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Autore: ThisisSoph    16/12/2014    11 recensioni
"Quando Peeta si svegliò di soprassalto, la prima cosa che notò fu il cambio di temperatura: il pavimento su cui era sdraiato era freddo e duro, completamente l'opposto del terreno umido e caldo dell'arena.
La seconda fu che era solo. Nella sua mente, solo un bisbiglio assordante.
Katniss Katniss Katniss
Era l’ultima parola che aveva pronunciato."
Vi siete mai chiesti cosa deve aver provato Peeta ritrovandosi da solo a Capitol City? Cosa avrebbe scritto Suzanne Collins se avesse deciso di dedicare una parte di Mockingjay al soggiorno di Peeta nella Capitale?
Days of a wrecked past è il mio tentativo di immaginare la risposta.
Soph
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Annie Cresta, Johanna Mason, Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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DAYS OF A WRECKED PAST

 

 

Quando Peeta si svegliò di soprassalto, la prima cosa che notò fu il cambio di temperatura: il pavimento su cui era sdraiato era freddo e duro, completamente l'opposto del terreno umido e caldo dell'arena.
La seconda fu che era solo. Nella sua mente, solo un bisbiglio assordante.
Katniss Katniss Katniss
Era l’ultima parola che aveva pronunciato.
Un esplosione, poi più niente.

Si alzò a sedere di scatto, solo per ricadere violentemente sul terreno ruvido, davanti agli occhi solo una patina nera e bucherellata, la mente e lo stomaco in subbuglio. Come se per gli ultimi cinque minuti il suo corpo avesse perso sensibilità e si fosse risvegliato tutto d'un colpo, sentì una fitta quasi insopportabile e il dolore esplose in un momento: era dappertutto.
Ogni parte del suo corpo era intorpidita e bruciante, come se il sangue che gli scorreva nelle vene fosse bollente. Al solo movimento del minimo muscolo, un formicolio improvviso si impadroniva del suo corpo, paralizzandolo.
Quando riprovò ad alzarsi, questa volta con cautela, riuscì a mettersi seduto e a guardarsi intorno, ma avrebbe di certo preferito non vedere: si trovava in una cella bassa e stretta, contenente solo un materasso buttato all’angolo e nessuna finestra per orientarsi. Dal basso soffitto sopra di lui provenivano i rumori del caos cittadino: il ticchettio dei tacchi e lo stridente suono delle ruote sull'asfalto, il chiacchiericcio indistinto di voci e risate in lontananza. Chiudendo gli occhi il ragazzo poteva quasi figurarsi quella superficiale massa di persone camminare inconsapevole per le strade. Capitol City, la città del lusso e degli eccessi, la città che poteva darti tutto in un momento e con la stessa facilità portartelo via.

Un tonfo sordo lo risvegliò dai suoi pensieri e attrasse la sua attenzione sull’ambiente circostante: la cella nella quale era rinchiuso era bloccata su 3 lati da grosse sbarre d’acciaio, ma non era l’unica. Poggiandosi al muro dietro di sé, osservò ai lati del suo campo visivo finché il suo sguardo andò a posarsi su una esile figura abbandonata sul pavimento della cella di fianco alla sua.
Johanna.
Quella ragazza, sempre forte ed impavida, in quel momento, spogliata di armi e della sua solita espressione sicura, sembrava solo piccola e indifesa.

Peeta cercò di spostarsi verso di lei, trascinandosi con tutte le forze che aveva il più vicino possibile al suo corpo immobile. Un familiare ronzio gli entrò nelle orecchie una volta avvicinatosi alle sbarre, sollecitando la sua memoria.
Un flash del distretto 12. La recinzione.
È elettrificata, gli suggerì una voce nella sua testa, facendo sì che si fermasse prima di toccarla. Lasciò cadere la mano sul pavimento, impotente, ricreando quel rumore sordo che l’aveva attratto.
«Johanna!» sussurrò, sperando con tutto il cuore che fosse viva. Che non fosse troppo tardi.
«Johanna!» ripeté alzando la voce, quando la ragazza non ebbe nessuna reazione.


«É viva. L'hanno torturata, ma è viva.»
Inizialmente, sotto la luce fioca proveniente esclusivamente dalle lampadine al neon poste lungo il corridoio, Peeta non riuscì a riconoscerne il volto. Fu solo quando la ragazza si avvicinò alle sbarre della sua cella, posta poco più in là rispetto alla sua, che poté finalmente capire quello a cui, in altre situazioni, l'istinto avrebbe provveduto ad arrivare con un piccolo ragionamento.
Chi si trovava in quel momento davanti a lui aveva un fisico minuto e fragile, lunghi capelli castani e grandi occhi verdi tendenti all'azzurro, tipici del suo distretto; aveva le pupille talmente dilatate che il nero sovrastava sui colori chiari dell’iride. Il ragazzo sapeva perfettamente chi fosse, anche se poteva affidarsi solo alle immagini di una videocassetta contenute ancora nella sua mente.
Non ebbe nessun dubbio, quindi, quando in risposta sussurrò il suo nome.

«Annie.»


Annie Cresta, distretto 4, vincitrice della Settantesima edizione degli Hunger Games.
L’umile ragazzina che, nell’arena, era sopravvissuta solo perché sapeva nuotare meglio degli altri, ma che era impazzita prima di poter gioire della sua vittoria.
Se, come dicono, per ogni momento positivo c’è un prezzo da pagare, di certo lei l’ha pagato con gli interessi. Purtroppo, pensò con una nera ironia Peeta, la fortuna non è mai stata a suo favore.

«Che cosa è successo? Dove siamo?» dov’è Katniss? avrebbe voluto chiedere il ragazzo, mentre si strofinava le tempie con le mani sporche e umide di sudore, incapace di limitare il flusso di domande che sembrava improvvisamente popolargli la mente.
«M-mi sono risvegliata qui qualche giorno fa, credo siano dei sotterranei ma non sono mai riuscita a vedere… a vedere niente
Niente. A quella parola la ragazza si coprì il volto con le mani, schiacciando i palmi sugli occhi chiusi. Era un gesto che le aveva visto fare anche in quelle riprese, uno di quei gesti un tempo segnale di squilibrio.
Peeta sentì un moto di pena e comprensione verso di lei, verso la sua paura così incontenibile. Per questo, quando pose la sua prossima domanda, i suoi lineamenti erano distesi e la voce dolce, nel misero tentativo di tranquillizzarla. «Ti hanno mai portata fuori di qui?»
Annie si tolse le mani dal viso nel sentire la voce del ragazzo addolcirsi, lo sguardo ancora fisso in un punto indistinto davanti a sé. Quando parlò, la sua voce era così inespressiva che il ragazzo faceva fatica a credere che provenisse dalla ragazza.
«Ieri. Erano in due, due Pacificatori. Ci hanno coperto gli occhi, a me e a Johanna. Tu eri ancora svenuto, hanno detto che le tue ferite erano troppo gravi, troppo critiche per infierire.
»
Le sopracciglia di Peeta si aggrottarono a sentire quella frase e, soprattutto, quell’ultima parola. Non si trattenne, quindi, quando le parole che aveva in mente si trasformarono in suono uscendo dalle sue labbra. «Infierire?»
Il ragazzo ebbe il tempo di vedere la bocca di Annie aprirsi per rispondere, prima che un rumore distogliesse la sua attenzione dalla ragazza per attirarla nella cella posizionata alla sua destra.
Un movimento improvviso. Johanna si stava svegliando.
Senza dire una parola o guardarli, strisciò debolmente fino all’unico muro della cella, girandosi in modo da avere le spalle contro di esso; i movimenti così lenti che Peeta si chiese se non avesse qualcosa di rotto. Ma non erano i suoi movimenti a preoccupare il ragazzo, quanto il suo viso: Johanna aveva la testa penzolante, come se i muscoli del collo non riuscissero più a reggere il peso che gravava su di loro, il volto illeggibile in una maschera di dolore e stanchezza. Si rannicchiò, portandosi piano le ginocchia al petto, e fissò lo sguardo in un punto indefinito del pavimento, in un modo molto simile a quello di Annie. La mano di Peeta si rialzò, avvicinandosi il più possibile alle sbarre come per chiamarla, quando, dalla bocca di Johanna, sentì uscire un piccolo sussurro, quasi un bisbiglio al vento, la voce così bassa che qualsiasi parola stesse dicendo era indistinguibile.
La ragazza stava ancora mormorando quella cantilena apparentemente senza senso, quando i Pacificatori andarono a prenderlo. Fu probabilmente questo che la fece risvegliare da quella sorta di trance in cui era rinchiusa fino a pochi momenti prima, questo che le fece alzare la voce fino a gridare.
«Non è reale.»
Erano queste le parole che aveva sussurrato, più a se stessa che a loro, e che ora stava urlando rivolgendosi al ragazzo.
«Non è reale, Peeta. NON É REALE!»

Peeta si svegliò di soprassalto, madido di sudore, le parole urlate dalla ragazza ancora a risuonargli nelle orecchie. Accanto a lui, ancora profondamente addormentata, Katniss, la mano accanto alla sua dopo che si erano addormentati stringendosela. Il ragazzo strinse forte il lenzuolo per impedirsi di urlare o prendere a pugni qualcosa fino a farsi diventare le nocche bianche prima di sdraiarsi e riprendere la mano di Katniss, cercando di farsi scivolare via quell'incubo dalla mente.
L'ennesimo incubo. Lo stesso che faceva ogni notte da anni.



NOTE:
Oddio, non riesco ancora a credere che io stia pubblicando questa fanfiction! Scrivere dal punto di vista di Peeta è stato difficile, ma gratificante, e spero che anche a voi piaccia quello che ho scritto.
So che probabilmente non avrei nemmeno bisogno di scriverlo, ma lo faccio lo stesso... i vostri commenti sono importantissimi! Anche se questa è una one shot e non avrà un seguito, per me è fondamentale sapere cosa pensate :)
Grazie a tutti quelli che leggeranno, a presto!
Soph
   
 
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