La fiducia è un bene fragile. Se la si guadagna, si gode di una libertà illimitata, ma una volta persa può risultare quasi impossibile riconquistarla. La verità è che non sappiamo mai di chi poterci fidare. Anche chi ci vive accanto potrebbe tradirci, mentre gli estranei a volte ci vengono in aiuto. Alla fine, la maggior parte di noi, decide di fidarsi solo di sé stessi; è il modo migliore per evitare cocenti delusioni.
(Desperate Housewife, stagione 1 episodio 10)
Quando mi sveglio,
la mattina dopo, rimango sotto alle coperte a godermi la sensazione
di pace e caldo, sentendomi una moderna Biancaneve alle prese
con uccellini immaginari. Sbadiglio e mi stiracchio, ritrovandomi ad
apprezzare anche una cosa stupida come il profumo delle lenzuola
pulite.
Sono saltata così velocemente tra le fasi ragazzo del
liceo, ragazzi del college e piattume della vita sentimentale a New
York, che non mi ricordavo cosa significasse tutto questo, la
sensazione dolce e un po' straziante di desiderare di vederlo
ancora.
Il cordless suona e io mi rotolo sotto al piumone per
raggiungerlo sul comodino, con l'innegabile piccola speranza che sia
lui.
- Paul sta facendo il brasato come piace a te. Credo che sia
un segnale abbastanza chiaro. - mi raggiunge la voce di Pam.
Il
mio stomaco gorgoglia impaziente,
- Lexie adora Paul. - cantileno
allegra, sapendo di essere in vivavoce. - Abbonda con il sughetto, a
mezzogiorno sono lì.
Apro le imposte scoprendo la bellezza di una
New York innevata, e la percezione meravigliosa che nella mia vita ci
sia ancora qualcosa per me.
- Buongiorno a tutti! - esordisco,
entrando dalla porta che hanno lasciato socchiusa quando ho suonato
al citofono.
Nell'ingresso compare Paul, in perfetta tenuta da
casa con uno strofinaccio sulla spalla e in mano un mestolo.
-
Panzerotta! Lexie è schifosamente allegra. - osserva, con un
ghigno.
Faccio finta di niente e appendo il cappotto, prima di
rubargli il mestolo per pulirlo dal sugo rimasto.
- Tanto con
questo hai finito, vero? - gli chiedo, assaggiandolo.
Paul sbuffa
e ritorna in cucina.
- Se non vuoi dirmi niente, significa che c'è
qualcosa dire. - grida, mentre io raggiungo Pam in soggiorno. Ci
scambiamo uno sguardo d'intesa e mi siedo sul divano accanto a lei,
rannicchiandomi contro il bracciolo e coprendomi le ginocchia con un
lembo della coperta in pile. Pam spegne la tv e tamburella impaziente
contro il telecomando.
- Paul ha ragione: - osserva, complice, -
hai un sorriso accecante. Vuol forse dire che l'appuntamento di ieri
è andato bene?
Mi sento arrossire e cerco inutilmente di tenere a
bada il sorriso, che non sembra più rispondere al mio controllo.
-
Diciamo di sì. Pam, non è tanto quello che è successo ieri, è lui
che è... - mi zittisco un attimo, vedendo Paul che viene a portarmi
una birra e una ciotola di patatine. - Grazie Paul! - cinguetto.
-
Voi due mi state nascondendo qualcosa. - osserva, guardandoci
entrambe. Pam fa la faccia indifferente e io mi nascondo dietro a una
sorsata per non scoppiare a ridere mentre lui torna in cucina.
-
Mi sa proprio che dovrò dirlo anche a lui. - giocherello con
l'etichetta della bottiglia, - Comunque è... così diverso da
come pensavo. Non so come spiegartelo, Pam, ma mi piace davvero. -
concludo, con un sospiro.
Lei mi accarezza il ginocchio.
- Si
vede. - dice, sorridendo con gli occhi illuminati dalla luce materna.
- Giusto per essere sicuri... stiamo parlando di William, vero? -
dice Paul con aria indifferente, appoggiato allo stipite.
- Che
ne sai tu? - ribatto stupita, mentre Pam gli lancia un cuscino.
-
Non è educato spiare i discorsi altrui.
- Signore mie, sapete
benissimo che non riuscite a tenere un segreto con me. Comunque,
Lexie, per rispondere alla tua domanda: - mi lancia uno sguardo
vittorioso. - Ho le mie fonti.
Sprofondo nel divano, nascondendomi
dietro alla coperta.
- Che imbarazzo... te lo ha detto lui? - cosa
che avevo ritenuto semplicemente impossibile, tanto da non
considerarla proprio.
- Assolutamente no, andiamo: stiamo parlando
di William. - mi fa notare, sedendosi sullo schienale del divano. Mi
scopre la faccia. - A dire la verità io e Scott avevamo qualche
dubbio, così ci siamo scambiati le informazioni, confrontandole, e
guarda un po': coincidevano. Tu eri impegnata e lui aveva da fare,
che caso, eh?
Gli faccio una smorfia,
- Pettegoli!
Paul mi
spettina poco gentilmente,
- Così imparerai a tenermi all'oscuro.
L'ispettore Paul scopre sempre tutto! - finge una risata sguaiata e
si alza. Prima di tornare in cucina posa un bacio sulla testa di Pam.
- Comunque, mogliettina mia, avevo ragione io.
La mia vita non
è mai stata perfetta, e sicuramente dopo la perdita di Becca lo è
stata ancor meno. Non tanto per come la vivevo, ma per quella
costante consapevolezza che lei non c'era più: avevamo undici anni
di differenza, ma a discapito di quello, il legame che c'era tra noi
non avrebbe potuto essere più saldo nemmeno se fossimo state
gemelle. Certo, ci sono stati periodi in cui ci guardavamo come due
estranee, per esempio la fase in cui io avevo smesso di essere una
poppante ridente e lei non aveva più voglia di far finta che io
fossi la sua bambola; oppure quando io avevo quattordici anni e mi
sentivo tutto il mondo contro e lei aveva la presunzione di sapere
che quello che volevo dire con le mie occhiate e i miei grugniti, ma
le abbiamo superate ritrovandoci poi più unite di prima, sempre.
Becca era la mia complice e la mia guida, l'esempio migliore che io
abbia mai potuto avere, e quando è nata Alanis, che essendo figlia
di Becca non avrebbe mai potuto chiamarsi con un altro nome, pensavo
che probabilmente tra me e lei sarebbe nato un rapporto simile e che
noi tre avremmo creato un cerchio perfetto. Anche Becca me lo diceva,
quando andavo a trovarla a New York appena Allie era nata; mi sembra
ancora di vederci, qui in salotto, lei in poltrona ad allattare e io
a bocconi sul tappeto: andremo, faremo, vedremo... tanti modi che
significavano una sola cosa, vivremo.
Poi la grossa
imperfezione della mia vita. Per lo meno, la seconda in ordine di
tempo, perché un anno prima la mamma aveva scoperto di avere il
cancro, ma dopo varie radioterapie erano riusciti a operarla e giusto
in quei giorni avevamo avuto la notizia che erano riusciti ad
asportarlo. La chemio le aveva distrutto i reni ma a quei tempi
ancora non lo sapevamo, io ero tornata al college tranquilla che il
peggio fosse passato, ed ero davvero serena.
Quando risposi al
telefono e sentii la voce di mio padre, pensai immediatamente che
alla mamma fosse venuta una complicazione post operatoria, di quelle
che ci avevano illustrato i medici; lui dovette ripetermelo due volte
perché all'inizio io non capii: no, Lexie, Becca è morta.
Quando
chiusi la chiamata con lui feci il numero di mia sorella, una volta
capito che non mi avrebbe risposto impacchettai la mia vita per
andare a prendere Allie.
Il dover
preoccuparmi per lei mi ha impedito fin da subito di crollare in
mille pezzi: piansi disperatamente durante il volo fino a New York,
ma non appena atterrai, realizzai che mia nipote sarebbe stata mille
volte più devastata di me; così come mia madre, ancora debole dopo
l'operazione, doveva affrontare il pensiero di aver perso una figlia.
E mio padre che cercava di giostrarsi tra noi tre.
Inghiotti le
lacrime, facendomi forza per sollevare almeno me e Allie, di cui mi
sarei occupata io, dalle sue preoccupazioni.
Il funerale fu fatto
in fretta e furia, con mia madre ancora ricoverata e una lapide
provvisoria al cimitero vicino a casa dei miei: non mi ricordo molto
di quel giorno, solo che Allie piangeva aggrappata a me. A un certo
punto pensai che fosse pura crudeltà costringere una bambina a dover
stare a guardare mentre seppellivano sua madre, così la presi in
braccio e ce ne andammo.
Pochi giorni dopo ci trasferimmo nel loro
appartamento a New York, e se penso a come era quei primi tempi,
posso dire che abbiamo fatto grandi progressi in questo anno: la
parte che impersonavo, impacciata, ha finito per diventare la mia
vita; ho smesso i panni del mio ruolo come pezzo del cerchio che
eravamo io, Becca e Allie, e sono diventata la sua tutrice. Può
suonare un termine freddo, ma per me vuol dire tutto ciò che voglio
essere e che sarò: più di sua zia, ma mai sua madre. Lo riterrei
quasi morboso, pensare di sostituirmi a lei. Essere sua tutrice
significa invece che sorpasseremo questa cosa insieme, che ci sarò
io per lei.
Questo sistema ha ingranato abbastanza bene, abbiamo
trovato la nostra quotidianità e le nostre dinamiche, ero realmente
serena: avevamo Pam e Paul, io avevo un lavoro che amavo e nonostante
non fosse mai una passeggiata, riuscivo a tenere la barca a galla
senza particolari scossoni; mi definivo davvero soddisfatta.
Adesso,
invece, mi sembra che qualcuno mi abbia tolto il paio di occhiali
scuri con cui guardavo tutto. O forse, invece, mi hanno messo davanti
agli occhi le famose lenti rosa. Per la prima volta, da quando ho
perso mia sorella, ricomincio a cantare sotto alla doccia e mentre
preparo la colazione accendo la radio come accompagnamento, senza
sentire un insormontabile senso di colpa per continuare a farlo ora
che Becca non c'è più.
- Allie, hai finito i compiti? - le grido
dalla cucina, mentre spengo la fiamma sotto alla pentola di chili.
-
Finitissimi. - dice, il suo nuovo vizio di aggiungere un grado
superlativo a tutto quello che dice, - Sai, zia: stiamo leggendo un
nuovo libro in classe, il signor William non fa le voci come il
nonno, ma è bravissimo a leggere! Lui inizia il capitolo e poi a
turno va avanti qualcuno di noi, oggi è toccato a me e Mary Perkins
ha detto che sono stata brava! - dice, tirando fuori i piatti puliti
dalla lavastoviglie e iniziando ad apparecchiare senza che io debba
chiederglielo.
- Sono molto contenta, in questo potresti aver
preso un po' da me: quando avevo la tua età passavo ore e ore a
leggere ad alta voce ai miei pupazzi, volevo diventare un'attrice. -
dico, sorridendo al ricordo.
- A me piacerebbe diventare una
maestra. O lavorare in una libreria, come te e Pam, però leggerei ai
bambini, come in quella libreria in centro.
È il periodo in cui
le sue aspirazioni cambiano quotidianamente, però in qualche modo mi
colpisce che i suoi modelli attuali siamo io e William. Ovviamente
Allie non sa che ci stiamo frequentando, l'unica occasione in cui ci
siamo visti con lei presente, al di fuori di quando ci incontriamo da
Pam, è stata quella volta in cui ci aveva invitate a cena; però se
le cose dovessero proseguire, ammetto che l'idea di noi tre non è
così brutta. Nonostante certe sue idee e la sua testardaggine,
William sarebbe per lei un'ottima figura di riferimento. Mi metto a
mescolare energicamente il chili, in modo da poter dare la colpa al
vapore per le mie guance improvvisamente rosse.
- Ripassiamo il
programma di domani: Pam viene a prenderti a scuola e andate insieme
a scegliere il regalo per Paul, io vi raggiungo a casa sua e mangiamo
lì, va bene?
Io invece andrò con William ad assistere alla sua
lezione al NYU, come mi aveva promesso.
Tolgo dal forno le
tortillas e le metto nei piatti, poi aggiungo sopra ad ognuna una
generosa mestolata di chili, ovviamente non piccante, e ceniamo.
La
pioggia ha sciolto la neve, trasformandola in un pantano fangoso che
invade i marciapiedi: avevo sperato così tanto che nevicasse per
Natale, ma se continua così, anche se dovesse ricominciare, non farà
mai in tempo a ricoprire tutto come prima. Appena esco dal lavoro
leggo un messaggio di William che è stato trattenuto a scuola per un
colloquio improvviso e mi propone di incontrarci direttamente al NYU,
scusandosi di un eventuale ritardo; ma visto che ho finito con un
leggero anticipo decido di andare a prenderlo a scuola. Quando esco
dalla fermata della metropolitana mi rendo conto di aver dimenticato
l'ombrello in libreria e corro sotto al portone, per non bagnarmi,
posso solo sperare che quello di William sia abbastanza grande per
entrambi.
- C'è nessuno? - dico, bussando allo stipite della sua
aula. - Ho finito prima al lavoro, così ho pensato di venire qui e
andare insieme.
William mi guarda, stupito, e si alza dalla
cattedra, venendomi incontro.
- Hai fatto bene, scusami del
contrattempo. - dice, con voce leggermente distratta.
- La porta
era aperta, - mi sento in dovere di giustificarmi, mentre lui mi
spinge dentro all'aula, - hai già finito? Se no posso aspettarti
fuori...
Lui scuote la testa e mi fa cenno di sedermi.
- Hanno
dimenticato qui l'ombrello, - si rende improvvisamente conto,
setacciando l'aula con lo sguardo e trovando un grosso ombrello nero
appoggiato sul primo banco, - vado a portarglielo, poi prendo le mie
cose e andiamo.
Non è distratto, non è infastidito: è a
disagio. Vorrei chiedergli perché, ma il fatto che insegni nella
classe di mia nipote implica da parte sua una discrezione maggiore su
quello che gli succede al lavoro.
- Tutto bene? - non riesco a
evitare di chiedergli, però.
Si precipita fuori dall'aula, come
se avesse qualcuno alle calcagna, andando a sbattere contro un uomo
che invece stava entrando.
- Ho dimenticato il mio ombrello. -
sento dire da una voce che non ricordo appartenere a nessuno dei
genitori che conosco.
- Glielo stavo riportando. - dice William,
rigido, porgendoglielo.
- Grazie, Parker, e scusa per il disturbo
che ti ho causato. - La voce dell'uomo sfuma, io seduta nella sedia
accanto alla cattedra non ho una grande visuale di quello che sta
succedendo, se non William che sposta il peso da un piede all'altro,
seguendo lo sguardo curioso dell'uomo.
- Non sono solo adesso,
deve andare. - dice, duro.
- È lei?
Succede tutto al
rallentatore: io mi alzo istintivamente, sconcertata da quella
domanda, le spalle di William che si curvano in un sospiro, il viso
di quell'uomo che mi guarda. - È lei, vero? La sorella di Becca.
L'hai trovata, era nella tua classe.
L'equivalente di un pugno
nello stomaco, mentre il volto sorpreso che mi guarda, da
sconosciuto, lentamente affiora nella mia memoria: gli occhi,
azzurri, circondati da occhiaie perenni che danno un'aria più
vissuta. Così l'aveva descritto Becca, così lo ricordo dalle foto,
così lo vedo ora.
Lo sguardo colpevole di William riassume tutto
quello che mi sta bombardando la testa in questo momento, il tempo
riprende a scorrere, all'impazzata, seguendo il ritmo del mio cuore.
Mi ha tradito. E lui è venuto per portarmi via Allie.
- Come hai
potuto? - bisbiglio, pregando di riuscire a trattenere le lacrime
fino a quando sarò fuori di qua. Prendo la mia borsa in fretta,
senza più guardare né l'uno né l'altro, senza ascoltare le parole
che entrambi mi stanno dicendo. Scuse, da parte di Parker,
spiegazioni quelle del signor Stevenson, giovane professore di Becca
ai tempi del college con cui aveva avuto una breve relazione ma che
mai avrei pensato potesse essere il padre di Allie. E invece...
Mi
manca il respiro, ma devo assolutamente lasciarmeli alle spalle,
anche con una crisi di panico in arrivo.
Le loro voci mi arrivano
ovattate da un sibilo costante, gli occhi sono ormai pieni di lacrime
che trattengo caparbiamente e mi impediscono di vedere bene quello
che sto facendo, dove sto andando. Come se potessi guardarci davvero,
con le immagini del mio futuro prossimo in agguato: battaglie legali
per un diritto che giuridicamente è suo ma moralmente mio e solo
mio, in un contesto dove alla fine conterà solo il fatto che lui è
un genitore e io no. E Allie, nel frattempo? Davvero la costringerei
a un iter così? Ma d'altra parte non potrei nemmeno lasciarla andare
con uno sconosciuto senza combattere...
- Stia zitto, professor
Stevenson: ha già fatto abbastanza.
- Parker, non essere sciocco:
non ti ascolterà mai.
Entrambi mi bloccano la via per la porta,
così mi ritrovo costretta a decidere chi affrontare:
- Non gliela
lascerò. Non senza combattere, non può strappare Alanis dall'unica
famiglia che ha mai conosciuto. - la scelta ricade sul professor
Stevenson, lo minaccio perché sia chiaro che non gliela darò vinta.
William Parker non posso nemmeno guardarlo negli occhi, sapendolo
complice, sapendo che sono stata io a farlo avvicinare così tanto...
- Mi dica una cosa, però: l'ha sempre saputo? Di essere suo padre.
Oppure l'ha scoperto ultimamente?
Perché mi ricordo la domanda
che mi ha fatto sabato, a casa mia: e il padre?
Forse è stata
proprio la mia ingenuità nel fidarmi di lui a dare vita a tutto
questo, non me lo potrei mai perdonare. Quanto a lui, anche il solo
pensiero del perdono stride pesantemente con quello che
sento.
Stevenson mi mette una mano sulla spalla.
- Calmati,
Lexie.
Scanso il suo tocco, senza smettere di guardarlo. Come ha
potuto non farsi vivo fino ad ora? E perché adesso?
- Miss
Spencer, grazie. - lo correggo, tra i denti.
Le lacrime e la
disperazione hanno lasciato il passo al puro istinto di
sopravvivenza: come ho chiarito ampiamente a Parker, il fatto di aver
fatto la sua al momento del concepimento non fa di lui un padre. Lui
è solo quello a cui si è rotto il preservativo, fine della storia,
e il fatto che non sia stato con Becca dopo la dice veramente lunga
sul genere di persona che è. Dovranno passare sul mio cadavere se
pensano che gli lascerò prendere Allie.
- Miss Spencer, -
accorda, - non sono qui per prenderle Alanis.
Stringo le labbra
per sembrare impassibile, quando il solo sentire il nome di mia
nipote detto da lui è un aberrazione e mi provoca un conato di
vomito.
- Che c'è, vuole tenermi buona? Non è ancora il momento
di fare entrare in scena i legali, forse? Non ha ancora raccolto
abbastanza materiale su come potrebbe presentarmi come una pessima
tutrice?
Le lacrime ricominciano a pungermi gli occhi, pensare che
William sia coinvolto in tutto questo mi spezza ancora di più il
cuore.
- Alanis non è mia figlia, nessuno gliela porterà via. -
scuoto ossessivamente la testa e lui mi afferra le spalle, gentile ma
fermo. - Non è mia figlia, non vi ho cercate per questo. Io e
Rebecca siamo stati molto legati. La vita e alcune circostanze ci
hanno diviso, ma quando ho saputo della sua morte... mi sento in
dovere di accertarmi che voi stiate bene, per lei. E se mai avrete
bisogno di qualcosa... - lancia un'occhiata a Parker. - È per questo
che gli ho chiesto di trovarvi.
Ci ha trovate per conto di
lui. Ecco quello che è successo.
- Non ci serve il suo aiuto. -
ribatto, dura, per niente convinta a fidarmi. Poi raccolgo l'ultimo
coraggio che mi rimane e sollevo lo sguardo verso Parker. - Non mi
hai detto niente. Mi hai cercata per lui.
E se fosse stato suo
padre? E se fosse stato un disgraziato da cui mia sorella era
scappata?
Mi faccio largo in mezzo a loro con una spallata, sentendo
che sto perdendo il controllo che in quest'ultimo minuto ho tenuto
faticosamente. Corro per il corridoio cercando di vedere al di là
della patina acquosa che ha ricominciato ad annebbiarmi la vista, due
lacrime scivolano lungo le guance, lasciando due strisce
bollenti.
Dietro di me Parker non smette di parlare, inseguendomi,
ma la sua voce non riesce a raggiungermi, un po' come quando isolavo
quella di Gaby dai miei pensieri. Mi sento tradita da lui, nel
peggiore dei modi: mi ha nascosto tutto, si è approfittato della mia
fiducia.
Esco dal portone e corro verso il cancello.
-
Lexie!
Il mio nome pronunciato da lui, quel nome che si è
rifiutato così testardamente di dire e che ora pronuncia senza
esitazione. Riesco a sentirlo e mi fa male come l'ennesima bugia.
Sto
per raggiungere la strada quando scivolo su una mattonella,
trovandomi per terra e quindi raggiunta in un attimo dall'ultima
persona al mondo da cui volevo essere raggiunta.
- Ti sei fatta
male?
Scanso in malo modo il suo tentativo di aiutarmi ad
alzarmi.
- Lasciami stare. - sibilo, facendo di tutto per evitare
di incrociare il suo sguardo.
- Lexie...
Ora che è qui davanti
a me non posso lasciarlo continuare chiamarmi così, come se non
fosse successo niente.
- Smettila, smettila di chiamarmi così. -
non appena inizio a parlargli inizia una discesa e io sono su una
bici senza freni: acquisto velocità, terreno, e non c'è niente che
io possa fare per fermarmi. - Non mi hai detto niente. Tu lo sapevi,
Parker, che non era suo padre? Ne eri certo al cento per cento? - non
mi serve guardarlo per capire che, tra tutte le domande che potevo
fargli, ho scelto quella a cui non mi può dare una risposta. Mi basta
la domanda che lui ha fatto a me, settimana scorsa: aveva il dubbio
che potesse esserlo, nonostante quello che il professor Stevenson gli
aveva detto. - Hai agito alle mie spalle, tutto quello che è
successo tra noi era un modo per portarmi a lui? Per conquistare la
mia fiducia e calpestarla?
- No, non sono andate così le cose,
devi ascoltarmi. - mi dice, con l'urgenza che rivela la
consapevolezza che non lo ascolterò a lungo. - Non ti ho trovata per
lui, il professore mi aveva parlato della sorella della sua amica, ma
inizialmente non ero convinto che si trattasse di te e Alanis, a quei
tempi non ti conoscevo. Non mi sono tenuto in contatto con lui, oggi
l'ho visto per la prima volta dopo mesi e chiediglielo, se non mi
credi: non gli ho detto niente di te, di voi.
Per quanto possa
credergli, questo non basta, nulla potrà più bastare.
- Non è quello
il punto, non solo: non hai mai ritenuto che fosse il caso di
dirmelo? Con una cosa così importante in ballo? - faccio un passo
indietro, allontanandomi da lui. - Ho sbagliato a fidarmi di te, e
non potrò mai più farlo. Non appena sarà possibile chiederò che
Alanis venga trasferita in un'altra classe. Non ti posso obbligare a
non vedere tuo fratello, immagino che prima o poi ci vedremo ancora
da Pam, ma non rivolgermi più la parola. E per tutto il resto stammi
lontano.
Prima la neve aveva ricoperto la città, ammantandola
di un candore da favola, ora si è sciolta ed è solo fango
grigiastro e sporco, che non tornerà più al suo stato originario.
Nda So che non ve lo aspettavate... ho molte cose in mente per questa storia, questo capitolo era in ballo da un po' e per me è stato tutto tranne che una sorpresa: sapevo esattamente dove stavo andando, al contrario di altre volte dove invece scopro la trama mentre scrivo. Questo è una tappa fondamentale, come se si fosse chiuso un primo ciclo. E conosco anche le altre tappe, anche se da qui in poi scriverò più in conteomporanea rispetto a quando pubblico, fino ad ora avevo la mia bella rete di salvataggio pronta che mi ha permesso di non preoccuparmi più di tanto.
William? Sono una contraddizione vivente, perché gioisco come una mamma quando dimostrate finalmente di apprezzarlo e poi gli faccio fare certe cose... però nessuno è perfetto, tutti fanno degli errori, più o meno gravi. Non lo voglio martoriare, ma ho dovuto metterlo in questa situazione.
FYI: settimana prossima è Natale, e se non lavorerò sarò in giro a cercare gli ultimi regali o starò preparando pranzi e cene di quei giorni, quindi farò di tutto per postare il capitolo entro quella settimana ma è abbastanza improbabile che lo farò esattamente di martedì (forse avevo fatto una premessa simile settimana scorsa ma a sto giro ci sono riuscita :-P)
Vi saluto, sperando che colpi di scena a parte il capitolo sia stato di vostro gradimento, un ringraziamento a chi mi recensisce e a tutti che leggete. Vi auguro di passare buone feste!