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Autore: SophieJ    15/12/2014    2 recensioni
Jacqueline osservò il numero scritto sulla sua casacca bianca sdrucita.
Perché si trovava lì tra i reietti, i dimenticati, gli indesiderati?
Non c’era motivo di porsi in eterno quella domanda, che aveva una sola ed unica risposta: zio SnowMint. L’avido, viscido zio SnowMint.
Ricordava molto bene il giorno in cui era passata dall’essere Jacqueline Grayson al numero 75193.
[Storia partecipante a Left Behind- Storie di Ruggine e Abbandono]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Carillon.

 

 

 

Jacqueline osservò il numero scritto sulla sua casacca bianca sdrucita.

Perché si trovava lì tra i reietti, i dimenticati, gli indesiderati?

Non c’era motivo di porsi in eterno quella domanda, che aveva una sola ed unica risposta: zio SnowMint. L’avido, viscido zio SnowMint.

Ricordava molto bene il giorno in cui era passata dall’essere Jacqueline Grayson al numero 75193.

 

“Signorina Jacqueline, potreste prestare maggiore attenzione a ciò che vi sto dicendo?” le disse con stizza l’avvocato, “Ho bisogno della vostra completa attenzione, e certamente, non vi è nulla di più interessante fuori da queste finestre di ciò che i vostri genitori hanno disposto per voi.” la rimproverò il signor Maynard.

Era un piccolo uomo di mezz’età, parzialmente calvo e con un’aria trasognata e vispa.

Sempre abbigliato con colori scuri ed eleganti, la sua postura era perfettamente eretta e di tanto in tanto egli si lisciava i baffi, con l’aria di un nobile dignitario soddisfatto della sua semplice ma gradevole esistenza.

“Mi perdoni, signor Maynard. Vada avanti.” Jacqueline disse con una punta di imbarazzo.

“Bene. Il suo tutore legale sarà suo zio SnowMint, che è stato preventivamente informato della situazione e sarà qui in un paio di giorni. Egli si occuperà di voi fino alla maggiore età e disporrà per voi una piccola dote quando sarà il momento di prender marito. Se vi saranno problemi, contattatemi. Suppongo che il mio tempo qui sia finito. Avrete mie notizie molto presto, ma fino ad allora: buona giornata.” asserì il signor Maynard, mentre si alzava dalla poltrona scamosciata e afferrava con eleganza il pesante cappotto posato su un tavolino, lì a fianco.

Era stata una giornata pressoché piacevole, allietata dalla presenza dei raggi solari che filtravano dalle alte vetrate e accompagnavano l’allegro su cui Jacqueline si era tanto esercitata.

Jacqueline si volse verso la sua balia, la signora Akinari.

Era una bella donnona dalla corporatura robusta, mani paffute e forti e un volto sempre radioso e sorridente, con grandi occhi verdi vispi.

“Che ne sarà di me, signora Akinari?”

La donna sospese le sue consuete pulizie autunnali per volgersi verso la dolce creatura che aveva proferito parola.

“Non so proprio dirvelo, signorina Grayson. Speriamo ch’egli possa essere il punto di partenza per un futuro colmo di grandi soddisfazioni e gioia. Sopratutto di gioia. So che è un borghese impegnato nell’esportazione di spezie e lino e che è molto affabile e gradevole di aspetto. Sono certa che andrete molto d’accordo. Dicono che non abbia moglie, quindi non dovrete temere nessun sopruso da un eventuale matrigna o chi altro. Andrà tutto bene, credetemi.”

Jacqueline sospirò sonoramente. 

Da quando le sue due sorelle minori e i suoi genitori erano venuti a mancare, si era sempre sentita perseguitata dalla solitudine o da piccoli presenze dispettose, quali i folletti o i piccoli demoni della polvere, come diceva sempre la signora Akinari.

A Roveran Maze, nascere primogenito era vista come una sfortuna, che ne portava altre con sé: chi nasceva per primo era destinato a sbagliare per primo, per primo ad essere dimenticato e per ultimo ad andarsene di casa in cerca di fortuna. Ed era esattamente ciò che era toccato a lei.

Aveva sempre percepito un’ombra di malaugurio seguire i sui passi, afferrarle la mano, farle lo sgambetto, facendola capitolare con il didietro per terra.

Le circostanze della morte dei suoi genitori erano sempre state confuse e ignote, nonostante fosse certo che un serial killer li avesse falcidiati e fatti passare a miglior vita.

Jacqueline si era salvata nascondendosi nel montavivande, dov’era solita trascorrere gran parte del suo tempo, giocando con i piccoli ragni bianchi e azzurri tipici di quella zona; per questo si era sempre sentita terribilmente in colpa e così giustificava la sua malasorte.

“Non lo dica con tanta leggerezza.” La balia la guardò intensamente, poi scosse la testa e sorrise.

“Avete ragione, signorina, tuttavia è bene apprezzare appieno i pochi momenti felici di questa vita: cercate di sorridere di più, per l’amor del cielo! Non troverete mai marito con quel muso lungo!”

Jacqueline si alzò e si diresse verso la cucina.

Il dolce suono di un piccolo carillon riecheggiava in tutta la casa, riempiendo gli ambienti vuoti e alimentando quelli in cui la servitù era intenta in opere di riorganizzazione e pulizia.

Era stato un regalo dei suoi genitori. Il più gradito, peraltro.

Era racchiuso in un cofanetto di noce con intarsi dorati e fiori in madreperla; essendo stato fabbricato da esperti artigiani, era unico nel suo genere. Unico e magnifico.

 

Pochi giorni dopo era arrivato il signor SnowMint e l’aveva portata di volata al North Brother Island, adducendo come motivazione lo sconvolgimento emotivo sotto cui si trovava la ragazzina; era stato da pochi anni aperto un reparto psichiatrico nella struttura e il signor SnowMint aveva pensato bene di affidare la ragazzina alle cure dei medici, siti in quell’ala.

Jacqueline non aveva sospettato nulla ma era certa che ci fosse qualcosa di sospetto in quel frettoloso trasferimento da una sede all’altra.

 

Si diresse verso la sala ricreativa e si sedette nel punto più lontano da tutti.

Circa trenta minuti di svago, poi li avrebbero ricondotti nelle loro celle, lasciati a consumarsi nelle loro congetture, nelle loro follie, nei loro sogni senza meta.

I malati mentali non ti infastidivano se tu non facevi altrettanto. Erano creature gentili e del tutto innocue, incomprese da famiglie troppo impazienti di liberarsene e porli, lì, in quelle strutture finalizzate alla loro ‘riconversione’, ‘guarigione’.

Jacqueline aveva imparato ad odiare il suono di quelle parole, apparentemente rassicuranti eppure così sbagliate. Letali. Odiava quelle stanze che puzzavano di disinfettante e di malattie, quelle stanze così bianche da sembrare l’Altrove, ciò che c’è dopo la morte.

Aveva scoperto il lato oscuro insito nel cuore di ognuno e di come quel male corroda, spenga e trasformi. E non in bene.

Non era mai uscita dal settore E. E come End, il loro.

Sapeva che negli altri settori vi erano lebbrosi, malati tumorali, malati di vaiolo, tifo e tutto ciò che di più terribile possa attaccare il corpo umano.

Che ci faceva lì? La sua presenza era una beffa di una crudeltà indicibile, disumana. Ma non era questo che la preoccupava. Almeno, non quanto i trattamenti a cui era sottoposta, tra cui l’elettricità, i bagni in acqua ghiacciata, l’isolamento; tutte cose che l’avrebbero certamente fiaccata nel corpo e nello spirito, rendendola un ecosistema vegetativo.

Come le aveva ripetuto un’infermiera, i matti non pensano. E se lo fanno, beh, tanto meglio indebolire le loro fantasie, cosicché non salti loro in testa di fare mosse azzardate.

 

Era venerdì, il giorno del dolce. Il giorno migliore di tutta la settimana.

Non era nulla di che, ovviamente, ma era la cosa più colorata e piacevole che avessero mai visto da quando avevano messo piede lì dentro.

Un muffin.

Burro e zucchero, panna montata o glassa, un morbido ripieno al cacao o alla frutta.

Jacqueline si guardò attorno. 

Ogni occupante della stanza, era intento in un’occupazione produttiva.

Se non combinavi nulla, venivi riportato nella tua cella e quindi era sempre un’ottima cosa mostrarsi intenti in una qualche attività.

Jacqueline stava tracciando i contorni di una piccola fatina dei boschi, che avrebbe poi arricchito di dettagli mediante tecniche come il chiaroscuro, le ombreggiature, il bassorilievo e via dicendo.

“Che noia, eh?” si girò di scatto, puntando gli occhi oltre la sua spalla sinistra, alla ricerca di quella voce tagliente e ironica che non poteva che rivolgersi a lei.

Era una bambina dai capelli corvini tagliati corti e penetranti occhi grigi, vestita in abiti discretamente eleganti, con dei piccoli mocassini di pelle lucida ai piedi.

Le stava alle spalle, scrutandola con curiosità.

“Chi sei? Devi essere una nuova. Non ti ho mai vista.”

Una soave e cristallina risata le accarezzò i timpani, facendola sorridere a sua volta.

Quella si chinò alla sua altezza e puntò lo sguardo su quella sala gremita di persone.

“No. Non sono una paziente in cura, s’è quello che pensi. Io sono… un ospite.”

Jacqueline soppesò le sue parole con attenzione.

Non erano ammessi ospiti nel North: creavano sempre scompiglio; rendevano ansiosi i pazienti e su di giri gli infermieri.

“Non ci sono ospiti al North.”

La bambina ridacchiò divertita.

“Ci sono ospiti di natura… differente. Ma non mi è concesso spiegarti nel dettaglio il mio compito qui, perciò non chiedere oltre.”

Jacqueline annuì, ma c’era qualcosa di sinistro in quella bambina. Ne era certa.

“Vuoi sapere come ci sei finita qui, Jacqueline? Tutte quelle domande sul perché ti trovi al North… Hanno un comune denominatore, sai? - la fissava con un’emozione particolare negli occhi - Sì. Sì, che lo sai. Il tuo caro zio Maxwell fa una vita da nababbo, ora. Ma non temere: tanto gli è stato dato e tanto di più gli sarà tolto.”

“C’è qualcosa di losco nel modo in cui sono finita qui. Qualcosa di disonesto. Io non sono pazza… Io, non lo sono. Ne sono sicura. ”

La bambina sorrise nuovamente: “Se non sei pazza, smettila di ripeterlo, allora. Finirai per convincertene ed è quello che loro si aspettano da te.”

Jacqueline annuì.

Quella strana creatura aveva ragione e scoprì, con sua grande sorpresa, che ammetterlo non le costava alcuno sforzo.

“Avrai un nome, suppongo.”

Lo sguardo della sua piccola interlocutrice si velò di una paura senza nome.

“Puoi chiamarmi L, se proprio devi, ma nulla di più ti sarà svelato, ne va del mio onore.”

La tipica e insistente campanella segnò la fine della pausa ricreativa e costrinse Jacqueline ad avviarsi verso la sua piccola cella spoglia.

Notò con la coda dell’occhio che era seguita da quella strana infante con quegli occhi grigi imperscrutabili. Severi.

“Che stai facendo? — le chiese allarmata — Qualcuno potrebbe vederti! Non ti permetteranno mai di entrare nella mia stessa cella! Devi per forza essere la figlia del proprietario del manicomio, non c’è altra spiegazione.”

L ridacchiò divertita. “Te l’ho già detto: sono un ospite in questo luogo. A me tutto è concesso.”

Jacqueline lanciò delle occhiate preoccupate ai suoi compagni di sventura, ma nessuno di loro sembrava essersi accorto di nulla. Solo un paio di infermiere si lanciarono delle occhiate d’intesa, dopo averla scrutata con apprensione.

Jacqueline si volse e puntò lo sguardo dritto di fronte a sé, cercando di non dare più nell’occhio.

Era meglio non attirare attenzioni indesiderate.

Una volta giunta di fronte alla sua cella, dovette ingoiare un mix di tranquillanti e antidolorifici, misti a sonniferi e anabolizzanti, che un’infermiera le porgeva con uno sguardo che non ammetteva un ‘no’ come risposta. 

La ragazzina si sdraiò sul letto e attese che il coma farmacologico le facesse dimenticare quei muri grigi scrostati e abbandonati all’umidità, mentre piccoli ragni bianchi e celesti tessevano infaticabili le loro tele volte a catturare, ghermire, soffocare.

Chiuse gli occhi e si lasciò portare via dalla corrente dei sogni, mentre L la osservava con un  accenno di tristezza in quegli occhi indecifrabili.

 

Le giornate si trascinavano lente e piovose, mentre il suo umore faceva pendant con il tempo atmosferico.

Ogni tanto conversava con L, ma solo per non perdere sé stessa in quel mare di pesci tutti simili, almeno nei destini e nel modo di vivere. Era difficile non impazzire, dove la pazzia era l’unica costante in un mondo che non faceva altro che declinare ciclicamente, come il sole.

Aveva notato che le infermiere erano sempre più concitate sul suo ‘parlare da sola’, sul suo ‘fingere’ di avere un amico immaginario.

Uno dei guardiani, addetto alle emergenze, le aveva consigliato di smettere, perché le cose sarebbero soltanto peggiorate e sarebbero solo arrivate ad un punto di non ritorno, ma Jacqueline non poteva.

Il cerchio non si era ancora stretto, come un cappio al collo, intorno a lei e finché aveva anche una piccola pozza in cui annaspare, lei avrebbe lottato.

“Dovresti smetterla e lasciarti semplicemente andare.”

L la osservava con disapprovazione.

“E poi? Io non voglio finire i miei giorni qui, L. Lo capisci?”

“Ma non hai scelta. Non l’hai mai avuta, forse.”

Jacqueline le lanciò un’occhiata gelida. “Non credo nel destino già scritto. Mi pare di avertelo già detto, peraltro. Voglio solo uscire di qui e vivere come una normale ragazzina della mia età. É così crudele che quel barbaro di mio zio mi abbia lasciata a marcire in questo luogo dimenticato da dio, mentre lui se la spassa al di là di queste mura.”

L si alzò e si diresse verso la parte opposta della sala ricreativa.

Jacqueline si chiese se non avesse parlato troppo e a sproposito. Forse era stata troppo dura con L, che peraltro, non aveva nessuna colpa del suo trovarsi al North.

Si alzò anch’ella e fece per seguire la bambina, ma venne fermata da due infermiere.

“L’accesso a questa zona, ti è negato, numero 75193. Di là, stanno i lebbrosi, i malati terminali… Tutti quelli che raccogliamo qui, concedendo loro una vita dignitosa, per quanto breve che sia. Se ci vai anche tu, poi ci dovrai rimanere: non possiamo rischiare che le due ale del North si sfiorino o si scatenerà un’epidemia generale, lo capisci?”

L’infermiera, giovane, sui trent’anni, la squadrò con occhi velati di inquietudine; Jacqueline poteva quasi fiutare la sua ansia che le scorreva nelle vene fino al cervello, accendendo campanelli d’allarme al suo passaggio. 

Sapeva che era meglio mostrarsi condiscendenti o ci sarebbero state ripercussioni, tra cui bagni in acqua gelida e l’essere inchiodati su di una sedia o un letto, con non sapeva quanti volt di corrente attraverso il corpo.

Sorrise all’infermiera, che si rasserenò e le sorrise a sua volta e poi guardò l’orologio: mancava davvero poco e presto sarebbe potuta ritornare nella sua cella per scusarsi con L.

 

 

Una volta sul letto, attese. Attese e attese ancora, ma di L nessuna traccia.

Quando fu certa che l’amica non sarebbe più venuta, si sdraiò e si lasciò cadere in un sonno senza sogni.

Fu svegliata da qualcuno che la scuoteva gentilmente, ma con insistenza una spalla.

Era L, che le sussurrava qualcosa con gli occhi pieni di un’emozione particolare.

“Stanno arrivando per te. Manca poco, Jacqueline.”

“Poco a cosa?” chiese con la voce ancora impastata da quel sonno travagliato.

“Non temere, mia cara. Io sarò con te.”

La porta della sua cella si spalancò di colpo.

E tre guardiani fecero il loro ingresso, agguantandola per le estremità e trascinandola chissà dove. Jacqueline non aveva la forza per opporsi e anche se l’avesse avuta, non avrebbe saputo dirsi per cosa lottare.

Venne portata in una stanza candida, canuta come la neve di un pallido mattino invernale, e legata stretta stretta ad un tavolo operatorio.

Suo zio SnowMint entrò e si sedette di fronte a lei.

“I dottori hanno saputo da alcune infermiere che hai la brutta abitudine di parlare da sola e, inquietati di questa tua… strana tendenza, mi hanno chiamato subito. E io sono venuto! Certo, che sono venuto! Per la mia piccola nipote, questo ed altro! Ora, suvvia, mia cara, non hai più l’età per credere a cose come un amico immaginario o i folletti dispettosi! Perciò, e lo capisci anche tu, non è vero? Certo, che lo capisci anche tu! Dunque… Oh sì! Perciò abbiamo deciso di ‘guarirti’ da questo disturbo. E dove anche l’acqua santa fallisce, forse ci può arrivare la scienza, non credi?”

Calde lacrime solcarono le colline di epidermide del viso di Jacqueline. Non sapeva spiegarsi questo accesso di emotività, ma era certa che le sarebbe accaduto qualcosa di spiacevole. Se lo sentiva.

“Niente lacrime, per cortesia! Le belle bambine non piangono! Ora, sarà una cosuccia da nulla, mia cara! Un colpetto e via! Non te ne accorgerai neppure! Ah, ecco il medico!”

SnowMint si levò e andò a stringere con calore la mano del medico che si sarebbe occupato dell’operazione.

Jacqueline era disgustata da tutta quella gioia insita nelle movenze di suo zio: era certamente un’altro asso che sarebbe finito nelle pieghe della sua manica, per restarvici.

SnowMint le si avvicinò e le diede un buffetto affettuoso sulla testa, poi uscì.

L, che si era tenuta nel punto più buio della stanza, la raggiunse e le strinse la mano, cercando di farle coraggio, mentre i medici e gli infermieri preparavano l’attrezzatura.

“Ora ogni cosa mi sembra chiara, L. Ma poi? Cosa accadrà? É questo che mi spaventa… É come volare continuamente tra nuvole fatte di sogni, senza sapere quando si andrà a sbattere contro qualcosa. Dopo sarò ancora io o sarò qualcun altro? O non sarò proprio, che è quello che più mi preoccupa di più?”

“Non temere, Jacqueline. Sarà tutto unico e magnifico, come le note del tuo carillon, hai presente? Le senti? Focalizzati su quelle melodie gradevoli e articolate. Non esiste il dubbio, solo cose che non si conoscono. Ora forza, pensieri felici!”

Due infermiere le tennero ferma la testa, mentre il dottore le si avvicinò con in mano uno scalpello e un rompighiaccio sterilizzato.

Jacqueline prese a dimenarsi, sotto gli occhi dispiaciuti di L, ma fu tutto inutile.

“É questione di un attimo, cara. Solo un attimo.” le disse il dottore con voce suadente, melliflua.

Puntò il rompighiaccio all’altezza del lobo frontale della paziente e caricò il colpo con lo scalpello.

Jacqueline non lo vide arrivare, perché tutto si fece buio prima.

 

 

“Grazie mille, dottore. Lei mi ha risolto diversi problemi.” SnowMint stringeva con vigore la mano del dottor Bougies.

“Lei mi ha reso il portafoglio un po’ più pesante e di conseguenza il cuore un po’ più leggero, signor SnowMint. Le sono debitore.” rispose l’altro con un sorriso a trentatré denti.

“Sciocchezze! Lei mi ha reso l’uomo più felice della mia vita! C’era sempre lo spauracchio che qualcuno guardasse nel punto giusto e scoprisse la verità, ma ora sono molto, molto più sollevato.” SnowMint gli passò un sigaro e glielo accese con garbo.

“Vi capisco perfettamente, ma abbiamo agito per tempo: sarebbe solo divenuta un peso per lei e per la società; questi matti… Ci faranno ammattire pure noi! — il dottor Bougies sorrise della sua battuta poco velata, seguito dall’interlocutore che sprizzava gioia da tutti i pori. — É un’operazione complicata e, purtroppo, non va sempre per il meglio. Condoglianze, amico mio.”

“Eh già! Parole sante! Dove devo firmare per sollevare il North da ogni responsabilità?” chiese con impazienza, sfregandosi le mani, SnowMint

“Vieni, che ti faccio strada.” Bougies gli indicò la zona della reception e si avviò, tallonato dall’altro.

 

Un infermiera corse verso SnowMint con un pezzo di carta igienica con poche righe su di essa.

“Che significa?” chiese con diffidenza l’uomo, mentre prese a leggere con avidità.

 

Il genere umano è crudele, piccola Jacqueline. E tu sei agnello senza macchia tra leoni dal pelo chiazzato. Sarai in un posto al sole, ora, tra le dolci note del tuo amato carillon. Potevi scorgermi, perché stavi per svanire, così com’io svanisco quando la vostra ora non è ancora scoccata. 

Piccola dolce Jacqueline, tu stai in un posto al sole, mentre SnowMint andrà nelle fauci infuocate, senza un posto all’ombra.

 

SnowMint tremò e accartocciò con violenza quel pezzo di carta nefasto, il penultimo favore di L, gettandolo nel cestino assieme a quella strana inquietudine che si era impadronita di lui. 

L’ultimo sarebbe stato la rescissione del filo rosso che scandiva la sua esistenza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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