Cosa provi?
Era
una domanda continua, fornace di un sentimento irrequieto.
Cosa provi?
Se
lo chiedeva di continuo. La domanda non aveva sosta, non conosceva tregua nella
sua testa. Risuonava in un’eco indistinta e lugubremente monotona nel
sottofondo di altri pensieri.
Molly, cosa provi?
L’emozione
era ancora acuminata, vivida, incandescente.
Nell’immediatezza
dell’accaduto, salvarli era stato il pensiero primario e durante, guardando
Sherlock negli occhi, leggendo sconcertata la fiducia brillare nei suoi, una
speranza irrazionale e peraltro sciocca le si era accesa dentro.
Nel
dopo era stato il sollievo a farla da padrone e la stanchezza mentale, fisica
le si era riversata addosso con l’equivalente forza di gravità di un’intera
catena montuosa, insieme alla necessità di riposare.
Tornare
a casa era divenuta un’impellenza insopprimibile.
Quale casa?, avrebbe pensato
all’alba successiva, rigirandosi inquietamente nell’abbraccio fastidioso delle
lenzuola e ritrovandosi con il viso ad un tiro di schioppo da quello di
Sherlock.
Quale casa?, aveva riformulato la
propria mente.
Casa.
Molly
aveva chiuso gli occhi, lottando contro il nodo che le chiudeva la gola. Aveva
sperato di averla trovata, ora si rendeva conto di essersi sbagliata.
Forse.
Forse,
le bisbigliava all’orecchio il respiro tranquillo di Sherlock contro il collo,
il braccio che nel sonno lui le aveva passato attorno alla vita in un’abitudine
consolidata, il ricordo intenso delle parole che le aveva mormorato nel suo
stato di dormiveglia. (Perdonami. Molly,
perdonami.)
Con
un senso di profonda inadeguatezza, si chiese a che pro perdonare quando nulla
era da perdonare, a che pro farlo con la sicurezza che in futuro, non oggi, non
domani, ma un giorno qualunque e non per questo meno remoto, tutto sarebbe
stato uguale. Nel domandarselo, nel formulare i propri dubbi, prestando
orecchie alle paure più infime che per mesi aveva cercato di tenere a bada,
Molly trovò la risposta.
Non
era posto per lei, quello. Non adesso. Non ancora. Non finché non avesse fatto
chiarezza con se stessa.
C’era
una cosa ancora. Una cosa ancora da fare. Molly si concesse quell’atto di
debolezza, riconoscendolo per quel che era davvero.
Non debolezza, mai
debolezza.
Scostò
con dolcezza i capelli dalla fronte di Sherlock, districando in punta di dita
la resistenza degli annodamenti che glieli avevano ingarbugliati. Guardò l’uomo
addormentato, perso nell’assopimento della sua ragione altrimenti brulicante di
pensieri in fermento.
Una
carezza che le bruciò le dita, le marchiò l’anima. Qualcosa che era tenerezza e
insieme pura agonia per le migliaia di significati di cui era approntato.
*
Sapeva
esattamente dove si trovava, anche questa volta.
Prima
di essere la sua città, Londra era un intrico di itinerari e linee di luce
astratta e sfuggente che perfino ai suoi occhi, notoriamente insensibili al
richiamo da sirena della bellezza, reclamava un riconoscimento al fascino che essa
riusciva a esercitare sull’animo di chiunque.
Nella
sua mente, Londra non appariva come una semplice mappa disegnata, mera trasposizione
del reticolo urbano di costruzioni e architettura.
Londra
era, prima di qualsiasi cosa, i vicoli e i cunicoli in laterizio che cedevano
il passo a strade più larghe e percorsi carrozzabili, uno schema che delineava
le sue vicende frenetiche, la convulsa ed esaltata corsa contro il tempo, verso
un futuro sempre vicino e tuttavia inestinguibile dall’intreccio del presente e
del passato che tuttora ne permettevano l’esistere.
Londra
era eternità e pietra, ma di un tipo dinamico che non conosceva impasse né
stalli o arresti di sorta.
Londra
era l’intelligenza mutevole e prudente che occhieggiava dietro facciate di
vetro e lastre di metallo; quella del saggio che incessantemente calpestava con
i passi del proprio tragitto gli errori altrui, senza intervenire ma lasciando
piuttosto che chi li aveva compiuti meditasse e trovasse da sé la soluzione.
Londra
era un enigma senza soluzione, un labirinto di imprecisione perfetta.
Londra
era il respiro di tutto ciò che rappresentava storia, per altri arte.
Londra,
come già detto, era la sua città.
Londra
non l’aveva mai tradito nella realtà.
Nei
suoi sogni, però, e questa era una faccenda di tutt’altro tipo, aveva preso il
terribile vizio di farlo di continuo.
*
Nei
suoi sogni, Molly Hooper moriva ogni volta in modi atroci e sempre differenti.
L’ultimo
sguardo che gli rivolgeva prima dell’attimo finale era uno di indicibile
tristezza. – Mi dispiace – diceva ogni volta e le parole, pronunciate da lei,
suonavano come una maledizione, così il sorriso che aleggiava sulle sue labbra
sottili, malinconico e insieme dolceamaro.
Sherlock
avrebbe voluto trattenerla, ma anche quella notte, come le altre che
l’avevano preceduta, lei gli scivolò lontano come olio sull’acqua.
La
sua testa bruna era illuminata dalle luci artificiali dei lampioni che
proiettavano sul suo viso ombre che altrimenti non vi avrebbero trovato posto.
Al
collo di lei non brillava alcun ciondolo. Era lui ad averlo nella tasca,
invece, come promemoria del proprio fallimento.
Quando
l’ora scoccò e i rintocchi del Big Bang ne scandirono il passaggio, Molly strinse
più forte il comando a distanza che teneva tra le mani, le nocche bianche per
la forza impressa, gli occhi lucidi e febbrili sopra le guance pallide, umide
delle lacrime che lei aveva pianto sotto il suo sguardo impotente.
Non
questa notte, pensò lui ferocemente. Il passo che era stato sul punto di fare
gli fu reso impossibile da un impedimento intangibile. Nell’attimo successivo
lei pronunciò le fatidiche scuse e l’ombra dell’inevitabile sorriso accompagnarono
l’esplosione.
Molly
Hooper saltò in aria davanti a lui, sotto il cielo e il Tamigi illuminati a
giorno dai fuochi d’artificio.
*
Nel
proprio palazzo mentale, Sherlock percorse di corsa e facendo affidamento alla
memoria il tragitto che lo avrebbe condotto fino a lei.
Non
era sicuro di trovarla, riuscirci era diventato più difficile di quanto non fosse stato
in passato.
Molly
Hooper non era più confinata alle fondamenta, là dov’era sempre stata, al
sicuro nelle sale con mattonelle bianche e pavimenti lucidi che ne
magnificavano la figura armoniosa, ne mettevano in risalto le qualità e abilità
indiscusse.
Molly
Hooper aveva ormai libero accesso ad ogni ambiente dei piani superiori e trovarla,
nel dedalo della propria coscienza, richiedeva un’applicazione che prima non
era mai occorsa.
La
trovò in una delle zone più vecchie, una che non gli capitava di visitare da
anni, dietro una porta dal pomello scurito.
La
polvere accumulata sulle mensole e sui soprammobili, la tinta scolorita della
trapunta stesa sul letto, i mille appunti e i marchingegni che imperavano sulla
scrivania sotto la finestra semiaperta, con i tendaggi smossi dal vento, tutto
era esattamente come lo ricordava.
Il
paesaggio, al di fuori, era quello della sua infanzia: il retro di una casa di
campagna, un giardino autunnale con siepi potate di recente e un silenzio pacifico
interrotto dal rumore di un tosaerba e ad intervalli irregolari dall’abbaiare
festoso di un cane.
Molly
era seduta in un angolo, tra l’armadio e il termosifone. Non indossava il
camice da laboratorio e portava i capelli sciolti come in occasione del Natale
in cui lui aveva riconosciuto il cadavere di quella che aveva creduto essere La
Donna.
Indossava
un maglione turchese.
Sherlock
le si accostò. Lei non sollevò la testa e continuò a tracciare composizioni
decorative sul pavimento. Altri avrebbero disegnato animali o fiori o qualunque
altra sciocchezza priva di utilità, non lei. Usando un bastoncino preso dal suo
piccolo laboratorio di chimica, Molly Hooper stava abbozzando la struttura del
sistema muscolare umano e questo, oltre al fatto di vederla del tutto a suo agio
nella camera da letto di quando era bambino, smosse qualcosa.
“Molly,”
la richiamò piano, ma con un’urgenza crepitante. “Vieni qui.” Lasciati toccare.
Un
lieve acciglio le increspò la fronte. Quando sollevò il volto, lo fece per
fissarlo con professionale efficienza, ma senza alcuna scintilla di calore. “Mi
dispiace, ma sono una proiezione del tuo subconscio,” gli ricordò, atona. “Mi
trovo qui perché mi hai voluto tu. La tua memoria mi ha reso una versione fedele
e anche se ciò che rappresento è il desiderio che provi per lei, non posso
assecondare la tua richiesta perché Molly Hooper non lo farebbe.”
Sherlock
le tese una mano che lei non accettò, ma si limitò a fissare, stranita.
“Io
non sono Molly Hooper,” ripeté lei. “Sono soltanto una parte di te che
preferisci che ti venga mostrata in una forma che ti è gradevole, con cui ti
risulti più facile rapportarti e di cui tu possa fidarti istintivamente, in caso
di bisogno.”
“Molly,
per piacere.”
Per
un momento lei tacque, studiandolo tra le ciglia socchiuse. La polvere con cui
aveva giocato le danzava intorno al viso, minuscole particelle grigie come una
pioggia di cenere. “Non sono Molly Hooper, ma qualcosa posso fare.” Si sollevò dal
pavimento e senza accennare ancora a sfiorarlo, si alzò sulle punte e avvicinò
la bocca al suo orecchio. Il suo respiro fu l’unica carezza che ricevette. “Vieni
a cercarmi fuori dalla tua testa, Sherlock Holmes.”
Sherlock
chiuse gli occhi, ispirando profondamente il ricordo del profumo floreale di
lei, come se fosse concreto; li riaprì per fissare il riflesso dello specchio nel
proprio appartamento.
*
La
situazione era proficua sotto molti punti di vista per John Watson.
Innanzitutto
lo era nell’opportunità di seccare Sherlock, dal momento che dare fastidio a
Sherlock, quale che fossero le modalità e le ragioni, rappresentava una
golosità irrinunciabile.
Perciò,
quel lunedì pomeriggio di fine settembre, John si ritrovò stravaccato sulla sua
poltrona rossa, concedendosi uno dei piaceri che gli risultavano maggiormente
graditi: farsi giustizia a modo proprio.
“Da
quant’è che non vedi Molly?”
In
risposta ottenne un grugnito.
“Due
settimane, giusto?” perseverò, insensibile all’occhiata truculenta ricevuta in
pegno da Sherlock.
“Dodici
giorni,” lo corresse Sherlock automaticamente e si sfregò il collo con
l’archetto del violino. “Non che li abbia contati.” Come in preda a un
ripensamento, incurvò la bocca in una smorfia, visibilmente contrariato dalla
defaillance in cui era caduto.
John
ebbe la clemenza di non sottolineare la contraddizione di quella sua aggiunta,
tuttavia non si astenne dal sorridergli nel modo vitreo e indisponente di chi
la racconti lunga. “Ovviamente,” osservò compunto. Una pausa e poi riprese: “Il
miglior antidoto al dolore è il lavoro*. C’è parecchio dolore nell’aria, non
trovi Mary?”
Mary
non sembrava dell’umore tenero che solitamente l’avrebbe resa complice perfetta
nel suo attentato alla tutto-fuorché-stato-di-calma di Sherlock. Gli dedicò
soltanto un’occhiata, prima di continuare la deliziosa canzoncina con cui stava
addormentando Katie.
“Dovresti
sul serio andare a trovarla,” intervenne inaspettatamente qualche minuto più tardi,
quando ormai Katie dormiva tra le sue braccia.
“Non
ne vedo le ragioni,” replicò Sherlock e il suo tono da bugiardo incallito
trasudava sincerità.
Mary
lo valutò con un sorriso risaputo. “Bugiardo.”
“Mi
sembra abbastanza ovvio,” intervenne John che, a dirla francamente, non
sopportava la lentezza con la quale i diretti interessati sembravano disposti a
crogiolarsi nella corrispettiva indeterminatezza e con cui stavano gestendo l’intera
faccenda. “Molly si aspetta delle scuse.”
Sherlock
arricciò il naso come sempre faceva quando fiutava qualcosa di irritante per i
propri nervi o in alternativa di mortificante per il proprio ego smisurato. “Per
cosa?”
John
strabuzzò gli occhi, guardando Mary con una faccia che era rassegnata e ilare e
furibonda allo stesso tempo, una che stava a domandare ‘sta scherzando, vero?’
e ‘ti prego, dimmi che sta scherzando’.
Il
volto di Mary non si lasciò scalfire da quell’ultima, assurda richiesta di
delucidazioni; non batté ciglio e ne prese atto come qualcosa di ovvio e
perfino banale. “Devi riconquistarla,” chiarì a scanso di ulteriori equivoci.
Sherlock
voltò la schiena e riprese il violino, non prima di aver sbottato: “Che cosa
ridicola.”
Quando
un’ora più tardi John lo vide prendere il cappotto e annunciare che usciva, né
lui né Mary furono sfiorati dall’idea balorda di stuzzicarlo sulla destinazione
altamente scontata.
Lo
videro scomparire giù per le scale con passi che trasudavano risoluzione.
(“Ha
davvero ragione, sai,” si permise di far notare a Mary, una volta che Sherlock
non fu più a portata di orecchi. “Fargli credere che Molly vada conquistata.
Lei è già bella che pronta.”
Mary
si chinò per sfiorargli la bocca con un bacio, lui intercettò un brillio
divertito ed enigmatico attraversarle gli occhi. “Lo sono entrambi.”)
E
lo videro ricomparire poco più tardi con la tempesta nello sguardo.
*
Sherlock
si ritrovò a spostarsi nei corridoi del Bart’s con l’aria di qualcuno che,
molto probabilmente, avrebbe preferito trovarsi a mille miglia di distanza o in
alternativa sul ciglio del baratro.
Molly
scartò l’ultimo pensiero con il dispetto pentito di chi si scopre a provare un
fastidio che invece non dovrebbe, vorrebbe
provare.
Con
un cenno chiamò un’infermiera che le stava passando in quel momento di
fianco e la pregò di andare a riferire a
Mr. Holmes che ‘mi dispiace, ma stamattina la Dottoressa Hooper non si è
presentata. Vuole riferire a me?’.
Sapeva
che lui non ci avrebbe creduto, che avrebbe rivelato la menzogna dalla mimica
facciale di lei o molto probabilmente sarebbe stato lo stesso intuito a
pilotarlo sulla soluzione più probabile: che lei non volesse incontrarlo e che pur
di evitarlo si fosse spinta al punto di pregare qualcuno di mentirgli.
Osservò
l’infermiera che si avvicinava a Sherlock e gli riferiva il messaggio e osservò
il modo in cui lui lo accolse. Non con rabbia, ma con un’espressione che era a
metà strada tra l’essere anticipazione e il diventare contrarietà e che lo
stesso rivelava tracce di delusione e disappunto nel modo in cui lui aggrottò
le sopracciglia, nella contrazione di un angolo di bocca verso il basso.
Oh, pensò Molly.
Quando
lui voltò le spalle e alzò il bavero del Belstaff, allontanandosi rigidamente,
lo sconforto e la sensazione pungente agli occhi non erano la reazione che si
era augurata.
Si diede dell’idiota.
*
Molly
sapeva di trovarsi in un sogno. Si trattava di un sogno familiare, ormai
regolare nello zelo assillante con cui si affacciava a disturbare le sue notti.
E
nonostante sapesse, sentisse con ogni fibra del proprio essere di trovarsi
nella sfera fasulla del mondo onirico, Molly non riusciva a evitare di provare
quello che provava ogni volta, che immancabilmente la stava attanagliando anche
in quel momento.
Ansia. Terrore. Senso di
colpa.
Era
una notte stellata e nel sogno le stelle parevano maledettamente grandi e
vicine, in un cielo blu turchino troppo pulito per esistere davvero.
Sullo
sfondo di quel cielo, si stagliavano il Big Bang e il Parlamento, forme
dirompenti di un’eleganza squisita e secolare che, forse proprio per questa
loro natura, non sembravano essere elementi di disturbo, ma complementari e
risolutivi alla perfezione del paesaggio circostante.
Le
acque del Tamigi dietro di lei non erano la cosa torbida e mulinante dei propri
ricordi, ma fluivano docilmente e riflettevano il cielo come se ne fossero un
prolungamento.
I
lampioni del ponte non erano accesi, tuttavia gli occhi di Molly osservavano
tutto, si posavano su ogni dettaglio, registrandolo con l’acutezza di sensi di
un gatto.
Toby, ricordò con una fitta
di dolore e la scia di quel dolore le portò lui. (Neppure al principio, quando non era ancora amore ma qualcosa di più
mutevole e ugualmente difficile da gestire, quello che provava per Sherlock era
stato esente da trafitture articolate e piene di spasimo.)
Lo
vide attraversare la strada vuota e ogni passo di lui le risultava tanto
doloroso da trasmetterle l’impressione che non stesse calpestando la
pavimentazione asfaltata quanto piuttosto
frammenti di qualcosa dentro di lei, parti che erano rimaste inviolate
per anni, rese irraggiungibili e segregate in luoghi lontani, segreti,
invisibili agli occhi di chiunque. Mai ai
suoi, ma non per propria scelta o per non averci tentato abbastanza.
Sherlock
le fu di fronte e il cielo di colpo perse brillantezza per dare maggiore
risalto ai suoi occhi e l’oscurità si accese di una luce fioca, opaca, come per
rendere omaggio a un’avvenenza fin troppo consapevole del suo potere e del
giogo che, proprio in virtù di questa, era in grado di esercitare sugli altri
Lui
la guardò e il tradimento sembrava scolpito nel suo volto spigoloso.
Fece
per parlare, dirgli che le dispiaceva, il ricordo di come se n’era andata senza
una parola di spiegazione le rimordeva la coscienza, ma la voce di lui
interruppe quei pensieri con prepotenza. – Non posso salvarti, Molly – stava
dicendo con qualcosa di simile al rammarico nella voce – non questa volta. –
Molly
si ritrasse come se lui l’avesse colpita.
Un’altra
presenza, allora, la presenza dell’altro
si interpose, acuendo una distanza che non era quella tangibile tra di loro, ma
tra le loro intenzioni talmente simili e ciò nonostante così discordanti. Salvarlo, salvarla, a discapito di se
stessi.
La
figura d’ombra delineata apparteneva a Tom – no, a Moran, si corresse. Ma era
Tom che lei aveva conosciuto, che si era illusa di amare. Era a Tom che aveva
consacrato le possibilità di un intero futuro poi sfumato in nulla di fatto. A
Tom aveva affidato le proprie speranze, le fiducie di una vita in comune, le
mille opportunità di anni insieme. Come nel caso di Moriarty, che per lei non
era mai stato James, che sarebbe sempre rimasto Jim, non poteva pensare a Tom
unicamente come a Sebastian Moran.
Questo
non la rendeva necessariamente debole o incapace di andare oltre, di affrontare
la semplice realtà dei fatti. Al contrario, sperava Molly, la rendeva più
sensibile all’inganno, alla ferita che esso comportava. Serviva a ricordarle le
facce della falsità e che la menzogna poteva nascondersi nel volto di ognuno,
anche sotto le spoglie più insospettabili.
Al
suono della risata fredda di Tom, questa versione che le era estranea e
sgradevole quanto l’altra non lo era stata mai, Molly rabbrividì.
Tom
era di fianco a Sherlock e Molly si rese conto dolorosamente dei fattori di
somiglianza che, pur se approssimati e unicamente estetici, li accomunava.
Non
senza una certa pena si chiese se altri l’avessero notata, ma fu il timore di
un attimo. Non era per la sua cosiddetta rassomiglianza a Sherlock che aveva
amato Tom, ma proprio perché non
somigliava a lui, in un unico se non primario fattore: l’amore per lei. Tom
l’aveva amata in modi che lei sapeva che Sherlock non si sarebbe mai permesso.
Non per incapacità, ma perché provarli era una distrazione. Amare lei era un errore.
-
No, piccolo topolino – convenne Tom con un sorriso di puro cinismo – perché
avrei dovuto? Ricordi come finisce la storia, vero? La tua è una maledizione,
Molly Hooper, perciò dimmi, chi potrebbe amare una persona maledetta? –
Molly
si piegò in due, si coprì le orecchie con le mani, ma la voce di lui superava
ogni ostacolo, le mostrava immagini che lei non avrebbe mai voluto rivivere. Le
immagini erano proiettate attorno a lei sopra un nastro di oscurità che la
circondava e le si chiudeva attorno come un cappio che andava facendosi via via
più stretto.
Ogni persona è degna
d’amore,
cominciò a ripetere a se stessa. Ognuno
merita di essere amato.
-
Ognuno si conquista esattamente quel che ha. Si procura in base alle azioni che
lo vedono padrone la dose di felicità e infelicità che riceve – la corresse
Tom, senza mostrarsi e preferendo rimanere nel buio che ormai le spadroneggiava
attorno.
Molly
ebbe lo scorcio dell’ennesimo sorriso freddo prima che il volto a cui quel
sorriso apparteneva ritornasse visibile: il volto era quello di Sherlock. Non
lo Sherlock degli ultimi anni, gli anni dopo La Caduta, ma quelli direttamente
antecedenti ad essa, al momento di bisogno che li aveva fatti avvicinare.
Molly
lo rivide per com’era stato, scrutò nei suoi occhi: occhi pressoché estranei
che si cullavano nella convinzione di esserle estranei, quasi si trattasse di
un sollievo; occhi che in quella bugia avevano trovato il loro assolvimento.
Anche quegli occhi che smaniavano per risultare distaccati, al di sopra del
resto misero e umile, anche quegli occhi lei aveva amato, forse perfino più
accanitamente.
-
Non ti amo, Molly Hooper. – Gli occhi di Sherlock la consideravano con
disinteresse, un azzurro limpido e impassibile in cui non brillava alcun
sentimento; la voce di lui era priva di qualsiasi inflessione.
Molly
si diede della sciocca per la fitta di amarezza che quell’ammissione le aveva
provocato. La ingoiò come una medicina aspra, ma necessaria alla sopravvivenza.
Gli
si avvicinò. Il sogno o incubo, o qualunque fosse la natura che il suo subconscio
stava dando al sonno quella notte, cambiò nuovamente sfondo: il cielo di prima
era tornato ed era sopra e sotto di loro, una distesa violacea con una cascata
infinita di stelle bianco argentee e costellazioni dorate di cui non conosceva
i nomi.
Molly
gli posò una mano sulla spalla e risalì lenta fino al collo di Sherlock. – Lo
so – replicò con calma. Le sue dita trovarono un impedimento, alla base della
gola di lui, poco sotto il mento e lì restarono. – So accettarlo adesso. –
Le
sue dita tirarono e la faccia di Sherlock cadde come una maschera, palesando
quel che c’era al di sotto.
*
Sherlock si reggeva alla trave del camino, la testa reclinata, la
schiena incurvata in un arco semi-perfetto. Appariva pensieroso, impenetrabile
nella gabbia delle sue riflessioni. Non sembrò accorgersi di lei fino a quando
Molly non chiuse la porta dell’appartamento. Solo allora si voltò e la sua
espressione era talmente stupefatta da rasentare il ridicolo.
“Molly.”
Nel suo nome, in quell’unico punto-spettro di domanda c’era
l’intreccio di tutte le congetture che stava vagliando, una ad una, per
spiegare la sua presenza lì.
Molly si sfilò i guanti.
Sherlock aggrottò le sopracciglia. Lesse tra le righe la sua
rabbia, il dispetto che affogava in qualche forma disperata, o più
semplicemente la intuì dalla postura rigida delle sue spalle, dal modo in cui
aveva serrato i pugni, dall’aria torva con cui era sicura di squadrarlo.
“Hai perso altro peso dall’ultima volta che ci siamo visti. Devo
immaginare che la causa sia -”
“Il mio peso non deve riguardarti,” lo stroncò Molly sul nascere.
Questa volta Sherlock non badò a nascondere la sorpresa. “Mi
preoccupo per te.”
Già quella dichiarazione, un tempo pura utopia, faceva capire
quanto in Sherlock del personaggio Sherlock fosse stato rimosso per riscoprire
l’uomo prima del consulente investigativo. Tuttavia l’intelligenza brillante e
perspicace, l’ironia acuminata e il sorriso a doppia lama erano rimasti
immutati, erano costanti irrinunciabili del suo essere se stesso.
“Davvero?” chiese Molly. Si spostò verso il centro della stanza,
dietro la poltrona nera che apparteneva a Sherlock. Voleva distanziarlo,
mettere quanto più spazio possibile tra loro, quantificare il baratro che lui
aveva sottolineato una volta di più. “Ti sei preoccupato per me anche quando
eri su un aereo, pronto a lasciare Londra per sempre?”
Ed ecco, Molly poté quasi sentire il click della serratura che si
apriva, il rumore del ragionamento che si accartocciava su se stesso. Gli aveva
offerto la risposta su un piatto d’argento, privandolo dell’opportunità di
prodursela.
Se provava rimorso per quello che aveva fatto, lei non ne ravvisò
i segni pentiti né scorse anche la più piccola impronta di qualsiasi altro
sentimento. In effetti il viso di lui era come una maschera chirurgica, vuota
di qualunque umanità ed espressione.
“Tu sai cosa provo,” lo accusò. “Lo sapevi già allora e lo stesso
non mi hai permesso di dirti addio.”
“A quale scopo?”
La voce di lui, invece, era polvere da sparo. La scintilla di fuoco
toccava a lei stabilire se appiccarla oppure no.
“Non stava a te deciderlo. Quando l’ho scoperto,” Molly ingoiò il
groppo che aveva in gola, una specie di grosso rospo ruspante, “hai idea di
come mi sia potuta sentire? Tradita. È quello che ho provato. Perché? Anche
prima di questo,” con questo lei
intendeva ciò che era successo negli ultimi sei mesi, “dopo tutto quello che
c’è stato prima, ero arrivata a credere che potessimo considerarci amici.”
“Non
dire assurdità, Molly.”
Molly
si ritrasse di fronte al tono aspro che lui aveva usato. “Non sono qui per litigare,” lo avvertì.
Sherlock le rivolse un sorriso supponente, uno che lasciava
intendere quanto quell'affermazione gli risultasse fittizia e che non si
sarebbe lasciato incantare dalle buone intenzioni professate.
Perché sei
qui, allora?
Questo sembravano domandarle gli occhi di lui.
Molly rialzò il mento, cercando di porre un freno al prurito che
provava alle mani, quella cosa smaniosa e annientante che la divorava dal basso
ventre. Toccarlo. Nelle ultime
settimane aveva sognato ad occhi aperti, nella luce del giorno e quando gli
incubi erano tenuti sotto chiave, di setacciare la consistenza dei suoi
capelli, di perdersi a scremare in punta di dita ogni millimetro di –
Molly si schiarì la voce ed evitò di guardarlo direttamente. Le
era parso, per un attimo, di leggere in Sherlock lo stesso sbaragliante desiderio contro cui lei poneva strenua resistenza, ma si era trattata di un’illusione,
la convinzione di poco, ne era certa.
“Sono qui per avere delle risposte,” proseguì come se nulla fosse
accaduto, non ci fosse mai stata alcuna interruzione.
Anche quella era una bugia. Le risposte le aveva ottenute subito,
già da tempo, tramite Mary e John. Era stato il loro modo per chiederle scusa
per averle taciuto tante piccole informazioni preziose tanto a lungo. Molly li
aveva perdonati, ovvio che lo avesse fatto. Erano la sua famiglia d’altronde.
“Delle risposte,” fece eco Sherlock. “E che risposte siano
allora.”
Qualcosa, nel modo in cui lo disse, le fece capire che una volta
di più lui aveva letto dentro di lei, attraverso le sue azioni e che quanto
aveva intravisto lo aveva irritato e lasciato insoddisfatto in uguale misura.
Con un gesto elegante della mano Sherlock le fece cenno di
accomodarsi sulla sua poltrona.
Molly preferì deliberatamente andare a sedersi su quella di John.
Con un sorriso divertito, Sherlock si accomodò sulla sua e prese a
tamburellare sui braccioli. Cosa vuoi sapere, Molly? Dubito che i Watson ti
abbiano lasciato all’oscuro su qualsiasi punto del piano.”
“Il piano.” Lei cercò di non darlo a vedere, ma già solo l’accenno
l’aveva turbata ed era come rigirare il dito in una ferita che aveva a malapena
cominciato a formare del tessuto cicatriziale. “Non voglio sapere nulla del
piano elaborato che tu e tuo fratello avevate organizzato. No, quello che
voglio sapere è perché non hai ritenuto necessario informarmi; cosa ho fatto
perché tu –” esitò e batté le palpebre per cercare di disperdere il velo che le
aveva oscurato la vista. Sembrava che quel particolare avesse prodotto un
insospettato cambio di comportamento in Sherlock. Ora appariva curiosamente a
disagio e turbato. Molly non pianse. No, non avrebbe pianto, se n’era fatta un
punto d’onore. Trasse un respiro vibrante e cercò di riprendere con ritrovata
calma: “Perché tu non ti fidassi a sufficienza o quantomeno abbastanza da
confidarti con me.”
Sherlock si chinò in avanti e un inspiegabile lampo di trionfo sfrecciò nel suo sguardo. “Dunque è questo
il problema.”
Molly fece una smorfia. “Non è questo il problema o meglio, non
solo. Oltre all’avermi intenzionalmente tenuta all’oscuro del piano, il che
posso comprenderlo e perfino accettarlo riconoscendolo come un tentativo di
proteggermi, c’è il fatto che tu mi abbia mentito su tutta la linea. Sapevi che
era stato Tom a piazzare quella bomba –”
“Moran,” la troncò lui.
“Come?” domandò lei, presa contropiede e stupita
dall’interruzione.
“Sebastian Moran, Molly.” Lui roteò gli occhi, impaziente. “Non vedo perché dovremmo ostinarci a chiamare
con altri nomi – ”
“Per rimanere in tema di cose chiamate con altri nomi, Sherlock,
cosa siamo noi due?”
Sherlock si tirò indietro. “Cosa intendi?”
“Intendo dire esattamente quello che ho detto.” Molly aveva un
sapore amarissimo in bocca, come di bile. “Devo saperlo. In questi ultimi mesi,
quello che è successo tra noi, è stato solo un modo per tenermi a bada? Per –”
“Rabbonirti?” concluse Sherlock velenosamente. Non c’era
cattiveria nella sua voce, neppure sarcasmo, ma qualcosa la cui natura Molly
non riuscì ad afferrare appieno e perciò fu ben lontana dal comprendere. Gli
occhi di Sherlock la scrutarono per un lasso di tempo lunghissimo. “No,” disse
infine e Molly rilasciò di colpo il fiato che non si era accorta di trattenere,
smise di premere le labbra tra loro. Il dolore al petto non diminuì, si
affievolì soltanto. “Quello non era previsto.”
Molly si limitò ad annuire. Non credeva che sarebbe riuscita a
reggere il confronto con il suo sguardo, non senza crollare. Sapeva che lui non
avrebbe potuto mentire fino a quel punto. Certo, in passato alcuni particolari
episodi – uno in particolare, Janine – le aveva dato motivo di credere che lui
ne fosse del tutto capace, ma aveva sperato che almeno con lei, per il rapporto
di amicizia e stima reciproche che negli anni si era illusa che fosse venuto a
crearsi tra loro, che lei fosse ormai del tutto immune a queste pratiche di
menzogne. Aveva sperato di essere riuscita a conquistarsi un angolino, a
riservarsi uno spazio tra gli affetti di lui, che le valesse come
riconoscimento il premio della sua sincerità.
Ora lui l’aveva rassicurata che era davvero così, che almeno su
questo non le aveva mentito ed era come se le fosse scivolato un peso
incredibile dal cuore, era come se lei potesse tornare a respirare liberamente
per la prima volta dopo due settimane di apnea.
“Molly.”
Se non l’avesse ritenuto impossibile a priori, Molly avrebbe detto
che ci fosse una nota dolente in come aveva pronunciato il suo nome, di
incertezza e dubbio e timore.
“Sto bene,” disse e azzardò una rapida occhiata al viso di lui.
Sherlock le restituì lo sguardo con uno intenso e carico di cose
che Molly preferì non decifrare, su cui decise di sorvolare per il momento.
Doveva mantenersi lucida.
“Cos’altro vuoi sapere, Molly?” domandò Sherlock.
“Toby,”
rispose immediatamente Molly.
“Toby.”
Sherlock annuì. Si portò le mani al viso e poggiò i polpastrelli gli uni contro
gli altri, davanti al naso. “Dovevo fargli credere che avesse libero accesso a
Baker Street. Per quanto soggiogato a Moriarty, Moran non è Moriarty. A differenza di Moriarty, lui ama agire in prima
persona, sguazzare nel fango della trincea, sporcarsi le mani. Non si fida di
nessuno che non sia se stesso. Moriarty aveva Moran, Moran ormai solo se
stesso. Questa volta non c’era nessuna rete sotterranea, non c’erano uomini da
manovrare. Soltanto uno da portare allo scoperto, ossessionato dalla vendetta.
Era tutto perfettamente sotto controllo, ma poi tu –” qui lui si arrestò,
guardandola con occhi carichi d’astio.
Molly
non se ne fece un cruccio. Intrecciò le mani in grembo, quieta. “Io ho rovinato
tutto.”
“Perché
sei andata, Molly?”
La
domanda giungeva inaspettata e ciò nonostante, pensava lei, non le aveva
chiesto come avesse potuto farlo, ma perché. E nel coraggio che il tradimento
aveva richiesto, Molly provò anche uno scampolo di piacere farsi largo nel
petto. Entrambi non erano tipi da ‘come’, ma da ‘perché’, bambini alla ricerca
continua di risposte. “Perché non avevo scelta.”
A
quello, Sherlock ebbe un moto di fastidio e mosse la mano nel vuoto come se
potesse dipanare ciò che lei aveva detto o scacciarlo dalla propria memoria. “C’è
sempre una scelta.”
“No,
non sempre,” ribatté lei. “A volte puoi solo
scegliere per chi morire, non il modo in cui farlo.”
Gli
occhi di Sherlock si incupirono. “Tu hai scelto la morte.”
“Anche
tu.”
Oh, oh. Vedeva il rimorso, ma
quello stesso rimorso non trovò voce in scuse. Non che Molly ne desiderasse.
Poteva capire cosa lo avesse convinto ad agire in quella maniera, accettarlo,
perfino perdonarlo, ma non poteva non soffrirne e soffrendone non poteva non
amarlo tanto di più, tanto più dolorosamente, completamente, disperatamente.
Aveva
mai pensato a lei? Non nel momento decisivo, ma dopo, quando l’adrenalina aveva
lasciato di colpo la presa serrata e il vuoto della fine aveva preso il
sopravvento. Il vuoto di quella che sarebbe stata la sua vita, di tutte le
possibilità sfumate, delle occasioni che nessuno dei due si era concesso. In
quei quattro minuti, su quell’aereo, aveva mai pensato a lei?
“Ho
ucciso. Non nego che lo farei di nuovo se servisse a salvare la vita tua o di
chiunque altro tra noi. Puoi amarmi lo stesso? Nonostante l’inconfutabilità che
fa di me un assassino?”
Molly
lesse la trepidazione, l’inquietudine con cui lui la esaminava, intanto che
aspettava che lei gli rispondesse.
“No,”
rispose e vide l'ombra che inesorabilmente gli velava il volto; il freddo
che di nuovo calava su quegli occhi e che non era distacco, ora capiva
finalmente, non lo era mai stato.
Non riusciva a vedere, Sherlock? Proprio non capiva?
Molly
si alzò per portarsi di fronte a lui. Gli pose le mani ai lati del viso e lo
costrinse a guardarla. “Ti amo proprio perché credi di essere un assassino.” Ma
non lo era, non lo sarebbe mai stato. Molly sapeva vedere il mondo attraverso gli
occhi di lui, poteva intuire le gradazioni di bianco e nero in cui lui
catalogava le persone e sapeva che c’erano nicchie apposite, squisite, create
su misura per lei, John, Mary, Mrs. Hudson, Greg e la lista si allungava ogni
anno, ogni volta che una placca della corazza di Sherlock cadeva e lui ne
rimaneva ferito inesorabilmente. Il mondo non avrebbe mai capito Sherlock
Holmes, la sua grandezza, tantomeno avrebbe potuto amarlo. Ne avrebbe ammirato
l’immagine iconografica, da lontano, ma senza conoscerne la reale e più intima
grandezza.
Sherlock
aveva sgranato gli occhi e la sua meraviglia deliziò Molly, la fece sorridere. “Anch’io
ho ucciso, Sherlock,” gli ricordò con dolcezza. “L’ho fatto, una volta. Ho
ucciso per te e lo rifarei mille volte se necessario.” Se tu me lo chiedessi.
Se
avesse potuto e se non ci fossero state le sue mani ancora a trattenerlo,
Sherlock avrebbe scosso la testa. “Quello che dici non ha senso.”
“Non
ne ha mai avuto per te,” ribatté lei con un sorriso che sapeva bene quanto gli
sarebbe risultato inesplicabile.
“Ne
ha sempre avuto per me, ma per il resto del mondo non ne ha, con ogni
probabilità non ne avrà mai. Non ti infastidisce, Molly?” Sherlock inarcò le
sopracciglia, la luce nei suoi occhi brillava di nuovo, intensa e speranzosa. “Dovrebbe.”
“Ti
sembro normale?” Ora che parte della tensione che l’aveva tormentata fino a
quel momento era scomparsa, Molly si permise di rilassarsi. Ridacchiò persino. “Sego
ossa e faccio autopsie e mi piace.”
Sherlock
non si concesse ammissioni di divertimento, il suo armistizio si delineò
semplicemente nel bagliore compiaciuto e nell’accennarsi di un sorriso. “E ami
me.”
“E
amo te,” acconsentì Molly, come se si trattasse di un dato di fatto, quale
difatti era, “ma non sono l’unica, sai.”
Sherlock
allungò le dita per sfiorarle la guancia con un movimento esitante e risoluto. “Sei
stata la prima di cui mi sia importato conservarlo.”
Molly
sorrideva quando si chinò a baciarlo. Ad occhi chiusi percepì che il sorriso
aveva trovato finalmente posto anche sulle labbra di lui.
*
“E
così… Tom. Ho di certo un tipo, allora.”
Molly
rise, sentendosi rilassata e completamente a proprio agio tra le braccia di
Sherlock.
“Non
essere assurda, Molly,” le soffiò all’orecchio Sherlock, suonando infastidito.
“Tu non hai un tipo. Hai me o in alternativa pallidi spettri, effimeri miei
riflessi distorti.”
Molly
decise che non era il caso di fargli notare che entrambi quei suoi ‘effimeri
riflessi distorti’ fossero in effetti personalità affette da seri disturbi
ossessivo compulsivi.
*
John
Watson si godeva il tiepido sole pomeridiano di quella giornata ottobrina. Il
parco era popolato dalle risate di bambini che giocavano nella pioggia delle
foglie autunnali. Si beava alla vista di sua moglie e di sua figlia che
sceglievano i tipi più belli per portarne qualcuna a casa.
“Cosa
ha deciso la Commissione?” domandò tranquillamente, per nulla toccato dalla
presenza al suo fianco.
Mycroft
Holmes avrebbe potuto apparire fuoriposto nell’ordinario contesto dei Kensington
Garden. Stranamente non lo era. Lui stesso pareva in pace, come se fosse stato
sgravato di un’incombenza che a lungo lo aveva impensierito, o più precisamente
che a lungo aveva occupato un posto predominante tra le sue preoccupazioni.
“Una
Commissione convocata per Sherlock Holmes,” commentò, battendo l’ombrello su
una foglia e poi togliendola dalla punta come se si trattasse di un
insetto. “Di certo non è la prima e posso affermare con relativa sicurezza che
non sarà l’ultima.”
John
buttò la testa all’indietro e rise. “Nah.”
“Ha
fiducia nell’avvenire, John?”
“Certo,
in quello e in lui,” rispose con la massima serietà, senza reprimere un sorriso.
“Io credo in Sherlock Holmes.”
*
“Ti
sei dimostrato insospettabilmente utile, in questa circostanza. A tal punto,”
narici dilatate, respiro profondo, Mycroft sembrava pronto ad azzannare
Sherlock al primo accenno di una risposta mordace, “che ti è stata accordata la
grazia.”
"Quale
insperata fortuna.”
Una
gomitata da parte di John e un’occhiata inequivocabile di Molly misero a tacere
il resto del discorso che Sherlock ben volentieri completò nella sua mente.
“Sei
libero, Sherlock,” proseguì Mycroft e ogni parola sembrava costargli un pezzo
di organo, forse il fegato. “Per ora. Miss Hooper di sicuro pone un freno al
tuo essere incredibilmente irragionevole.”
E
rivolse a Molly un arricciamento sospetto che poteva essere, secondo indizi
ambivalenti, considerato proprio un sorriso.
*
Ogni
probabilità era contro di loro, contro la loro felicità.
Avrebbero
discusso. Probabile.
Ci
sarebbero stati momenti in cui l’uno avrebbe volentieri scannato l’altro. Probabile
anche questo.
Ci
sarebbero stati giorni in cui lui non le avrebbe rivolto la parola per una
questione di principio, di orgoglio e lei gli avrebbe chiuso le porte di
accesso all’obitorio per ripicca, per poi riaprirgliele alla scusa propizia di
un caso e alle imploranti insistenze congiunte di John e Greg.
Ce
ne sarebbero stati altri, però, quelli che valevano ogni probabilità o
statistica a loro sfavore, che la devolvevano in merito. Perché se c’era una
cosa che entrambi amavano era dimostrare l’inesattezza di una tesi, creare
corollari e di questo, essere felici, esserlo
insieme avevano fatto un punto
d’onore.
Fine.
N/A:
Ci
sono stati giorni, in questi mesi, giornate non particolarmente belle o felici
o qualsiasi altro aggettivo positivo a seguire, in cui ho temuto che come al
solito la maledizione che mi rende Mademoiselle Delle Cose Incompiute l’avrebbe
di nuovo avuta vinta.
In
questi mesi ho cercato innumerevoli volte di mettermi a scrivere, ho provato
sul serio, ma ogni volta, boh, non usciva niente, ero in crisi.
Si
dice che non puoi costringere le cose in un verso se quelle tendono ad andare
in un altro, anche che alle volte devi lasciare che queste facciano il loro
corso.
Io
ho atteso, paziente, febbrilmente, che quel prurito alle mani e la smania di riprendere
carta e penna o di battere i tasti della mia tastiera si riaffacciasse e
finalmente è successo. Dovevo solo distogliermi per qualche secondo dalla
realtà e rituffarmi nella loro, in quella di Sherlock e Molly, senza nient’altro
ad intralciarmi o distrarmi.
Ci
sono volute le feste di Natale, ma, ehi, meglio tardi che mai, giusto ;)?
E
quindi ci siamo, è successo. Ora è davvero finita. Caccia alle Ombre si
conclude qui, non senza ripensamenti da parte mia su certi passaggi che sì,
avrei potuto senz’altro scrivere meglio e certi capitoli a cui, Dio, rimetterei
volentieri mano per riscriverli di sana pianta daccapo.
Ciò
che più di tutto mi mancherà, però, siete voi ragazze. Siete state fantastiche,
se ogni giorno riuscivo a scrivere era anche per l’energia che siete riuscite a
trasmettermi con le vostre recensioni e ad ogni capitolo ero lì trepidante,
domandandomi se vi sarebbe piaciuto almeno la metà di quanto era piaciuto a me
scriverlo.
Grazie
a questa storia ho conosciuto ognuna di voi un pezzetto alla volta, ho scoperto
persone fantastiche e di questo, più di qualsiasi altra cosa, vi sono
maggiormente grata. Non per i complimenti, non perché la storia vi è piaciuta,
ma perché mi avete accompagnato in questo splendido percorso, vi dico che
voglio bene ad ognuna di voi e certo, un’altra cosa è d’obbligo prima di
salutarci, almeno per il momento e cioè un gigantesco GRAZIE.
Mando un bacione a tutte; vi auguro
una pioggia delle cose migliori che il vostro cuore desidera,
Buone Feste e OVVIAMENTE, nel caso in cui non
si fosse capito nei miei arzigogolati excursus, :D