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Autore: JustAHeartBeat    17/12/2014    3 recensioni
Ricordi quando a passo di marcia afferrasti la mia mano per non lasciarla sino al cancello di scuola? Io si, lo ricordo. Anzi, ti dirò un segreto:  ancora adesso, ogni mattina, quando mi alzo per andare a lavoro e cammino per la città lungo lo stesso marciapiede, stringendo il pugno, posso ancora avvertire il calore di quella manona che tanto tempo fa stringeva la mia. Lo sento vividamente, come se fosse ancora lì, incatenata nel tempo, incatenata nella mia anima, nella mia mente, nel mio cuore.
Genere: Drammatico, Slice of life, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Buonasera a tutte!
E’ la prima volta che scrivo una One-shot drammatica, anzi, la prima volta che scrivo una storia, seppur breve, drammatica, quindi siate clementi! Scherzi a parte, amo scrivere e sperimentare ed oggi ero un po’ giù di morale ed ho pensato: e se scrivessi una piccola shot? Ed eccola qui J.
Spero davvero vi piaccia, e mi farebbe molto piacere sapere cosa ne pensate, anche in breve, in una mini recensione, ma sarebbe molto bello. (*prega in ginocchio*)
Anyway, questa è la storietta! Buona lettura!

 
 
Al mio principe azzurro.
 
“Ciao, papà.
Come stai?
Io sto bene qui, la vita procede come al solito, più o meno.. sono cambiate molte cose dall’ultima volta che ci siamo visti, davvero troppe, per i miei gusti. Te lo ricordi, quel giorno? Ti ricordi quel cielo scuro? Quei rombi incessanti ed opprimenti, quei lampi di luce infernale? E quelle nubi di pece? Io si, io ricordo bene quel giorno. Ricordo perfettamente il marciapiede sul quale correvamo, quella mattina. Stavo facendo tardi a scuola, come al solito, giusto? Ricordo distintamente i passi rapidi che stavamo percorrendo sulla superficie d’asfalto, lucida di rugiada appena gelata a causa del freddo settembrino. Era così bello scivolare su quelle piccole lastre di ghiaccio, lo adoravo. Solo dopo, molto dopo quel giorno imparai a domarle sotto dei candidi pattini a scarponcino, ma tu non c’eri. Dov’eri quando imparai a muovere i primi passi sul gelo? Troppo lontano da me. Ma non divaghiamo. Ricordi quando a passo di marcia afferrasti la mia mano per non lasciarla sino al cancello di scuola? Io si, lo ricordo. Anzi, ti dirò un segreto:  ancora adesso, ogni mattina, quando mi alzo per andare a lavoro e cammino per la città lungo lo stesso marciapiede, stringendo il pugno, posso ancora avvertire il calore di quella manona che tanto tempo fa stringeva la mia. Lo sento vividamente, come se fosse ancora lì, incatenata nel tempo, incatenata nella mia anima, nella mia mente, nel mio cuore. Ricordo ancora come il tuo profumo invadeva l’aria, lo sento ancora ogni tanto, quando respiro, lo sento ancora quando chiudo gli occhi. Ricordo ancora il tuo impercettibile battito cardiaco vicino al mio, sempre più rapido ed incalzante, mentre ti piegavi alla mia altezza, facendo sgualcire quei jeans chiari, sui quali si creavano tante piccole pieghette;  mentre poggiavi un indice sotto il mio mento per farmi alzare lo sguardo, perso sulle tue lunghe gambe; mentre poggiavi le labbra sulla mia fronte, carezzandomi lievemente i boccoli biondi, sussurrando un “Buona scuola, Sole, ti vengo a prendere alle quattro”, prima di spingermi delicatamente a superare quel vecchio cancelletto cremisi, tutto arrugginito, che si chiudeva per miracolo solo attraverso ad un’altrettanto arrugginito catenaccio d’acciaio. Mi salutasti con la mano, quel giorno, io, però, lo venni a sapere soltanto dopo, molto dopo, perché ero già girata di spalle, e quando mi voltai indietro era tardi, tu eri lontano, già troppo lontano da me. Ma quando uscii di scuola, tu non eri arrivato ancora. E mai arrivasti.
Comunque, in caso te lo stessi chiedendo, o te lo fossi chiesto, andò bene quel giorno, a scuola. Presi addirittura un dieci ad un disegno, del quale purtroppo non ricordo molto, una delle poche cose silenziosamente sgattaiolate via dalla mia mente di quel giorno. Ho memoria soltanto di una piccola scritta, posta sul lato destra del foglietto di carta, che recitava con caratteri scomposti e disordinati: ‘Al mio papà’.  Te lo avrei dovuto consegnare all’uscita di scuola, mi ero impegnata davvero tanto a disegnare i tuoi occhi verdi di smeraldo, ma non ne ho mai avuto modo.
E’ passato tempo da quel giorno, papà, ma forse tu non lo hai sentito come l’ho sentito io. Sarà che dopo aver capito che non saresti più rientrato in casa a finire la nostra casa, le lancette del grande orologio che avevamo comprato assieme hanno iniziato a scorrere al ritmo dei tuoi ultimi battiti, quasi non esistesse più né tempo né spazio, quasi si fosse fermato tutto quella mattina, quasi non esistesse nulla dopo di te.
Adesso è pronta, casa. Ogni più piccolo dettaglio su carta è tridimensionale, ora. Come questa lettera, anche quel piccolo ammasso di mattoncini ha impiegato un bel po’ per essere concluso. Ho continuato da sola a realizzare il nostro progetto papà, spero davvero che ti piaccia, spero che le piastrelle della cucina, quelle di ceramica azzurra, siano come le avresti messe tu, che l’armadio di mogano scuro abbia l’esatte venature che avevi previsto, spero che il mio tocco, arrivato con quasi sette anni di ritardo, si confondi al tuo, spero che da dove sei, sia stato tu a dettarmi le istruzioni, che sia stato tu quello spiffero di vento nella mia anima, quei battiti veloci, quelle lacrime salate, quelle gocce di sudore. Non ho permesso a nessun altro di entrare nel nostro posto per quasi dieci anni, poi l’ho incontrato. Ti rendi conto? Non ho incontrato il principe azzurro, papà. Non quello delle storie che mi raccontavi, quello che porta la scarpetta alla principessa, quello che le carezza il volto mentre dorme, quello la salva dalla torre, non ho mai trovato il principe dei sogni di Cenerentola, come avevi previsto facessi, perché vedi, solo ora, all’età di trent’anni suonati mi rendo conto di averci vissuto per sei anni, una volta, con quel principe. Eri tu il mio principe, papà, eri tu il principe che mi allacciava le scarpette, eri tu quello che mi svegliava con un bacio ogni mattino, che mi apriva lo sportello della macchina, la porta di casa, quello che mi stringeva forte quando pioveva di notte ed io avevo paura, quello che combatteva per me contro i mostri del buio, e mai nella vita potrei trovare un principe più valido di te. Io ho trovato il ranocchio, papà, ho trovato un ranocchio che come me è stato calpestato troppe volte dalla vita, ho trovato il ranocchio che mi ha dato la forza di guardare avanti, ma il coraggio di voltarmi indietro qualche volta, quello che non mi porterà mai la scarpetta, ma che tornerà da me anche se dovessi tirargliela in testa,  quello per il quale raggiungerei i limiti del mondo, rincorrerei la luce, nuoterei oceani, quello che mi rimbocca le coperte mentre dormo, che ha imparato a condividere le sue abitudini, seppur opposte alle mie, e devo dirtelo, è il mio ranocchio preferito. Sei felice, papà?
Ti ricordi quanto amassi la tua scrittura, papino? Quanto mi piacesse starti accanto mentre scrivevi i tuoi romanzi? Mi sedevo sempre sulle tue gambe, osservandoti gettare fogli su fogli impastocchiati da un inchiostro imprigionato in ordinate lettere serpeggianti, leggendo qui e lì frasi come ‘lacrime di notte’ o ‘specchi di memoria’ e cercavo d’imitarti buttando giù metafore improbabili ad esempio ‘gatto di pettine’, delle quali andavo fiera e che mostravo a tutte le persone sulla mia strada, strappando loro un sorriso. Ho scritto un libro, un anno fa è stato pubblicato, non è molto conosciuto. Ma non m’importa della sua fama, né dei soldi, m’importa averlo finito, m’importa l’aver concluso la mia storia, m’importa d’aver vissuto nel mio mondo, d’aver messo su carta un modo tutto mio, d’averlo condiviso con qualcuno, seppur con poche persone, m’importa d’aver narrato un sogno, come tu facevi con me, m’importa d’aver reso parte di una fiaba ogni lettore, averli resi parte del mio cuore e del mio pensiero. E’ bello vedere che una delle tue piccole pazzie finisce nelle mani di molte persone, ma non è quella la cosa più bella: la cosa più bella è entrare in un bar e vederle sorridere, intente a leggere uno dei tuoi deliri, o vederle piangere per la morte di un personaggio. Tempo fa mi ha fermata una signora alla fermata dell’autobus, complimentandosi con me, mano tesa e sorriso sulle labbra. Ho pianto, quel giorno. Pianto di felicità. Qualcuno aveva amato una mia creazione, qualcuno aveva preso nel cuore parte della mia vita, e non avevo mai desiderato nulla di meglio.
Sai una cosa, papà? Ti capisco. Capisco cosa provavi a tenere sulle gambe una bambina in costante movimento e contemporaneamente pensare al tuo scritto. Sono mamma, papà, mamma di un bellissimo bimbo di sei anni, mamma di una vera e propria saetta, madre di un lampo di luce, madre della creatura più bella che sia mai esistita a questo mondo, è qui con me ora. Ti sta guardando, papà, sta guardando suo nonno, ne sta  accarezzando lievemente i lineamenti del volto, un volto strappato in un momento della giovinezza, un volto catturato tanto tempo fa, un volto che non mi lascerà mai, ma che lui potrà vedere solamente su due dimensioni.  Lo dovresti vedere papà, come si aggira per casa camminando come te, come me, come noi. E’ bellissimo. Uguale al padre in tutto e per tutto, ma con i nostri occhi, con la nostra camminata, quella che tempo fa ci aveva condotto in sincronia a quel cancello, con la quale sei sparito via dalla mia vita.
Mi manchi papà, mi manchi troppo, mi manchi come ad un pianeta manca la sua stella, come alla luna il suo sole, alla destra la sinistra, mi manchi come l’ossigeno, ed ogni tanto, la sera, quando mi accorgo che non potrai neppure quel giorno leggermi una delle tue storie, mi si mozza il respiro. Ma ce la farò, papà, Andrò avanti per te, per Alexander, il mio ranocchio, il mio compagno di vita, l’amore della mia vita, andrò avanti per Robert, mio figlio, la mia luce, tuo nipote. Andrò avanti anche per me, per vivere la vita che a te è stata negata, e ti prometto papà, che se anche ora vorrei essere lì, accanto al mio principe, ti prometto che riderò anche per te, amerò anche per te, sarò felice anche per te.
Auguri papà, auguri per il tuo sessantesimo compleanno, auguri da parte di Rob, da parte di Alex, da parte mia. Ti amo, lo sai, lo hai sempre saputo e sempre lo saprai.
Ci incontreremo, prima o poi, verrò lì dove siete tu e mamma, la conoscerò, e ti riabbraccerò, come quel mattino di Settembre, come non faccio da ventiquattro anni.
A presto,

Tua Delilah."

Una ragazza dai ricci capelli castani, lasciò che una piccola lacrima le solcasse il volto, guardandola cadere sulla lastra di spesso bianco marmo. La gocciolina argentea cadde  perpendicolarmente, espandendosi leggermente al violento impatto con la superficie liscia, poi rimase lì, ad assistere alla scena, impotente.
Delilah strinse il pugno attorno ad un piccolo foglietto di carta, lievemente stropicciato, dalla superficie ruvida e vissuta, neppure appartenesse ad una distante epoca, poi si piegò a terra, l’altra mano incatenata alle piccole dita di un piccolo bimbo dai capelli d’ebano e dai vivi occhi di smeraldo. Si girò a guardarlo. “Vuoi dare tu il regalo al nonno, Rob?” chiese dolce, carezzando col polpastrello la sua manina paffuta, accompagnando il gesto con un debole sorriso incoraggiante. Il bimbo annuì, sciogliendo la presa della mamma ed afferrando la piccola letterina stretta nel suo pugno.  La guardò per qualche secondo, una strana smorfia ad increspare le carnose labbra rosee. “Mamma, credi che a nonno Robert piacerà questa cosa? Non sarebbe meglio regalargli qualcos’altro?” domando, incerto.
Dalilah sorrise apertamente, piegandosi all’altezza del figlio. “Ad esempio cosa?” chiede, sfiorando la fronte la piccolo con la punta delle dita, scostandogli un ciuffo di notte che, prepotentemente, gli copriva l’occhio destro. “Ad esempio un lego! Non credi che si annoi tutto solo, lì?” Ribatté con enfasi, spalancando le braccia per accompagnare l’esclamazione caricandola ulteriormente. La donna scoppiò a ridere, nel cuore una voragine aumentò di diametro. “Ne dubito, Rob.” Rispose, posando una rosa in un vaso di vetro posato sulla lapide.  “Io invece penso di si!” fu la cocciuta risposta del bimbo che, in un primo momento incrociò offeso le braccia al petto, mentre in un secondo momento si avvicinò alla tomba, poggiando vicino alla candela –ma non troppo- la lettera, poi, mise una manina in tasca, e ne tirò fuori sue quattro costruzione di colori diversi. “Siamo noi, mamma, io, te, papà, e nonno" le spiegò, sapientemente, alludendo ai lego, poggiandoli accanto alla lettera. “Questo è il mio regalo.” Finì, con un sorriso.
La donna trattenne il respiro per non scoppiare a piangere davanti al figlio, commossa dalle bellissime parole. “Hai ragione, Rob, era una persona sempre intenta a far qualcosa, si starà annoiando a morte.” Mormorando, lasciando che un’altra piccola gocciolina le solcasse il volto, ricalcando la stessa strada della prima.
“Ti ama, mamma, ricordatelo, sempre.” Disse al piccolo, traendolo a sé e posandogli un delicato bacio sul capo moro. “E papà ama te e mamma.” Disse una voce alle loro spalle. Il bimbo scattò, urlando un “Papà!” correndogli incontro. Alex lo prese al volo, facendolo girare in aria, scatenando la sua ilarità. Delilah sorrise. “Se corressi io mi prenderesti?” chiese giocosa, alzandosi da terra ed andando in contro al compagno, raccogliendo prima la borsa di patchwork da terra.  “Ti prenderei anche se tu cadessi da un burrone, Lilah.” Rispose, per poi chinarsi per posandole un bacio sulle labbra. “Ti amo” Fu la risposta.
Il piccolo Robert, scatenò lo sguardo dei genitori. “Mamma, papà, secondo voi mi vuole bene il nonno?” chiese, avvinghiandosi al collo di Alex. Delilah sorrise. “Ti ama, Rob, ti ama.”
Alex, avvicinò la donna, prendendola con il braccio libero, per la vita. “Ora, un bel gelato, vi va?” chiese, gli occhi pieni di dolcezza, il cuore pieno d’amore. “SI!” urlò il bimbo, abbracciandolo e scoppiando a ridere . La risata cristallina avvolse il cuore della donna, che dopo un’ultima occhiata alla foto sorridente del padre, li guidò fuori dal cimitero. Mi machi, papà.
Dal cielo cadde una goccia trasparente, che andò a posarsi sul marmo candido, fondendosi a quella che v’era caduta in precedenza. Anche tu, Luce, anche tu.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
 
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