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Autore: Carlos Olivera    16/12/2014    5 recensioni
Questa storia partecipa al Contest Child!characters Contest indetto da gnarly sul forum di Efp
Non c'è bambino in tutto Celestis che non aspetti con ansia la vigilia di Natale.
In quella magica notte, Nehryane, la madre di tutti i sogni, la più magica delle creature, solca il cielo alla guida di un cocchio fatato, trainato da cavalli bianchissimi, lasciandosi dietro comete di luce.
Chiunque abbia un sogno, o desideri qualcosa con tutto sé stesso, dovrà solo credere, e Nehryane lo esaudirà.
Non c'è desiderio che la Madre dei Sogni non possa realizzare. Anche il più impossibile.
Genere: Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Tales Of Celestis'
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Scendeva la neve, candida e soffice come una pioggia di petali, sulle basse montagne nei pressi di Rubinheim, e nella grande tenuta della famiglia Horstmayer fervevano i preparativi per la grande festa di Natale cui l’indomani avrebbero preso parte centinaia di invitati.

La contessa Anna, padrona di casa, dirigeva i lavori, forte di una eleganza signorile e di una autorità che ne avevano fatto negli anni una delle nobildonne più rispettate di Amaltea, sorvegliando personalmente l’allestimento delle decorazioni nell’ampio salone delle feste, la stanza più grande e sfarzosa della villa, coperta di stucchi dorati e arredata con le stoffe e i paramenti più ricercati, che si fondevano superbamente con quadri, statue ed affreschi.

Lo sfarzoso e imponente tavolo da pranzo era stato momentaneamente allestito per ricontrollare un’ultima volta l’assegnazione dei posti e il buon accostamento di colori tra il rosso dei tessuti, l’argento delle stoviglie e il bianco dorato delle stelle di montagna; all’ultimo momento il Cardinale Diamanti aveva confermato una partecipazione in un primo momento cortesemente declinata, ed essendo sua eccellenza allergico alle orchidee alpine era stato necessario trovare in tutta fretta dei degni sostituti, ma alla luce del risultato finale anche così l’allestimento risultava di eccellente fattura.

Eleonor aveva dovuto fare i salti mortali per procacciarsi quei fiori, e non poté non manifestare il proprio sollievo di fronte alla tacita approvazione della madre, ringraziando con il pensiero il fioraio di fiducia che, pur di ingraziarsi ulteriormente la più importante famiglia della città, aveva aperto il suo negozio il giorno prima di Natale.

«Mi raccomando, lucidate bene!» continuava a ordinare la contessa alle sue cameriere. «Lustrate piatti e calici come si conviene! Non tollererò mi si derida come lo scorso anno a causa della vostra inettitudine!»

«Madre, vado a controllare le stanze per gli ospiti» disse la figlia Eleonor.

Lasciato il salone la donna si recò quindi ai piani superiori, dove anche lì l’attività era a dir poco frenetica, con letti da rifare, pavimenti da spazzare e bagni da preparare. Alcuni ospiti erano già arrivati con le rispettive famiglie, ma la maggior parte, soprattutto i dignitari stranieri e i membri dell’Ordine della Corona d’Alloro, sarebbero giunti solo il giorno dopo, giusto in tempo per darsi una sistemata ed essere pronti a presenziare alla festa.

Lungo il corridoio incontrò sua figlia, Alexia, sulla grande poltrona dove era solita sedere, con in mano uno dei suoi libri di favole preferiti, "Il Treno della Fantasia", di cui ormai conosceva le parole quasi a memoria.

La malinconia e l’apparente tristezza che trasparivano dalla sua espressione stonavano incredibilmente con i grandi occhi chiari, i lunghissimi capelli biondi raccolti in eleganti boccoli spumosi e il fisico minuto, persino troppo per una bambina di quasi dieci anni.

Da parecchio tempo per Alexia il Natale aveva cessato di essere un momento felice, e neppure la presenza dei suoi migliori amici, che Eleonor aveva guadagnata dopo una lunga e litigiosa discussione con la propria madre, sembrava averle risollevato il morale.

Quel libro era il suo tesoro: ne aveva parecchi, forse neppure sapeva quanti di preciso, ma quello era speciale, diverso da tutti gli altri perché glielo aveva regalato una persona altrettanto unica, quasi un fantasma, tanto rare erano le occasioni in cui si erano incontrati.

«Alexia?»

Ma la bambina non rispose, gli occhi incollati al libro.

«Hai intenzione di non parlarmi per tutta la durata delle feste?» sospirò la donna. «Senti, mi dispiace. Non è stata colpa mia. Ma ha promesso che tornerà al massimo il prossimo weekend, prima che finiscano le vacanze.»

«Lo aveva detto anche l’anno scorso.» fu la risposta acida della bambina.

«Tu mi farai diventare matta. Credi di essere l’unica bambina il cui padre non c’è mai? Il papà della tua amica Feng passa almeno sei mesi all’anno lontano da casa, eppure lei non mette il broncio facendo i capricci come fai tu.»

«Ma lui non resta lontano da casa la vigilia di Natale.»

Eleonor riusciva a capire quello che stava provando sua figlia, per questo non se la sentiva di rimproverarla eccessivamente.

Da ufficiale di marina Arlen non aveva orari, e anche durante i brevi periodi di licenza non era raro che venisse richiamato improvvisamente in servizio; quello sarebbe stato il terzo Natale che avrebbe passato lontano da casa, complice un guasto al veicolo di trasporto della stazione spaziale che gli avrebbe reso impossibile essere a casa in tempo per Natale.

Nonostante ciò, Arlen poteva essere tante cose ma di certo non un padre assente: dava valore a ogni singolo momento che trascorreva con la sua unica, adorabile figlia, e mentre era via la sommergeva di videomessaggi chiamandola ogni volta che poteva, anche nel cuore della notte se le circostanze lo imponevano.

Alexia comprendeva le difficoltà dettate dal lavoro del padre, ma essere costretta a guardare i suoi amici trascorrere il giorno più bello dell’anno con entrambi i genitori, mentre i suoi erano uno perennemente fuori casa e l’altra preoccupata più d’intrattenere gli ospiti che di pensare a lei, la faceva sentire incredibilmente triste.

Affranta, Eleonor se ne andò, e dopo poco due bambini più o meno della stessa età di Alexia comparvero nel corridoio rincorrendosi l’un l’altro; lui aveva capelli castani corti, occhi scuri e un’espressione sbarazzina, lei invece tratti degli abitanti delle isole orientali, una lunga chioma nera raccolta in eleganti trecce ad anello e profondi occhi blu.

«Alexia!» disse lei notando l’amica. «Che fai qui tutta sola? Forza, gioca con noi!»

«Non mi va, Feng.» rispose mogia Alexia.

«Ancora con quel muso lungo?» replicò l’altro. «Ma dai, non è mica la fine del mondo.»

A quell’affermazione Alexia abbassò ancora di più lo sguardo, e una parvenza di pianto comparve nei suoi occhi.

«Sei davvero un’aquila, Brando.» lo rimproverò Feng. «Però, d’altra parte, non posso dargli torto Alexia. È inammissibile avere un’espressione tanto triste e sconsolata la Vigilia di Natale. Forza, vieni a giocare fuori. Vedrai che un’entusiasmante battaglia di neve ti risolleverà subito.»

Di nuovo Alexia cercò di obiettare ma, prima che potesse farlo, Feng e Brando l’avevano già afferrata per le braccia trascinandola giù dalla poltrona.

Raggiunto l’atrio principale, si scontrarono involontariamente con una giovane coppia abbigliata con pomposa eleganza, che stava varcando in quel momento il portone d’ingresso, e un inserviente piegato in due sotto il peso del loro voluminoso bagaglio. Con loro c’era un bambino, basso e abbastanza in carne, capelli a caschetto rosso spento e lenti rotonde, il volto paffuto e lentigginoso che unito al grosso libro sottobraccio lo faceva sembrare più grande di quanto doveva essere in realtà.

«Alexia» disse il padre carezzandole vigorosamente la testa. «Da quanto tempo! L’ultima volta che ti ho vista stavi in una mano!»

«Signor Roth» rispose lei quasi imbarazzata. «Cosa ci fa lei qui?»

«Che domande, ci ha invitati tua madre. A quanto pare alla fine si è ricordata di noi.»

I signori Roth erano quelli che la Contessa definiva, non senza un certo disappunto, i Ricchi Popolani: si erano trasferiti a Kyrador dalla campagna caldesiana subito dopo il matrimonio, con una valigia ciascuno e qualche migliaio di kylis in tasca, e una volta lì avevano avuto l’accortezza di investire nel settore del divertimento; ora possedevano due aeronavi da crociera, e era stata proprio la passione comune per i viaggi a far incontrare le due famiglie.

Arlen in particolare aveva molta simpatia per i Roth, anche se negli ultimi anni, con il ritorno degli Stirling ad Amaltea, i rapporti si erano un po’ diradati. Forse era stato per la speranza, che anche lei malgrado tutto nutriva, di veder tornare il marito in tempo per le feste che Eleonor aveva voluto invitarli, pur sapendo quale fosse l’opinione della madre nei loro riguardi.

«Sei carina come ti ricordavo» disse la signora Roth. «E mi hanno detto che sei sempre buona come il pane. Scommetto che stanotte Nehryane ti porterà un sacco di regali.»

Il figlio sembrava completamente estraneo alla discussione, e aperto il libro aveva preso a sfogliarlo disinteressato, alzando solo di tanto in tanto e per brevi occhiate lo sguardo dalle pagine.

«State andando a giocare?» domandò il signor Roth.

«Sissignora!» disse sguaiatamente Brando. «Maratona di pattinata sullo stagno ghiacciato e poi grande battaglia di palle di neve!»

«Bravissimi, così si fa» disse la moglie. «Alla vostra età il gioco deve essere la prima cosa. Everett, perché non vai anche tu?»

«Non ne ho voglia» tagliò corto il bambino, al che il padre, con sguardo truce, gli sfilò letteralmente il libro dalle mani. «Ma, papà…»

«Quando sarai più grande potrai rimbecillirti nello studio finché vorrai, ma per ora le tue priorità sono altre! Senza contare che un libro scolastico è l’ultima cosa che un bambino dovrebbe tenere in mano la Vigilia di Natale. Quindi ora vai fuori con questi bambini e impara a divertirti.»

Visibilmente contrariato Everett venne a sua volta trascinato via da Feng e Brando, sotto lo sguardo severo e quasi offeso della Contessa che li osservava dall’arco che immetteva nel salone.

«Ecco perché disapprovo i nobili per raccomandazione. Come si può pensare di tirare su un degno erede inculcandogli in testa simili sciocchezze?»

«Madre, voi forse dimenticate che Alexia è una bambina, prima che una Horstmayer» le rispose, non senza una certa veemenza, la figlia.

«Quelli come loro non capiranno mai le difficoltà del dover mantenere alto il prestigio di un casato. La nostra famiglia ha origini antichissime. I nostri antenati furono tra coloro che firmarono la carta che sancì l’alleanza tra umani e maghi quasi cinquecento anni fa. E Alexia, che ti piaccia o no, è la mia unica nipote. Il fardello che io porto, e che non sarà mai tuo, un giorno passerà a lei. Non è mai stata solo una bambina.»

«In questo momento, tutto quello che lei vorrebbe è avere suo padre vicino. E a te questo sembra non importare.»

«Non sono io quella che ha sposato un uomo sapendo che il suo destino sarebbe stato il dover passare quasi tutto il suo tempo lontano da casa. Ti avevo avvertita, se non sbaglio. Tu hai voluto seguire i tuoi sentimenti invece del giudizio di tua madre, e ora tua figlia ne paga le conseguenze.»

 

Sul retro del giardino della tenuta c’era un punto in cui la neve che cadeva copiosa in quell’angolo di Amaltea si accumulava sempre in gran quantità, tanto che mettendoci un po’ d’impegno era possibile addirittura scavare delle gallerie sotterranee per disputare memorabili battaglie.

Feng e Brando non erano cresciuti negli allori e nell’agiatezza: il papà di Feng lavorava come chef a bordo delle astronavi da crociera, dove cucinava piatti tipici del suo Paese d’origine, Xenzhen, il padre e la madre di Brando invece gestivano un panificio. Come i rispettivi genitori, entrambi avevano ereditato uno spiccato talento per la cucina, e durante le lezioni di economia domestica non c’era nessuno capace di reggere loro il confronto.

Anche caratterialmente erano piuttosto simili, ciò spiegava come mai fossero così amici fin dai tempi dell’asilo. La differenza era che Feng ogni tanto riusciva anche ad essere seria, cosa che a Brando sembrava risultare quasi impossibile, almeno per quanto ricordasse Alexia.

Ma quel giorno, come aveva detto saggiamente il padre di Everett, la serietà era bandita: contava solo divertirsi.

Come al solito Brando volle fare l’eroe della situazione, e calatosi nella parte di un prode cavaliere invitò i due orribili draghi a misurarsi con lui, ricevendo subito in cambio una raffica di palle di neve.

Alexia riuscì a lasciarsi andare quasi subito; rinchiusa nella sua pesante ma elegante giacca bianca, con il colletto sollevato e la sciarpa rossa a sbucare come un batuffolo fuori dal bavero, sembrava il ritratto della spensieratezza, e se c’era una cosa che i suoi amici riuscivano a fare molto bene questa era senza dubbio il liberarla da tutti i suoi brutti pensieri.

Chi non riusciva proprio a farsi prendere dall’entusiasmo, invece, era Everett, ma gli altri tre si stavano divertendo troppo per rendersene conto.

«Voi che cosa avete chiesto a Nehryane per Natale?» chiese Brando. «Io personalmente non vedo l’ora di ricevere i nuovi stivaletti a levitazione.»

«Io invece vorrei il bastone magico della Toys&Toys, quello della pubblicità con Teddy» rispose Feng con aria incantata. «È così bello e sbrilluccicoso. E poi permette di maneggiare incantesimi elementari. Al solo pensiero degli scherzi che farò a quella odiosa della professoressa Agama mi viene da ridere.»

«Che assurde sciocchezze.» sbottò in quella Everett, guadagnandosi le occhiate storte dei due bambini. «Non siete un po’ troppo grandi per credere ancora a Nehryane

«Ma sentilo, avrai sì e no la nostra stessa età» replicò Feng. «Chi ti credi di essere?»

«Nehryane è solo una favola. Sono i vostri genitori che mettono i regali sotto l’albero mentre voi dormite. Non ditemi che non lo sapevate.»

«Impossibile» protestò Brando. «I miei genitori la notte lavorano sempre, anche quella della Vigilia. Infatti arriveranno solo domani mattina.»

«A maggior ragione. Visto che sono svegli, possono farlo senza che tu te ne accorga.»

«Sei davvero così sicuro che Nehryane non esista?» domandò Alexia. «E se invece esistesse?»

«Impossibile. Come farebbe a consegnare milioni di regali nel giro di ventiquattro ore?»

«Con la magia.»

«Ci sono dei limiti a quello che la magia può fare. Posso dirlo con certezza. Ho già letto opere come il trattato sulle applicazioni magiche di Arthur Felmal e le Discussioni di Magia di Potier, e a ragione di ciò posso affermare senza ombra di dubbio…»

Una palla scagliata senza troppa forza gli si infilò nella bocca aperta, cogliendolo del tutto impreparato e facendolo cadere all’indietro con la faccia nella neve.

«Come ti sei permesso?» ringhiò rialzandosi in piedi, il volto tutto rosso e gli occhiali infradiciati.

«Dopo tutto quel parlare, temevo ti si fosse seccata la bocca» disse Brando trovando a stento il fiato tra una risata e l’altra. «Così ti  ho dissetato.»

«Tu, maledetto! Se è questo che vuoi ti accontento subito!»

A quel punto la battaglia si scatenò furibonda, uno spassosissimo tutti contro tutti cui assistevano, divertiti, anche i camerieri e gli inservienti dalle finestre che davano su quel lato.

«Hai visto, non ci voleva niente» rise Feng quando fu evidente che ormai Everett aveva gettato la maschera.

Giocarono come matti per tutta la mattina, dimenticandosi persino del pranzo, e nel primo pomeriggio erano tutti e quattro così stanchi che dovettero fermarsi per forza di cose.

«Ragazzi, sono esausto» disse Brando abbandonandosi sulla sedia di un tavolino in una anonima stanzetta attigua alle cucine. «Però complimenti, Evy. Ci sai fare con le palle di neve.»

«Ancora con questo Evy! Io mi chiamo Everett!»

«È troppo lungo» sorrise il bambino divertito. «Qui abbiamo tutti dei soprannomi. Io sono Bray, Alexia è Lyx, tu sei Evy, e Feng…»

«Sì?» domandò l’interessata ansiosa.

«Lei è un caso a parte.»

«Grazie di niente, maleducato!»

Tutti risero di gusto, poi una cameriera venne a portare loro qualcosa da mangiare per contrastare il brontolio di stomaco.

«Allora, scherzi a parte» disse Brando mentre affondava i denti nel suo panino. «Che cosa vorresti che Nehryane ti portasse per Natale, Evy

«Ancora con questa storia? Nehryane non esiste! È solo una favola.»

«Fai finta che non sia così.» lo incalzò Feng.

«Beh» tossì lui. «Se proprio dovessi stare al vostro gioco… c’è un manuale sulle applicazioni magiche nell’ingegneria spaziale che non ho chiesto ai miei genitori…»

«Perché speravi che te lo portasse Nehryane, prova a negarlo.»

Il suo rossore imbarazzato fu più che eloquente, ma per non abbassarsi ad ammettere ciò che in realtà era palese, il bambino preferì cambiare argomento.

«Lo sapete? Ho letto un libro sulle antiche leggende terrestri tempo fa. Anche i nostri antenati aspettavano di ricevere i regali la notte di Natale, ma non li portava Nehryane

«E allora chi li portava?» chiese incuriosita Alexia.

«Un certo Santa Clause. Un vecchio grasso e barbuto vestito di rosso che viaggiava a bordo di una grossa slitta infilandosi nei camini.»

«Ma dai, non è possibile» disse Brando. «Un vecchio che consegna i regali e realizza i sogni. Come può sperare di competere con Nehryane

«Detesto ammetterlo, ma stavolta sono d’accordo con lui» disse Feng. «Nehryane è la personificazione dei sogni di tutti i bambini. È giovane, bellissima, indossa un abito azzurro fatto di neve e di ghiaccio, e attraversa le stelle in sella ad un carro d’oro tirato da cavalli bianchissimi. Questo Sanny Clause grasso e rosso non ha niente a che vedere con il Natale.»

«In realtà ci sono molte leggende attorno a Nehryane» puntualizzò Everett. «Quella del carro e del vestito è solo una delle tante. Secondo alcuni non ha una forma prestabilita, ma può trasformarsi a seconda delle necessità.»

«E poi in realtà Nehryane non si limita a portare i regali» incalzò Alexia. «Il suo vero potere consiste nel realizzare i sogni di chi crede in lei.»

Nel dire quelle parole, però, la bambina non riuscì a non ripensare al sogno che neppure Nehryane sarebbe stata in grado di realizzare, e allora la tristezza che Brando e Feng erano faticosamente riusciti a farle dimenticare tornò a stringerle il cuore.

Se solo fosse esistito davvero il treno magico della sua favola preferita; quello che portava le persone nel luogo dove più desideravano, attraversando mari e monti, stelle e pianeti, Avrebbe potuto portarla dal suo papà, e farla stare insieme a lui almeno il giorno di Natale.

Purtroppo era destinato a rimanere un sogno, perché, come aveva detto Everett, c’era un limite a ciò che la magia era in grado di fare, e in verità anche lei, malgrado tutto, sentiva di non avere più la forza di credere veramente in Nehryane.

Poco dopo iniziò lo show della Strega Balcocca e i quattro bambini ne vennero immediatamente catturati, perdendosi dietro le avventure surreali e tragicomiche della piccola streghetta aspirante cattiva, ma il cui buon cuore e la comprovata capacità di cacciarsi nei pasticci ne facevano sempre una involontaria eroina.

Ancora una volta Alexia provò a farsi trascinare dall’entusiasmo dai suoi compagni, ma stavolta la sua mente era inesorabilmente occupata da altri pensieri, tanto che le risate grottesche ma esilaranti di Balcocca e il suo famoso gracchiare forzato della voce le giungevano solo come un distorto rumore di fondo, quasi incomprensibile.

D’un tratto, voltato quasi per caso lo sguardo oltre la porta finestra, scorse nitidamente una piccola macchia rossa aggirarsi nel cortile.

Una volpe, come ce n’erano tante in quella zona, dove la foresta arrivava a lambire con le fronde la cancellata della villa, riempiendo di verde le pendici dei monti circostanti.

Non era la prima volta che ne vedeva una, eppure le venne voglia di seguirla, un po’ per cercare di trovare qualcos’altro a cui pensare, un po’ per una ragione che neppure lei riusciva a spiegarsi.

I suoi compagni non la videro allontanarsi, tanto erano presi dalle avventure di Balcocca, e la bambina, rinchiusasi di nuovo nel suo largo cappotto impellicciato, si avventurò ancora una volta all’esterno.

La volpe tergiversò, tenendo il suo sguardo attento rivolto verso quel cucciolo d’uomo che si avvicinava a piccoli passi, senza apparenti intenzioni bellicose, ma all’ultimo, forse spaventata da un gesto inconsulto, girò i tacchi e corse via in tutta fretta incuneandosi tra le sbarre del cancello.

«Aspetta!» disse Alexia correndole dietro.

Con molta fatica la bambina riuscì a sua volta ad oltrepassare la recinzione, e pur riuscendo a scorgere solo un batuffolo rosso che si allontanava di gran carriera le corse comunque dietro, inoltrandosi nella foresta.

«Perché scappi? Non voglio farti male!»

Alexia attraversò sentieri, scalò rocce, saltò ruscelli ghiacciati o tramutati in rigagnoli di acqua gelida, mentre tutto attorno a lei calava un silenzio quasi assoluto, rotto solo dal frusciare del vento tra le fronde e il verso sommesso di qualche altro animale nascosto nel fitto degli alberi.

Alla fine dovette fermarsi, stanca e senza fiato, ma grande fu il suo stupore quando, alzati gli occhi, si avvide che la piccola volpe era ancora lì, appena visibile, girata verso di lei come se stesse aspettando di farsi nuovamente inseguire.

Ma ormai Alexia non ce la faceva più, e resasi conto di quanto lontano doveva essersi spinta provò quasi paura.

D’un tratto, una voce parve riecheggiarle nelle orecchie.

«Perché gli uomini cercano il cielo pur essendo delle creature senza ali?»

La bambina si riscosse, spalancando stupita i grandi occhi scuri, e procedendo a piccoli passi nella direzione in cui aveva visto per l’ultima volta la volpe, ora sparita, raggiunse infine una piccola radura circolare coperta di neve, dove il sole, riflettendosi su una vicina parete rocciosa, proiettava una luce diversa, quasi irreale.

Al centro dello spiazzo, insolita per un luogo così apparentemente isolato e fuori dal mondo, una statua di donna si ergeva su un piedistallo, inginocchiata come in preghiera, gli occhi socchiusi, le mani poggiate sulle ginocchia e i lunghi capelli che ricadevano fluenti sulle spalle, lasciate scoperte dalla lunga veste riccamente decorata con motivi floreali.

Era così strana, così bella.

La bambina ne rimase rapita, quasi ipnotizzata, e sedette sulla neve ad osservarla mentre il freddo volto di pietra pareva quasi muoversi, scostando le palpebre, piegando le labbra, e volgendo impercettibilmente il volto in direzione della piccola spettatrice.

Di nuovo, Alexia ebbe l’impressione di sentire quella voce nella testa, ripetere sempre la stessa domanda, come a sollecitare una risposta da parte sua.

Si sentì scuotere all’improvviso.

«Alexia!»

Lei quasi svenne per lo spavento, e voltatasi si trovò a tu per tu con gli amici.

«Che cosa ci fate qui?»

«Dovresti dircelo tu» replicò Brando, irritato. «Come ti è saltato in mente di sparire così? Per fortuna che abbiamo potuto seguire le tue impronte, altrimenti non ti avremmo mai trovata!»

Tutti e tre poi furono a loro volta attratti dalla statua, restandone ugualmente colpiti.

«È molto bella» osservò Feng. «Fa un certo effetto vederla qui. Chissà chi l’avrà costruita.»

«A vederla sembra nuova» disse Everett. «Ma probabilmente risale alle prime spedizioni. I coloni erano soliti lasciare tracce del loro passaggio ovunque andavano, e se non sbaglio il primo embrione della futura Rubinheim sorse proprio da queste parti. Forse è un monumento per commemorare il loro arrivo in questa regione.»

«Tornando a noi, come sei finita qui?» domandò ancora Brando. «Hai idea di quanto abbiamo dovuto correre per raggiungerti?»

«Scusate, è che avevo visto una volpe, e..»

«Una volpe!?» esclamò Feng. «Sei matta!? Non lo sai che non si dovrebbero mai inseguire le volpi?»

«Perché?»

«Sono animali magici, oltre che molto intelligenti. Si dice che amino giocare scherzi alle persone e irretirle con miraggi per farle perdere nei boschi.»

«Ancora con queste favole» sospirò Everett. «Sono tutte leggende! Come potrebbero le volpi essere magiche? È risaputo che gli unici esseri viventi capaci di controllare la magia sono gli uomini.»

«E i famigli allora?» chiese Feng, provocatoria.

«I famigli hanno un DNA parzialmente umano. Non sono animali veri e propri. E comunque le loro capacità magiche sono piuttosto limitate. È vero, le volpi secondo alcune leggende sono considerate messaggeri divini, qualcuno le associa persino alle favole su Nehryane, ma come ho già ripetuto fino alla nausea, si tratta solo di racconti. Figuriamoci se le volpi sono capaci di usare la magia!»

Alexia restò in silenzio, pensierosa e un po’ confusa, quando un grosso fioco di neve discese placidamente dal cielo dinnanzi a lei, posandosi sulla punta del suo naso e facendola starnutire.

Il cielo, da terso che era, si era improvvisamente oscurato, e dalle nuvole cominciavano già a discendere le prime avvisaglie di una imminente, copiosa nevicata.

«Accidenti, questa non ci voleva» ringhiò Brando. «Se non ci sbrighiamo la neve cancellerà le nostre impronte. Forza, andiamo via!»

Alexia seguitò a osservare la statua fino a quando, trascinata letteralmente via dall’amico, non la vide scomparire tra le fronde mentre quella leggera spruzzata di neve si tramutava rapidamente in un principio di tempesta.

I quattro riuscirono a seguire le tracce per alcuni metri, ma poi le impronte cominciarono a diventare sempre meno nitide, fino a scomparire del tutto.

Provarono a seguire l’istinto, puntando sempre verso il basso, sicuri di arrivare prima o poi al limitare della foresta, ma in verità nessuno di loro conosceva abbastanza quella zona da potersi orientare con precisione, meno che meno con una tempesta che diventava sempre più forte.

«Non ditemelo» mormorò ad un certo punto, sconsolata, Feng. «Ci siamo persi!»

Il freddo ed il vento erano insopportabili, si infilavano nei vestiti e tagliavano la pelle, ed era solo il pensiero di potersi sostenere gli uni con gli altri a trattene i bambini dal mettersi a piangere disperati.

Brando era l’unico che sembrava mantenere un certo autocontrollo, forte di una volontà e di una perseveranza che tutti i suoi amici bene o male gli riconoscevano, ma anche lui ad un certo punto parve farsi prendere dallo sconforto.

Quanto ad Alexia, si sentiva malissimo, perché sapeva che quella situazione era in parte colpa sua.

Forse Feng aveva ragione: era davvero caduta nella trappola della volpe, e aveva finito per trascinarci anche i suoi amici.

La frustrazione e lo sconforto erano tali da non farle prestare attenzione a dove metteva i piedi, e proprio mentre il gruppo stava sostando accanto a un ripido pendio, una lastra di ghiaccio nascosta sotto la neve la riportò crudelmente alla realtà.

«Alexia!» gridarono tutti vedendola cadere.

Con l’istinto e la forza della disperazione la bambina riuscì ad afferrare un pugnetto d’erba che emergeva da sotto il manto bianco, e anche se questa si strappò quasi subito, Brando ebbe il tempo di afferrarla per un polso, venendo a sua volta afferrato per il braccio libero da Feng ed Everett.

«Tranquilla! Ti teniamo!»

Purtroppo il ghiaccio c’era anche per loro, e quando Everett, tirando, vi passò sopra, tutti e quattro scivolarono rovinosamente nel pendio, ritrovandosi immersi in quasi mezzo metro di neve sul fondo di una stretta gola, probabilmente una spaccatura nella roccia dove durante la bella stagione scorreva un ruscello.

«State tutti bene?» domandò Brando.

«Mi dispiace, sono scivolato.»

Subito Brando cercò di risalire, ma si accorsero ben presto che le pareti erano troppo ripide e fradice per arrampicarvisi.

«Siamo bloccati.»

E allora, negli occhi di tutti comparve la paura.

 

Rapidamente com’era arrivata, la tempesta si placò, e il sole ebbe appena il tempo di ricomparire oltre le nuvole prima di iniziare la sua rapida, inesorabile discesa oltre le montagne, lasciando spazio alla notte più magica dell’anno.

E a ogni stella che compariva nel cielo, Eleonor era sempre più preoccupata.

Gli inservienti avevano cercato dappertutto, ma Alexia e i suoi amici sembravano scomparsi nel nulla. Anche i genitori di Everett erano preoccupati; del resto, era la prima volta che il figlio li faceva stare in pensiero.

«Ma si può sapere dove sono finiti?» domandò la donna guardando fuori per l’ennesima volta e sentendo montare la preoccupazione. «Avete cercato con attenzione?»

«Stiamo perlustrando ogni singola stanza della villa mia signora, oltre al cortile e alle zone attigue alla tenuta» rispose educatamente il maggiordomo. «Non abbia timore, li troveremo.»

«Quella piccola peste. Ma che le sarà saltato in mente?»

«Quando salterà fuori, sarà il caso di farle un bel discorsetto» disse severa la Contessa. «A quanto pare non sei stata abbastanza severa.»

«Non è questo il momento per parlarne, mamma.»

«Non è mai il momento, Eleonor. Già il fatto che tua figlia sia praticamente cresciuta senza un padre la dice lunga sul tipo di educazione che sicuramente le avrai impartito. Ti ho vista tutte le volte che le perdonavi quello che faceva, o passare sopra i guai in cui puntualmente si va a cacciare, come in questo caso. Dare troppa corda ai figli significa mandarli alla deriva, poiché non capiranno mai il senso del dovere e della disciplina.»

«Proprio tu mi parli di dovere?» sbottò a quel punto Eleonor, rossa in volto e con gli occhi lucidi. «Tu che tutto sei stata per me fuorché una vera madre?»

La Contessa rimase di sasso, facendosi più bianca dei suoi capelli, argentei fin da quando era venuta al mondo, a testimoniare l’immenso patrimonio in fatto di abilità e capacità arcane che quella donna custodiva in grembo.

«Da quando sono nata, non ricordo una sola volta in cui tu sia stata per me una vera madre! Tu per me non c’eri mai, e quelle poche volte che stavamo insieme mi sembravi quasi un’estranea! Non lo so se fosse perché non ero al tuo livello, né lo sarei mai stata, o per il tuo considerarmi solo un intermezzo, un’incubatrice da cui doveva emergere la tua vera erede, ma da parte tua non ho mai sentito un vero affetto nei miei confronti! La verità è che quel potere di cui vai tanto fiera in realtà è un cancro! Una malattia che negli anni ha ucciso i tuoi sentimenti!»

«Eleonor…»

«Alexia ti vuole bene, mamma, e nonostante tutto te ne voglio anch’io. Ma devi smetterla di pensare da matriarca e comportarti da madre e da nonna. E per quanto mi riguarda, non crescerò Alexia come tu hai cresciuto me. Lei per me è una figlia prima di ogni altra cosa. E per te? Cosa è per te? È la tua unica nipote o la tua erede?»

In quel momento un bellissimo esemplare di husky entrò nel salone, circondandosi di luce e assumendo le fattezze di una giovane cameriera avvicinandosi alle due donne.

«Mie signore, ho trovato tracce della signorina e dei suoi amici all’esterno del cancello, in direzione della montagna ad est. Temo si siano persi nella foresta.»

«Che cosa!?» disse pallida Eleonor, il volto segnato dalla paura. «Presto, chiama tutti! Dobbiamo trovarli subito!»

«L’ho già fatto, mia signora. Aspettano lei.»

Giusto il tempo di sostituire l’elegante abito da sera nero con cappotto e tenuta da sci, e la donna seguì l’inserviente sotto lo sguardo silenzioso e apparentemente insensibile della madre, che rimasta sola si avvicinò a piccoli passi al comunicatore affisso alla parete.

«Ufficio del Direttore Generale.»

«Sono la Contessa Horstmayer

 

Anche se la nevicata era passata, con l’arrivo della sera la temperatura era scesa vertiginosamente, e nonostante Alexia fosse riuscita a dare fuoco ad alcuni legnetti trovati qua e là usando le sue scarse conoscenze di magia, quelle timide fiammelle e i loro vestiti, benché spessi, non erano in grado di difenderli da un freddo che diventava ogni secondo più pungente.

Per quel poco che gli era stato insegnato a scuola, non dovevano addormentarsi per nessun motivo, altrimenti avrebbero corso il rischio di non svegliarsi più. Perciò cercavano di tenersi impegnati come potevano, parlando del più e del meno, facendosi forza l’un l’altro e dandosi vicendevolmente dei colpetti se qualcuno chiudeva gli occhi per troppo tempo.

Everett sembrava una statua, silenzioso e apparentemente lucido, anche se ogni tanto Alexia e gli altri lo vedevano muovere impercettibilmente le labbra, quasi stesse pregando, oppure cantando.

E infatti ad un certo punto, tendendo bene l’orecchio, i suoi improvvisati compagni di avventura lo sentirono distintamente mormorare una strana canzoncina, armoniosa e molto gradevole, ma dalle parole apparentemente incomprensibili.

«Che cos’è?» domandò Feng.

«Credo sia una vecchia canzone natalizia, probabilmente di origine terrestre. L’ho trovata in una vecchia registrazione risalente al primo periodo coloniale in biblioteca.»

«Sembra molto bella» disse Alexia. «Quindi anche sulla Terra festeggiavano il Natale?»

«Non solo. Festeggiavano anche il Capodanno e la Festa della Primavera.»

Tutti allora alzarono gli occhi verso l’alto, verso quello stupendo cielo stellato.

«Mi sono sempre domandata come deve essere la Terra.» disse Feng.

«Anche tu?» disse scherzoso Brando. «Allora siamo in due. Anche se io mi accontenterei di sapere com’è passeggiare lassù tra le stelle.»

«Probabilmente sarà un paradiso» rispose Everett. «Hanno cento anni di progresso in più rispetto a noi.»

«Secondo voi come mai non sono più arrivati coloni dopo le prime sette navi?»

«Forse hanno trovato un nuovo pianeta abitabile, più vicino e meglio raggiungibile rispetto a questo.»

«Però, se ci pensate è ironico» disse Alexia cercando di trovare la forza di ridere. «In un certo senso, siamo un po’ come degli alieni.»

«Direi che è proprio così. Non siamo nati su questo mondo, ma lo abbiamo raggiunto e colonizzato arrivando dalle stelle.»

«La Terra» disse Feng con sguardo sognatore. «Chissà se un giorno la rivedremo mai.»

«Di sicuro noi non ci riusciremo. Ci vogliono ancora troppi anni di viaggio per raggiungerla. Ma puoi consolarti con i microfilm e le vecchie registrazioni.»

«A proposito di registrazioni» incalzò Brando. «Facci sentire ancora quella canzone. Come si chiama?»

«Non ne ho idea. Sul disco si parlava solo di canzoni natalizie.»

«È una lingua strana» disse Alexia. «Era quella dei nostri antenati?»

«No, non credo. Probabilmente è ancora più antica. Purtroppo l’audio era di qualità molto bassa, e non sono neppure sicuro di aver capito bene tutte le parole, benché l’abbia ascoltata diverse volte.»

«Tu cantala comunque. È molto bella.»

Quasi con imbarazzo, Everett si schiarì un momento la gola, trasse un respiro e ricominciò a cantare, stavolta con tono un po’ più alto.

Era davvero una bella canzone, che scaldava il cuore e rasserenava l’animo, e al terzo bis, senza quasi accorgersene, anche Alexia, Brando e Feng si ritrovarono a cantarla a loro volta, producendo un gentile coro di voci infantili che nel silenzio della foresta si propagava per miglia tutto attorno, rendendo nuovamente magica quella notte.

 

ADESTE FIDELES LATE TREUMPHANTOS,

VENITI, VENITI AN BELTHEHEM.

NATOR VIDETE REGEM ANGELORIUS.

VENITA ADORAMUS

VENITA ADORAMUS

VENITA ADORAMUS

DOMINUS.

 

Poi, il vento si fece più forte, glaciale, spegnendo troppo presto quel bellissimo coro e riportando i bambini alla cruda realtà.

Il fuoco, già debole, si spense, e i quattro si ritrovarono di nuovo al buio e al freddo, stringendosi l’un l’altro e rannicchiandosi il più possibile contro il bordo del pendio per tentare di ripararsi.

«Non vi addormentate!» continuava a ripetere Everett vedendo che tutti faticavano a tenere gli occhi aperti. «Non dovete addormentarvi!»

Alexia era la più spaventata, e lottando contro sé stessa ripensava con tutte le sue forze alla sua casa, alla sua famiglia, e a tutto ciò che la rendeva felice, come la cioccolata calda della signorina Husky o i suoi libri di favole, cercando in quei pensieri la forza di restare sveglia.

Non voglio stare qui. Voglio tornare a casa. Mamma! Papà!

Poi, come per magia, una luce si accese per tutti loro, e un rumore riempì la notte.

Sembrava un fischio, ma non quello del vento: era il fischio di un treno.

L’aria si fece calda, piacevole, e tutto sembrava pacifico e calmo.

Alexia, Brando, Feng ed Everett un attimo prima erano seduti sulla neve nel bel mezzo della foresta.

Ora, invece, stavano solcando le stelle, accoccolati sugli spaziosi e morbidi sedili imbottiti nel vagone di un lungo, lunghissimo treno, tutto colorato e scintillante di luci, che sospinto da una possente e maestosa locomotiva a vapore saliva sempre più verso l’alto, perdendosi nello spazio infinito.

La tazza di cioccolata che ognuno di loro teneva tra le mani riscaldava il corpo e la mente, diffondendo un piacevole tepore, e saggiando l’aria si poteva sentirne il profumo zuccherino.

Ma la vera meraviglia era data dal panorama.

Dinnanzi a loro, oltre i finestrini, i bambini vedevano stagliarsi l’immensa, incomparabile meraVigilia del cosmo, con stelle, pianeti, comete, e anche astronavi, stazioni spaziali e satelliti, tanto vicini da dare l’impressione di poterli toccare.

Celestis era dietro di loro, bellissimo, ma davanti sembrava di vedere la Terra, splendida come raccontavano le storie, con la sua unica luna a gravitarle intorno e il sole, caldissimo, a illuminarla.

E allora, i loro occhi si accesero di meraVigilia.

Era come un sogno. Un sogno bellissimo.

L’immensità dello spazio si svelava ai loro occhi in tutta la sua magnificenza, mentre quel treno luminoso di cui sembravano gli unici passeggeri si avventurava sempre più nell’infinito, con le stelle che parevano danzargli attorno, formando uno scintillante tunnel di luci proiettato verso altri mondi, altre meraviglie.

Si sentivano sereni, e i loro cuori battevano all’impazzata alla vista di tanta incredibile magia, anche se scorgendo in lontananza, un attimo prima di chiudere gli occhi sotto la spinta di una rinnovata stanchezza, il profilo della stazione spaziale Infinity, una lacrima scivolò lungo le guance di Alexia, macchiando con un velo di tristezza un’espressione altrimenti bellissima.

Gli uomini sono davvero creature strane, ebbe l’impressione di sentir dire mentre si addormentava, sono le uniche creature le cui ali esistono ma non si vedono.

 

Quasi tutto il personale al servizio della famiglia Horstmayer, dalle cameriere agli inservienti, era composto da famigli di origine canina, in grado di percepire la presenza della signorina meglio di quanto avrebbero potuto fare coi propri cuccioli.

Illuminati da decine di luci magiche create appositamente, decine di loro attraversavano la foresta latrando al seguito di un esiguo numero di uomini, riuscendo nonostante la neve, il freddo e le poche tracce a seguire la pista lasciata dalla piccola padrona e dai suoi amici.

Eleonor sembrava fuori di sé per l’ansia, e camminava talmente spedita che nessuno dei servitori ancora in forma umana riusciva a starle dietro.

«Ci siamo quasi, mia signora» disse l’husky che la seguiva. «Avverto la presenza della signorina!»

«Continuate a cercarla! Non può essere ancora molto lontana.»

D’un tratto comparve una luce, dorata e soffusa, carica di calore, e i sensi di tutti i famigli si acuirono, captando con maggiore intensità l’oggetto della ricerca.

«Mia signora, di qua!».

Tutti affrettarono il passo, indifferenti alla fatica di quell’ultima, impervia salita, seguendo quel bagliore, fino a giungere ai piedi di un ripido pendio.

Alexia e gli altri erano lì, stretti l’uno all’altro, apparentemente immersi in un sonno profondo, circondati da una barriera magica che li teneva al sicuro e dava loro calore. Pochi bambini di quell’età sarebbero stati capaci di produrre uno scudo così ben fatto, ma dopotutto Alexia era pur sempre l’ultima erede di una delle più grandi famiglie di maghi, nelle cui vene scorrevano secoli di esperienza nella stregoneria.

Quattro servitori scesero in pochi balzi nello stretto pertugio, e raccolto un bambino ciascuno si affrettarono a riportarli al sicuro.

«Stia tranquilla, stanno solo dormendo» disse Husky passando delicatamente Alexia alla madre. «Entro domani mattina staranno benissimo.»

Vedendo la sua bambina così apparentemente serena, che le dormiva tra le braccia come quando era piccola, Eleonor si sentì ebbra di gioia, stringendola a sé e sfiorando la fronte sulla sua.

Non c’era regalo di Natale che potesse renderla più felice.

 

La prima cosa che Alexia sentì un attimo prima di riaprire gli occhi fu una gradevole sensazione di morbidezza e conforto, che solo l’essere distesi su di un morbido letto poteva offrire.

Un raggio di sole entrava dalla finestra malamente chiusa illuminandole il viso, e probabilmente era stato questo a svegliarla anzitempo.

Solo in un secondo tempo ricordò quanto era successo, il freddo e la neve, e il bellissimo sogno del quale conservava solo sbiaditi ricordi, pochi frammenti d’immagine, ma di cui percepiva nitidamente il calore che le aveva suscitato nell’animo.

Ma era stato davvero un sogno?

Non lo sapeva, e forse non lo avrebbe saputo mai, ma non le importava. Le bastavano quelle sensazioni bellissime.

Si guardò attorno.

Qualcuno l’aveva spogliata e vestita con una delle sue camice da notte, e agli altri letti della stanza, a loro volta con indosso dei pigiami improvvisati, dormivano anche i suoi compagni di avventura; Brando come al solito ronfava a pancia scoperta, la coperta ai piedi e una gamba lasciata a penzolare, Everett russava come un vecchietto e Feng, la più rilassata di tutti, sorrideva come davanti ad una torta di compleanno, accoccolando la testa nel cuscino.

«Allora, ci hanno riportati a casa» mormorò guardandosi attorno.

Poi, sentendo il pigolare fuori dalla finestra di un uccellino, ricordò che giorno era, e anche se si sentiva matura abbastanza da non farsi trasportare dall’entusiasmo, non riuscì a resistere al richiamo dei regali che l’aspettavano sotto l’albero.

«Ehi, svegliatevi! È Natale!»

Ma a differenza di lei, Brando e gli altri erano ancora troppo stanchi per indirizzare altrove le loro attenzioni, e allora Alexia da sola, infilatasi in tutta fretta un paio di pantofole, uscì dalla stanza correndo verso le scale.

Quando scese nell’atrio, l’albero era lì, bellissimo, e ai suoi piedi erano ammassati decine e decine di regali, delle forme e delle dimensioni più svariate.

Davanti all’albero, però, c’era anche sua madre, Eleonor, già vestita e pronta per la festa che sarebbe iniziata di lì a breve, e che contro ogni tradizione e rispetto dell’atmosfera natalizia la fissava a braccia conserte e sguardo severo; molto severo.

Di fronte a quegli occhi la piccola si bloccò, chinando il capo mortificata; dopo quello che era successo, sua madre non aveva tutti i torti ad apparire così arrabbiata.

«Mi dispiace» pigolò con gli occhi bassi. «È stata colpa mia. Io… io non volevo. Ci siamo persi, sono caduta, e…»

Ma non vi fu risposta, né si mosse qualcosa nell’espressione della donna, e allora Alexia capì che forse era meglio stare in silenzio.

Quando era arrabbiata la mamma sapeva essere più spaventosa di qualunque mostro delle favole.

Eppure stavolta c’era qualcosa di strano; non sembrava il solito sguardo di rimprovero.

«Mamma…» disse allora Alexia una seconda volta.

Solo in quell’attimo la bambina si accorse di un’ombra che appariva a malapena alle spalle dell’albero, ben nascosta dalle fronde, e che in un batter d’occhio le fu davanti assumendo i tratti di un gentile e rispettabile signore in uniforme, i capelli biondo paglierino, gli occhi chiari, il viso ovale e un paio di piccoli, eleganti baffi da soldato.

Alexia rimase col fiato sospeso, pensando per un attimo di stare ancora sognando.

«Papà!» gridò, e in un istante gli fu addosso sommergendolo di baci ed abbracci, traboccante di gioia.

«Piccola peste. Hai fatto preoccupare per bene tutti quanti. Ma quello che conta è che tu stia bene.»

«Papà! Avevano detto che non potevi venire!»

«Ma te l’avevo promesso, ricordi? Che saremmo stati insieme per Natale. E quando mai il tuo papà ha mancato ad una promessa?»

Eleonor restava in disparte; voleva lasciare quel momento tutto per loro. Ma nel suo cuore era felice, e le lacrime, oltre al sorriso, erano lì a dimostrarlo.

Girato lo sguardo, intercettò il volto della madre che li osservava nascosta dietro una colonna della balconata superiore, facendo dono anche a lei, per la prima volta dopo molto tempo, di un sorriso.

«Se posso, mia signora» disse Husky, che seguiva la Contessa. «È stato un gesto bellissimo da parte sua.»

«Mia nipote ha una passione innata per cacciarsi nei guai» disse la Contessa con un filo di voce, nascondendo le labbra dietro l’ampia manica del vestito. «Ma quello che è accaduto stanotte mi ha convinta una volta di più che sarà una grande capofamiglia. E comunque, ogni bambino ha diritto al suo regalo di Natale.»

Un regalo che era costato diverse migliaia di kylis; tanto c’era voluto per ottenere una nave da sbarco che decollando la Vigilia di Natale recuperasse tutti gli occupanti della stazione spaziale e facesse poi la spola tra un continente e l’altro per farli arrivare a casa in tempo per festeggiare con le famiglie.

«Ma che quella peste non s’illuda di averla scampata. Domani mattina sia io che sua madre avremo molto da dirle.»

Ma quello non era il momento di fare certi discorsi. E per quanto non volesse ammetterlo anche la Contessa, nel vedere la sua unica nipote abbracciare forte il padre, del tutto indifferente alle decine di regali che attendevano solo di essere scartati, sentì un piacevole calore spandersi nel petto.

«Buon Natale, Alexia.»

«Buon Natale, papà.»

  
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