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Autore: Aura    16/12/2014    4 recensioni
“Aspetta un attimo, i bravi ragazzi non baciano così!”
“Fanno anche di più, cazzo”
(cit. Il diario di Bridget Jones)
Lexie ha solo ventidue anni, eppure ha ereditato una figlia. Ha chiuso le ambizioni di carriera e la sua giovinezza dentro a un cassetto, la sua vita gira intorno alla piccola Alanis: fa la commessa in una libreria e il suo momento di trasgressione settimanale è quando può avere il controllo del telecomando e gustarsi Dirty Dancing fantasticando su Johnny, il primo di una lunga lista di bad boy che le hanno rubato il cuore. Il suo nemico giurato? L'altezzoso maestro di Alanis, tale William Parker ribattezzato Testa di Corno, la classica persona che guarda tutti dall'alto in basso e che vuole sempre aver ragione, anche sull'educazione di sua nipote. O no? Comunque Lexie lo trova ridicolo e insopportabile, fuori moda ed esasperante nella sua ostinazione a volerla chiamare Miss Spencer, quasi per tenere le distanze da lei. O no?
Genere: Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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sconvolta


La fiducia è un bene fragile. Se la si guadagna, si gode di una libertà illimitata, ma una volta persa può risultare quasi impossibile riconquistarla. La verità è che non sappiamo mai di chi poterci fidare. Anche chi ci vive accanto potrebbe tradirci, mentre gli estranei a volte ci vengono in aiuto. Alla fine, la maggior parte di noi, decide di fidarsi solo di sé stessi; è il modo migliore per evitare cocenti delusioni.
(Desperate Housewife, stagione 1 episodio 10)





Quando mi sveglio, la mattina dopo, rimango sotto alle coperte a godermi la sensazione di pace e caldo, sentendomi una moderna Biancaneve alle prese con uccellini immaginari. Sbadiglio e mi stiracchio, ritrovandomi ad apprezzare anche una cosa stupida come il profumo delle lenzuola pulite.
Sono saltata così velocemente tra le fasi ragazzo del liceo, ragazzi del college e piattume della vita sentimentale a New York, che non mi ricordavo cosa significasse tutto questo, la sensazione dolce e un po' straziante di desiderare di vederlo ancora.
Il cordless suona e io mi rotolo sotto al piumone per raggiungerlo sul comodino, con l'innegabile piccola speranza che sia lui.
- Paul sta facendo il brasato come piace a te. Credo che sia un segnale abbastanza chiaro. - mi raggiunge la voce di Pam.
Il mio stomaco gorgoglia impaziente,
- Lexie adora Paul. - cantileno allegra, sapendo di essere in vivavoce. - Abbonda con il sughetto, a mezzogiorno sono lì.
Apro le imposte scoprendo la bellezza di una New York innevata, e la percezione meravigliosa che nella mia vita ci sia ancora qualcosa per me.

- Buongiorno a tutti! - esordisco, entrando dalla porta che hanno lasciato socchiusa quando ho suonato al citofono.
Nell'ingresso compare Paul, in perfetta tenuta da casa con uno strofinaccio sulla spalla e in mano un mestolo.
- Panzerotta! Lexie è schifosamente allegra. - osserva, con un ghigno.
Faccio finta di niente e appendo il cappotto, prima di rubargli il mestolo per pulirlo dal sugo rimasto.
- Tanto con questo hai finito, vero? - gli chiedo, assaggiandolo.
Paul sbuffa e ritorna in cucina.
- Se non vuoi dirmi niente, significa che c'è qualcosa dire. - grida, mentre io raggiungo Pam in soggiorno. Ci scambiamo uno sguardo d'intesa e mi siedo sul divano accanto a lei, rannicchiandomi contro il bracciolo e coprendomi le ginocchia con un lembo della coperta in pile. Pam spegne la tv e tamburella impaziente contro il telecomando.
- Paul ha ragione: - osserva, complice, - hai un sorriso accecante. Vuol forse dire che l'appuntamento di ieri è andato bene?
Mi sento arrossire e cerco inutilmente di tenere a bada il sorriso, che non sembra più rispondere al mio controllo.
- Diciamo di sì. Pam, non è tanto quello che è successo ieri, è lui che è... - mi zittisco un attimo, vedendo Paul che viene a portarmi una birra e una ciotola di patatine. - Grazie Paul! - cinguetto.
- Voi due mi state nascondendo qualcosa. - osserva, guardandoci entrambe. Pam fa la faccia indifferente e io mi nascondo dietro a una sorsata per non scoppiare a ridere mentre lui torna in cucina.
- Mi sa proprio che dovrò dirlo anche a lui. - giocherello con l'etichetta della bottiglia, - Comunque è... così diverso da come pensavo. Non so come spiegartelo, Pam, ma mi piace davvero. - concludo, con un sospiro.
Lei mi accarezza il ginocchio.
- Si vede. - dice, sorridendo con gli occhi illuminati dalla luce materna.
- Giusto per essere sicuri... stiamo parlando di William, vero? - dice Paul con aria indifferente, appoggiato allo stipite.
- Che ne sai tu? - ribatto stupita, mentre Pam gli lancia un cuscino.
- Non è educato spiare i discorsi altrui.
- Signore mie, sapete benissimo che non riuscite a tenere un segreto con me. Comunque, Lexie, per rispondere alla tua domanda: - mi lancia uno sguardo vittorioso. - Ho le mie fonti.
Sprofondo nel divano, nascondendomi dietro alla coperta.
- Che imbarazzo... te lo ha detto lui? - cosa che avevo ritenuto semplicemente impossibile, tanto da non considerarla proprio.
- Assolutamente no, andiamo: stiamo parlando di William. - mi fa notare, sedendosi sullo schienale del divano. Mi scopre la faccia. - A dire la verità io e Scott avevamo qualche dubbio, così ci siamo scambiati le informazioni, confrontandole, e guarda un po': coincidevano. Tu eri impegnata e lui aveva da fare, che caso, eh?
Gli faccio una smorfia,
- Pettegoli!
Paul mi spettina poco gentilmente,
- Così imparerai a tenermi all'oscuro. L'ispettore Paul scopre sempre tutto! - finge una risata sguaiata e si alza. Prima di tornare in cucina posa un bacio sulla testa di Pam. - Comunque, mogliettina mia, avevo ragione io.


La mia vita non è mai stata perfetta, e sicuramente dopo la perdita di Becca lo è stata ancor meno. Non tanto per come la vivevo, ma per quella costante consapevolezza che lei non c'era più: avevamo undici anni di differenza, ma a discapito di quello, il legame che c'era tra noi non avrebbe potuto essere più saldo nemmeno se fossimo state gemelle. Certo, ci sono stati periodi in cui ci guardavamo come due estranee, per esempio la fase in cui io avevo smesso di essere una poppante ridente e lei non aveva più voglia di far finta che io fossi la sua bambola; oppure quando io avevo quattordici anni e mi sentivo tutto il mondo contro e lei aveva la presunzione di sapere che quello che volevo dire con le mie occhiate e i miei grugniti, ma le abbiamo superate ritrovandoci poi più unite di prima, sempre. Becca era la mia complice e la mia guida, l'esempio migliore che io abbia mai potuto avere, e quando è nata Alanis, che essendo figlia di Becca non avrebbe mai potuto chiamarsi con un altro nome, pensavo che probabilmente tra me e lei sarebbe nato un rapporto simile e che noi tre avremmo creato un cerchio perfetto. Anche Becca me lo diceva, quando andavo a trovarla a New York appena Allie era nata; mi sembra ancora di vederci, qui in salotto, lei in poltrona ad allattare e io a bocconi sul tappeto: andremo, faremo, vedremo... tanti modi che significavano una sola cosa, vivremo.
Poi la grossa imperfezione della mia vita. Per lo meno, la seconda in ordine di tempo, perché un anno prima la mamma aveva scoperto di avere il cancro, ma dopo varie radioterapie erano riusciti a operarla e giusto in quei giorni avevamo avuto la notizia che erano riusciti ad asportarlo. La chemio le aveva distrutto i reni ma a quei tempi ancora non lo sapevamo, io ero tornata al college tranquilla che il peggio fosse passato, ed ero davvero serena.
Quando risposi al telefono e sentii la voce di mio padre, pensai immediatamente che alla mamma fosse venuta una complicazione post operatoria, di quelle che ci avevano illustrato i medici; lui dovette ripetermelo due volte perché all'inizio io non capii: no, Lexie, Becca è morta.
Quando chiusi la chiamata con lui feci il numero di mia sorella, una volta capito che non mi avrebbe risposto impacchettai la mia vita per andare a prendere Allie.

Il dover preoccuparmi per lei mi ha impedito fin da subito di crollare in mille pezzi: piansi disperatamente durante il volo fino a New York, ma non appena atterrai, realizzai che mia nipote sarebbe stata mille volte più devastata di me; così come mia madre, ancora debole dopo l'operazione, doveva affrontare il pensiero di aver perso una figlia. E mio padre che cercava di giostrarsi tra noi tre.
Inghiotti le lacrime, facendomi forza per sollevare almeno me e Allie, di cui mi sarei occupata io, dalle sue preoccupazioni.

Il funerale fu fatto in fretta e furia, con mia madre ancora ricoverata e una lapide provvisoria al cimitero vicino a casa dei miei: non mi ricordo molto di quel giorno, solo che Allie piangeva aggrappata a me. A un certo punto pensai che fosse pura crudeltà costringere una bambina a dover stare a guardare mentre seppellivano sua madre, così la presi in braccio e ce ne andammo.
Pochi giorni dopo ci trasferimmo nel loro appartamento a New York, e se penso a come era quei primi tempi, posso dire che abbiamo fatto grandi progressi in questo anno: la parte che impersonavo, impacciata, ha finito per diventare la mia vita; ho smesso i panni del mio ruolo come pezzo del cerchio che eravamo io, Becca e Allie, e sono diventata la sua tutrice. Può suonare un termine freddo, ma per me vuol dire tutto ciò che voglio essere e che sarò: più di sua zia, ma mai sua madre. Lo riterrei quasi morboso, pensare di sostituirmi a lei. Essere sua tutrice significa invece che sorpasseremo questa cosa insieme, che ci sarò io per lei.
Questo sistema ha ingranato abbastanza bene, abbiamo trovato la nostra quotidianità e le nostre dinamiche, ero realmente serena: avevamo Pam e Paul, io avevo un lavoro che amavo e nonostante non fosse mai una passeggiata, riuscivo a tenere la barca a galla senza particolari scossoni; mi definivo davvero soddisfatta.

Adesso, invece, mi sembra che qualcuno mi abbia tolto il paio di occhiali scuri con cui guardavo tutto. O forse, invece, mi hanno messo davanti agli occhi le famose lenti rosa. Per la prima volta, da quando ho perso mia sorella, ricomincio a cantare sotto alla doccia e mentre preparo la colazione accendo la radio come accompagnamento, senza sentire un insormontabile senso di colpa per continuare a farlo ora che Becca non c'è più.


- Allie, hai finito i compiti? - le grido dalla cucina, mentre spengo la fiamma sotto alla pentola di chili.
- Finitissimi. - dice, il suo nuovo vizio di aggiungere un grado superlativo a tutto quello che dice, - Sai, zia: stiamo leggendo un nuovo libro in classe, il signor William non fa le voci come il nonno, ma è bravissimo a leggere! Lui inizia il capitolo e poi a turno va avanti qualcuno di noi, oggi è toccato a me e Mary Perkins ha detto che sono stata brava! - dice, tirando fuori i piatti puliti dalla lavastoviglie e iniziando ad apparecchiare senza che io debba chiederglielo.
- Sono molto contenta, in questo potresti aver preso un po' da me: quando avevo la tua età passavo ore e ore a leggere ad alta voce ai miei pupazzi, volevo diventare un'attrice. - dico, sorridendo al ricordo.
- A me piacerebbe diventare una maestra. O lavorare in una libreria, come te e Pam, però leggerei ai bambini, come in quella libreria in centro.
È il periodo in cui le sue aspirazioni cambiano quotidianamente, però in qualche modo mi colpisce che i suoi modelli attuali siamo io e William. Ovviamente Allie non sa che ci stiamo frequentando, l'unica occasione in cui ci siamo visti con lei presente, al di fuori di quando ci incontriamo da Pam, è stata quella volta in cui ci aveva invitate a cena; però se le cose dovessero proseguire, ammetto che l'idea di noi tre non è così brutta. Nonostante certe sue idee e la sua testardaggine, William sarebbe per lei un'ottima figura di riferimento. Mi metto a mescolare energicamente il chili, in modo da poter dare la colpa al vapore per le mie guance improvvisamente rosse.
- Ripassiamo il programma di domani: Pam viene a prenderti a scuola e andate insieme a scegliere il regalo per Paul, io vi raggiungo a casa sua e mangiamo lì, va bene?
Io invece andrò con William ad assistere alla sua lezione al NYU, come mi aveva promesso.
Tolgo dal forno le tortillas e le metto nei piatti, poi aggiungo sopra ad ognuna una generosa mestolata di chili, ovviamente non piccante, e ceniamo.

La pioggia ha sciolto la neve, trasformandola in un pantano fangoso che invade i marciapiedi: avevo sperato così tanto che nevicasse per Natale, ma se continua così, anche se dovesse ricominciare, non farà mai in tempo a ricoprire tutto come prima. Appena esco dal lavoro leggo un messaggio di William che è stato trattenuto a scuola per un colloquio improvviso e mi propone di incontrarci direttamente al NYU, scusandosi di un eventuale ritardo; ma visto che ho finito con un leggero anticipo decido di andare a prenderlo a scuola. Quando esco dalla fermata della metropolitana mi rendo conto di aver dimenticato l'ombrello in libreria e corro sotto al portone, per non bagnarmi, posso solo sperare che quello di William sia abbastanza grande per entrambi.
- C'è nessuno? - dico, bussando allo stipite della sua aula. - Ho finito prima al lavoro, così ho pensato di venire qui e andare insieme.
William mi guarda, stupito, e si alza dalla cattedra, venendomi incontro.
- Hai fatto bene, scusami del contrattempo. - dice, con voce leggermente distratta.
- La porta era aperta, - mi sento in dovere di giustificarmi, mentre lui mi spinge dentro all'aula, - hai già finito? Se no posso aspettarti fuori...
Lui scuote la testa e mi fa cenno di sedermi.
- Hanno dimenticato qui l'ombrello, - si rende improvvisamente conto, setacciando l'aula con lo sguardo e trovando un grosso ombrello nero appoggiato sul primo banco, - vado a portarglielo, poi prendo le mie cose e andiamo.
Non è distratto, non è infastidito: è a disagio. Vorrei chiedergli perché, ma il fatto che insegni nella classe di mia nipote implica da parte sua una discrezione maggiore su quello che gli succede al lavoro.
- Tutto bene? - non riesco a evitare di chiedergli, però.
Si precipita fuori dall'aula, come se avesse qualcuno alle calcagna, andando a sbattere contro un uomo che invece stava entrando.
- Ho dimenticato il mio ombrello. - sento dire da una voce che non ricordo appartenere a nessuno dei genitori che conosco.
- Glielo stavo riportando. - dice William, rigido, porgendoglielo.
- Grazie, Parker, e scusa per il disturbo che ti ho causato. - La voce dell'uomo sfuma, io seduta nella sedia accanto alla cattedra non ho una grande visuale di quello che sta succedendo, se non William che sposta il peso da un piede all'altro, seguendo lo sguardo curioso dell'uomo.
- Non sono solo adesso, deve andare. - dice, duro.
- È lei?
Succede tutto al rallentatore: io mi alzo istintivamente, sconcertata da quella domanda, le spalle di William che si curvano in un sospiro, il viso di quell'uomo che mi guarda. - È lei, vero? La sorella di Becca. L'hai trovata, era nella tua classe.

L'equivalente di un pugno nello stomaco, mentre il volto sorpreso che mi guarda, da sconosciuto, lentamente affiora nella mia memoria: gli occhi, azzurri, circondati da occhiaie perenni che danno un'aria più vissuta. Così l'aveva descritto Becca, così lo ricordo dalle foto, così lo vedo ora.
Lo sguardo colpevole di William riassume tutto quello che mi sta bombardando la testa in questo momento, il tempo riprende a scorrere, all'impazzata, seguendo il ritmo del mio cuore. Mi ha tradito. E lui è venuto per portarmi via Allie.
- Come hai potuto? - bisbiglio, pregando di riuscire a trattenere le lacrime fino a quando sarò fuori di qua. Prendo la mia borsa in fretta, senza più guardare né l'uno né l'altro, senza ascoltare le parole che entrambi mi stanno dicendo. Scuse, da parte di Parker, spiegazioni quelle del signor Stevenson, giovane professore di Becca ai tempi del college con cui aveva avuto una breve relazione ma che mai avrei pensato potesse essere il padre di Allie. E invece...
Mi manca il respiro, ma devo assolutamente lasciarmeli alle spalle, anche con una crisi di panico in arrivo.
Le loro voci mi arrivano ovattate da un sibilo costante, gli occhi sono ormai pieni di lacrime che trattengo caparbiamente e mi impediscono di vedere bene quello che sto facendo, dove sto andando. Come se potessi guardarci davvero, con le immagini del mio futuro prossimo in agguato: battaglie legali per un diritto che giuridicamente è suo ma moralmente mio e solo mio, in un contesto dove alla fine conterà solo il fatto che lui è un genitore e io no. E Allie, nel frattempo? Davvero la costringerei a un iter così? Ma d'altra parte non potrei nemmeno lasciarla andare con uno sconosciuto senza combattere...
- Stia zitto, professor Stevenson: ha già fatto abbastanza.
- Parker, non essere sciocco: non ti ascolterà mai.
Entrambi mi bloccano la via per la porta, così mi ritrovo costretta a decidere chi affrontare:
- Non gliela lascerò. Non senza combattere, non può strappare Alanis dall'unica famiglia che ha mai conosciuto. - la scelta ricade sul professor Stevenson, lo minaccio perché sia chiaro che non gliela darò vinta. William Parker non posso nemmeno guardarlo negli occhi, sapendolo complice, sapendo che sono stata io a farlo avvicinare così tanto... - Mi dica una cosa, però: l'ha sempre saputo? Di essere suo padre. Oppure l'ha scoperto ultimamente?
Perché mi ricordo la domanda che mi ha fatto sabato, a casa mia: e il padre?
Forse è stata proprio la mia ingenuità nel fidarmi di lui a dare vita a tutto questo, non me lo potrei mai perdonare. Quanto a lui, anche il solo pensiero del perdono stride pesantemente con quello che sento.
Stevenson mi mette una mano sulla spalla.
- Calmati, Lexie.
Scanso il suo tocco, senza smettere di guardarlo. Come ha potuto non farsi vivo fino ad ora? E perché adesso?
- Miss Spencer, grazie. - lo correggo, tra i denti.
Le lacrime e la disperazione hanno lasciato il passo al puro istinto di sopravvivenza: come ho chiarito ampiamente a Parker, il fatto di aver fatto la sua al momento del concepimento non fa di lui un padre. Lui è solo quello a cui si è rotto il preservativo, fine della storia, e il fatto che non sia stato con Becca dopo la dice veramente lunga sul genere di persona che è. Dovranno passare sul mio cadavere se pensano che gli lascerò prendere Allie.
- Miss Spencer, - accorda, - non sono qui per prenderle Alanis.
Stringo le labbra per sembrare impassibile, quando il solo sentire il nome di mia nipote detto da lui è un aberrazione e mi provoca un conato di vomito.
- Che c'è, vuole tenermi buona? Non è ancora il momento di fare entrare in scena i legali, forse? Non ha ancora raccolto abbastanza materiale su come potrebbe presentarmi come una pessima tutrice?  
Le lacrime ricominciano a pungermi gli occhi, pensare che William sia coinvolto in tutto questo mi spezza ancora di più il cuore.
- Alanis non è mia figlia, nessuno gliela porterà via. - scuoto ossessivamente la testa e lui mi afferra le spalle, gentile ma fermo. - Non è mia figlia, non vi ho cercate per questo. Io e Rebecca siamo stati molto legati. La vita e alcune circostanze ci hanno diviso, ma quando ho saputo della sua morte... mi sento in dovere di accertarmi che voi stiate bene, per lei. E se mai avrete bisogno di qualcosa... - lancia un'occhiata a Parker. - È per questo che gli ho chiesto di trovarvi.
Ci ha trovate per conto di lui. Ecco quello che è successo.
- Non ci serve il suo aiuto. - ribatto, dura, per niente convinta a fidarmi. Poi raccolgo l'ultimo coraggio che mi rimane e sollevo lo sguardo verso Parker. - Non mi hai detto niente. Mi hai cercata per lui.
E se fosse stato suo padre? E se fosse stato un disgraziato da cui mia sorella era scappata?
Mi faccio largo in mezzo a loro con una spallata, sentendo che sto perdendo il controllo che in quest'ultimo minuto ho tenuto faticosamente. Corro per il corridoio cercando di vedere al di là della patina acquosa che ha ricominciato ad annebbiarmi la vista, due lacrime scivolano lungo le guance, lasciando due strisce bollenti.
Dietro di me Parker non smette di parlare, inseguendomi, ma la sua voce non riesce a raggiungermi, un po' come quando isolavo quella di Gaby dai miei pensieri. Mi sento tradita da lui, nel peggiore dei modi: mi ha nascosto tutto, si è approfittato della mia fiducia.
Esco dal portone e corro verso il cancello.
- Lexie!
Il mio nome pronunciato da lui, quel nome che si è rifiutato così testardamente di dire e che ora pronuncia senza esitazione. Riesco a sentirlo e mi fa male come l'ennesima bugia.
Sto per raggiungere la strada quando scivolo su una mattonella, trovandomi per terra e quindi raggiunta in un attimo dall'ultima persona al mondo da cui volevo essere raggiunta.
- Ti sei fatta male?
Scanso in malo modo il suo tentativo di aiutarmi ad alzarmi.
- Lasciami stare. - sibilo, facendo di tutto per evitare di incrociare il suo sguardo.
- Lexie...
Ora che è qui davanti a me non posso lasciarlo continuare chiamarmi così, come se non fosse successo niente.
- Smettila, smettila di chiamarmi così. - non appena inizio a parlargli inizia una discesa e io sono su una bici senza freni: acquisto velocità, terreno, e non c'è niente che io possa fare per fermarmi. - Non mi hai detto niente. Tu lo sapevi, Parker, che non era suo padre? Ne eri certo al cento per cento? - non mi serve guardarlo per capire che, tra tutte le domande che potevo fargli, ho scelto quella a cui non mi può dare una risposta. Mi basta la domanda che lui ha fatto a me, settimana scorsa: aveva il dubbio che potesse esserlo, nonostante quello che il professor Stevenson gli aveva detto. - Hai agito alle mie spalle, tutto quello che è successo tra noi era un modo per portarmi a lui? Per conquistare la mia fiducia e calpestarla?
- No, non sono andate così le cose, devi ascoltarmi. - mi dice, con l'urgenza che rivela la consapevolezza che non lo ascolterò a lungo. - Non ti ho trovata per lui, il professore mi aveva parlato della sorella della sua amica, ma inizialmente non ero convinto che si trattasse di te e Alanis, a quei tempi non ti conoscevo. Non mi sono tenuto in contatto con lui, oggi l'ho visto per la prima volta dopo mesi e chiediglielo, se non mi credi: non gli ho detto niente di te, di voi.
Per quanto possa credergli, questo non basta, nulla potrà più bastare.
- Non è quello il punto, non solo: non hai mai ritenuto che fosse il caso di dirmelo? Con una cosa così importante in ballo? - faccio un passo indietro, allontanandomi da lui. - Ho sbagliato a fidarmi di te, e non potrò mai più farlo. Non appena sarà possibile chiederò che Alanis venga trasferita in un'altra classe. Non ti posso obbligare a non vedere tuo fratello, immagino che prima o poi ci vedremo ancora da Pam, ma non rivolgermi più la parola. E per tutto il resto stammi lontano.

Prima la neve aveva ricoperto la città, ammantandola di un candore da favola, ora si è sciolta ed è solo fango grigiastro e sporco, che non tornerà più al suo stato originario.












Nda So che non ve lo aspettavate... ho molte cose in mente per questa storia, questo capitolo era in ballo da un po' e per me è stato tutto tranne che una sorpresa: sapevo esattamente dove stavo andando, al contrario di altre volte dove invece scopro la trama mentre scrivo.  Questo è una tappa fondamentale, come se si fosse chiuso un primo ciclo. E conosco anche le altre tappe, anche se da qui in poi scriverò più in conteomporanea rispetto a quando pubblico, fino ad ora avevo la mia bella rete di salvataggio pronta che mi ha permesso di non preoccuparmi più di tanto.
William? Sono una contraddizione vivente, perché gioisco come una mamma quando dimostrate finalmente di apprezzarlo e poi gli faccio fare certe cose... però nessuno è perfetto, tutti fanno degli errori, più o meno gravi. Non lo voglio martoriare, ma ho dovuto metterlo in questa situazione.
FYI: settimana prossima è Natale, e se non lavorerò sarò in giro a cercare gli ultimi regali o starò preparando pranzi e cene di quei giorni,  quindi farò di tutto per postare il capitolo entro quella settimana ma è abbastanza improbabile che lo farò esattamente di martedì (forse avevo fatto una premessa simile settimana scorsa ma a sto giro ci sono riuscita :-P)
Vi saluto, sperando che colpi di scena a parte il capitolo sia stato di vostro gradimento, un ringraziamento a chi mi recensisce e a tutti che leggete. Vi auguro di passare buone feste!
   
 
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