimase in silenzio per qualche altro secondo, forse pensando alla cosa più giusta da dire, poi sembrò come afflosciarsi.
- Come le conosci?-
- Come siete distratti voi uomini, non è vero? Il Natale passato sei stato a cena a casa Tyler, dopo aver messo in fuga dei Sycorax, qualunque cosa essi siano. Subito dopo, tu e Rose siete partiti su questa stupenda cabina blu…-
- Ma tu chi… oh! Ma certo, sono stato così stupido! La piccola Kath, giusto?-
- La piccola…?! Oddio, Rose davvero mi chiamava così?-
- Non ti ha menzionata spesso, a dirla tutta, giusto una volta o due. Ma sì, ha usato quel nomignolo.-
- Solo Kathleen. Niente piccola o Kath, okay?-
- Perché me lo stai dicendo?-
- Beh, devi sapere come chiamarmi, visto che viaggeremo insieme per un po’. O almeno, tu mi porterai dalle mie Tyler, poi potrai tornartene a gironzolare fra stelle e pianeti.-
- Non puoi tornare da loro… non posso nemmeno portarle indietro.-
L’uomo si voltò, appoggiando le mani sulla console, quasi gli stesse dando conforto. Nel frattempo, io non fui in grado di reagire. Rimasi imbambolata, con le mani strette alla ringhiera, mentre nella mia mente si rincorrevano quelle poche parole. Erano sparite, non potevano tornare.
- Cosa vuol dire che non puoi portarle indietro? Dottore, sono l’unica famiglia che ho, ti prego.- parlando, ero scesa dalla ringhiera e mi ero avvicinata all’uomo. Avevo quasi timore di avvicinarmi troppo, nonostante le belle parole che Rose aveva sempre speso su di lui.
- Rose, Jackie e Mickey sono rimasti bloccati in un’altra dimensione, se provassi a portarli indietro distruggerei l’universo. Non c’è più niente che io possa fare per loro.-
Ed eccole, le parole che non avrei mai voluto sentire. “Non c’è più niente da fare con te, sei un peso inutile!” aveva urlato mio padre, poco prima di darmi uno schiaffo. E ora per le mie Tyler non c’erano più speranze. Le uniche persone che mi avevano accolta e accettata per quello che ero, quelle che mi avevano riparata e aiutata ad andare avanti… era tutto finito.
Annuii distrattamente in direzione dell’uomo, dandogli le spalle; ormai non avevo più alcuna valida ragione per rimanere lì, quindi tanto valeva andarsene. Avevo già la mano sulla maniglia della porta, quando una voce mi costrinse a voltarmi.
- Te ne vai?- chiese il Dottore, gli occhi accesi di qualcosa simile alla delusione.
- Dato che non ho speranze di ritrovare la mia famiglia, è meglio per me tornare ad una vita normale…- bugia.
- Non hai qualcun altro? Insomma, eri la cugina di Jackie, quindi credo tu abbia dei genitori…-
- Non ho nessun altro.- tagliai corto, deglutendo nervosamente.
- Ah. Quindi… vivrai una normale vita umana da sola?-
- Sì, credo farò così. Dopotutto, non ho alternative più gradevoli…-
- Potresti… sì, ecco… se ti andrebbe…-
- Cosa?-
- Potresti viaggiare con me. Da quando Rose… da quando sono solo ho più spazio e… beh, è un’offerta niente male.-
- Ah davvero? Cosa mi offri?-
- Tutto.-
- Tutto?-
- Tutto lo spazio e il tempo, prova a pensarci.- il Dottore mi si avvicinò, facendo grandi gesti nell’aria. – Potresti essere una delle dame di corte di Maria Stuarda, in Francia, oppure visitare il pianeta degli Adipose. Viaggeremo attraverso le stelle, esplorando galassie e pianeti sconosciuti. Potrai tornare indietro nel tempo e vedere l’estinzione dei dinosauri, oppure andare avanti, fino alla fine della Terra. Solo… pensa a cosa potresti perdere se in questo momento ti volti e torni alla tua normale vita umana.-
- E’ pericoloso?-
- Terribilmente.-
- Rischio di morire?-
- C’è questa possibilità, sì.-
- Ne varrebbe la pena?-
- Assolutamente.-
In quel piccolo lasso di tempo, nella mia mente si crearono due scenari: in uno uscivo dal Tardis e andavo a casa. Ogni giorno mi alzavo e andavo a lavorare da Starbucks; mi sposavo con un uomo comune e avevo dei figli, tutto nell’ordinario. Nell’altro, però, risalivo la passerella insieme al Dottore e facevamo muovere quella cabina attraverso le stelle. Potevo vivere monotonamente fino alla fine dei miei giorni, oppure rischiare la vita un minuto sì e l’altro pure. Tutto dipendeva dalla mia mano: aprivo la porta o la lasciavo chiusa?
- Mostrami qualcosa di bello, Dottore.- la mia mano lasciò andare la maniglia, allungandosi verso quella tesa dell’uomo. Quello si aprì in un grande sorriso, tirandomi poi verso quel gigantesco macchinario.
- Scegli tu da cosa partire, il passato, il futuro, il presente in altri mondi, tutto ciò che vuoi a pochi istanti di distanza.-
- Uhm… non puoi inserire una destinazione casuale in questo coso? C’è così tanta scelta che sono a corto di idee.-
- Questo “coso” si chiama Tardis, ed è una Lei. La mia amata.- il Dottore fece una carezza quasi reverenziale al grande tubo cilindrico davanti a lui, sotto il mio sguardo incredulo.
- Una Lei? Ne parli come se fosse viva.-
- Beh, lo è.-
- Sì certo, come no. Ad ogni modo, chi sei?-
- Sono il Dottore!-
- Dottore chi?-
- Solo il Dottore.-
- Chi è che si fa chiamare “Dottore”?!-
- Io!- l’uomo sorrise, abbassando una leva. Il –oppure era meglio dire “La”?- Tardis si accese, iniziando ad emettere quella stupenda aspirazione che indicava la partenza o l’arrivo.
Il Dottore iniziò a muoversi freneticamente avanti e indietro, alzando ed abbassando leve mentre, al contempo, premeva pulsanti vari.
- Come funziona questa… oddio!- uno sbalzo improvviso mi fece perdere l’equilibrio, mandandomi a sbattere contro la ringhiera. Lì per lì, l’impatto mi tolse il fiato, lasciandomi ansimante sul pavimento, poi tutto si fermò.
- Stai bene?- mi chiese il Dottore, con una nota preoccupata nella voce.
- Avresti potuto avvertirmi che sarebbe finita così.- dissi fra un colpo di tosse e l’altro, mentre mi rialzavo. – Dove siamo finiti?-
- Ehm…-
- Dottore?-
- Il Tardis non ha gradito particolarmente il tuo commento…-
- Quindi?-
- Beh, come regalo per il primo viaggio… ci ha portato esattamente nello stesso luogo, solo avanti nel tempo.-
- E di quanto?-
- Quattro ore.-
- Tu scherzi.- aggirandolo, mi diressi verso la porta della cabina blu, spalancandola su una Leicester Square fiocamente illuminata.
- Devo dedurre che l’opzione casuale non ti funziona tanto bene, in quel coso.-
- Te lo ripeto, non è un coso, si chiama…-
- Sì, sì, lo so.- lo interruppi, lasciando che la porta si richiudesse alle mie spalle. Con un piccolo sbadiglio, mi avvicinai all’uomo, decidendo fra me e me, che quella giornata era durata abbastanza. – La tua amica ha una stanza da letto per me, vero? Ho passato la giornata a lavorare e cercare te, inizio ad essere stanca.-
- Mi hai cercato?-
- Io ti cercavo sempre, ogni giorno.-
Il Dottore fece un’espressione soddisfatta, poi ruotò su se stesso, imboccando un corridoio. Dopo avermi fatto cenno di seguirlo, mi incamminai per quello stesso corridoio infinito. Ad ogni svolta entravamo in un luogo identico, pieno di porte tutte uguali. Finalmente, l’uomo passò la mano su un pannello, facendo così scorrere una delle porte.
- Ecco qua, poi ti spiego come arrivarci.- il Dottore sorrise, facendomi cenno di entrare.
La camera non era niente di particolare: una stanza più o meno circolare in cui vi era sistemato un letto ad una piazza e mezzo, dalle lenzuola verde scuro; vi era anche  un basso armadio in legno chiaro.
- Con il tempo diventerà meglio, credo. Ognuna di loro ci metteva qualcosa che trovava nei vari viaggi.-
- Ognuna di loro?-
- Ho oltre settecento anni, ho avuto molte compagne.-
- E io che credevo di essere la prima.- dissi sarcastica, facendogli cenno di uscire.
- Okay, ora torniamo nella sala principale e spiegami come arrivare qui.
- Allora, la strada è molto semplice: due svolte a destra, tre a sinistra e poi di nuovo a destra, la tua stanza è la terza porta alla tua destra. La troverai sempre lì, a meno che la mia piccola non decida di mescolare le stanze… ma non lo fa mai.- mi spiegò il Dottore, mentre facevamo il percorso a ritroso. Una volta arrivati, l’uomo scese sotto il rialzo che sosteneva la console del Tardis, per poi riemergerne con una grande valigia in camoscio, piuttosto familiare. – Conosci Jackie, quindi puoi immaginarti che non avrebbe mai lasciato andare via Rose senza un paio di abiti adatti ad ogni occasione, clima, galassia e quant’altro.-
Con una risata, mi avvicinai all’uomo, osservando tutto ciò che Rose si era portata dietro. C’erano felpe, canotte, jeans lunghi e…
- Hey, ma questi sono miei!- esclamai scocciata, estraendo dalla valigia un paio di calzoncini della tuta. – E anche questo, ecco perché non li trovavo più…-
Dopo aver recuperato anche il mio pigiama, salutai il Dottore con un pizzico di timidezza, poi tornai in camera. O almeno, provai a farlo. Nonostante avessi seguito le indicazioni alla lettera, non riuscii più a trovare la mia camera. Qualsiasi corridoio o porta imboccavo, ritornavo sempre nella sala principale, con quel grande tubo cilindrico che sembrava prendersi gioco di me.
- Sei stata tu, vero? Andiamo, dove l’hai messa?- mi avvicinai alla console, sfiorando appena tutti quei pulsanti. – Quindi è vero, uhm? Sei dotata di vita tua e decidi le cose… fico. Sai, prima lo credevo un pazzo con una cabina blu, ora so che è un pazzo con una cabina blu viva… non è estremamente eccitante?- risi fra me e me, andando ad accoccolarmi su dei piccoli sedili in pelle beige. – Buonanotte, Tardis, spero di trovare la mia stanza domani.-
°°°
- Brindiamo, ti va?-
- A cosa, Dottore?-
- Alla nostra prima settimana insieme. Insomma, siamo ancora vivi!- con una risata, feci scontrare la mia bottiglietta contro quella dell’uomo. Se devo essere sincera, non avevo la più pallida idea di cosa stessi bevendo, qualcosa di violetto che profumava di cioccolata e, al gusto, era simile al tè.
Ci trovavamo entrambi seduti in uno dei corridoi del Tardis, con gli abiti un po’ laceri e decisamente molto sporchi. In quei sette giorni avevo vissuto più cose che nei precedenti diciotto anni e mezzo. Avevamo visitato il pianeta Barcellona, rischiando di finire uccisi in una rissa fra due famiglie; mi ero camuffata come una delle amiche di Maria Stuarda, per poi venir presa in ostaggio durante un assalto al castello; eravamo stati a Nuova New York –anche se tecnicamente era la quindicesima New York nata dopo l’originale- e, subito dopo essere scappati da un gruppo di pirati del futuro, ci eravamo recati da Bartolomeo Cristofori e avevamo rischiato di non fargli inventare il pianoforte. Infine, quel giorno, ci eravamo schiantati nel bel mezzo dell’invasione a danno del Belgio, da parte dei Tedeschi, agli inizi della Prima Guerra Mondiale. Dopo esserci salvati, correndo dentro il Tardis, eravamo volati via.
- Sai, non credevo mi sarebbe piaciuto così tanto rischiare la vita.-
- Te l’ho detto, ne vale la pena.-
- Decisamente.- con un piccolo sorriso, allungai le braccia verso il soffitto, stiracchiandomi. Non penso che, nonostante tutto, sarei mai riuscita ad abituarmi allo stile frenetico di quella vita. Il Dottore correva, saltava, guardava persone –o alieni- venire uccisi e non batteva ciglio. Quando eravamo atterrati a Barcellona, mi ero nascosta dietro il Tardis e avevo vomitato. “Stai bene?” aveva chiesto l’uomo, con un sorrisetto. Dopo essermi alzata e aver borbottato una risposta affermativa a denti stretti, lui era corso via. Sembrava che “Corri!”  fosse il suo motto.
- Dove siamo?- gli chiesi ad un certo punto, accennando al corridoio.
- Uhm… credo vicino alla sala dei vestiti.-
- Hai detto ‘sala dei vestiti’?- chiesi, alzandomi di scatto.
- Non è ancora pronta per te, meglio aspettare.- facendo leva su un braccio, anche il Dottore si alzò, afferrandomi poi per il polso. – Vieni, è meglio andare a dormire, ora.-
- Dov’è che dormi, tu?- gli chiesi, mentre mi lasciavo trascinare verso la sala principale del Tardis.
- In una stanza, posizionata a metà di un corridoio a cui si accede per mezzo di una… porta.-
- Stai facendo l’ironico?-
- Ci provo.- appena arrivati davanti al grande macchinario, l’uomo mi lasciò il polso, rintanandosi nei suoi pensieri. Mi appoggiai alla ringhiera per qualche secondo, ad osservarlo: lo trovavo estremamente carino quando aveva quell’espressione.
Mentalmente, mi diedi uno schiaffo per aver partorito quel pensiero. Sembravo una stupida ragazzina con una cotta e tutti sappiamo che non ero mai stata così. Non avevo mai avuto il tempo per infatuarmi di un qualche divo del cinema… mi ero decisamente persa la parte migliore dell’essere una ragazza. Con un sospiro, mi avvicinai all’uomo, fino a cingergli le spalle con un braccio. Quello alzò il viso, stupito, poi accennò un sorriso.
- Buonanotte Dottore.-
- Buonanotte Kathleen.-
Una volta che fui arrivata all’ingresso del corridoio, mi voltai a guardare nuovamente l’uomo, facendo un sorriso.
- Ad ogni modo, puoi benissimo chiamarmi Kath.-
°°°
- Grecia!- quell’unica parola, fatta riecheggiare per tutta la stanza, mi fece alzare di scatto dal letto. Nella penombra della mia stanza, vidi la sagoma del Dottore stagliarsi sulla porta; quasi potevo percepire la sua agitazione.
- Dottore, torna fra un paio d’ore.- borbottai, tirandomi le coperte fin sopra il naso e girandomi dall’altra parte. Nonostante la mia speranza che decidesse di tornare più tardi, fui un pelo rincuorata nel sentire il materasso piegarsi sotto il suo peso.
- Kath?-
- Uhm?-
- Ti andrebbe di visitare l’antica Grecia con me?-
- Molto meglio.- con più lentezza, mi alzai a sedere mentre si accendevano le luci. Il Dottore era già vestito di tutto punto –ossia con la sua classica camicia bianca, il completo marrone a righe e le All Stars rosse- e aveva sul viso la sua normale espressione di grande attesa. – Mi spieghi come ti è venuto in mente?-
- Sai, ripensavo a quando mi hai raccontato di aver provato a studiare greco antico e al fatto che non distinguevi mai le parole per colpa degli accenti. Sai cosa? Il Tardis traduce automaticamente ogni cosa!-
- Aspetta… quindi l’altro giorno parlavo cinese?-
- Sì! Non è entusiasmante?-
- E’ strano.-
- Lo immagino. Ora ti… uhm, ti lascio a sistemarti. Sembra che un cespuglio si sia infilato in mezzo ai capelli.-
- Gentile come sempre, Doc.-
L’uomo mi guardò male, mentre si alzava e si dirigeva verso la porta. Odiava quel soprannome, così lo usavo solo quando mi faceva arrabbiare. Tuttavia, non fece in tempo a chiudere la porta che già era di ritorno.
- Credo sia ora che tu visiti la stanza dei vestiti. Due a destra e uno a sinistra, è la porta con le luci verdi.- dopo un ultimo, rapido sorriso, il Dottore si congedò definitivamente. Con estrema calma, calciai via le coperte, poi sporsi le gambe oltre il bordo del letto. Quando finalmente mi decisi ad alzarmi, mi diressi nel bagno attiguo alla camera, per farmi una doccia e sciogliere tutti i nodi ai capelli.
Una volta che fui pronta, seguii le indicazioni del Dottore fino alla –ancora per poco- inesplorata stanza dei vestiti. Non appena la vidi, ebbi l’irrefrenabile desiderio di andarlo a cercare e mollargli uno schiaffo: la stanza era immensa e, dal punto centrale del soffitto, scendeva una lunga rastrelliera a chiocciola, colma di abiti. Come se non bastasse, la stanza era percorsa da una doppia fila di rastrelliere, colme di abiti di ogni genere: dalle toghe, alle tute spaziali; dagli abiti vittoriani a dei mini vestiti.
Dopo aver indossato un peplo greco, asciugai velocemente i capelli con un asciugamano, poi tornai nella sala principale del Tardis. Lui era lì, vestito come sempre, mentre si preparava a farci decollare.
- Sei un traditore! Perché non mi hai mostrato prima quel luogo, invece che continuare a farmi vestire come Rose?-
- Dovevo sistemarla un po’, metterci qualche abito adatto alle varie circostanze e… uhm, da donna.-
- Non avevi abiti da donna?-
- Rose aveva la valigia, non usava quelli.-
Dopo aver fatto spallucce, mi accomodai in uno dei sedili beige, preparandomi psicologicamente al trambusto che sarebbe seguito. Per chissà quale motivo, quell’affare faceva sempre un grande trambusto, come se avesse bisogno di essere notata ulteriormente.
- Non sarà strano piombare in una città greca con una cabina blu?-
- Assolutamente no. Ora, reggiti forte!-
Mi afferrai con entrambe le mani alla ringhiera, mentre venivo violentemente sbalzata in avanti e, subito dopo, all’indietro. Al contrario delle prime volte, la botta non mi tolse il fiato… non completamente, almeno. Finalmente, con il suo classico rumore, il Tardis atterrò in Grecia, lasciandomi qualche secondo per riprendere fiato.
- Non provare ad aprire quella porta, Dottore, voglio essere io la prima!-
Con un sorrisetto, l’uomo si scostò dalla porta, facendomi cenno di precederlo. Dopo essermi praticamente fiondata ad afferrare la maniglia, mi morsi nervosamente il labbro inferiore. Certo, avevo già visitato altri periodi storici, come la caduta del muro di Berlino o la costruzione della muraglia cinese, ma quello mi stava creando parecchio nervosismo. Finalmente, presi un respiro profondo, poi spalancai la porta e uscii, finendo… in acqua. Non so come o perché, ma caddi a peso morto in un’acqua densa e scura che, tuttavia, non ostruiva la vista. Scalciando, riemersi da quello strano mare, o fiume che fosse, e mi voltai sputacchiante verso il Tardis, osservando il Dottore sulla soglia.
- La prossima volta sei pregato di avvisarmi se decidi di parcheggiare davanti ad una distesa d’acqua!- sbraitai, mentre allungavo un braccio per farmi tirare fuori.
- Non era nei piani…-
- Oh, spero per te che sia così, altrimenti non avrai vita lunga.- finalmente, riuscii ad entrare nuovamente nel Tardis, sgocciolando in tutta la soglia. Aggrappandomi saldamente al braccio del Dottore, feci scorrere lo sguardo su quel luogo: il mare in cui ero caduta si estendeva a perdita d’occhio, puntellato da calotte polari; come avevo notato mentre ero sott’acqua, questa era color bordeaux e sembrava più una zuppa, per la consistenza. Una ventata d’aria gelida penetrò nel Tardis, facendomi rabbrividire vistosamente. Probabilmente per riflesso, il Dottore mi circondò le spalle con un braccio, come per riscaldarmi.
- M-mi spieghi do…dove mi hai port… portata?- chiesi, mentre cercavo di impedire ai miei denti di battere.
- Ho un vago sospetto, ma non voglio credere che sia fondato.-
- Un bru… brutto posto?-
- Un posto in cui non sono ben visto. Vieni ad asciugarti o prenderai una polmonite.- l’uomo chiuse la porta, correndo poi verso la console del Tardis. Dopo aver recuperato un vecchio asciugamano dalla valigia di Rose ed essermelo appoggiata sulle spalle, mi diressi vicino al Dottore, osservando insieme a lui il piccolo schermo con tutti i dati sul pianeta.
- Raxicori… no, Raxacorichefa… è un nome impronunciabile!-
- Raxacoricofallapatorius.-
- Raxicoricofallamatorius?-
- Ti prego, impara a dirlo prima di uscire. I Raxacoricofallapatoriusiani odiano coloro che storpiano il nome del loro pianeta.-
- Raxacoricofallapatorius!- esclamai, dopo un attimo di riflessione, battendo le mani contenta.
- Sai, a volte ricordi proprio Rose.-
- Anche lei non riusciva a dirlo?-
- Anche lei era così felice dopo esserci riuscita.-
- Quindi siamo a Raxacoricofallapatorius, nella Via Lattea. E’ abitato da Slitheen e Blathereen, ha un pianeta gemello chiamato Clom e fu invaso dai Cybermen. Ora mi è tutto più chiaro.- dissi, sarcastica, mentre leggevo nello schermo.
- E’ un pianeta affascinante, a dirla tutta. Però ho sconfitto una delle famiglie di Slitheen, qualche tempo fa, quindi non so se mi accetteranno di buon grado. Tieniti forte, ci spostiamo.-
Con uno scossone, il Tardis riprese a muoversi, per un tempo più breve delle altre volte. Quando si fermò, con il solito strattone finale, corsi nuovamente alla porta, leggermente più preparata a quello che mi aspettava. Scesi su un suolo coperto di neve, con l’aria gelida che mi frustava le spalle scoperte. Fu proprio quel clima a ricordarmi il modo in cui ero vestita: il peplo mi lasciava tutte le braccia e una buona porzione di schiena scoperti, per non parlare dei sandali leggeri che portavo ai piedi.
- Potevi dirmelo che qui faceva un freddo cane.- dissi, incrociando le braccia al petto.
- Raxacoricofallapatorius è caratterizzato dal suo bellissimo mare color bordeaux e da ben quattro regioni polari! Non è fantastico?-
- Lo sarebbe, se avessi un abbigliamento adatto.- replicai, per niente contagiata dal suo entusiasmo. Con uno sbuffo, il Dottore si tolse la giacca, appoggiandomela poi sulle spalle. Dopo aver mormorato un flebile grazie, iniziai a guardarmi attorno, cercando qualche forma di vita. Quando mi voltai, feci un passo indietro per la sorpresa, vedendo quella strana… creatura: era molto alto, verde e molto rugoso; aveva due enormi occhi verdi con le palpebre che si chiudevano in verticale e grandi mani con dita lunghissime. Tutto il suo corpo era molto tozzo: le gambe, il torso, le braccia e perfino la sua testa ovale. Quando parlò, lo fece con una voce quasi… metallica. Forse era dovuto alla strana fascia con una specie di… piccolo schermo che portava al collo.
- Chi siete?-
- Il mio nome è il Dottore, provenienza Gallifrey, ultimo sopravvissuto alla Guerra Temporale e ultimo della mia specie, i Signori del Tempo.- esordì il mio compagno, in tono autoritario.
- Ehm, io sono Kathleen Collins, provenienza pianeta Terra… sopravvissuta al pessimo Cheescake della mia vicina di casa e sempre l’ultima a consegnare i compiti in classe.- dissi poi io, tentando di imitare lo stile che aveva usato il Dottore. Probabilmente, non ci riuscii molto bene, vista l’occhiataccia che ricevetti da entrambi.
- Benvenuti su Raxacoricofallapatorius, seguitemi.- l’omone verde si voltò, facendoci cenno di seguirlo. Infilandomi per bene la camicia del Dottore, mi affrettai a seguire i due verso quella che pareva una reggia.
- Perché hai una bottiglietta di aceto nella giacca?-
- Per dopo.-
 Il luogo verso cui eravamo diretti non era molto grande e tutto colorato di un colore leggermente più chiaro del mare, con giusto una spolverata di neve sui tetti; la facciata che ci era visibile presentava dei chiari segni di una lunga esposizione alle intemperie. Avvicinandomi, riuscii a distinguere meglio le grate poste ad ogni finestra e il grande stemma inciso sulla porta in legno scuro.
- Dottore?- sussurrai, aggrappandomi al suo braccio. – Siamo al sicuro, qui?-
- L’accoglienza promette bene, non trovi?- l’uomo mi guardò con il suo classico sorriso, incitandomi ad affrettare il passo. Una volta che fummo davanti alle grandi porte, lo Slitheen premette la mano sullo stemma, lasciandole spalancarsi. L’interno era piuttosto semplice e… verdastro. Tutto, dai pavimenti in marmo chiaro, ai tavoli in mogano scuro sembrava quasi emanare un alone verdognolo. Scortati dallo Slitheen, attraversammo un’altra porta –decisamente più piccola- che ci fece entrare in un lungo corridoio tutto in marmo, sempre accompagnato dalla luce verde. Dopo quella che parve un’eternità, arrivammo ad una porta in legno chiaro piuttosto scialba, con il sigillo Slitheen inciso su tutta la superficie. Dopo che il nostro nuovo amico la ebbe aperta, ci ritrovammo in una piccola sala quadrata, con solo una finestra e totalmente vuota… eccetto per lo Slitheen in un angolo della stanza. Non era come quello che ci aveva scortati, non completamente: aveva sempre un corpo molto possente e rugoso, però la sua pelle era grigiastra e, in una mano, possedeva solamente un gigantesco dito.
- Salve! Io sono il Dottore e questa è la mia… assistente, Kathleen.-
- Una volta non le chiamavi “compagne”, Dottore?-
- Oh beh, puoi anche metterla così, se ti piace di più! Con chi ho il piacere di parlare?-
- Ti ricorda nulla, Dottore, una famiglia di Slitheen stabilitasi sul pianeta Terra con lo scopo di commerciare?-
- Uhm…- il Dottore si passò una mano fra i capelli, cercando di non far trasparire il suo nervosismo. – Non saprei, molto probabilmente sì. Anzi, quasi sicuramente sì.-
- Erano la mia famiglia. Tu e la tua orripilante compagna avete l’onore di parlare con il capo famiglia di coloro che tu hai ucciso.-
- Orripilante a chi?!- scattai, mollando il braccio del Dottore e facendo un passo avanti. Tuttavia, il mio compagno, mi afferrò per il gomito, facendomi indietreggiare nuovamente.
- Potrebbe ucciderci in un paio di secondi, fai attenzione.- mi sussurrò all’orecchio.
- Attenzione un corno, mi ha definita orripilante!-
- Silenzio! Di’ le tue ultime parole, Dottore, prima che io ti uccida.-
L’uomo finse di pensarci, mentre lo Slitheen si avvicinava pericolosamente. Quando il mostro fu ad un respiro di distanza da noi, finalmente decise di dire la sua ultima parola.
- Corri!- come molte volte prima di quella, il Dottore mi prese per mano, iniziando poi a correre verso la porta alle nostre spalle. Nonostante i pochi secondi di vantaggio che avevamo alla partenza, lo Slitheen era estremamente veloce e ci tenne testa lungo quel lunghissimo corridoio. Arrivati alla fine di quello, ci chiudemmo la porta alle spalle, sbucando nella sala principale. Ansimai, cercando di riprendere fiato, mentre venivo strattonata ancora dal Dottore; eravamo sfuggiti a solo uno di loro. Durante la nostra piccola chiacchierata, una decina di Slitheen si erano radunati in quel luogo e ora ci stavano circondando. Non avevamo alcuna via d’uscita.
- Dottore, cosa facciamo?-
- Ci sto pensando, quando è grande la bottiglietta?-
 - Cosa?- un colpo alla porta la fece spalancare, lasciando uscire lo Slitheen grigio.
- La bottiglia che hai nelle tasche. Tirala a quello grigio, ora.-
Senza porre ulteriori domande, estrassi la bottiglietta e la scagliai più forte che potevo contro il mostro. Non appena la sostanza entrò in contatto con il suo corpo, questo iniziò a sfrigolare e a sciogliersi, prima di esplodere. Fulmineo, il Dottore mi afferrò nuovamente per la mano, strattonandomi verso il corridoio da cui eravamo appena usciti. Quando ormai eravamo a metà strada, intuii dove l’uomo mi stava portando, così accelerai il passo. Una volta rientrati, ci dirigemmo verso la finestra e, senza tante cerimonie, l’uomo la ruppe con un gomito.
- Vai, non abbiamo tempo! Oh, ho finalmente capito cosa significa questa frase.-
- Zitto, Doc!- eliminando con un calcio alcuni dei pezzi di vetro più grossi, uscii dalla finestra atterrando sulla neve soffice. Il mio compagno di viaggio si calò di fianco a me, poi ricominciammo a correre. – Stiamo andando verso il Tardis, vero?-
- Non esattamente…-
Nonostante in lontananza sentissi i rumori degli Slitheen che si lanciavano all’inseguimento, mi fermai, strattonando il Dottore per un braccio. – Cosa vuoi fare?-
- Oh, niente di particolare…-
- Dottore!-
- Voglio trovare un Blathereen.-
- Cosa vuoi fare?! –
- Voglio solo parlargli, niente di più…- conoscevo quell’espressione. Aveva la mascella tesa e gli occhi spalancati, quasi a conferirgli un cipiglio… folle.
- Tu non vuoi parlargli, tu sei curioso! E’ una cosa che non conosci e vuoi rimediare, ma non questa volta.- dissi infine, rimettendomi a correre verso quella macchiolina blu che vedevo in lontananza.
- Perché no? –
- Siamo inseguiti da un gruppo di loro simili, non pensi che potrebbero attaccarci anche loro? –
- Sei la compagna più fifona che abbia mai avuto, sai?-
- No, ho solo istinto di conservazione.- senza più curarmi di avercelo dietro, ripresi a correre verso il Tardis. Con il fiatone, andai a sbattere contro la porta blu, senza riuscire ad aprirla. Tirai invano la maniglia, ma quella rimase immobile. – Dottore!- gridai. Voltandomi, tuttavia, riuscii a vedere solo la folla di Slitheen che avanzava. – Dottore!- la voce mi uscì in uno strillo acuto, mentre mi appiattivo contro la facciata della cabina. Ecco, quella era la volta in cui sarei morta. Ormai ne avevo scampate così tante che credevo di essere immortale… beh, più che altro, credevo che il Dottore non mi avrebbe mai abbandonata.
Quando gli Slitheen furono ormai a pochi passi di distanza e sui loro visi diabolici si dipingevano espressioni di trionfo, un altro di quei mostri si interpose fra me e i suoi compagni, lasciandomi totalmente sbigottita.
- Fermi! Ermenshrew Blathereen vi ordina di non fare del male a questa ragazza!-
- Fate come dice!- quell’odioso, frustrante ed esibizionista uomo che era il mio Dottore si fece avanti, affiancando il Blathereen, ansimante.
Sarà stato per l’adrenalina che iniziava a lasciare il mio corpo o per la lunga corsa, ma all’improvviso mi sentii stanca e incapace di reggermi in piedi. Mentre il mio salvatore parlava con l’orda inferocita, mi accasciai contro la porta del Tardis, lasciando i miei occhi socchiudersi. Ciò che successe in seguito, tuttavia, non fu eccitante come mi aspettavo: gli Slitheen si arresero davanti a Ermenshrew e, dopo aver fatto uno strano saluto, si dileguarono.
- E’ stato un privilegio e una fortuna conoscerti, Erm.-
- Niente soprannomi, Dottore. E ora torna a casa, non sei ancora al sicuro.-
- Io non ho una casa.-
- Dicevo alla ragazza.-
Con queste ultime, decisamente poco rassicuranti parole, l’alieno se ne andò, lasciando me e il Dottore soli. L’uomo si chinò e mi fece passare il braccio a cingermi il fianco, poi mi aiutò ad alzarmi. Senza opporre resistenza, mi feci aiutare ad entrare nella cabina blu, poi mi lasciai cadere su uno dei sedili beige. Dopo un lungo –esasperante- silenzio, finalmente mi decisi a parlare.
- Mi hai lasciata sola.-
- Ero a cercare dei rinforzi.-
- E se non li avessi trovati?-
- Beh, li ho trovati.-
- E se non l’avessi fatto?! Se mi avessi lasciata lì, sola, mentre quegli Slitheen mi uccidevano e non fossi riuscito a trovare rinforzi?-
- Ma li ho…-
- E se non ci fossi riuscito?- ignorando la stanchezza, mi alzai in piedi mentre la mia voce cresceva di volume. – Non avevi un altro piano, vero?-
- Ero lì.-
- Non è vero.-
- Ero a due passi dal Tardis, ti ho sentito chiaramente chiamare il mio nome e ti avrei risposto se non avessi trovato Ermenshrew. Kathleen, credimi.-
- Eri lì?-
- Sì.-
- Non mi hai lasciata.-
- Sai che non lo farei mai.-
Per nascondere all’uomo le lacrime che ormai trattenevo a stento, gli gettai le braccia al collo, quasi stritolandolo. Sentii solo marginalmente i goffi colpetti che quello mi stava battendo sulla schiena, mentre il dolore ai muscoli tornava a farsi sentire. Riassumendo un’espressione controllata, lo lasciai andare, facendogli poi un cenno.
- Buonanotte, allora.- Senza lasciargli tempo di rispondere, eliminai la distanza fra me e il corridoio, per poi imboccarlo e dirigermi in camera.
Solo quando, tempo dopo, ebbi fatto una doccia e mi fui coricata, sentii la porta aprirsi lievemente, asciando entrare un debole raggio di luce. Voltai appena il viso, socchiudendo gli occhi, mentre cercavo di mettere a fuoco la sagoma sulla porta.
- Buonanotte Kath.-
°°°
- Cosa sta succedendo? –
- Ci stiamo schiantando!-
Ossia una normale giornata con il Dottore. Come ogni volta, aveva inserito una data nella console del Tardis e quello ci aveva fatto schiantare chissà dove.  Beh, tecnicamente, ancora eravamo in fase di volo.
- Dove siamo?- gridai, afferrandomi saldamente alla ringhiera.
-  I comandi non rispondono… premi gli stabilizzatori!-
- Quali sono?-
- I pulsanti blu.-
Con non poca fatica, lasciai andare la ringhiera e –cercando di non cadere- mi misi a girare intorno alla console, cercando quei dannati pulsanti blu. –Non ci sono pulsanti blu!-
- Oh, dannazione, devo averli rimossi. Tira la leva vicino a te, dovremmo essere a posto così.-
Come aveva detto, abbassai quell’affare di metallo, provocando così il tanto atteso schianto. In pochi istanti mi ritrovai a rotolare sul pavimento, dritta in un corridoio. L’unica cosa che fermò la mia discesa fu la stanza dei cuscini… gli avevo detto che era una pessima idea, grazie al cielo non l’aveva eliminata. Dopo qualche secondo di immobilità totale, riemersi sputacchiando piume e gridando il nome del mio compagno di viaggio.
- Ti mando una corda, attenta a non farti prendere… in testa.- la pausa che l’uomo aveva fatto, probabilmente, derivava dal mio gemito di sorpresa… mi era veramente caduta in testa. Con uno sbuffo, afferrai la corda con entrambe le mani, poi iniziai a risalire verso la sala principale del Tardis.  Quando finalmente riuscii a scorgere il Dottore, appiattito contro la ringhiera, ma con il suo classico sorriso entusiasta.
- Oh, no…- sospirai, intuendo in che situazione ci eravamo cacciati. – Un pianeta sconosciuto, non è vero?-
- Oh, sì!-
Con un ultimo sforzo, mi lasciai scivolare lungo la parete, strisciando poi il più vicino possibile alla porta.
- Siamo atterrati in un pianeta sconosciuto e il Tardis si è capovolto. Direi che è un ottimo inizio di giornata.-
- Puoi dirlo forte.- con l’ennesimo, irritante –ma pur sempre stupendo- sorriso, si lasciò scivolare vicino a me, facendomi cenno di spostarmi. – Tempo fa, ho brevettato un metodo per questo tipo di situazioni, prendi appunti.-
Il suo “metodo” consisteva semplicemente nell’usare un bastone per aprire le porte, tirare un… coso –non ho sinceramente idea di come si chiami, una specie di artiglio, credo…- e arrampicarsi fuori.
Una volta che fummo all’aria aperta, mi concessi tre minuti di riposo, sdraiata sulla strana erba blu che ricopriva tutto quel luogo. Era veramente morbidissima.
- Tempo scaduto, andiamo in esplorazione.- al suono della sua voce, aprii piano gli occhi, prendendomi qualche istante per osservarlo da quella angolazione. Oh, dannazione, ma che mi prendeva?! Rifiutai con un gesto secco il suo aiuto per alzarmi e, facendo leva con le braccia, mi misi in piedi.
- Dunque, non sappiamo proprio nulla?-
- Sappiamo che qui è tutto blu.- quando me lo fece notare, realizzai che tutto –dall’erba al cielo, dalle montagne all’orizzonte alle stelle- era delle varie tonalità di blu; le uniche note di colore erano il cappotto marrone del Dottore e il mio vestito verde.
- Quindi… siamo finiti nel paese dei Puffi?-
- Cos’è un puffo? Si mangia?- una voce piatta e atona mi fece voltare, lasciandomi poi sbalordita: stavo fissando l’ombelico di una persona. L’essere in questione era altissimo –decisamente molto più di qualsiasi umano a me conosciuto-, viola e sottile. Non intendo dire che fosse magro, ma proprio… era un velo, ecco. Come un foglio di carta allungato fino all’impossibile.
- Che esserini strani che siete.- proseguii quello –o quella?- con il medesimo tono. Aguzzando la vista in quella semi oscurità, scorsi che la creatura aveva due cerchi vuoti a farle da occhi e un cerchio poco sotto, come una bocca.
- Salve! Io sono il Dottore e questa è la mia compagna, Kathleen.-
- Quindi voi due procreate?- inutile dire che la domanda mi fece avvampare.
- Pro…? Oh, no! Non compagna in quel senso. Lei è… la mia assistente. Tu chi sei?-
- Io sono me stesso.-
- Hai un nome?- sbuffai, prima che il Dottore potesse prolungarsi in altre noiose domande.
- Noi non usiamo nomi, noi siamo Anonimi.-
- Ma certo! Siamo sul pianeta Senza nome, vero? Nella Grande Nebulosa di Andromeda… è un po’ che non venivo da queste parti, il Tardis ha sempre dei problemi di atterraggio.-
- Oh tu dici?- nonostante ci stessi provando, non riuscii a trattenere la nota sarcastica nella mia voce.
- Siete degli esserini proprio strani. E piccoli.-
Osservai per qualche istante quella creatura. C’era qualcosa nella sua voce atona e nel suo sguardo vuoto che mi inquietava… sentivo che stavamo per essere attaccati da un momento all’altro. Fingendo indifferenza, mi avvicinai all’uomo quanto bastava per essere sentita sussurrare.
- Ho un brutto presentimento, Dottore. Sento che qualcosa andrà storto… terribilmente storto.-
- Non preoccuparti, sono un popolo pacifico. Dunque…- disse poi a voce più alta, rivolgendosi a quella cosa – Ora che siamo qui, cosa ci consiglia di fare?-
- Raddrizzare la vostra macchina del tempo e andarvene più in fretta che potete.-
- Come, scusa?-
- Dovreste visitare il campo Innominato, è davvero bello in questo periodo. Vi faccio strada.-
Mentre quello si voltava e iniziava a farci strada, gesticolai freneticamente verso l’uomo, accennandogli alle parole appena dette dal Senza nome. Tuttavia, mi ignorò semplicemente, infilando le mani nelle tasche e velocizzando il passo. La creatura ci portò in un piccolo parchetto con l’erba color ciano e un recinto celeste. L’unica cosa veramente bella era un laghetto color blu di Prussia che, illuminato dalle stelle, mandava riflessi pervinca in tutte le direzioni. Era veramente uno spettacolo meraviglioso, sembrava quasi che tanti, piccoli cristalli fossero incastrati nelle profondità dello specchio d’acqua.
- Dottore… è meraviglioso.-
- Te l’avevo detto di non preoccuparti! Spiegaci, Senza nome, da cosa deriva quel luccichio?- la sua domanda, tuttavia, non ottenne risposta; il nostro accompagnatore si era defilato.
- Ti avevo detto che non dovevamo fidarci di quell’essere! Cosa facciamo ora?-
- Mi guardo attorno, tu non cacciarti nei guai.- prendendo il suo cacciavite sonico, l’uomo si mise a girare per tutto il parco. Cercando di ignorare quel fastidioso rumore, mi inginocchiai davanti al lago, osservandolo con attenzione. C’era davvero qualcosa lì sotto. Con una mano, sfiorai appena la superficie dell’acqua, creando mille increspature, come se vi avessi gettato un sasso. Mentre i cerchi continuavano ad allungarsi fino alla riva, delle bollicine salirono in superficie, esplodendo poi con lo sbucare di una mano. Il mio grido fu soffocato da quella creatura verdastra che mi trascinava sotto.
Nonostante continuassi ad agitarmi, sbattere i piedi e colpire la mano di quella creatura, la stretta si intensificava sempre di più mentre scendevamo in profondità. Quando l’acqua si fece così scura che a malapena riuscivo a vedere le mie mani, i polmoni iniziarono a bruciarmi sempre più intensamente, come se stessero per esplodere. E poi eccolo, il momento in cui continuare a trattenere il fiato diventava impossibile e dovevi per forza riprendere a respirare, ingerendo così grandi quantità d’acqua che portavano alla morte. Costretta, per riflesso, ad aprire la bocca, urlai il nome di colui che speravo mi salvasse, quell’uomo così insopportabile, egocentrico, curioso ed esibizionista che mi aveva rubato il cuore e lo aveva chiuso a chiave nel suo Tardis. Non lo avrei mai voluto ammettere, ma ero innamorata di lui. Una luce azzurra mi esplose davanti agli occhi, proprio mentre perdevo conoscenza.
Quando sentii le forze rifluire nel mio corpo, gli occhi mi si aprirono quasi da soli. La prima cosa che vidi, una volta messo a fuoco, fu il tubo cilindrico che dominava tutto il Tardis.
- Sei viva! Non avevo dei dubbi, ma… sei viva!- un tornado di parole mi piovve addosso, insieme ad un ometto tutt’ossa. – Oh, sono felice che tu sia viva!-
Tossendo, mi sedetti a fatica, guardandomi con lentezza attorno. Tutto era come sempre, solo contornato da quel fastidioso colore pervinca che sembrava ammantare ogni cosa, come quando mi trovavo…
- Il lago, cos’è successo?- dissi, accorgendomi solo allora di avere la voce roca. Il Dottore si sedette davanti a me, guardandomi con quel suo sorriso stanco.
- Ti aveva preso una sottospecie di sirena. Quella… quella creatura aveva creato una bolla attorno a te: la pressione cresceva come se stessi andando a fondo, invece eri a pochi centimetri dalla superficie. Mi è bastato farla esplodere con il cacciavite sonico.-
Allungai le labbra in un sorriso, mentre ripensavo a quei terribili istanti. Ecco cos’era la luce blu che avevo visto… era il mio Dottore che veniva a salvarmi, come aveva sempre fatto.
- Grazie, per avermi salvato la vita.-
Ancora non lo sapevo, ma quella non sarebbe stata la prima volta in cui arrivavo ad un passo dalla morte.
°°°
Cosa strana a dirsi, ma quel giorno ancora non avevamo corso nemmeno una volta. Appena svegli, il Dottore aveva provato ad insegnarmi come inserire una data sul Tardis, poi eravamo decollati verso Londra. La cosa più strana è che la mia partenza risaliva a meno di un giorno prima. Ed ora, a distanza di circa mezz’ora dal nostro atterraggio, eravamo seduti in un McDonald’s per la colazione.
- Ripetimelo un’altra volta, cosa sto mangiando con esattezza?-
- Pancakes… veramente scadenti devo dire.- gli risposi, bevendo un lungo sorso di succo d’arancia. Sapevo che l’uomo mi aveva portata lì per un motivo preciso, ossia avere delle risposte sul mio passato, ma io non mi sentivo minimamente pronta a parlare della ma vita prima delle Tyler. Dopo qualche istante di silenzio, in cui il Dottore continuò ad esaminare i suoi pancakes, mi puntò la forchetta contro, decidendosi a parlare.
- Raccontami qualcosa di te, Katie.-
- Uhm… beh, nessuno mi aveva mai chiamata Katie, prima.-
- Non è esattamente quello che vorrei sapere.-
Fu quello sguardo a convincermi, così pieno di… aspettativa e preoccupazione. Tra un milkshake e un pancake, raccontai a quell’uomo tutto il mio passato. Non censurai nulla, cosa che aumentò l’ombrosità che era scesa sul suo viso. Quasi un’ora dopo, pagammo ed uscimmo dal locale, diretti chissà dove.
- Lo hai mai denunciato?- mi chiese ad un certo punto, mentre attraversavamo Trafalgar Square.
- Chi?-
- Tuo padre.-
- Oh, no. Io… io avevo paura.- gli dissi, stringendomi nelle spalle. Cercavo di farlo passare come una cosa da niente, in realtà faceva molto male. Era la prima volta che lo ammettevo e, certamente, non mi faceva stare meglio. – Ti prego, pensiamo a qualcos’altro, non mi piace parlare del mio passato.-
- Okay, che ne dici di vedere la nascita di una stella?-
- Come fai a sapere il momento in cui nascerà una stella? Hai un calendario o cosa?-
- Cos… oh! Io stavo pensando ad un viaggio a Broadway, ma anche quello dovrebbe essere bello. No, è stupendo, partiamo?-
Senza rispondergli, gli presi la mano e iniziai a correre verso il luogo in cui avevamo parcheggiato il Tardis. Avevamo appena superato un negozio di elettronica, quando il Dottore mi tirò con uno scatto secco indietro. Su uno dei televisori in esposizione, campeggiava l’immagine di una giornalista con la scritta “Il governo britannico è in crisi; si cerca il Dottore”.
- Kath… mi cercano…-
- Andiamo, supereroe.-
°°°
- Buongiorno! Ti va un caffè? Dove andiamo oggi?-
- Se ti fermavi a ‘buongiorno’, potevi anche guadagnarti la mia simpatia.- mi rotolai nel letto, coprendomi fin sopra la testa. Quel dannatissimo uomo non faceva altro che piombare in camera mia e svegliarmi… per quale assurda ragione?! Come tante volte prima di quella, sentii il materasso piegarsi sotto il suo peso e le sue dita tamburellare nervosamente sulla sommità del mio capo.
- Katie… quando deciderai di alzarti?-
- Se continui così, mai.-
- Mi sto profondamente annoiando, ti prego!-
Sbuffando, calciai via le coperte e mi sedetti, osservandolo con cipiglio infastidito. Quando non avevo scuola, di solito, mi svegliavo all’ora di pranzo; da quando viaggiavo con il Dottore, non mi svegliavo mai più tardi dell’alba… in termini orari, almeno: non sempre c’era un sole dove ci fermavamo per la notte.  L’uomo si alzò di scatto, voltando il viso verso la porta con espressione decisamente imbarazzata. Fu quell’occhiata a ricordarmi che, la scorsa notte, ero crollata addormentata in biancheria intima.
- Esci, mi vesto e ti trovo un luogo in cui andare.-
Dopo la mia classica doccia mattutina, indossai un paio di leggins neri, una lunga maglia dei Guns ‘n Roses e degli anfibi alti fino a metà polpaccio. Sapevo già dove avrei portato il mio amico, che a lui piacesse oppure no. Legando i capelli in una treccia laterale, corsi fino alla sala principale, trovandolo poi sdraiato sui sedili beige.
- Muoviti, pigrone, abbiamo l’ottava meraviglia del mondo da scoprire.-
L’uomo saltò in piedi, illuminandosi, e corse alla console con un sorriso ampio quanto la sua faccia. – Allora, dove andiamo? In quale galassia ti piacerebbe stare?-
- Uhm… Via Lattea.-
- Vuoi riprovare con gli Slitheen? Forse ci andrà meglio!-
- Assolutamente no. Pensavo al pianeta Terra.-
- Vuoi vedere la nascita del tuo pianeta? E’ stupefacente!-
- Pensavo a qualcosa di più recente. 1985, Gorilla Gardens di Seattle.-
- Non credo di sapere cosa successe… il che mi irrita profondamente.-
- Il primo concerto dei Guns ‘n Roses. Non ero nemmeno un idea, a quei tempi, ho bisogno che tu m porti lì.-
- Avrei preferito qualcosa di più movimentato… ma sei tu il capo.-
- Lo sono?-
- Non lo sei, partiamo. Metti tu la data.-
Inserendo la destinazione come mi aveva insegnato –ci aveva messo quasi una settimana- lo osservai abbassare la leva di decollo, poi venni sballottata contro la ringhiera, alla quale mi aggrappai. Con un ultimo –doloroso- scossone, atterrammo nel mio piccolo angolo di paradiso. Dopo aver fatto una piccola giravolta, corsi davanti alla porta, fermandolo prima che potesse aprirla.
- Mio il luogo, mio l’onore di aprire la porta!-
- Beh, la Grecia era mia, ma l’hai aperta tu.-
- Mai sentito dire ‘prima le signore’? Sbrighiamoci!- finalmente, aprii la porta e mi affacciai. – Oh, non è possibile.- come era già successo innumerevoli volte, avevamo sbagliato destinazione. Al posto della musica a tutto volume e della folla, ci trovavamo in un deserto pieno di uomini sudati in gonne al ginocchio che trasportavano pesanti massi.
- Egitto!- esclamò il Dottore, uscendo con un ampio sorriso.
- Padre, voglio quell’uomo: prendeteli!- una voce squillante mi giunse alle orecchie, proprio mentre mi chiudevo la porta alle spalle. A parlare era stata una donna di una bellezza quasi irreale: aveva degli zigomi alti, fatti risaltare da un incarnato scuro; grandi occhi marroni erano incorniciati da lunghe ciglia scure, così come attorno al suo viso ricadeva una moltitudine di capelli lisci e neri. Era una donna molto alta e magra e tutto il suo corpo era ricoperto di una lunga tunica in lino azzurro.  
- E quella chi è, ora?- chiesi, con una punta di acidità, mentre la donna si avvicinava affiancata da un uomo bello quanto lei; entrambi erano scortati da cinque uomini grandi come armadi, tutti aventi indosso delle gonne di lino. Uno degli uomini mi afferrò per il braccio, un altro fece lo stesso con il Dottore.
- Io sono il faraone Cheope e questa è la mia bellissima figlia. Lei vuole il tuo amico, quindi verrete con noi. Bendateli.- proprio come l’uomo aveva ordinato, quei bestioni ci coprirono gli occhi con una benda di lino scura; sembrava quasi che dovessero condurci in un rifugio super segreto.
Dopo aver camminato per quella che parve un’eternità, ci furono tolte le bende, facendomi così realizzare di non essere più con il Dottore. Mi trovavo in una stanza piena di veli dai toni caldi, con la figlia di Cheope in piedi davanti a me.
- Dobbiamo darti una sistemata, sei totalmente inadeguata. Il tuo amico di bell’aspetto ha detto che sei una sua schiava, ma è comunque di buon uso che tu indossi qualcosa di più consono.- senza lasciarmi nemmeno il tempo di rispondere acidamente, la giovane iniziò a sfilarmi la maglietta, porgendomi poi qualche tunica. – Ecco, provati questi. Sembrerai certamente una persona più rispettabile.-
Reprimendo un commento più che antipatico, finii di spogliarmi dei miei abiti moderni, per poi entrare in quelli più adatti all’epoca che la ragazza mi porgeva. Quando, finalmente, riuscii a sistemare tutti i veli di quella tunica impossibile, mi diressi verso la sala principale di quello sfarzoso palazzo, scortata dalla figlia del faraone.
- Come hai detto che ti chiami?- le chiesi, ignorando le occhiatacce delle guardie.
- Non l’ho detto. Chiamami solo principessa… ma non davanti a mio padre.-
Con quelle parole, la giovane scostò una tenda, facendomi entrare in una stanza simile alla sua stanza… solo che mancava il letto. Il Dottore era in piedi, di fianco a Cheope, nel suo classico completo blu. Mi avvicinai a lui, incrociando le braccia la petto, decisamente irritata.
- Perché tu sei libero di vestirti come ti pare, mentre io mi devo sempre mascherare?!-
- Sarà perché sei una ragazza… ad ogni modo!- disse poi, alzando il tono di voce. – Perché siamo qui, con esattezza?-
- Mia figlia vuole prendervi in matrimonio e io voglio acquistare la vostra bella schiava.-
- Io non sono la sua schiava!-
- Non vogliamo essere scortesi... – mi fulminò subito l’uomo – Però io non posso sposare vostra figlia.-
- E per quale motivo?-
- Perché lui è sposato con me!- mi intromisi, maledicendomi un secondo dopo aver detto quelle parole. Il mio compagno di viaggio mi guardò per qualche secondo, con le sopracciglia inarcate, poi mi circondò le spalle con un braccio.
- A quanto pare, lo siamo.-
- Padre, non ci credo! Si vede lontano chilometri che mentono, suvvia. Non accetterò più pietre fino a che quest’uomo non sarà mio.-
- Doc, noi torniamo nel Tardis.- probabilmente con troppa foga, afferrai il mio amico per un braccio, strattonandolo verso una di quelle porte coperte di tende. Poco prima di essere afferrata dalle guardie di Cheope, il Dottore mi sussurrò concitatamente:
- Se non riusciamo a convincerla, smetterà di accettare le pietre e potremmo cambiare il corso della storia.-
Rivolgendogli un’ultima occhiata, quasi di supplica, fui trascinata nuovamente nelle stanze della principessa… in modo alquanto rude.
- Come posso convincerti che siamo sposati?- le chiesi, una volta che fummo arrivate.
- Voglio parlare con qualcuno che ha presenziato alle vostre nozze.-
- Veniamo da oltre il mare, non sarebbe possibile. Vi prego, principessa, dovete credermi!-
- Perché dovrei farlo? Cosa mi dimostra che siete veramente innamorata di lui?-
- Ve lo posso giurare, amo quell’uomo come… beh, certamente, più di quanto io ami me stessa. Lui è tutto, per me.-
- Lo è?- sentendo quella pesante nota scettica allontanarsi dalla sua voce, mi lasciai cadere su una specie di divano, decidendo di dar finalmente voce a quello che avevo provato a soffocare.
- Sì, lo è. Lui è… il mio sole e la mia luna, l’unica verità che io abbia mai conosciuto. Mi ha salvato dall’inferno, regalandomi un paradiso che non merito per niente. Lui è il mio sogno più dolce  e perderlo è il mio incubo peggiore. Mi fido ciecamente di lui e so che ci sarà sempre, anche se stessi per morire. E’ il mio angelo custode.- la voce mi si incrinò, lasciando così il silenzio a dilatarsi fra di noi. Pensavo davvero tutto ciò che avevo detto? Oppure cercavo solo di tirarci fuori da quel casino?
- Probabilmente ti credo.- disse, infine.
- Basta di fare la ragazzina capricciosa, tesoro, quest’uomo mi ha mostrato un papiro che attesta la veridicità di quanto dicono. E il discorso della sua adorabile moglie deve averti convinta di sicuro.-
- Sì, padre.-
- Ora scusati, così i nostri nuovi amici possono tornare a casa.-
- Sono mortificata per avervi causato tanto problemi. Spero possiate venire a trovarci, in futuro.-
- Lo faremo senz’altro! Kath, cambiati ed esci, ci vediamo qui fuori.-
- Oh, no! Puoi tenerti gli abiti, mia figlia ne ha tantissimi!- Cheope mi rivolse un sorriso amichevole, che però non mi fece scordare il fatto che voleva acquistarmi come schiava. Ringraziandoli, seguii il Dottore fino all’esterno della loro dimora, poi ci incamminammo verso il Tardis; a quanto pare, quell’uomo era riuscito a corrompere una delle guardie per non farsi mettere la benda, quindi aveva visto il tragitto.
Una volta giunti all’interno della macchina del tempo, l’uomo inserì delle coordinate a caso, poi si lasciò cadere su uno dei sedili beige.
- Sei stata… fantastica! Sul serio, hai trovato un fantastico modo per tirarci fuori da quella situazione, dovresti fare l’attrice!-
- Dovrei… l’attrice?-
- Sì! Insomma, io ho sistemato tutto con la carta psichica, ma anche quella recita da ragazza innamorata è stata carina.-
- La mia recita, certo. Sai, ho sempre desiderato essere una ragazzina che sente veramente quel genere di cose.- gli riservai un sorriso falso, mentre iniziavo a togliermi alcuni di quei veli dalle braccia. Probabilmente, visto il totale senso di fastidio, disgusto e delusione che provavo, pensavo veramente quelle cose.
- Sei stata brava, Katie. Cambiati, ti porto a quel concerto.-
°°°
- Sai, questa tempesta la potevamo osservare benissimo anche dalla Terra. Saremmo riusciti a vedere l’aurora boreale perfino dal Texas!- un’infinita sequela di chiacchiere stava riempiendo l’immensità dell’universo.
Sfogliando alcuni volumi di astronomia, poche ore prima, avevamo scoperto che, nel 1989, una grande tempesta elettromagnetica, scatenata dalle eruzioni solari, aveva creato un’aurora boreale visibile dal Québec fino in Texas. Così, dopo aver circondato il Tardis di un campo antiradiazioni –o una cosa simile- ci eravamo arrampicati sul tetto e, da quel momento, aspettavamo. Ovviamente, quell’uomo non riusciva a stare zitto nemmeno dieci secondi, ragion per cui avevo smesso di ascoltarlo già da un pezzo. Certo, ogni cosa che diceva era terribilmente affascinante, ma, quando la ripeteva per la decima volta, diventava terribilmente noiosa.
Finalmente, in modo quasi timido, le prime avvisaglie della tempesta iniziarono a farsi avanti, lasciando scaturire dei flebili getti rossi dal sole. Certo, sapevo che quelle non erano altro che radiazioni ed onde elettromagnetiche, ma non potevo fare a meno di paragonarle a delle onde che, incontrando altri corpi celesti o simili, si infrangevano, dividendosi in tante piccole gocce.
Mentre la grandezza e il calore delle radiazioni aumentava, iniziai a guardarmi attorno, innamorandomi di ogni cosa su cui si posavano i miei occhi. Tutto il buio dell’universo, mischiato ai colori caldi delle radiazioni e ai luccichii delle stelle, creava lo spettacolo più meraviglioso che si fosse mai visto. Era come se tutti i colori mai scoperti mi stessero esplodendo davanti agli occhi, senza mai stonare o risultare eccessivi.
- E’… bellissimo.- sussurrai, incapace di esprimermi in altro modo.
- Un bel regalo, non trovi?-
- Lo adoro.- anche se il calore delle radiazioni mi penetrava in ogni poro della pelle, mi raggomitolai con le ginocchia al petto. Siccome l’equilibrio su quel tetto non era dei migliori,  mi strinsi contro il Dottore, lasciando che mi circondasse le spalle con un braccio, mentre la tempesta infuriava attorno a noi.
- Sai, potremmo fare un salto sulla Terra. Per vedere l’aurora boreale…- disse l’uomo ad un certo punto, mentre le radiazioni ci circondavano.
- Texas o Québec?-
- Andiamo alla fonte.- dando un calcio verso l’interno, l’uomo aprì la porta e si calò all’interno della cabina. Provando ad imitare –senza però riuscirci- il suo movimento aggraziato, mi calai all’interno della macchina del tempo. Mi chiusi la porta alle spalle, lasciandomi poi scivolare su di essa, mentre il mio compagno preparava le coordinate per il viaggio. Sballottati dalla tempesta solare, scendemmo a tutta velocità verso la Terra. Dopo uno schianto piuttosto violento –come al solito, insomma- mi precipitai fuori dalla cabina, in tempo per vedere le prime luci dell’aurora boreale accendersi nel cielo.
Se prima era stato un trionfo di colori caldi, ora le varie tonalità di azzurro e verde si rincorrevano sullo sfondo scuro. Incurante dell’erba alta in cui eravamo capitati, mi lasciai cadere a terra, tenendo lo sguardo sul cielo.
- Perché non abbiamo mai visto una cosa del genere?-
- Probabilmente perché non ci è mai venuto in mente.-
- Promettimi che lo rifaremo.-
- Ogni volta che vorrai.-
Con il conforto di quella promessa, mi avvicinai di nuovo al mio Dottore, appoggiando la testa sulla sua spalla. Era quasi una situazione idilliaca quella che ci trovavamo a vivere in quel momento. Uno di quei momenti quasi troppo belli per essere veri. Sì, insomma, uno di quei momenti che vorresti durassero in eterno, invece la loro fine è decisamente troppo vicina. Volevo rimanere appoggiata al Dottore per sempre, sotto le luci colorate che esplodevano nel cielo scuro… anche solo per godermi la meraviglia dell’erba alta che si colorava come in una discoteca.
- C’è stata una notte, nella mia vecchia vita, in cui credevo di aver veramente scoperto cos’è la felicità.- dissi ad un certo punto, senza curarmi troppo del peso che le mie parole potevano avere. – Era una sera come tutte le altre, avevo appena venduto un’oncia di fumo e, con il ricavato, avevo appena comprato un po’ di polverina magica. Mi ero rifugiata in una delle discoteche più squallide di Brixton e stavo ballando con un cretino qualunque, tenendo in mano una bottiglia di… qualcosa. Mentre le luci mi rimbalzavano addosso e la droga faceva evaporare tutti i problemi, io mi sentivo felice. Per la prima volta, in quattordici stupidissimi anni, io ero semplicemente libera.-
Decidendo di chiudere lì quella piccola parentesi, mi lasciai cadere sull’erba, appoggiando distrattamente una mano sopra la pancia, mentre l’altra era sotto il capo. Sembrava quasi di essere immersi in quell’aurora.
- Sei felice, ora?- mi chiese il Dottore, dopo quella che mi parve un’eternità, sdraiandosi accanto a me.
- Non mi sono mai sentita così prima d’ora, perciò direi di sì.-
Con la coda dell’occhio, vidi il mio amico sorridere. Dopo essermi beata di quella visione per un paio di secondi, tornai ad osservare il cielo, sprofondando in un sonno profondo poco dopo.
°°°
- Buon anniversario!-
- Anniversario? Di cosa parli?-
Quando mi ero svegliata, qualche minuto prima, mi ero accorta subito della particolarità di quel giorno. Poi avevo visto il calendario e tutto si risolse. Esattamente 365 giorni prima, una bambina aveva detto alla madre di aver visto una cabina blu, facendomi così trovare il Dottore. Per quello ero decisamente molto euforica.
- E’ un anno che siamo insieme! Sono sopravvissuta un intero anno!-
- Beh, è decisamente una cosa per cui festeggiare.- l’uomo si aprì in un grande sorriso, iniziando a correre attorno al macchinario principale del Tardis per farci decollare.  
- Allora, Doc, dove mi porti di bello?-
- Alcuni dei posti più belli dell’universo. Obsidian, il pianeta dall’oscurità perpetua, l’alba e il tramonto che si incontrano nello stesso momento solo una volta ogni tremila anni e, perché no, la magnifica New Orleans negli anni ’20.- abbassando un’ultima leva, il Dottore ci fece atterrare. – Ma prima…- l’uomo mi indicò la porta con un cenno, invitandomi ad aprirla.
Non so bene cosa mi immaginavo di trovare –se cascate di diamanti o qualche altra stranezza del genere-, ma le mie aspettative erano certamente alte. Ovviamente, mai e poi mai mi sarei aspettata di capitare in un campo di marshmallow.
- E’ stato un pensiero carino…- dissi con diffidenza, mentre mi muovevo tra quegli esserini. – Cosa sono, esattamente?-
- Siamo su Adipose 3, il pianeta di allevamento di queste meraviglie!-
- Definisci meglio ‘meraviglie’.- piegandomi sulle ginocchia, presi uno di quegli affari sul palmo della mano, osservandolo meglio. Sembrava davvero un grasso marshmallow bianco, con braccia, gambe e due enormi occhi neri. Era piuttosto carino, tutto sommato.
- Sono degli ammassi di grasso umano, esportato dalle persone e messo sottoforma di… questi!-
- Grasso?!- schifata, lasciai cadere l’essere, raddrizzandomi subito dopo.
- Sì! Grasso umano proveniente da tre anni nel tuo futuro, se non sbaglio. Dovremmo fare un salto in quel periodo per vedere che è successo.-
- Perché mi hai portata in un pianeta in cui allevano grasso umano?!-
 - Perché… beh, non c’è un perché. Semplicemente, mi andava. Dai, Sali sul Tardis, andiamo a vedere l’oscurità perpetua.-
Gettando un’ultima occhiata agli Adipose, seguii l’uomo dentro la sua macchina del tempo. O almeno, ci provai. Non appena appoggiai la mano sullo stipite della porta, questa si chiuse di colpo, lasciandomi fuori.
- Dottore? Andiamo, non è divertente!-
- Katie? Io non sto facendo nulla!-
- Dottore!- quasi in preda ad un attacco isterico, iniziai a picchiare furiosamente sulla porta, come se bastasse a farla cedere. – Non lasciarmi, ti prego!-
- Io non ti abbandonerò, okay?-
Mentre calde lacrime iniziavano a rigarmi il viso, mi accasciai contro la cabina. Sarebbe riuscito ad aprire la porta, non mi avrebbe mai lasciata lì. Perché avrebbe dovuto farlo? Non poteva.
- Dottore?- dissi ad un certo punto, quando la voce smise di tremarmi.
- Ci sto provando!- un urlo di frustrazione proruppe al di là della porta, insieme al rumore di qualcosa di rotto.
- Volevo solo dirti una cosa…-
- Abbiamo tutto il tempo, Kath. Io non mi muovo.-
- Dottore, io…- poi, arrivò. Il suono più bello e più terribile del mondo. Quell’aspirazione confortante che era la mia roccia nei tempi belli, ma che voleva dire abbandono in quel momento. La luce del Tardis iniziò a lampeggiare, mentre svaniva.
- Dottore! Non puoi lasciarmi! Dottore, non farlo!- alzandomi nuovamente in piedi, iniziai a strattonare la maniglia sempre più evanescente, come se servisse a farlo restare.
- Kathleen!-
- Dottore, non andartene! Ho bisogno di te!- supplicare, tuttavia, fu inutile. Con maggiore lentezza del solito, la cabina scomparve, lasciandomi sola. Senza più un appoggio decente, crollai in avanti con il corpo sconquassato da singhiozzi irrefrenabili.
Non poteva averlo fatto veramente. Non poteva averlo fatto volontariamente. Eppure era quella la verità. Il Dottore mi aveva lasciata in un pianeta sperduto, praticamente senza speranze di essere ritrovata.
Quando ormai non avevo più lacrime da piangere e stare in quella posizione accovacciata era diventato doloroso, mi alzai. Cosa avrei fatto in quel luogo del tutto inospitale? Come sarei sopravvissuta in mezzo a dei marshmallow fatti di grasso umano? Dovevo andarmene da lì. Non solo dal pianeta, ma anche da quel punto in particolare.
Stavo quasi per decidere da che parte andare, quando il suono del Tardis riempì lo spazio tutt’attorno. Lo sapevo! Non mi avrebbe mai abbandonata, non poteva andarsene come se nulla fosse! Successivamente, accaddero un paio di cose in rapida successione che complicarono ulteriormente la situazione.
Il Tardis apparve nel cielo per un paio di secondi, con la sua luce intermittente e il rumore ripetitivo, proprio mentre si scatenò una specie di terremoto. La macchina del tempo rimbalzò come su un grande tappeto elastico e venne spedito lontano, mentre il pianeta iniziava a precipitare. Una volta che quegli istanti di confusione totale furono finiti, mi ritrovai raggomitolata tra gli Adipose, con le lacrime che mi scendevano dagli occhi gonfi.
Nell’ultimo anno, avevo creduto che sarei morta, piuttosto che lasciare il Dottore. Mi sbagliavo.
°°°
Giorno novantasei di prigionia nel pianeta Adipose 3.
Certo, la mia non era una vera e propria reclusione… ma la sensazione era quella. Lo svegliarsi ogni mattina e scoprire di essere ancora lì, in quell’incubo terribile, non aiutava molto.
Da quando il Dottore mi aveva lasciato su quel pianeta schifoso, vivevo in  un buco nel terreno, grande più o meno quanto una persona e totalmente buio. Durante le ore diurne, invece, vagavo praticamente senza una meta, cercando di entrare in contatto il meno possibile con gli adipose. Per qualche strana, disgustosa ragione, quegli esseri mi rendevano terribilmente nervosa. Forse, la cosa che più mi spaventava, era il dover rimanere lì per sempre. Se quello doveva essere il mio futuro, che senso aveva viverlo?
Fu in quel giorno novantasei che le cose cambiarono.
Come ogni giorno, ci misi un paio di minuti nel raddrizzarmi dalla mia posizione accovacciata; nonostante tutti i dolori che mi procurava, non avrei lasciato mai e poi mai il buco. Non avrei saputo in quale altro posto andare. Quando finalmente fui tornata in posizione eretta, mi diressi al fiumiciattolo verde che scorreva poco lontano. Non avendo minimamente sospettato che sarei rimasta bloccata su quel pianeta, quando ero partita con il Dottore, non possedevo alcun abito di ricambio; perciò, ogni mattina, scendevo a quel rivoletto d’acqua, lavavo i vestiti, mi facevo un bagno veloce e partivo in esplorazione.
Mentre ero seduta sulla riva, con l’acqua bassa che mi lambiva appena i polpacci, mi misi a pensare a tutte le belle cose che mi stavo perdendo. Cosa faceva il mio Dottore, in quel momento? Probabilmente si era già trovato un’altra compagna… o un compagno, chi poteva dirlo.
Dopo essermi ripulita per bene, asciugai gli abiti come meglio potevo, li indossai di nuovo, poi partii. Come avevo appurato ormai da un po’, gli adipose erano tutti come dei bambini: erano malfermi sulle loro piccole gambe, piangevano per mangiare, ti si aggrappavano alle gambe ed erano irritanti. Terribilmente odiosi.
Nonostante tutti quei mini esseri, tuttavia, non avevo ancora visto nessun genitore e la cosa mi terrorizzava. Doveva pur succedere qualcosa, prima o poi, sbaglio? Non poteva rimanere un noioso e pacifico pianeta in eterno…
Un cambiamento, però, in quei novantasei giorni c’era stato: il cielo. Quando il pianeta era precipitato, quel giorno fatale, era stato come venire circondati da pianeti. All’inizio, se ne scorgevano solo un paio; ora erano più di sette. Chissà se un giorno sarebbero precipitati, mettendo fine a quello stupido luogo e a me.
Con lo sguardo rivolto al cielo, mi lasciai cadere a terra, senza sapere bene fino a dove mi ero spinta. Perché non potevo semplicemente… precipitare nel vuoto e finirla? Almeno non avrei dovuto continuare a pensare a stupidi modi per sopravvivere. Mentre le lacrime tornavano a sopraffarmi, qualcosa scosse la terra su cui mi trovavo, facendomi alzare il capo di scatto. Stavo forse tornando in orbita? Il Dottore si era finalmente deciso a salvarmi? La verità, tuttavia, era ben diversa.
Alzando appena lo sguardo, scorsi un’enorme sagoma stagliarsi contro quel sole mattutino. In pochi secondi, mi ritrovai in piedi, camminando lentamente lontano da quel marshmallow gigante. Eccolo, finalmente, un adipose adulto! A giudicare dalla sua camminata, era anche parecchio arrabbiato. Improvvisamente, la nebbia di apatia che mi aveva ricoperta negli ultimi mesi si dissolse, facendomi aumentare la velocità del passo.
Qualcosa mi diceva che, se volevo continuare a vivere, dovevo lottare. E di certo, non avrei mollato. Il Dottore non me l’avrebbe mai perdonato.
°°°
Seicento giorni di prigionia. Da circa due anni, anche se forse erano di più, mi trovavo su Adipose 3. Al contrario di quanto avevo pensato appena arrivata, quello non era un posto pieno di creature pacifiche, era più un pianeta degli orrori.
Esattamente come in un film horror, quando il sole azzurro calava oltre l’orizzonte, i due adipose più grandi uscivano da una rientranza del terreno, pronti ad uccidere qualsiasi cosa non fosse un marshmallow… in altre parole, me.
Così, dopo qualche mese di totale torpore, avevo deciso di iniziare a combattere, cercare di salvarmi. Probabilmente sarei rimasta in quel pianeta fino alla fine dei miei giorni, ma almeno sarei morta combattendo, non rannicchiata in qualche buco.
Ora, ogni mattina, mi alzavo e correvo al fiume; dopo un bagno veloce, indossavo i miei vestiti ancora umidi, poi iniziavo a correre. A volte, la maggior parte, gli adipose adulti non aspettavano la sera, bensì annusavano il mio odore. Quando mi sentivano vicina ai loro cuccioli –ossia sempre, visto che erano dappertutto!-, uscivano fuori come delle furie sulle loro corte gambe e cercavano di prendermi. Era piuttosto irritante, in effetti, dover correre tutto il giorno. Ma che scelta avevo?
Mentre mangiavo uno dei succulenti frutti rossi degli alberi –uno di quelli che sapevano di mela e arancia allo stesso tempo-, una scossa fece tremare il terreno. Una mandria di bambini si avvicinava oppure il loro paparino? Senza aspettare per scoprirlo, gettai a terra gli ultimi rimasugli della mia colazione, poi iniziai a correre. Tutto il tempo passato con il Dottore mi aveva preparata a situazioni del genere, visto che quell’uomo voleva sempre e solo correre.
In un certo senso, pensavo di meno a lui, da quando ero lì. Temendo costantemente che la mia storia potesse finire, avevo imparato a non pensare al passato, a non vivere di rimpianti. Ciò che mi serviva era continuare a correre, mettere un piede davanti all’altro e sperare di non inciampare. Un sorriso mi spuntò sul viso mentre il mostro ruggiva, segno che stava cominciando a cedere. E questo accadeva ogni singolo giorno.
Solo una volta ero stata molto vicina dall’essere catturata, ma perché lo volevo io. Una mattina mi ero semplicemente svegliata e mi ero detta “E’ davvero possibile che quell’essere mi distrugga? Oppure si limiterà a stringermi fra le sue grasse braccia e coccolarmi?”. Beh, quando mi fu arrivato così vicino che potevo sentire il suo fiato sul mio collo, decisi che era il caso di correre… In poche parole, non facevo altro. L’aria fredda sul viso, i capelli che venivano spazzati all’indietro dal vento… era ciò che più mi faceva sentire viva, specialmente perché mi allontanava dalla morte.
Tuttavia, anche se mi ero trovata un’occupazione, le giornate continuavano a scorrere in maniera lenta e monotona… senza alcuna scossa rilevante. Ormai facevo le cose in modo meccanico… anche quella mia strana forma di divertimento era diventata ripetitiva.
Poi, una notte, fui svegliata da un suono lungo e continuo. Era come se ci fosse un’interferenza da qualche parte vicino al mio buco… solo che non esisteva la tecnologia, su Adipose 3. Mentre l’eccitazione iniziava a crescermi nel petto, strisciai fuori dalla mia tana, affacciandomi cautamente verso il cielo. I pianeti erano sempre lì, avvolti nel loro alone scuro, ma qualcosa era cambiato: grandi cerchi concentrici azzurri partivano da un punto che non riuscivo bene ad identificare e si espandevano fino a coprire tutto quello strano sistema. La loro potenza era tale da creare una leggera brezza anche sul mio pianeta attuale.
Come sempre, i miei primi pensieri furono per il Dottore. Era lui? Stava forse tornando a prendermi? Sapevo che non poteva avermi dimenticata! Un evento del genere dopo due anni di passività totale potevano voler dire solo che le cose stavano cambiando. E si sa che, dove c’è un cambiamento, il mio uomo dello spazio ne era la causa principale.
Mi issai completamente fuori dal buco, alzando lo sguardo e le braccia al cielo, come se fosse un invito esplicito. Volevo mettermi a urlare, piangere per la frustrazione, picchiare i pugni a terra… qualsiasi cosa che potesse attirare l’attenzione su di me, insomma.
Non accadde nulla. Quando le onde si interruppero, tutto tornò alla consuetudine, facendomi crollare veramente a terra. Mentre le lacrime mi rigavano inconsciamente il volto, una miriade di pensieri iniziò a rincorrersi nella mia mente, mandandomi in confusione. Se non era veramente lui, cosa poteva aver provocato quello strano fenomeno? E soprattutto, perché dopo due anni continuavo ad essere delusa? Non era arrivato fino a quel momento, perché ci rimanevo male se le mie aspettative erano deluse nuovamente? Mentre quel dolore sordo nel petto –che, negli anni, avevo imparato a chiamare delusione- non accennava ad andarsene, un’altra folata di vento mi scosse i vestiti, portando con sé un tocco leggero.
Ma certo, ero solo io che mi immaginavo le cose. Non c’erano altre persone, chi mai avrebbe appoggiato la sua mano sulla mia spalla? Era solo uno dei miei trip mentali.
- Kath…-
Quella voce. Quella dannatissima voce. Due anni, eppure continuavo ad immaginarla alla perfezione. Così carica di curiosità, aspettativa, rammarico…
- Katie, guardami.-
Perché continuavo a ferirmi così? Perché non potevo semplicemente mettere a tacere quella vocina?
- Kathleen Collins, alzati!-
- Basta!- in preda all’isteria più totale, mi voltai verso la voce immaginaria, trovandomi davanti una persona vera. Non stavo urlando di stare zitto al vento, bensì ad un uomo alto, con corti capelli castani e un lungo soprabito beige. Il mio Dottore.
Senza riuscire ad avere un atteggiamento adeguato, mi gettai tra le braccia dell’uomo, inzuppandogli la giacca di lacrime. Era davvero lui, non mi aveva semplicemente abbandonata. Aveva mantenuto la sua promessa.
- Sei tornato…- gli sussurrai ad un certo punto.
- Ho promesso di non abbandonarti, ricordi?-
°°°
Quando la mia confusione iniziale si fu diradata ed ebbi smesso di piangere, alzai finalmente lo sguardo sul Dottore, guardandolo per davvero. Non era solo: alle sue spalle vi era una terzetto di persone che non riuscivo a mettere bene a fuoco.
- Senti, Katie… mi piacerebbe passare una vita a farmi raccontare cosa ti è successo, ma dobbiamo veramente andare. E’ di vitale importanza che tu mi segua. Ho bisogno di te.-
- Perché?- no, ma che stavo facendo?
- Perché dobbiamo salvare la Terra. Come ai vecchi tempi.-
- Per quale motivo ti servo io? Sono inutile!- Kathleen, ma cosa stai combinando?! Riprenditi!
- No… no, tu non sei inutile. Perché avrei deciso di portarti con me, altrimenti?-
- Sono solo un peso, lo sono sempre stata. Tu hai loro, ti saranno di maggiore aiuto.- era quasi come se il mio cervello si fosse disconnesso dalla bocca, lasciandomi lì a piangere e dire cose che non pensavo assolutamente. Certo, probabilmente gli ero veramente inutile, ma avevo bisogno di lui.
- Dottore, penso stia avendo uno shock...- disse ad un certo punto una donna rossa lì dietro.
- Katie, calmati. Ascolta, io ho bisogno di te esattamente come ho bisogno di tutti loro. Siete esattamente tutto ciò che mi serve, sarei perso senza di voi. Tu sei importante per me, okay?-
Impedendo alla mia stupida boccaccia di rovinare il tutto di nuovo, seppellii il viso nella giacca marrone del Dottore. Non mi servivano rassicurazioni sull’essere importante e tutte quelle cavolate. Ciò di cui avevo veramente bisogno era sentirmi dire che era tornato per me, non perché capitava da quelle parti.
Annuendo, mi staccai da lui controvoglia, spostando lo sguardo sul piccolo gruppo di persone vicine al Tardis. Una chioma bionda in particolare attirò la mia attenzione, spingendo le mie gambe ad aggirare il Dottore per portarmi tra le braccia di mia cugina.
- Che ci fai qui? Cioè, non eri sparita? E Jackie?- chiesi a Rose, dopo averla lasciata.
- Siamo tornate per salvare il mondo, ed è quello che devi fare anche tu. So che è stata dura, ma ci serve tutto l’aiuto possibile.-
- Che aspettiamo, dunque? Andiamo a far saltare qualche alieno.- con un sorriso mesto, mi lasciai trascinare verso la grande cabina, dove mi illustrarono la situazione: la Terra era stata attaccata dai Dalek e, come altri pianeti –tra cui Adipose 3- era stata chiusa in una tasca temporale. Per fortuna, però, il Dottore era riuscita a localizzarla e riportare il tutto al suo stato normale… beh, più o meno. I Dalek, infatti, avevano ancora il dominio sul nostro pianeta.
- Poi il Dottore si è rigenerato, ma ha trasferito tutta l’energia rigenerativa nella sua mano di scorta. Sei la prima persona che è voluto venire a riprendere.- mi raccontò la donna rossa, mentre l’uomo ci riportava sulla Terra.
- Non credo di aver capito molto bene la parte della rigenerazione, ma non mi importa. Tu, piuttosto… chi sei?-
- Donna Noble, sono solo una precaria. E una delle sue compagne, diciamo.-
- E il tipo carino?- le chiesi poi in un sussurro, indicando il terzo uomo che era venuto a recuperarmi. Alto, di bell’aspetto… mi ricordava quasi Tom Cruise, sotto una certa luce.
- Capitano Jack Harkness, un vecchio amico dell’uomo dello spazio. Sulla Terra dovrebbero esserci anche due parenti di Rose, Martha e Sarah Jane qualcosa.-
Martha? Chi era quella donna? E i parenti di Rose? Cioè, una poteva essere Jackie, ma il secondo? Probabilmente tutte le mie domande avrebbero trovato risposta di lì a poco. Il classico schianto del Tardis, che segnalava un arrivo, fu interrotto da una specie di vibrazione che fece spegnere ogni luce.
- Ci hanno presi, non c’è più energia! E’ una specie di… anello cronoquantico.-
- C’è un’enorme nave Dalek in mezzo ai pianeti, la chiamano “Il Crogiuolo”. Immagino sia lì che ci stanno portando.- disse Jack, appoggiandosi ad una colonna con aria rassegnata.
- Dicevi che questi pianeti sono come un motore, ma per cosa?- Donna lasciò andare la mia mano –anche se non mi ero minimamente accorta che la stesse stringendo-
- Rose… tu sei stata in un mondo parallelo, in anticipo rispetto al nostro. Tu hai visto il futuro. Com’era?-
- C’era l’Oscurità. Le stelle si spegnevano, una ad una. Guardavamo verso il cielo e le vedevamo morire. In pratica avevamo costruito questa… macchina del tempo, questo… cannone dimensionale, in modo che io potessi tornare indietro.-
L’alieno si aprì in un enorme sorriso, interrompendo per qualche secondo la gravità del momento. Poi, però, Rose continuò il suo racconto, riportandoci ad un silenzio tetro.
- Poi ha funzionato e le dimensioni iniziarono a crollare. Non solo nel nostro mondo o nel vostro, ma l’intera realtà. Persino il Vuoto non esisteva più. Qualcosa sta distruggendo tutto.-
- In quel mondo parallelo…- la interruppe Donna, avanzando – tu hai detto qualcosa su di me. –
- Il cannone dimensionale poteva sincronizzarsi con delle linee temporali e sembravano tutte convergere su di te.-
- Ma perché io? Voglio dire, cosa ho mai fatto? Io sono una precaria. Di Chiswick!-
Un trillo dalla console del Tardis ci riportò alla realtà, facendoci capire che eravamo arrivato al Crogiuolo. Certo, anche le insistenti richieste dei Dalek di uscire lo facevano intuire.
- O usciamo noi o entrano loro.- disse il Dottore, voltandosi con aria grave verso la porta.
- Ma hai detto che nulla poteva fare irruzione qui dentro…- anche se non ero ancora molto salda sulle gambe, mi feci forza da sola e mi portai di fianco a Rose, quasi preparandomi a combattere.
- L’ultima volta che li abbiamo combattuti, i Dalek erano dei saprofagi, degli ibridi… e dei pazzi. Ma questo è un impero Dalek completamente strutturato, al culmine del suo potere. Sono degli esperti nel combattere i Tardis, possono fare qualunque cosa. In questo momento, quella porta di legno… non è altro che legno.-
Altre domande e risposte affrettate si susseguivano, mentre cercavo di focalizzarmi sulla situazione. Dovevamo cacciare quei Dalek il più lontano possibile e nel minor tempo a disposizione.
- Comunque è stato bello, non è vero? Tutti noi, tutto questo. Tutto ciò che abbiamo fatto! Siete stati tutti così brillanti.- il Dottore ci guardò uno ad uno, quasi trattenendo le lacrime. Stava certamente scherzando, non si sarebbe mai arreso senza combattere. – Accidenti!-
Quando uscimmo nel Crogiuolo, una specie di base militare piena di Dalek –ossia alieni alti quanto un uomo completamenti in metallo, con un capo rotondo da cui spuntava una specie di braccio alla cui estremità vi era il loro occhio.- che continuavano a ripetere: - I Dalek regnano supremi. Rendete onore ai Dalek!-
Uno di quegli alieni in particolare, di color rosso invece che oro, invitò tutti noi ad osservare la vera potenza della sua razza. Come se ce ne fosse bisogno.
Rose mi strinse la mano in un gesto di conforto, mentre aspettavamo che Donna uscisse dal Tardis. Ma non lo fece: la porta si chiuse con un colpo secco, lasciandola bloccata all’interno. I due alieni si misero a discutere su chi avesse bloccato la porta, mentre un fischio sordo mi riempiva le orecchie. Quella situazioni mi era così fastidiosamente familiare che, a distanza di due anni, ancora mi si stringeva lo stomaco al ricordo. Fui riportata alla realtà solo da una botola che si spalancava, spedendo la macchina del tempo in un nucleo a neutroni Z… o una cosa simile.
- La femmina e il Tardis troveranno la morte insieme. Osserva!- al comando del Dalek rosso, una specie di schermo apparve dal nulla, mostrando la cabina divorata dalle fiamme. Era come se fosse immersa nella lava. – L’ultimo dei figli di Gallifrey è impotente.-
- Ti prego, ti scongiuro, farò qualunque cosa! Metti me al suo posto. Puoi farmi qualunque cosa, non mi interessa, solo falla uscire da lì!- vederlo così arrabbiato e senza più risorse mi spezzò il cuore.
- Tu sei in contatto con il Tardis, Dottore: sentilo morire. Distruzione totale del Tardis tra dieci rel…- disse infine, iniziando un fastidiosissimo conto alla rovescia che portò alla distruzione della macchina del tempo.
Non poteva essere accaduto realmente. Non stavamo perdendo, sarebbe arrivata una svolta significativa, prima o poi.
- Ora dimmi, Dottore, cosa provi? Rabbia? Tristezza? Disperazione?-
- Già.-
- Quindi, se le emozioni sono così importanti, di certo ti abbiamo reso migliore.-
Nell’arco di un respiro, Jack si voltò sparando al Dalek rosso e quello lo fulminò. Il ragazzo si afflosciò a suolo, senza più emettere un suono. Sconvolta, Rose si gettò addosso al ragazzo mentre io, quasi per riflesso, mi aggrappai alla mano del Dottore. Con poco tatto, i Dalek ci sospinsero via, verso una stanza chiamata “Camera blindata”. A mio parere, tuttavia, era totalmente identica a quella precedente; l’unica differenza fu che ci separarono, chiudendoci in dei fasci di luce usati come celle di contenimento.
Poi lui parlò.
- Anche quando impotente, un Signore del Tempo è meglio che venga trattenuto.- una specie di… incrocio tra una mummia e un Dalek si avvicinò al Dottore, usando la parte inferiore del suo corpo alieno come se fosse una carrozzina per disabili. – E’ ora di parlare, Dottore, dopo così tanto tempo…-
- No, no. Niente festival della nostalgia, Davros, voglio sapere che succede, qui e ora. Perché sbaglio o il Supremo Dalek ha detto cripta? Come in sotterraneo, cella… prigione? Tu non sei più il capo dei Dalek, vero? Ti hanno rinchiuso qui sotto, nei sotterranei, come… cosa? Un servo? Un buffone di corte?-
- Noi abbiamo… un accordo.-
- No, no, no, no. Mi è venuta la parola! Tu sei la mascotte dei Dalek.-
- E’ così pieno di fuoco, non è vero? E pensare che hai attraversato interi universi paralleli, saltando da uno all’altro per vederlo ancora. E tu, intrappolata con delle montagne di grasso ad aspettare il ritorno del tuo salvatore.-
- Lasciale stare.-
- Sono mie, ne faccio quello che voglio.-
- Perché sono ancora viva, allora?-
- Voleva dire siamo.- dissi ad un certo punto, aprendo bocca praticamente per la prima volta. A mano a mano che la discussione andava infervorandosi, potevo quasi sentire le forze che fluivano nel mio corpo attraverso il sangue, donandomi nuova forza e voglia di combattere.
- Dovete essere qui, mi è stato predetto. Nemmeno il Supremo Dalek oserebbe contraddire le profezie del Dalek Caan.- l’uomo premette un pulsante sulla sua base, facendo così accendere una luce. L’oggetto illuminato era un corpo di Dalek quasi in disuso, coperto di filamenti simili a ragnatele, su cui era posato una specie di polipo informe che parlò con una vocina fiacca e da pazzo.
- Così freddo e buio, il fuoco sta arrivando… le fiamme eterne.-
- Cos’è quella cosa?- domandò Rose, interrompendo l’esserino.
- Vi siete incontrati in precedenza. L’ultimo esemplare del Culto di Skaro. Ma è scappato dalla Guerra Temporale, non protetto.- nonostante fossero uscite dalla bocca del Dottore, quelle parole non ebbero il minimo senso per me.
- Caan ha fatto più di questo. Ha visto… il Tempo.- spiegò Davros – La sua infinita complessità e maestà che gli anno devastato la mente. E ha visto voi. Tutti e tre.-
- Questo ho previsto, nel vento e nel deserto: il Dottore sarà qui di certo, testimone della fine di tutto. Il Dottore e i suoi preziosi Figli del Tempo, di due dei quali piangerà il lutto.-
- Sei stato tu, Caan? Hai ucciso tu Donna? Perché si è chiusa la porta del Tardis? Dimmelo!-
- Oh, eccola! La rabbia, il fuoco! La rabbia di un signore del Tempo che ne ha uccisi a milioni. Eccola qui! Perché questa timidezza? Mostrala alle tue compagne. Mostra loro la tua vera identità. Dalek Caan ha promesso anche questo evento.-
- Io l’ho visto. Nel momento della fine, l’anima del Dottore si rivelerà.-
- Che significa?-
- Lo scopriremo insieme. Il nostro viaggio finale. Visto che la fine è vicina, il test comincia!- Davros si allontanò, mentre appariva un altro schermo.
- Quale test?-
- L’Ordigno Anti-Esistenza.-
Riuscimmo a vedere tutta la scena come se fossimo lì: dei Dalek scortarono alcuni prigionieri in una sala, in cui poi li polverizzarono letteralmente attraverso un enorme macchinario.
- Dottore? Cos’è stato?- chiese Rose, con uno sguardo terrorizzato.
- Energia elettrica, signorina Tyler.- rispose Davros per lui – Ogni atomo di tutto ciò che esiste è tenuto insieme da un campo elettromagnetico. L’Ordigno Anti-Esistenza lo neutralizza, la struttura viene distrutta. Quel test era focalizzato solo sui prigionieri, la trasmissione completa farà scomparire… ogni forma di materia.-
- Le stelle stanno scomparendo…-
- I ventisette pianeti si trasformeranno in un enorme trasmettitore facendo propagare l’onda…-
- Attraverso l’intero universo.- concluse l’alieno al posto del Dottore. –Senza fermarsi, senza sbagliare, senza mai scomparire. La gente, i pianeti e le stelle diventeranno… polvere. E la polvere diventerà atomi, e gli atomi diventeranno… niente. E l’onda continuerà a propagarsi attraverso la fessura all’interno della Cascata della Medusa attraverso ogni dimensione, ogni universo parallelo, ogni singolo angolo del creato! Questa… è la mia vittoria suprema, Dottore! La distruzione della realtà stessa!-
Un grande agitarsi di Dalek diede inizio a quella che sembrava una manovra di evacuazione, interrotta dal Supremo Dalek quando un messaggio arrivò dalla terra. Una ragazza mora, che si presentò come Martha Jones, chiese di parlare con il Dottore, mentre Dalek Caan continuava a ripetere che due Figli del Tempo sarebbero morti.
- Ho la chiave di Osterhagen. Lasciate in pace questo pianeta e i suoi abitanti o la userò.-
- Cos’è la chiave di Oster-coso?- chiesi, appoggiando con impazienza le mani su quel campo di contenimento.
- Esiste una catena di venticinque testate nucleari piazzate in punti strategici sotto la crosta terrestre. Se uso la chiave… esploderanno tutte, e la Terra andrà in frantumi.-
- Cosa?- il Dottore si rivolse scandalizzato alla donna – E chi l’ha inventato? Beh, qualcuno di nome Osterhagen, immagino. Martha, sei impazzita?-
- La chiave di Osterhagen è stata creata per essere usata in una circostanza in cui la sofferenza umana fosse diventata così grande, così priva di speranza… da non lasciare che quest’ultima opzione.-
- Questa non può essere un’opzione…-
- Non discuta con me, Dottore!-
- E allora discuti con me, tesorino!- mi scoprii ad esclamare, spingendomi sempre più contro la cella – Se tu farai saltare in aria la Terra… oh aspetta, è geniale!-
- Katie!-
- Se farà saltare in aria la terra diventeranno ventisei pianeti e la trasmissione dell’onda verrebbe indebolita, non ho ragione?-
- Chi sono loro, Dottore?-
- Katie e Rose.-
Prima che chiunque potesse dire altro, un secondo schermo affiancò il primo. Un gridolino di gioia mi sfuggì dalle labbra alla vista di Jackie Tyler. Accanto a lei vi erano Jack –miracolosamente ritornato dalla morte-, una donna sulla cinquantina e Mickey, l’ex ragazzo di Rose.
- Jack, cosa stai facendo?-
- Ho una stella congelata collegata al mainframe. Rompo questo guscio… e l’intero Crogiuolo salta.-
- Ma cosa… dove hai preso una stella congelata?-
- Da me! Non avevamo scelta, abbiamo visto cosa è successo ai prigionieri.- la donna di cui non conoscevo il nome si fece avanti, terrorizzata.
- Quel viso… ne è passato di tempo.-
- Davros. Sarah Jane Smith, ricordi?-
- Il Cerchio del Tempo si sta chiudendo. Tu eri lì, su Skaro, al principio della mia creazione.-
- Ed ho imparato a combattere da allora. Lascia andare il Dottore o romperò la stella congelata!-
- Ah! Fregato!- esclamai al massimo dell’entusiasmo, voltandomi verso l’uomo. Lui non sembrava essere tanto allegro, però. Al contrario, aveva l’espressione più mesta che si potesse immaginare.
- L’anima del Dottore è stata rivelata. Guardatelo! Guardate il suo cuore!- rise Dalek Caan.
- L’uomo che rifiuta la violenza, che mai porta un’arma. Ma questa è la verità, Dottore: tu prendi delle persone normali e le trasformi in armi. Guarda i tuoi Figli del Tempo… trasformai in assassini. Io ho creato i Dalek, tu loro.-
- Stanno cercando di aiutare.-
- Li ho già visti sacrificarsi oggi… per il loro amato Dottore. La donna terrestre, caduta per aprire la Rete a Subfrequenza.-
- Chi era?-
- Harriet Jones.- si intromise Rose. – Ha dato la sua vita.-
- Quanti ancora? Quanti sono morti in tuo nome? Il Dottore: l’uomo che continua a correre senza guardarsi indietro. Perché non osa. Pieno di vergogna. Questa è la mia vittoria finale: ti ho mostrato… te stesso.-
Poi, in un battito di ciglia, il Supremo Dalek teletrasportò tutti nella stanza, costringendoli ad arrendersi.
- La profezia finale si sta avverando: il Dottore e i suoi Figli, raccolti come testimoni. Supremo Dalek, è arrivato il momento. Ora… fate detonare l’Ordigno Anti-Esistenza!-
- Attivare il campo di allineamento planetario.- iniziò ad ordinare il Supremo Dalek. – Detonazione della realtà universale in duecento rel.-
- Per la miseria, smettila con queste stupidaggini!- mi ritrovai ad urlare, battendo i pugni sulla gabbia invisibile. Le mani iniziarono a bruciarmi, come se le stessi sfregando contro una superficie ruvida, ma non mi rassegnavo. Avrebbe ceduto, prima o poi, così sarei potuta andare ad afferrare Davros per quel suo collo da mummia e sbattergli il capo contro il muro.
Poi, mentre Davros era al culmine dell’eccitazione e urlava senza controllo che nulla poteva fermare la detonazione, lo sentii: il suono più bello del mondo. La nostra sorpresa, tuttavia, non fu nemmeno paragonabile a quella che ci pervase quando, dal Tardis, uscì un altro Dottore: era identico in tutto e per tutto a quello vicino a me, solo che era vestito in blu.
L’uomo corse verso Davros, reggendo un’arma simile ad un corto fucile; tuttavia, non riuscì mai a sparare. Proprio mentre il Dottore gli urlava di fermarsi, l’alieno gli puntò un dito contro, fulminandolo. Una cella di contenimento si attivò attorno all’uomo –ancora cosciente-, proprio mentre Donna correva fuori dal Tardis e si precipitava ad afferrare l’arma caduta a terra. Davros ripeté lo stesso gesto, spedendo la donna più lontano e rendendola incosciente.
- Mi sbagliavo sui tuoi guerrieri, Dottore. Sono patetici!-
- Come fanno ad esserci due… te?- chiese Rose, sconcertata quanto me.
- Metacrisi biologica umana. Non ha importanza, non possiamo più fermare l’Ordigno Anti-Esistenza.-
- Osservate bene.- gongolò Davros, facendo apparire l’ennesimo schermo che mostrava i ventisette pianeti –Tutti i vostri piani sono falliti e la fine dell’universo… è arrivata.-
Quando il conto alla rovescia del Supremo Dalek toccò lo zero –ossia il momento di massima tensione- lo schermo si spense e, da dietro un mucchio di cavi, emerse Donna, raggiante.
- Chiusi tutti i cicli di trasmissione di neutrini Z usando un anello di controreazione interna ad inversione sincrona. Quel pulsante lì.-
- Donna, tu non sai nemmeno cambiare una presa!- esclamò il Dottore, quello vero, sconvolto.
- Soffrirai per questo.- Davros le puntò di nuovo il dito contro, ma Donna alzò una leva che mandò in cortocircuito il meccanismo.
- Campo di smorzamento bio-elettrico con inversione ad arco retrogressiva! E ora, macrotrasmissione di impulsi a lunghezza d’onda in banda K per bloccare le armi dei Dalek in una matrice auto replicante di energia paralizzante!-
- Come hai fatto ad idearlo? Tu…
- E’ parte Signore del Tempo.-
- Oh sì! E’ stata una metacrisi biologica a doppio senso. Celle di contenimento disattivate.- disse poi, continuando a premere qualche pulsante. – Beh, non statevene lì fermi! Al lavoro, uomini magri in giacca e cravatta!-
Non appena la cella sparì, mi fiondai insieme a Rose ad abbracciare Jackie, finendo in quella che sembrava una vera e propria riunione di famiglia. Dopotutto, non sono i legami di sangue che definiscono a chi siamo legati, bensì i nostri sentimenti. Su quella lunghezza d’onda, mi voltai verso il Dottore con un grande sorriso: lui, Donna e la Metacrisi si stavano affaccendando attorno a dei controlli per togliere il libero arbitrio ad ogni singolo Dalek.
Il Capitano Jack e Mickey, nel frattempo, avevano recuperato delle armi e tenevano bloccato Davros, in modo che non si potesse ribellare. Sapevo che sarebbe tutto finito per il meglio.
Nessuno, però, aveva calcolato un Dalek. Uno come tutti gli altri, rimasto nell’ombra, che ora si avvicinava furtivamente al Dottore, puntandogli contro quello strano tubo da cui uscivano scariche elettriche. Prima che potessi anche solo pensarci, corsi verso l’uomo, gettandomi fra lui e il raggio mortale appena in tempo.
Però non caddi a terra morta, forse perché ero stata colpita solo di striscio, rimasi pienamente cosciente, a sentire tutto il dolore che quella scarica stava provocando. In modo ovattato mi giungeva la voce di Donna, che cercava di capire come fosse sfuggito al suo controllo quell’unico alieno. Non le prestai attenzione, tuttavia. L’unica cosa di cui mi importava, in quel preciso istante, era l’uomo che mi stava sorreggendo in modo delicato il capo, accarezzandomi una guancia.
- Non lasciarmi, Katie. Resisti per me, okay? Jackie e Rose sono qui, sarete una famiglia…-
Appoggiando la mano sulla sua, bloccai il flusso di parole che già si preparava ad arrivare. Non volevo sapere cosa la morte mi avrebbe portato via. Non volevo sapere che avrei potuto avere una vita lunga e felice, mentre stavo scivolando lentamente verso l’oblio eterno.
- S… sono felice così, Doc.- sussurrai – Ho salvato la tua vita, giusto? Nulla potrebbe rendermi più felice.-
- Ma io potevo rigenerarmi! Tu… sei stata incosciente, non dovevi farlo.-
- Lo so.-
- Perché, allora? Ti ho appena ritrovata, perché mi costringi a lasciarti andare di nuovo?-
- Perché ti amo. Non mi sarei mai perdonata l’essere la causa di un tuo cambiamento, preferisco lasciarti così.-
- Ma non stai facendo un favore a me!-
- Lasciami essere egoista, Dottore. Voglio lasciare questo mondo sapendo che ti ho salvato la vita almeno una volta.-
Invece di sprecare le ultime forze che mi rimanevano per spiegargli quanto fossi grata per quel tempo speso insieme, alzai una mano in modo tremante, togliendogli una lacrima dal viso.
Fu l’ultimo gesto della mia vita.
°°°
C’erano poche cose che mi piacevano seriamente, nella mia vita: il fumo e l’alcool. Quella sera –un giorno di fine luglio insolitamente caldo- mi trovavo poco lontana da casa, con in mano una canna e una bottiglia di vodka. Era una giornata perfetta, insomma.
- Ti va di passare a casa mia, Kat?- uno dei ragazzi seduti accanto a me, di cui non sapevo assolutamente nulla, mi afferrò il braccio. Proprio come tutti, anche lui credeva che io fossi un’amante del sesso facile. Probabilmente, però, non c’era cosa che io odiassi di più al mondo; dopo che venivi costretta da quasi otto anni a fare quella schifezza per circa tutta la settimana, ti scocciavi. E io ero una persona che si annoia facilmente.
- Non ho voglia, Rich.- dissi, sparando un nome a caso.
- A dire il vero è Simon. Ma non fa nulla, ti perdono se vieni a farti una sveltina.-
- Senti, Simon, stasera non sono proprio dell’umo…- le mie parole, tuttavia, vennero risucchiate da un altro rumore, una specie di aspirazione sorda. Era stranissima… ma stupenda. Sembrava quasi rassicurante.
Davanti ai nostri occhi, quasi miracolosamente, si materializzò una cabina blu anni ’50 che, recando su di sé la scritta “Police box”, fece fuggire a gambe levate quei due codardi che mi portavo appresso. Sistemandomi la canna tra le labbra, feci un tiro profondo mentre la porta si apriva. Da quel piccolo affare uscì un uomo dall’aspetto fiacco, vestito con un completo marrone… proprio da sfigato.
- Non dovresti fumare quella roba.- disse, avvicinandosi a me con le mani nelle tasche. 
- Non sei mio padre, quindi non farmi la paternale.- dissi, con un sorriso sardonico, soffiandogli del fumo in faccia. Ma chi si credeva di essere quello?
- Non sono qui per questo.- l’uomo mi si avvicinò, prendendo poi la sigaretta dalle mie labbra e gettandola a terra, schiacciandola sotto la sua Converse. – Quanti anni hai?-
- Diciotto.-
- Non mentirmi, Katie.-
- Quasi quindici.- gli risposi, percorsa da un brivido. Come sapeva il mio nome?
- Bene. Devi sapere che, tra non molto, le cose andranno meglio. Ora ti sembrerà tutto difficile, ma il sole tornerà a splendere anche per te.-
- Chi sei?-
- Solo… una persona di cui avrai bisogno fra qualche tempo.-
- Io non ho bisogno di nessuno.-
- Allora puoi chiamarmi Nessuno.-
Con passo triste e fiacco, l’uomo mi si fece ancora più vicino, fino a stringermi in un debole abbraccio. Fu così dolce che non trovai la forza di allontanarlo. Anzi, quasi mi aggrappai alla sua giacca, come se mi servisse l’affetto che prometteva.
- Non posso aiutarti, ora. Dovrai salvarti da sola.- disse alla fine, lasciandomi andare. Infilando di nuovo le mani nelle tasche dei pantaloni, entrò in quella strana cabina, chiudendosi la porta alle spalle. Non passarono nemmeno un paio di secondi, però, che la porticina si aprì di nuovo. –E ricordati sempre: non sei mai stata solo una crepa.-
 
NdA
Ed eccoci arrivati finalmente alla conclusione! Dopo 18.170 parole, quasi quattro mesi di lavoro, numerose notti insonni, scleri e blocchi creativi –e credetemi, ce ne sono stati- posso ritenermi soddisfatta di essere giunta a questa conclusione.
Essendoci stato un sacco di lavoro, ho avuto bisogno anche di molto supporto che merita di essere ringraziato.
Un grazie speciale va ai Linkin Park, coloro che hanno ispirato il titolo e gran parte del contenuto della storia.
Grazie, come sempre, alla mia correttrice per tutti gli sfondoni che mi evita.
Grazie a tutte le persone che hanno sopportato i miei scleri (sì, penso a voi ragazze del Calderone), soprattutto perché non deve essere stato facile!
Grazie ad Alice, per aver composto una canzone che, inconsciamente, mi ha ispirato la morte di Kath.
Grazie a Matteo, che ha continuato a spronarmi anche quando volevo mollare.
Ma il grazie più grande, non me ne vogliano gli altri, va al programma di Word, che –almeno per questa volta- ha deciso di non chiudersi inaspettatamente a fine fanfic, cancellando il lavoro di una notte.
 
 
   
 
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