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Autore: Koira    20/12/2014    1 recensioni
"Nessuno aveva intenzione di rifiutare la proposta del proprietario, e, quando ci chiese cosa avevamo deciso, firmai quel contratto, convinto di fare la cosa più giusta che potessi fare.
O almeno così pensavo".
Genere: Horror, Romantico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 1
Era davvero una bella villetta …
 
 
Era davvero una bella villetta. Sembrava quasi guardarmi dall’alto in basso, nella sua maestosa eleganza, facendo mostra del suo incantevole giardino, un paradiso terrestre, e dei suoi due piani. Dava l’impressione di squadrarmi dalla testa ai piedi, quasi a volermi rimproverare il solo fatto di stare lì, fermo in mezzo al traffico dell’ora di punta, ad osservarla ammaliato, “tu che sei un povero pezzente, tu che non potresti permettertela neanche lavorando una vita!”, sembrava esclamare. Eppure, non so perché, mi sentii attratto sin da subito da quella costruzione, che spiccava, come il sole fra le stelle, sullo sfondo di un quartiere residenziale in apparenza pacifico e accogliente. Ricordo che associai quell’immagine così incantevole a un telefilm che mia moglie seguiva sporadicamente in televisione, “Desperate Housewives”. Il suono di un clacson mi riportò bruscamente alla realtà. “Smetti di fantasticare”, mi dissi, “o farai tardi al lavoro”.
E ripresi a guidare, immergendomi nuovamente nel torpore di una squallida e grigia metropoli del Nord Italia. Imboccai l’autostrada e premetti più forte sull’acceleratore, quasi sentendomi in colpa per aver anche solo osato pensare di contattare i proprietari per chiedere maggiori informazioni sulla vendita. Si erano quasi fatte le otto e mezza quando parcheggiai l’automobile e presi l’ascensore, diretto mestamente alla mia postazione.
Avevo sempre detestato il mio lavoro. Sulla mia uniforme, di un arancione abbagliante, spiccava una targhetta con su scritto: “addetto alla nettezza urbana”. Insomma, uno spazzino. A dirla tutta, mi occupavo della pulizia di un ospedale, ma il mio superiore era stato così “gentile” da concedermi il lusso di continuare ad indossare un’uniforme vecchia e logora, risalente ai tempi in cui, ancora giovane e speranzoso, lavoravo part-time come netturbino per pagarmi gli studi all’università. Ormai sono passati quasi vent’anni da quel periodo, e non solo ho rinunciato definitivamente al sogno di diventare medico, ma sono talmente in rosso con i conti da non potermi permettere nemmeno una divisa nuova! Così, ancora oggi, a quaranta anni suonati, mi tocca essere inadeguato rispetto agli altri, mi tocca spiccare su tutti i miei colleghi per il colore della mia stupida divisa. Una croce, direi. E pensate che, a tutto questo, si aggiungono gli imbarazzanti commenti dei miei ex colleghi dell’università, tutti medici, ovviamente, tutti affermati dottori che hanno ricevuto in eredità patrimoni dai genitori ultraricchi, e anch’essi dottori.
«Buongiorno, Edoardo».
Mi voltai per rispondere e, con amarezza, scoprii che a parlare era stato Simone, un mio vecchio amico nonché coinquilino ai tempi di Medicina. Oramai per me era il “dottore Alberini”, ovviamente, e guai a dargli del tu.
«Buongiorno, Dottor Alberini» risposi con il tono più gentile che riuscii ad ottenere.
«Mi raccomando, dai una pulita alla stanza 2, stanotte abbiamo avuto un paziente con ematemesi».
Mi rivolse un sorrisetto, come a dire “vediamo se hai il coraggio di chiedermi cosa significa ematemesi”.
Io che ti ho passato, al tempo, il compito di Patologia Generale, brutto imbecille! Io che ero presente, forse l’hai dimenticato, al famoso esame di Anatomia in cui avesti il coraggio di prenderti, soddisfatto, il tuo bel 30 e lode, dopo aver esclamato che il cuore ha tre cavità! E ora tu fai il cardiologo, mentre io pulisco i pavimenti.
«D’accordo, ci vediamo»  mi limitai a rispondere.
Presi scopa e spazzolone e mi diressi verso la stanza n° 2. Lungo il corridoio, incontrai un’altra vecchia conoscenza, più gradita.
«Edo! Come stai? »  esclamò Marta.
«Tutto ok. Lei, dottoressa Ferrero? »
«Quante volte devo dirti di chiamarmi Marta! Tutto ok anch’io, se così si può dire dopo una notte di dieci ore! Finalmente si torna a casa! Melissa come sta? E tua moglie? »
«Mia moglie sta bene, Melissa un po’ meno. E’ un po’ agitata per la maturità …»
«Dille che andrà benissimo, è molto preparata! E dopo cosa pensa di fare? »
«Medicina», risposi fiero.
In fondo non avevo motivo di lamentarmi della mia vita, pensai in quel momento. E’vero che dovetti abbandonare gli studi per sposare mia moglie, rimasta incinta, ma da quella gravidanza così inaspettata e, devo ammetterlo, detestata, era nata la più grande gioia che io abbia mai avuto: mia figlia, Melissa. E, dopotutto, è stato meglio così: preferisco sacrificarmi affinché sia lei a laurearsi, regalando alla Medicina uno dei pochi dottori preparati. Il mio sogno è che diventi esattamente come Marta: un medico che passa più tempo a curare le persone che il proprio conto in banca, un medico che salva vite umane.
«Sicuramente supererà il test di ammissione! Sono molto contenta che abbia scelto questa strada, è come se fosse mia figlia»  disse Marta con un filo di tristezza nella voce. Purtroppo non poteva avere bambini: all’età di ventidue anni le era stato diagnosticato un carcinoma uterino, che aveva costretto i medici a un’isterectomia totale.
«Anche per lei vale la stessa cosa, è come se tu fossi la sua seconda madre»  le dissi per rincuorarla.
«D’accordo, io vado a cambiarmi e torno a casa, si è fatto tardi. Ah, mi raccomando il signor Claudio alla stanza 2. Stanotte ha perso molto sangue, mi farebbe piacere se tenessi sotto controllo eritrociti ed emoglobina per me. Oggi è di turno Simone …»  concluse con tono quanto mai eloquente.
«Ho visto. Cercherò di monitorare gli esami e, in caso di problemi, ho il tuo numero»  risposi io con tono altrettanto eloquente.
La salutai, presi lo spazzolone e cominciai a pulire il pavimento. Avevo sempre apprezzato la spontaneità di quella donna, il fatto che chiamasse per nome i pazienti e si affezionasse a tutti, anche ai meno “simpatici”, in egual misura.
 
Dopo otto interminabili ore di lavoro, finalmente ero di nuovo in automobile, stavolta più felice, perché la destinazione era casa. Erano quasi le cinque di pomeriggio, e a quell’ora Melissa usciva da scuola. Presi la solita scorciatoia per non farla aspettare troppo tempo da sola e giunsi davanti al cortile dell’edificio.
«E’ da tanto che aspetti? »  chiesi a mia figlia mentre saliva in auto.
«No, sono appena uscita»  rispose.
Ma sapevo che non era così.
«Sai, se mi regalassi una macchina, potresti evitarti ogni giorno tutto questo tragitto»  aggiunse poi, accendendo la radio.
«Non è un peso, lo faccio con piacere»  ribattei io, maliziosamente.
Sapevo dove voleva arrivare. Era dal giorno dei suoi diciotto anni che continuava a chiedermi un’automobile, ma io ero assolutamente contrario. Nonostante avesse la patente, e fosse un’attenta guidatrice, temevo che potesse avere qualche incidente.
«Ti faccio vedere una cosa»  esclamai, quasi senza accorgermene.
Feci un’inversione a U, subendo i suoi – giustissimi- rimproveri ( “e non fai guidare me!”), e la condussi a vedere la villetta che tanto mi aveva affascinato. La vista di quel maestoso edificio non la colpì come immaginavo.
«E’inquietante»  si limitò a proferire.
«Se solo potessimo permettercela … è grande tre volte la nostra, ed è in periferia! Qui l’aria è pulita, la sera si può uscire senza timore, tutti si conoscono …»  dissi.
«A me piace la nostra casa»  esclamò Melissa.
Deluso, imboccai l’autostrada, senza comprendere il disappunto di mia figlia. Decisi di farla guidare per un certo tratto, e andò abbastanza bene. L’unico problema fu il bilancino al semaforo, dove rischiammo di capitombolare addosso alla macchina dietro di noi. Dopo pochi minuti, arrivammo finalmente a casa. Non si poteva dire che fosse un brutto appartamento, anzi era abbastanza accogliente, però fin troppo piccolo per quattro persone: io e Elena avevamo per camera da letto una sottospecie di sgabuzzino, e Melissa e Davide erano costretti a condividere la stanza, e, cosa ancora più grave, un solo bagno!  Davide era ancora piccolo, poco più che un bambino al tempo: aveva solo tredici anni, e nulla a che vedere con sua sorella, e non solo fisicamente. Era molto più alto dei suoi coetanei, snello, biondo e con gli occhi azzurri. Insomma, la fotocopia esatta della madre. Giocava a basket quasi da professionista, e, come molti atleti, non andava d’accordo con i libri: studiava poco e di rado. Lo dicevo sempre a mia moglie, “se solo avesse un quarto dell’intelligenza di Melissa …”, e lei mi rimproverava, rivolgendomi sempre le stesse parole: “così non lo inciti di certo a studiare! Poverino, ha pure la squadra …”.
La “squadra” per lei era prioritaria: sognava che Davide diventasse un giocatore di basket professionista, lei che sin da piccola era stata un’ottima pallavolista, lei che aspirava a vincere i campionati europei, al tempo, prima di scoprire che qualcosa stava già nascendo dentro di lei, in assoluta indipendenza e autonomia. Del resto anch’io, fin da quando era piccina, ho trattato Melissa quasi come un’estensione di me, infondendole la passione per la medicina. Siamo un po’ tutti così noi genitori: cerchiamo di vivere una seconda volta nei nostri figli, speriamo che, almeno loro, riescano a realizzare sogni per noi ormai lontani. Quanto aveva ragione Sullivan con il suo modello.
Come Davide era l’esatta copia della madre, così Melissa sembrava essere, più che mia figlia, una novella Atena nata dal mio capo, vista la somiglianza estrema. Come me, aveva i capelli castani, gli occhi neri e la carnagione scura, a testimonianza delle nostre origini meridionali. Calabresi, per precisione. E, come ormai avrete capito, era un piccolo genio: tutti nove a scuola, borsa di studio per l’università, grandi aspirazioni. Insomma, la mia “pupilla”. Nutrivo grandi speranze sul suo futuro, ed ero certo che non mi avrebbe deluso.
Non appena aprimmo la porta di casa, un odorino invitante pervase le nostre narici: Elena stava cucinando. Da quando era stata costretta ad appendere a un chiodo i suoi sogni di diciottenne era diventata la casalinga perfetta, o meglio, la perfetta donna di casa: sempre lì a cucinare, pulire e riordinare il macello che noi tre vagabondi combinavamo. Chi l’avrebbe mai detto, vent’anni fa, che noi due saremmo finiti così: lei che non sapeva neanche come si usa una scopa, io ancora più pigro, preso solo dai miei progetti e dalle mie aspirazioni di carriera. La vita a volte ti riserva veramente cose che mai penseresti … Eppure non è cambiata di una virgola, in fondo è sempre la stessa guerriera: basta vedere come si infervora quando guarda la politica in televisione! Per non parlare delle scenate che fa in quelle poche, rarissime occasioni in cui Melissa si concede di uscire con le amiche la sera, e rientra anche solo cinque minuti oltre il coprifuoco.
«Cosa cucini di buono, mamma? »  chiese Melissa, avvicinandosi ai fornelli.
«Lasagne al forno, oggi è un giorno speciale»  rispose Elena senza distogliere lo sguardo dalla sua pietanza.
Terminò di cospargere l’ultimo strato di lasagne con besciamella e formaggio, aggiunse del sugo e pose il tutto nel forno.
«Amore, come è andata oggi a scuola? »  chiese quindi a Melissa, baciandole dolcemente una guancia.
«Bene, finalmente la prof di italiano si è decisa a spiegare Montale. Meglio tardi che mai, considerando che siamo già a metà Maggio! Cosa si festeggia? »  domandò a sua volta mia figlia, incuriosita.
«Ve ne parlerò stasera a tavola, voglio che ci sia anche Davide»  si limitò a rispondere mia moglie, ermetica.
«E a me non chiedi come è andata la giornata, Mata Hari? »  mi intromisi io, baciando calorosamente Elena sulla bocca.
«Che spiritoso … come è andata la tua giornata, Edo? »  chiese mia moglie, scandendo ogni singola parola, fingendosi infastidita.
«Benissimo, forse un po’ faticosa … ho avuto due interventi impegnativi, una colecistectomia e una tiroidectomia  … »  risposi io, con aria di importanza.
«Bravo il mio maritino, allora. Ti sei meritato le lasagne»  disse lei.
Preso dalla conversazione, non notai che, nel frattempo, Melissa era sgattaiolata, astuta come una volpe, verso il bagno - l’unico bagno! - e si era chiusa a chiave. Neanche il tempo di bussare che già aveva acceso lo stereo a tutto volume e si era persino messa a cantare a squarciagola.
«Colpito e affondato»  esclamai, adagiandomi sul divano e accendendo la televisione.
A quell’ora la scelta era quasi obbligata: cartoni animati. L’alternativa era una trasmissione strappalacrime, una di quelle ipocrite trasmissioni del pomeriggio, e non mi allettava per nulla.
«Finisce ogni giorno così da quando ha imparato a camminare»  disse mia moglie, sfoggiando uno dei suoi splendidi sorrisi.
Sapevamo entrambi che Melissa si sarebbe infilata in bagno, approfittando della mia distrazione, lo faceva sempre, tuttavia non mi infastidiva. Mi faceva piacere che pensasse di essere più astuta del padre, anche se penso che sapesse che le cedevo di proposito la doccia, era troppo intelligente per non sospettarlo almeno. Ma dopotutto le faceva comodo.
«Non importa, aspetterò che finisca»  asserii.
«Preparati ad almeno un’ora di zapping, allora»  concluse mia moglie, riprendendo a cucinare.
Sdraiato sul divano, con la coda dell’occhio guardavo lei che, nel frattempo, aveva iniziato a preparare la nostra torta preferita, la Sacher.
Sembrerà pazzesco, ma adoriamo a tal punto quel dolce da averlo scelto, suscitando a suo tempo il disappunto dei miei genitori, come torta di nozze. Ricordo che alla fine giungemmo a un compromesso: la Sacher nel nostro tavolo, solo per noi due, e la più classica torta panna e nocciola a più piani per gli invitati. Sul televisore spicca ancora la foto che ci scattarono in quel fantastico giorno: lei bellissima, io sempre fuori posto. Tra di noi, Melissa, nel pancione di Elena. Di lì a poco sarebbe nata, proprio durante il viaggio di nozze. Eravamo a Londra, prima tappa di un viaggio che avrebbe dovuto toccare le principali capitali europee. Chi si aspettava che Melissa avrebbe deciso di venire al mondo con così tanto anticipo, da settimina? D’altronde, è sempre stata più matura delle sue coetanee, più matura forse anche di me. Quel lontano giorno di Gennaio di diciotto anni fa fummo costretti ad andare all’ospedale in taxi, mentre io con una mano accarezzavo mia moglie e con l’altra gesticolavo per far capire all’autista dove volevamo andare, come se non fosse evidente.
Due folli, col senno di oggi, ad andare a Londra senza sapere nemmeno una parola di inglese. Eppure ce la facemmo, e oggi siamo ancora qui a parlarne e a ricordarcene, con un pizzico di nostalgia.
«Papà, il bagno è libero»  esclamò Melissa, catapultandomi nella realtà.
«Di già, è passata solo un’ora e mezza! Mi stupisci di giorno in giorno»  dissi io sarcasticamente.
«Dovresti ringraziarmi, sai che avrei potuto metterci più tempo»  aggiunse lei, ridacchiando di gusto.
Mi affrettai ad entrare in bagno e a chiudermi a chiave: a breve sarebbe arrivato Davide dagli allenamenti. Si erano già fatte le sei e mezza. Mi concessi un lungo e meritato bagno rilassante. Mentre mi asciugavo i capelli, sentii Davide che urlava, probabilmente contrariato per aver trovato la porta chiusa a chiave. Cercai di affrettarmi, e aprii la porta.
«Ehi papi, al solito Melissa è rimasta un’ora sotto la doccia, vero? Dovremmo costruire un altro bagno …»  disse mio figlio.
«Lo so, Dado, non ricordarmelo»  risposi io, ripensando ancora a quella splendida villetta di periferia.
«Oggi sono stato il migliore in campo»  aggiunse Davide, soddisfatto.
«Bravissimo, sono fiero di te! E il compito di matematica a scuola? »  chiesi.
«Il solito, papà. Difficilissimo! »  rispose lui, indecifrabile.
«Se lo dici tu … tra mezz’ora penso sia pronto, tua madre ha una bella notizia da darci. Speriamo che non venga a trovarci tua nonna, come lo scorso mese …»  esclamai, suscitando la sua risata.
Mi recai quindi in cucina, dove il tavolo era già apparecchiato e le lasagne quasi pronte. Elena aveva deciso di sfoggiare i piatti “buoni”, quelli dei giorni di festa, il che mi fece sospettare che la buona notizia non fosse un imminente arrivo della madre, mentre Melissa era in camera sua a studiare greco o chissachè. Aveva l’abitudine di ripetere ad alta voce, sin dai tempi delle elementari. Adagiai l’orecchio contro la porta della sua stanza, come facevo spesso, incuriosito. “  … e in quest’opera Pirandello evidenzia minuziosamente la sua visione della follia, ponendo l’accento sul binomio, che egli vede come imprescindibile, follia – diversità …”. Stava studiando l’“Enrico IV” di Pirandello, una delle mie opere preferite. All’epoca della maturità, la mia tesina riguardava proprio questo tema. Il titolo era “La follia o manifestazione del diverso”, lo ricordo molto bene.
«Melissa, è pronto! »  sbraitò Elena dalla cucina.
«Arrivo, mamma! »  urlò in risposta mia figlia, spalancando la porta della sua stanza.
«Papà, che ci fai qui impalato?! Ti facevi un po’ i fatti miei, come al solito? »  esclamò poi.
«Ripassavo l’Enrico IV, ascoltando te che ripetevi … ti ho mai detto che …»  iniziai.
«Lo so, lo so papà, me l’hai detto almeno trecento volte! “ai miei tempi,  portai come tema la follia alla maturità”, eccetera eccetera …»  mi interruppe lei, facendo una credibile imitazione della mia voce.
«Scusa, volevo solo aiutarti con la tesina! Tu hai già scelto un argomento? »
«Sì, “L’individuo e la società” … mi dispiace, l’ho già fatta rilegare …»
«Non preoccuparti, è un buon tema. Andiamo a cenare, chiama tuo fratello»  conclusi, recandomi verso la sala pranzo.
«Dado, è pronto! Libera il bagno! »  strepitò Melissa.
«Arrivo!» urlò Davide in tutta risposta.
Sul tavolo i piatti erano già colmi di cibo, ed Elena stava riempiendo i bicchieri d’acqua. Nella nostra famiglia gli alcolici erano un tabù, specie a pranzo e cena. Melissa ovviamente era astemia, oltre che vegana, mentre io e Davide rispettavamo scrupolosamente la volontà di mia moglie, che avevamo scherzosamente soprannominato “la madre fondatrice”, con evidente riferimento ai padri fondatori e al loro squilibrato proibizionismo. Sapevamo bene che questa sua apparentemente folle volontà era giustificata da un brutto evento capitatole quando era solo una bambina: i genitori di Elena erano morti entrambi in un incidente d’auto provocato da un ragazzo, all’epoca poco più che ventenne, che guidava ubriaco. Erano più o meno le sei del mattino: Melissa e Davide – si chiamavano così – rientravano da una vacanza con la figlia, mia moglie, allora undicenne, mentre il giovane si ritirava dalla discoteca. Alla polizia disse di aver bevuto solo due birre, niente di più, due maledette birre che avevano causato la morte di due persone, due innocenti che per caso si trovavano nel posto sbagliato. Al momento sbagliato. Dopo lo sciagurato incidente, al ragazzo, in evidente stato di shock, furono chieste le referenze.
“Come si chiama? Ragazzo, qual è il suo nome?”
La vista era debole, sfuocata, i sensi assopiti.
A distanza, una macchia blu  poco chiara, forse un’auto. Sì, era decisamente una berlina. O almeno così sembrava …
“Come? … Il mio nome? Ma cosa ho combinato, che cavolo ho fatto? Come stanno quelli sulla berlina? Sono ancora vivi?”
 “ Ci sta pensando un mio collega in questo momento. Lei come si chiama? Ha bevuto qualcosa? Ha abusato di qualche sostanza?”
“Bevuto? … No, solo due birre ... e non mi sono fatto di niente …”
“Ho capito … mi vuole dire come si chiama?”
“Francesco … Di Giorgio. Come stanno le persone sulla berlina?”
“Ha detto “Di Giorgio”?” .
Silenzio.
“E i suoi genitori? Dove sono?”
“In Calabria, in vacanza … ma questo cosa centra adesso?”
“Ha un recapito? Un numero di telefono da poter chiamare per parlarci?”
Il carabiniere era fin troppo insistente. Qualcosa non andava.
“Ho il numero di mia nonna. Signore, cosa sta succedendo?”
Il carabiniere iniziava a sudare vistosamente … la vista accennava a tornare. A venti metri, un’auto, o quello che ne rimaneva dopo la tremenda collisione. Qualcosa non andava …
“Non succede nulla, devo contattare i suoi genitori. Procedura standard”
Lo sguardo di nuovo puntato sull’auto, insistente. Quella vettura aveva qualcosa di familiare … i suoi genitori ne avevano una simile. Non è possibile, non è la loro auto, sono in Calabria … Sul parabrezza un adesivo di Winnie the Pooh …
“Cosa è  successo alle persone sull’auto”
Il respiro mozzato, la testa sembrava sul punto di esplodere. Non può essere, esistono migliaia di macchine come quella e centinaia di migliaia di adesivi come quelli …
Il carabiniere stava esitando troppo …
“Sta’ calmo, ragazzo … Francesco, su quell’auto c’erano i tuoi genitori e tua sorella, mi dispiace tantissimo …”
C’erano? … non è possibile, non è vero …
“Come stanno, sono vivi? Elena? …”
“Elena sta bene, era nel sedile posteriore … non ha riportato gravi ferite, solo contusioni …”
“Mamma e papà?”

“Francesco, siediti. Fatti coraggio … non ce l’hanno fatta … mi dispiace tantissimo”
“Non è vero … non è vero! ...”
E’ un sogno, è soltanto un brutto incubo, un bruttissimo incubo … Ho bevuto troppo, adesso mi sveglio e scopro che è stato tutto un incubo … mamma e papà sono ancora vivi, sono giù in Calabria … Se questo non è un sogno, se non sto dormendo, voglio morire, per favore uccidetemi … uccidetemi …
 
Non era un sogno: Francesco aveva provocato la morte dei suoi genitori. Da quel giorno, non fu più in grado di riprendersi. Andò in terapia per qualche mese, tentò di farcela per Elena, ma non ci riuscì. All’età di soli vent’anni, dopo aver lasciato la sorella a scuola, si suicidò con i gas di scarico  della sua automobile, che divenne così anche per lui foriera di morte. Sul parabrezza, un adesivo di Winnie the Pooh e un foglietto con su scritto: “Perdonami, io non sono riuscito a farlo”.
 
 
 
   
 
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