“There's a heaven above you baby
And don't you cry
Don't you ever cry
Don't you cry tonight
Baby maybe someday .”
Guns n Roses, “Don’t
cry”
Mise a fuoco con
difficoltà la pagina di chimica organica da studiare per il giorno dopo,
sbattendo piano le palpebre, cercando di mettere in ordine nella sua testa le
parole che riusciva a leggere. Due dei
quattro atomi di carbonio del bu … Bute che? Due dei
quattro atomi del butene sono legati da legami covale … Ricominciò
dall’inizio del rigo, sentendo l’orologio della cucina ticchettare
insistentemente di fronte a lui e Tabasco soffiare indispettito in un angolo
per la poca attenzione che gli veniva rivolta, nella casa semi vuota. C’era
solo Ludovica, chiusa da qualche parte in camera sua a suonare, probabilmente
l’ultimo pezzo che i ragazzi avevano tentato di mettere assieme. Aveva dato un
segno di vita un’ora prima, quando era entrata trascinandosi in cucina per
agguantare una tazza di cereali e versarci dentro una quantità industriale di corn flakes perché “la facevano
concentrare di più”. Dal suo tono gli era sembrato che non volesse essere
disturbata, quindi aveva rinunciato in partenza a chiederle una mano per
l’interrogazione del giorno dopo e, visto che né Walter né Giorgio erano in
grado di risolvere nemmeno il più banale esercizio di scissione omolitica, si
era chiuso in cucina col gatto nella speranza di raccapezzarci qualcosa. Almeno
un misero sei … ne aveva bisogno, se voleva avere qualche speranza di essere
promosso all’esame senza nessun “aiutino” da parte dei professori. Ci teneva ad
arrivarci da solo, perché dopo tutto il cervello era un muscolo, no? Avrebbe
potuto esercitarlo come faceva con gli addominali durante gli allenamenti di
calcetto. O forse no, non se lo ricordava. Forse aveva appena pensato una
sciocchezza. Gli venne da alzarsi e andare alla porta di Ludovica, per
chiederle se davvero il cervello era un muscolo come gli pareva di ricordare.
Comunque sia, sarebbe stato meglio non saperlo. In quel caso si sarebbe sentito
anche peggio, perché per ogni suo sforzo non otteneva nient’altro che una
misera tensione intellettiva, niente che potesse garantirgli un minimo di
dignità ai suoi occhi. Tornò al butene e ai suoi due atomi di carbonio legati
da un doppio legame covalente. Fin qui, ci era arrivato. Lesse il rigo
successivo, si intimò di restare seduto sebbene le sue gambe battessero
continuamente contro il tavolo, irrequiete, tremanti. L’orologio però non
segnava ancora le sei, gli allenamenti erano ancora lontani, anche se … sarebbe
potuto uscire, prendere un po’ d’aria e magari riprovare dopo. No! Doveva
riuscirci. Tabasco andò ad accoccolarsi ai suoi piedi, insistendo perché gli
venissero fatte le coccole. Ci stava provando a concentrarsi.
-Ludo vieni a
prenderti questa palla di pelo prima che la ficchi nel forno con una mela in
bocca e te la dia in pasto!- sbottò, sperando che la sua voce le arrivasse
lontana com’era. Ma che diavolo stava facendo? Proprio quando aveva bisogno di
lei. Lo scacciò con una pedata, facendogli digrignare i denti come un piccolo
demonio rosso, poi si alzò col libro di chimica in mano. Una mano, gli serviva
una mano. Prima che gli tornasse addosso quella strana inquietudine che lo
rendeva così improduttivo. Camminò scalzo lungo il corridoio vuoto e, mentre
passava davanti allo specchio del mobile del salotto, si accorse che la maglia
scucita che portava di solito in casa gli dava un’aria piuttosto smagrita. Che
ultimamente addosso aveva più pelle che muscoli, gli occhi sempre cerchiati di
sonno, dopo le ore passate a cercare di combinare qualcosa e i pasti saltati in
virtù di qualche scappatella con Giorgio. Beveva più che mangiare, girandosi e
rigirandosi di notte fra le lenzuola umide si accorgeva di potersi contare
chiaramente le costole e le ossa del bacino sottile gli sporgevano ai lati come
due punte acuminate. I capelli rossi gli ricadevano ormai lunghi fino ai lati
del viso, ma almeno ogni mattina aveva la cura di rasarsi, con l’unico
risultato di far apparire ancora più spettrale gli zigomi bianchi. Gli esami si
avvicinavano, il futuro macinava strada di fronte a lui, mentre il passato gli
sfuggiva di mano come un aquilone ad un bambino che piange perché non riesce a
riacchiapparlo. Il presente, nient’altro che un’ombra. L’ombra dei suoi occhi,
che vagavano agitati da una paranoia ingiustificata, braccato da ogni lato
senza sapere come evitare quella macchina mangia uomini che è l’avvenire. Che
cosa avrebbe fatto? Dove sarebbe andato? Dimmelo,
Enrico, dove andrai? Sei un uomo o un coglione? Ce li hai gli attributi o no?
E piangeva, certe volte, dopo che la sbornia gli era passata. Piangeva così
forte nel cuore della notte che doveva soffocare le urla nel cuscino per paura
che Ludovica lo sentisse, tanto erano sottili quelle pareti. Ludo, ti prego, dammi una mano in chimica.
Non voleva piagnucolare, ma alla vista della sua sagoma qualcosa gli si era
spezzato dentro, un’infinita tristezza, un vertiginoso bisogno di urlare a
qualcuno di aiutarlo. Di tirarlo fuori da quel giro vizioso, di far sparire i
mostri sotto al letto. Qualcuno, ma chi? Lo sapeva benissimo, eppure non voleva
ammetterlo. Si sentì una ragazzina respinta dalla sua prima cotta, uno schifo.
Aprile germogliava tranquillo alla sua finestra, mentre lui piano piano si dissolveva in stesso. Ma doveva farcela. Doveva
bussare alla porta di Ludovica. Almeno lei …
-Ludo, hai già
fatto chimica?- si sentì patetico lì sulla porta, a grattarsi la testa con una
matita sull’orecchio e il libro di chimica a lato. Aveva una strana paura di
scoppiare a piangere da un momento all’altro. Lui, un uomo. Era evidentemente
della stessa pasta di quel bastardo. Una donnicciola incapace di prendersi le
sue responsabilità. Sarebbe stato meglio per lui fallire nella vita, non
diplomarsi, finire a lavorare in fabbrica e ad ubriacarsi ogni fine settimana
in periferia, andare a puttane e smetterla di pretendere da se stesso di
potersi salvare. Lui non poteva. Perché avrebbe dovuto, quel figlio di un
bastardo? La stanza di Ludovica profumava di pesca, aveva acceso le candele che
le piacevano tanto ai piedi del letto e se ne stava distesa a testa in giù con
un libro schiacciato contro il naso. Gli dava le spalle, quindi non lo notò.
Enrico tossì, sentendo la voce tremare.
-Ludovica- la chiamò.
Lei si tolse le
cuffie del walkman e si alzò spaventata, per poi premersi una mano sul cuore e
sbuffare stizzita.
-Sei tu, mi hai
spaventato- esalò, rotolando sul letto e gettando il libro sul cuscino. Enrico
alzò il libro di chimica, con le braccia molli. Dov’erano finiti i suoi
muscoli? Cretino, pappamolle.
-Mamma stasera
ha il turno di cinque ore, ti ricordi? Ci ha lasciato la cena in forno- alzò le
spalle. Ludovica annuì, distratta. Sembrò notare il libro solo dopo qualche
minuto e quella disattenzione, inspiegabilmente, affossò ancora di più i
pensieri di Enrico. Nemmeno tua sorella
ti vuole.
-Vuoi una mano
in chimica?- domandò retoricamente Ludovica. Lui annuì, gettando il volume sul
letto e sedendosi in terra, a gambe incrociate. Ludovica lo aprì alla pagina
che aveva già studiato e si schiarì la voce, per leggere il paragrafo come
faceva ogni volta, pazientemente. Enrico si sentì uno schifo, assolutamente
inutile. Tanto sarebbe andato tutto a puttane lo stesso. Ma almeno lei, sua
sorella, lei sarebbe andata avanti. E sua madre sarebbe stata fiera. Lui
sarebbe scappato via, si sarebbe nascosto pieno di vergogna in qualche posto in
cima al mondo, vivendo come uno di quegli eremiti che perdono anche l’uso della
parola, dopo tutto il tempo passato in solitudine. Si sarebbe ridotto ad un
bruto e sua madre non lo avrebbe riconosciuto, dietro la sua enorme barba.
Tutti si sarebbero dimenticati di lui, tranne i bambini che avrebbe
terrorizzato la domenica andando in chiesa, mettendo finalmente la testa fuori
casa. Si sarebbero dimenticati di lui e sarebbe stato meglio così, per lui e
per tutti. Ma gli occhi di Ludovica lo fissavano attoniti, come se gli stesse
appena leggendo nella mente. Sembrò che qualcosa anche in lei si stesse
spezzando.
-Ancora?-
Enrico, esausto,
lasciò andare le lacrime e, con la testa fra le mani, la schiena magra piegata
in avanti, con le vertebre spaventosamente visibili sotto la maglietta, pianse.
Ancora ed ancora. Quando sarebbe stato libero di vivere in pace? Quella
mancanza lo logorava, tanto. Papà … dove
sei? E come ogni volta, Ludovica lo abbracciò e gli disse di stare calmo,
che tutto si sarebbe risolto. E lui si lasciò cullare, perché aveva paura di
tutto, soprattutto di se stesso e di quel buio che sembrava volerlo inghiottire
ogni volta era solo. Quella sfiducia che non voleva, ma che era sempre lì
appollaiata sulla sua spalla come un demone crudele, a succhiargli via il
sangue direttamente dalla aorta.
-Ora ti spiego i
doppi legami, va bene? Che poi hai gli allenamenti- fu Ludovica a rompere il
silenzio. Ed Enrico non poté fare altro che annuire ancora, riconoscendo la
sconfinata forza della sua gemella, sperando, raccogliendo i pezzi.
***
Era rimasto al
campetto più degli altri, tirava calci al pallone e si sentiva meglio, infinitamente
meglio. Era all’aperto e faceva caldo, quella sera, perché oramai erano già le
otto e probabilmente Ludovica aveva già messo in tavola gli avanzi del
polpettone e le patate novelle che gli piacevano tanto, mentre Tabasco
miagolava per il suo cibo. Si sentì un po’ meschino a lasciarla lì sola,
sapendo quanto aveva fatto per lui, ma proprio non ce la faceva a tornare.
Aveva bisogno di aria, aveva bisogno di respirare, come dopo essere stati per
troppo tempo sott’acqua. Quel demone doveva lasciare la presa, doveva
andarsene. Lui lo avrebbe scacciato via con tutte le sue forze, come i colpi
violenti che ora dava al pallone. Rete, ancora. Sua madre non avrebbe dovuto
dimenticarsi di lui, non lo avrebbe permesso. Sua madre si sarebbe ricordata
sempre di suo figlio, quello ferito, quello sfiduciato, quello dislessico e
fragile, il bambino coi bicipiti, e non se ne sarebbe dovuto andare da nessuna
parte. Non avrebbe dovuto nascondersi, né chiudersi in una casetta su una
montagna. Avrebbe trovato una donna, una di quelle dolci, forti, che avrebbe
dato senso a tutto quel dolore. Sarebbe stato bene, prima o poi. Poteva, doveva
crederci. Almeno per sua sorella, per lei che era l’unica ad avere fiducia. E
quanta ne aveva, quella ragazza! Quanto era fiduciosa nel bene, nel mondo, in
una possibilità di riscatto, in se stessa, nell’amore, nell’amicizia, nella
musica. Forse l’aveva trovato nei libri che leggeva, chissà. Un giorno, tornato
da un lungo viaggio, gliel’avrebbe chiesto. E le avrebbe sorriso, magari,
perché forse anche lui l’aveva trovata nel frattempo quella cosa lì, la fiducia nel
futuro. Una macchina macina ossa, mangia uomini, il cambiamento. Ma lo avrebbe
accettato, perché è quello che fanno gli uomini, anche se nessuno gliel’aveva
mai spiegato. I veri uomini non sono quelli che non soffrono, sono quello che
soffrono con coraggio. Che distruggono per costruire. E anche se questo lo capì
molto tempo dopo, qualcosa in quell’attimo lì, mentre calciava l’ultimo pallone
prima di andarsi a gettare in doccia, glielo fece intuire. Qualcosa nell’aria,
nella contrazione dei muscoli, nella luna che brillava dietro una lieve coltre
di nuvole, nel grido del custode che da dieci minuti gli ricordava che stavano
per chiudere. Qualcosa in quella vita lo fece sperare. Quando tornò a casa,
fresco e coi capelli ancora umidi di shampoo al muschio, si sorprese di sentire
delle voci in cucina, dove era stata accesa l’unica luce. Camminò senza farsi
sentire lungo il corridoio buio, trovando Marta accoccolata sul divano
arancione, fra i cuscini dove di solito dormiva Tabasco quando faceva freddo,
con un libro in mano e Ludovica ad affaccendarsi attorno al tavolo, sistemando
le posate e i bicchieri. Ridacchiava ,come a non volersi far sentire, ma in
casa c’erano solo loro due e un po’ di musica che avevano messo alla radio, i
Police forse, qualcosa di basso, d’atmosfera.
-Mi presti un
po’ d’attenzione?- chiese Ludovica, scocciata, ma ridendo. Marta alzò per un
attimo gli occhi dal libro, inarcando un sopracciglio, mentre Enrico guardava il
tutto attonito, come un bambino di fronte ad una vetrina di dolci.
-La signorina
reclama fin troppe attenzioni stasera- insinuò, chiudendo il volume.
-Io almeno solo
viva, Catullo è schiattato da secoli! Mi sembra un elemento sufficiente a
favore della mia causa- fu la risposta altrettanto maliziosa. Marta rise, poi
si alzò.
-Dai, ti do una
mano a sistemare prima che torni Enrico. Secondo me muore di fame-
Ludovica
sorrise, portando in tavola la pirofila con le patate che tanto adorava.
-Di sicuro muore
di fame. Quindi non toccare, che se torna e sa che abbiamo cominciato ci
uccide-
E risero tutt’e
e due. Enrico le salutò, fingendo di essere appena tornato. Sorridendo.