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Autore: DazedAndConfused    23/12/2014    2 recensioni
C’è un corridoio da percorrere lentamente, e alla fine del corridoio una porta da varcare.
È bianca la porta, e bianche sono le pareti ridipinte da poco – l’odore della pittura aleggia ancora fra queste quattro mura, mescolandosi a quello del cuoio, del tabacco e del mazzetto di lavanda nascosto in chissà quale anfratto del vecchio armadio.
La stanzetta è spoglia, uno spazio quasi irreale: le valigie accatastate l’una sopra l’altra a malapena riescono a renderla un’entità tangibile.

[Scritta per i cinquant’anni di Eddie Vedder]
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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flipping through the worn out pages



(Piano, piano… un passo alla volta.)

 

C’è un corridoio da percorrere lentamente, e alla fine del corridoio una porta da varcare.

È bianca la porta, e bianche sono le pareti ridipinte da poco – l’odore della pittura aleggia ancora fra queste quattro mura, mescolandosi a quello del cuoio, del tabacco e del mazzetto di lavanda nascosto in chissà quale anfratto del vecchio armadio.

La stanzetta è spoglia, uno spazio quasi irreale: le valigie accatastate l’una sopra l’altra a malapena riescono a renderla un’entità tangibile.

 

(Puoi aprire la prima, se vuoi.)

 

Questa è l’unica a non aver alcun adesivo né scritta che possano darti qualche indizio riguardo il periodo che racchiude; la apri.

La fodera è un vecchio tessuto che ha conosciuto tempi migliori, e un lembo staccato del tutto riesce a nascondere quasi perfettamente un foulard a scacchi verdi, un ricordo lontano: ne inspiri la sottile traccia di dopobarba che ti ha avvolto per l’ultima volta in una domenica pomeriggio di tantissimi anni fa.

 

(“Sei proprio un ometto in gamba” ti aveva detto,

spazzolandoti via una macchia di terra dalla salopette

e chiudendosi il cancelletto di casa tua alle spalle.)

 

I quaderni sono tutti qui, zeppi di file e file di lettere ricopiate in un corsivo stentato, figurine di Joe DiMaggio, disegni – sgorbi – di Paperino e carte di Skittles e Milky Way.

Sulla prima pagina c’è scritto “Questo quaderno è di Edward Mueller”: la calligrafia è insicura, tremolante e le lettere percorrono un tragitto degno delle montagne russe; tra le righe rivedi un bambino con i capelli tagliati a caschetto, intento a stringere la penna con tale foga da lasciare un solco sulle pagine e, qualche volta, anche qualche vescica sulle dita.

 

 

La seconda valigia ha l’impronta di un anfibio sull’angolo destro: ricordi di averla presa a calci appena tornato da scuola, il giorno in cui quello stronzo del tuo professore ti aveva ripreso e tu gli avevi dimostrato cosa la “vera vita” significasse veramente per te.

Le bollette sventolate durante quella mattinata, le giustificazioni per i ritardi, i biglietti dei primi concerti a cui sei andato – persino la registrazione pirata che avevi fatto a quel famoso show dei The Who – sono tutti qui, gettati alla rinfusa e incasinati esattamente come quegli anni.

Ci sono anche i volantini del club di teatro e una foto di Liz Gumble con quel maglione che a te piaceva così tanto… la riponi e ti concentri sul primo quaderno, quello con la copertina praticamente squarciata e fitta di cancellature rabbiose.

 

Edward Louis Severson

Edward Mueller

Eddie Severson

Eddie Vedder

Eddie?

EDDIE

 

“Andrà tutto bene, vedrai” borbotti sottovoce, sfiorando le scritte nere con la fronte corrucciata… speri che quel ragazzetto possa sentirti, ma in fondo non ne sei così sicuro.

 

 

Sulla terza valigia non ti soffermi tanto: ora che l’hai aperta ti sei già bello che dimenticato di come fosse esteriormente, anche perché i tuoi occhi sono ormai fissi sul primo della pila di quaderni che ti stava attendendo in silenzio.

C’è una pagina con l’angolo strappato e, su quella successiva, hai incollato il pezzetto di carta mancante – sopra c’è il numero di telefono di Jack Irons, scribacchiato in fretta e furia la sera in cui vi siete incontrati per la prima volta.

Ci sono anche dei rimasugli di scotch rimasti attaccati per miracolo nel punto in cui, una volta, avevi incollato la polaroid che t’eri scattato con Strummer… quella con l’autografo, che hai incorniciato e che ora tieni vicino alla foto di tuo padre e al famoso scatto in cui Townshend ti abbraccia.

È rimasta soltanto la didascalia, scritta con un pennarello e mangiata dall’umidità e dal tempo: “Me & Joe Strummer: lighted a spliff for the gentleman here, best night ever”.

Sorridi e ricominci a sfogliare velocemente altre pagine finché arrivi ad una calligrafia più fluida, la prima che tu abbia mai mostrato a qualcuno: i testi di Alive, Once e Footsteps sono qui, tali e quali a ventiquattro anni fa… ancora figli delle onde di quel pomeriggio in cui le parole vennero alla luce sporche di sabbia e salsedine.

Qualche pagina più in là ed ecco che sbuca un post-it con l’indirizzo della Galleria Potato Head e, proprio accanto, ecco anche una dedica strampalata che Mike ti ha scritto il giorno in cui saresti dovuto tornare a San Diego, dopo aver trascorso una settimana nell’Emerald City per conoscere lui e i ragazzi e iniziare a comporre musica in loro compagnia: McCready si era divertito a fingere che questa fosse la pagina dell’annuario del Senior year e tu l’avevi lasciato fare, a patto che non andasse a ficcare il naso in quelle precedenti.

Ritrovi anche l’acquerello che Jeff aveva fatto quand’eri tornato a Seattle per piantarci definitivamente le radici e la caricatura che Stone ti aveva lasciato qui di nascosto dopo che avevate aperto per gli Alice In Chains: ci sei tu, un ometto tutto capelli e ansia che ricopre l’asta del microfono – immobile come uno stoccafisso, Jeff dalle sembianze vagamente scimmiesche che suona andando sullo skate, Mike che colpisce gente a caso nell’audience con la sua mitica chitarra spara-laser, Krusen semi-nascosto dalla batteria e Stone con gli occhialetti e la toga da giudice so-tutto-io.

Ridacchi e chiudi il quaderno, notando che sul retro della copertina troneggia uno “STILL MISSING” a caratteri cubitali – la stessa scritta è presente sul prossimo notebook, e non puoi fare a meno di rabbuiarti un po’: il ricordo del concerto in cui qualcuno si era intrufolato nel tuo camerino e aveva trafugato alcuni dei tuoi quaderni – i tuoi testi, la tua fottutissima vita – è ancora vivo e riesce ad irritarti come quando avevi appena scoperto il fattaccio.

Da qui in poi la tua calligrafia non diventa altro che un groviglio d’inchiostro e linee intrecciate per formare intenzionalmente un elettrocardiogramma – eri impenetrabile, incazzato e volevi farlo sapere a tutti, soprattutto ai potenziali stronzi che avrebbero potuto riprovare a sottrarti giorni e giorni d’idee, schizzi e confessioni senza avere nemmeno l’ombra del tuo consenso.

Quelle che si susseguono sono pagine su pagine fitte di eventi e note, pagine che in un batter d’occhio diventano quaderni da divorare nuovamente: sono le polaroid del fiume di gente al Pinkpop Festival e alle varie tappe del Lollapalooza, l’indelebile che ricopre la pagina dell’8 aprile 1994, i testi di alcuni brani battuti a macchina, tu vestito pseudo-elegantemente a Roma – ingessato e con Beth a braccetto, leggiadra come solo una novella sposa sa essere – il ritaglio di un giornale con la foto dell’auto della fanatica che aveva provato ad introdursi a casa tua e che aveva finito con lo schiantarsi sul cancello, la pagina nera dedicata a Roskilde, ancora bagnata e stropicciata e su cui a malapena si può leggere la scritta che avevi inciso furiosamente con la biro…

 

PERCHÉ?

 

(Già… perché?)

 

 

 

Ti svegli di soprassalto, l’aria che un po’ ti manca: l’altra metà del letto è fresca, Jill dev’essersi alzata già da un pezzo.

Dopo cinque minuti abbondanti riesci ad alzarti dal letto e apri la porta-finestra che dà sul parco: il vento delle otto di mattina ti fa intirizzire, però non ricordi l’ultima volta in cui hai fumato una sigaretta guardando un cielo così, perfettamente pulito e sgombro da ogni nuvola.

Resti così per un po’, con il mozzicone a mezz’aria, dopodiché ti decidi finalmente ad iniziare questa giornata: nonostante sia dicembre indossi la maglia appartenuta allo zio John – in questo momento vuoi sentirlo più vicino che mai.

Sciabatti lentamente per i corridoi, un passo alla volta, con gli occhi che ancora ti si chiudono e l’eco di una domanda che aleggia ancora nella tua mente, senza aver ricevuto alcuna risposta.

La porta è lì, a pochi passi da te, bianca e pronta a farsi aprire: varchi la soglia e con un rapido colpo d’occhio puoi constatare la presenza di tutte le valigie.

Sospiri sollevato e riprendi a sfogliare i quaderni da dove avevi interrotto la tua lettura: fiumi e fiumi di parole, anni e anni ti scorrono fra le mani come biglie lisce dai motivi imperfetti… sfuggevoli e insolenti, scivolano lungo il tragitto della tua memoria, un sentiero che non sai ricordare in tutta la sua interezza.

 

 

Quando arrivi all’ultima valigia, non sai quanto tempo sia trascorso da quando hai rimesso piede in questa stanza… di una cosa però sei certo: questo quaderno dalla copertina immacolata non l’hai mai visto prima d’ora.

Lo apri con titubanza e vieni immediatamente travolto da un’esplosione di colori e scarabocchi: l’ometto che soffia sulle candeline di una torta a forma di ukulele, la donnina più alta di lui che suona una trombetta con aria festosa e le due fatine bionde che gettano coriandoli in ogni dove ti fanno sorridere intenerito.

Poco dopo tre paia di braccia ti cingono in un abbraccio sentito, augurandoti cento di questi giorni e invitandoti ad andare a scartare i regali che ti stanno aspettando in salotto.

Annuisci e segui le donne della tua vita, facendoti trascinare fuori di lì con il nuovo quaderno sottobraccio.

 

 

 

 

C’è un corridoio da percorrere lentamente, e alla fine del corridoio una porta da varcare.

È bianca la porta, e bianche sono le pareti ridipinte da poco – l’odore della pittura aleggia ancora fra queste quattro mura, mescolandosi a quello del cuoio, del tabacco e del mazzetto di lavanda nascosto in chissà quale anfratto del vecchio armadio.

In mezzo alla stanza c’è un uomo che se ne sta ad occhi chiusi, con la fronte distesa e una consapevolezza che sta progressivamente crescendo dentro di lui: ci saranno sempre mille e più pagine ancora inviolate ad attenderlo, e lui le troverà tutte.

 

 

 

 

 

 

Ø  Non ricordo precisamente la dinamica, ma un giorno uno dei professori sorprese Eddie a dormire sul banco e gli fece una ramanzina: per tutta risposta il ragazzo prese il proprio zaino e ne vuotò il contenuto sul banco, che venne immediatamente sommerso da una sfilza di bollette (Eddie infatti lavorava anche di notte pur di mantenersi gli studi), mostrando al docente la propria “vera vita”

Ø  Liz Gumble è stata la prima ragazza di Eddie – colei che si dice abbia ispirato il testo di Black

Ø  Jack Irons è l’ex batterista dei Red Hot Chili Peppers nonché colui che mise in contatto Jeff Ament, Stone Gossard e Mike McCready con Eddie; dal 1994 al 1998 divenne egli stesso batterista dei Pearl Jam

 

 

 

Note autrice

Non ho molto da aggiungere: sono molto felice che Eddie abbia potuto raggiungere la tappa dei cinquanta, e sono altrettanto soddisfatta dell’Eddie cinquantenne che ha imparato a lottare contro i propri demoni e a mitigare la propria impulsività a favore di una maggiore calma, ma che non ha mai smesso di farsi portavoce degli ideali e delle battaglie altrui in cui crede fermamente.

Cento di questi giorni, Eddie! Grazie per essere rimasto sempre te stesso

 

Dazed;

   
 
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