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Autore: Deirbhile    19/12/2014    0 recensioni
Un piccolo locale squallido e dall'odore di alcol stantio, un barista un po' acido e un gruppo di diciottenni pieni di sogni e senza speranza. Un gruppo musicale, qualche amore, fumo di sigaretta e di chissà cos'altro, esperienze da fare e da dimenticare.
Ludovica, la bassista ermetica e irraggiungibile, suo fratello gemello Enrico, dislessico e in conflitto col mondo, Marta, l'aspirante scrittrice bisognosa di sicurezze, Giorgio, il dongiovanni senza radici. Gli anni Novanta e una grande voglia di evadere da tutto, con i sentimenti che si mescolano a vecchie canzoni rock.
Genere: Angst, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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There's a heaven above you baby 
And don't you cry 
Don't you ever cry 
Don't you cry tonight 
Baby maybe someday .”

Guns n Roses, “Don’t cry”

 

Mise a fuoco con difficoltà la pagina di chimica organica da studiare per il giorno dopo, sbattendo piano le palpebre, cercando di mettere in ordine nella sua testa le parole che riusciva a leggere. Due dei quattro atomi di carbonio del buBute che? Due dei quattro atomi del butene sono legati da legami covale … Ricominciò dall’inizio del rigo, sentendo l’orologio della cucina ticchettare insistentemente di fronte a lui e Tabasco soffiare indispettito in un angolo per la poca attenzione che gli veniva rivolta, nella casa semi vuota. C’era solo Ludovica, chiusa da qualche parte in camera sua a suonare, probabilmente l’ultimo pezzo che i ragazzi avevano tentato di mettere assieme. Aveva dato un segno di vita un’ora prima, quando era entrata trascinandosi in cucina per agguantare una tazza di cereali e versarci dentro una quantità industriale di corn flakes perché “la facevano concentrare di più”. Dal suo tono gli era sembrato che non volesse essere disturbata, quindi aveva rinunciato in partenza a chiederle una mano per l’interrogazione del giorno dopo e, visto che né Walter né Giorgio erano in grado di risolvere nemmeno il più banale esercizio di scissione omolitica, si era chiuso in cucina col gatto nella speranza di raccapezzarci qualcosa. Almeno un misero sei … ne aveva bisogno, se voleva avere qualche speranza di essere promosso all’esame senza nessun “aiutino” da parte dei professori. Ci teneva ad arrivarci da solo, perché dopo tutto il cervello era un muscolo, no? Avrebbe potuto esercitarlo come faceva con gli addominali durante gli allenamenti di calcetto. O forse no, non se lo ricordava. Forse aveva appena pensato una sciocchezza. Gli venne da alzarsi e andare alla porta di Ludovica, per chiederle se davvero il cervello era un muscolo come gli pareva di ricordare. Comunque sia, sarebbe stato meglio non saperlo. In quel caso si sarebbe sentito anche peggio, perché per ogni suo sforzo non otteneva nient’altro che una misera tensione intellettiva, niente che potesse garantirgli un minimo di dignità ai suoi occhi. Tornò al butene e ai suoi due atomi di carbonio legati da un doppio legame covalente. Fin qui, ci era arrivato. Lesse il rigo successivo, si intimò di restare seduto sebbene le sue gambe battessero continuamente contro il tavolo, irrequiete, tremanti. L’orologio però non segnava ancora le sei, gli allenamenti erano ancora lontani, anche se … sarebbe potuto uscire, prendere un po’ d’aria e magari riprovare dopo. No! Doveva riuscirci. Tabasco andò ad accoccolarsi ai suoi piedi, insistendo perché gli venissero fatte le coccole. Ci stava provando a concentrarsi.

-Ludo vieni a prenderti questa palla di pelo prima che la ficchi nel forno con una mela in bocca e te la dia in pasto!- sbottò, sperando che la sua voce le arrivasse lontana com’era. Ma che diavolo stava facendo? Proprio quando aveva bisogno di lei. Lo scacciò con una pedata, facendogli digrignare i denti come un piccolo demonio rosso, poi si alzò col libro di chimica in mano. Una mano, gli serviva una mano. Prima che gli tornasse addosso quella strana inquietudine che lo rendeva così improduttivo. Camminò scalzo lungo il corridoio vuoto e, mentre passava davanti allo specchio del mobile del salotto, si accorse che la maglia scucita che portava di solito in casa gli dava un’aria piuttosto smagrita. Che ultimamente addosso aveva più pelle che muscoli, gli occhi sempre cerchiati di sonno, dopo le ore passate a cercare di combinare qualcosa e i pasti saltati in virtù di qualche scappatella con Giorgio. Beveva più che mangiare, girandosi e rigirandosi di notte fra le lenzuola umide si accorgeva di potersi contare chiaramente le costole e le ossa del bacino sottile gli sporgevano ai lati come due punte acuminate. I capelli rossi gli ricadevano ormai lunghi fino ai lati del viso, ma almeno ogni mattina aveva la cura di rasarsi, con l’unico risultato di far apparire ancora più spettrale gli zigomi bianchi. Gli esami si avvicinavano, il futuro macinava strada di fronte a lui, mentre il passato gli sfuggiva di mano come un aquilone ad un bambino che piange perché non riesce a riacchiapparlo. Il presente, nient’altro che un’ombra. L’ombra dei suoi occhi, che vagavano agitati da una paranoia ingiustificata, braccato da ogni lato senza sapere come evitare quella macchina mangia uomini che è l’avvenire. Che cosa avrebbe fatto? Dove sarebbe andato? Dimmelo, Enrico, dove andrai? Sei un uomo o un coglione? Ce li hai gli attributi o no? E piangeva, certe volte, dopo che la sbornia gli era passata. Piangeva così forte nel cuore della notte che doveva soffocare le urla nel cuscino per paura che Ludovica lo sentisse, tanto erano sottili quelle pareti. Ludo, ti prego, dammi una mano in chimica. Non voleva piagnucolare, ma alla vista della sua sagoma qualcosa gli si era spezzato dentro, un’infinita tristezza, un vertiginoso bisogno di urlare a qualcuno di aiutarlo. Di tirarlo fuori da quel giro vizioso, di far sparire i mostri sotto al letto. Qualcuno, ma chi? Lo sapeva benissimo, eppure non voleva ammetterlo. Si sentì una ragazzina respinta dalla sua prima cotta, uno schifo. Aprile germogliava tranquillo alla sua finestra, mentre lui piano piano si dissolveva in stesso. Ma doveva farcela. Doveva bussare alla porta di Ludovica. Almeno lei …

-Ludo, hai già fatto chimica?- si sentì patetico lì sulla porta, a grattarsi la testa con una matita sull’orecchio e il libro di chimica a lato. Aveva una strana paura di scoppiare a piangere da un momento all’altro. Lui, un uomo. Era evidentemente della stessa pasta di quel bastardo. Una donnicciola incapace di prendersi le sue responsabilità. Sarebbe stato meglio per lui fallire nella vita, non diplomarsi, finire a lavorare in fabbrica e ad ubriacarsi ogni fine settimana in periferia, andare a puttane e smetterla di pretendere da se stesso di potersi salvare. Lui non poteva. Perché avrebbe dovuto, quel figlio di un bastardo? La stanza di Ludovica profumava di pesca, aveva acceso le candele che le piacevano tanto ai piedi del letto e se ne stava distesa a testa in giù con un libro schiacciato contro il naso. Gli dava le spalle, quindi non lo notò. Enrico tossì, sentendo la voce tremare.

-Ludovica- la chiamò.

Lei si tolse le cuffie del walkman e si alzò spaventata, per poi premersi una mano sul cuore e sbuffare stizzita.

-Sei tu, mi hai spaventato- esalò, rotolando sul letto e gettando il libro sul cuscino. Enrico alzò il libro di chimica, con le braccia molli. Dov’erano finiti i suoi muscoli? Cretino, pappamolle.

-Mamma stasera ha il turno di cinque ore, ti ricordi? Ci ha lasciato la cena in forno- alzò le spalle. Ludovica annuì, distratta. Sembrò notare il libro solo dopo qualche minuto e quella disattenzione, inspiegabilmente, affossò ancora di più i pensieri di Enrico. Nemmeno tua sorella ti vuole.

-Vuoi una mano in chimica?- domandò retoricamente Ludovica. Lui annuì, gettando il volume sul letto e sedendosi in terra, a gambe incrociate. Ludovica lo aprì alla pagina che aveva già studiato e si schiarì la voce, per leggere il paragrafo come faceva ogni volta, pazientemente. Enrico si sentì uno schifo, assolutamente inutile. Tanto sarebbe andato tutto a puttane lo stesso. Ma almeno lei, sua sorella, lei sarebbe andata avanti. E sua madre sarebbe stata fiera. Lui sarebbe scappato via, si sarebbe nascosto pieno di vergogna in qualche posto in cima al mondo, vivendo come uno di quegli eremiti che perdono anche l’uso della parola, dopo tutto il tempo passato in solitudine. Si sarebbe ridotto ad un bruto e sua madre non lo avrebbe riconosciuto, dietro la sua enorme barba. Tutti si sarebbero dimenticati di lui, tranne i bambini che avrebbe terrorizzato la domenica andando in chiesa, mettendo finalmente la testa fuori casa. Si sarebbero dimenticati di lui e sarebbe stato meglio così, per lui e per tutti. Ma gli occhi di Ludovica lo fissavano attoniti, come se gli stesse appena leggendo nella mente. Sembrò che qualcosa anche in lei si stesse spezzando.

-Ancora?-

Enrico, esausto, lasciò andare le lacrime e, con la testa fra le mani, la schiena magra piegata in avanti, con le vertebre spaventosamente visibili sotto la maglietta, pianse. Ancora ed ancora. Quando sarebbe stato libero di vivere in pace? Quella mancanza lo logorava, tanto. Papà … dove sei? E come ogni volta, Ludovica lo abbracciò e gli disse di stare calmo, che tutto si sarebbe risolto. E lui si lasciò cullare, perché aveva paura di tutto, soprattutto di se stesso e di quel buio che sembrava volerlo inghiottire ogni volta era solo. Quella sfiducia che non voleva, ma che era sempre lì appollaiata sulla sua spalla come un demone crudele, a succhiargli via il sangue direttamente dalla aorta.

-Ora ti spiego i doppi legami, va bene? Che poi hai gli allenamenti- fu Ludovica a rompere il silenzio. Ed Enrico non poté fare altro che annuire ancora, riconoscendo la sconfinata forza della sua gemella, sperando, raccogliendo i pezzi.

***

Era rimasto al campetto più degli altri, tirava calci al pallone e si sentiva meglio, infinitamente meglio. Era all’aperto e faceva caldo, quella sera, perché oramai erano già le otto e probabilmente Ludovica aveva già messo in tavola gli avanzi del polpettone e le patate novelle che gli piacevano tanto, mentre Tabasco miagolava per il suo cibo. Si sentì un po’ meschino a lasciarla lì sola, sapendo quanto aveva fatto per lui, ma proprio non ce la faceva a tornare. Aveva bisogno di aria, aveva bisogno di respirare, come dopo essere stati per troppo tempo sott’acqua. Quel demone doveva lasciare la presa, doveva andarsene. Lui lo avrebbe scacciato via con tutte le sue forze, come i colpi violenti che ora dava al pallone. Rete, ancora. Sua madre non avrebbe dovuto dimenticarsi di lui, non lo avrebbe permesso. Sua madre si sarebbe ricordata sempre di suo figlio, quello ferito, quello sfiduciato, quello dislessico e fragile, il bambino coi bicipiti, e non se ne sarebbe dovuto andare da nessuna parte. Non avrebbe dovuto nascondersi, né chiudersi in una casetta su una montagna. Avrebbe trovato una donna, una di quelle dolci, forti, che avrebbe dato senso a tutto quel dolore. Sarebbe stato bene, prima o poi. Poteva, doveva crederci. Almeno per sua sorella, per lei che era l’unica ad avere fiducia. E quanta ne aveva, quella ragazza! Quanto era fiduciosa nel bene, nel mondo, in una possibilità di riscatto, in se stessa, nell’amore, nell’amicizia, nella musica. Forse l’aveva trovato nei libri che leggeva, chissà. Un giorno, tornato da un lungo viaggio, gliel’avrebbe chiesto. E le avrebbe sorriso, magari, perché forse anche lui l’aveva trovata  nel frattempo quella cosa lì, la fiducia nel futuro. Una macchina macina ossa, mangia uomini, il cambiamento. Ma lo avrebbe accettato, perché è quello che fanno gli uomini, anche se nessuno gliel’aveva mai spiegato. I veri uomini non sono quelli che non soffrono, sono quello che soffrono con coraggio. Che distruggono per costruire. E anche se questo lo capì molto tempo dopo, qualcosa in quell’attimo lì, mentre calciava l’ultimo pallone prima di andarsi a gettare in doccia, glielo fece intuire. Qualcosa nell’aria, nella contrazione dei muscoli, nella luna che brillava dietro una lieve coltre di nuvole, nel grido del custode che da dieci minuti gli ricordava che stavano per chiudere. Qualcosa in quella vita lo fece sperare. Quando tornò a casa, fresco e coi capelli ancora umidi di shampoo al muschio, si sorprese di sentire delle voci in cucina, dove era stata accesa l’unica luce. Camminò senza farsi sentire lungo il corridoio buio, trovando Marta accoccolata sul divano arancione, fra i cuscini dove di solito dormiva Tabasco quando faceva freddo, con un libro in mano e Ludovica ad affaccendarsi attorno al tavolo, sistemando le posate e i bicchieri. Ridacchiava ,come a non volersi far sentire, ma in casa c’erano solo loro due e un po’ di musica che avevano messo alla radio, i Police forse, qualcosa di basso, d’atmosfera.

-Mi presti un po’ d’attenzione?- chiese Ludovica, scocciata, ma ridendo. Marta alzò per un attimo gli occhi dal libro, inarcando un sopracciglio, mentre Enrico guardava il tutto attonito, come un bambino di fronte ad una vetrina di dolci.

-La signorina reclama fin troppe attenzioni stasera- insinuò, chiudendo il volume.

-Io almeno solo viva, Catullo è schiattato da secoli! Mi sembra un elemento sufficiente a favore della mia causa- fu la risposta altrettanto maliziosa. Marta rise, poi si alzò.

-Dai, ti do una mano a sistemare prima che torni Enrico. Secondo me muore di fame-

Ludovica sorrise, portando in tavola la pirofila con le patate che tanto adorava.

-Di sicuro muore di fame. Quindi non toccare, che se torna e sa che abbiamo cominciato ci uccide-

E risero tutt’e e due. Enrico le salutò, fingendo di essere appena tornato. Sorridendo.

  
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