Alter Ego
Sogno
La libertà è un'illusione menzognera.
Maksim
Gor’kij
Devron si chiese, con il solito
sgomento misto a scetticismo se anche oggi sarebbe morto qualcuno. Quasi una volta
al mese precisamente, da due anni a questa parte, qualcuno si suicidava
inspiegabilmente e la notizia finiva sulle prime pagine della cronaca nera.
Questi due mesi trascorsi non s’è sentito di nessun suicidio e sembrava quasi
strano. La ragazza dai lunghi capelli neri camminava, con lo zaino in spalla e
con passo sostenuto sul marciapiede quasi deserto. Le lezioni erano terminate
più di mezz’ora fa e lei non era ancora a casa, come invece avrebbe dovuto
essere siccome abitava vicino alla scuola. S’era invece fermata sul vecchio
prato dietro l’edificio immenso della scuola, dove spesso c’era andata a
giocare di nascosto con gl’amici. Era un bel prato verde una volta e pieno di
fiori nei periodi caldi; ora non ne restavano che terreno bruciato e arbusti che
stentavano a crescere. Devron sapeva che tra non molto, in quel prato sarebbe
sorto un grande albergo e la zona era stata recintata ma lei c’andava spesso,
perché quel posto gli ricordava cose belle ch’aveva vissuto. Le strade vuote le
mettevano sempre un’inspiegabile ansia perché una volta non era così; una volta
era tutto vivo. Quando lei era piccola - ricordava la ragazza - la gente
camminava per le strade uno di fianco all’altro e le madri tenevano i bambini
per mano. Gl’occhi blu di Devron scintillavano di nostalgia, mentre si chiedeva
per la milionesima volta com’era camminare mano nella mano con la propria
madre. Lei l’aveva cresciuta suo padre, anzi, la babysitter, perché suo padre
non era quasi mai a casa per via del lavoro o con la scusa del lavoro. Neanche
oggi, l’avrebbe trovato. Ma in fondo lei era grande e sapeva cavarsela da sola.
Era questo che pensava più che convinta girando l’angolo per Crown Street, la
strada dove c’era la sua casa. La casa era un appartamento di modeste
dimensioni ma molto ben arredata - grazie a Devron, o piuttosto al suo
raffinato senso dell’estetica che l’aveva sempre contraddistinta da tutte le
altre persone intorno a lei - che il padre aveva comprato due anni or sono con
i soldi messi da parte da anni, siccome la vecchia casa ad Annapolis era piena
di ricordi spiacevoli. A Devron piaceva questa nuova casa perché c’era più
luce.
E perché i vicini non la
conoscevano.
Giunta dinnanzi alla cancellata
del palazzo, le molte videocamere a circuito chiuso disseminate nell’androne,
posarono gl’occhi morti su di lei.
Dopo le solite procedure di
sicurezza, come il riconoscimento delle impronte digitali e della retina -
procedura sempre sufficientemente sgradevole per Devron - la ragazza prese
l’ascensore di vetro e sbarre di metallo e salì fin al dodicesimo piano.
Nell’istante in cui Devron pose
piede sulla soglia dell’appartamento, subito avvertì - sentì una scossa lungo
braccia e gambe - che c’era qualcosa che non andava. Quando s’accorse di quel
sanguinoso spettacolo, la sua gola venne presa da una morsa violenta e si sentì
soffocare. C’era sangue ovunque - strisce scarlatte sui muri e sul pavimento -
e dall’odore che aleggiava per le stanze, non era qualcosa avvenuto da poco.
Devron cercando di mettere da parte lo spavento, corse in ogni camera con il
cuore che batteva troppo forte e le mani tremanti. Quando fu sicura che ciò che
aveva pensato all’inizio - che suo padre era stato ucciso - era solamente la
sua paura, si lasciò cadere sulle ginocchia in un angolo. Si tolse il peso
dello zaino dalle spalle buttandolo via con gesto nervoso, mentre cercava di
riprendere a respirare senza affanno. Per il momento, i suoi pensieri
continuavano a rimanere più che sconnessi. Devron era solamente terrorizzata.
Era sconvolta soprattuto perché questo, non era il primo e assurdo episodio che
l’era capitato fin ora. Chiuse gli occhi e di nuovo, quel mostro dai denti
affilati e tozzi come quelli degli squali, la fissava dall’alto in basso con
occhio clinico. Devron era ormai abituata, a quel senso d’impotenza che la
sopraffaceva ogni qualvolta si guardava dentro. Lei del resto sapeva - o per
meglio intuiva - cose che nessuna altro
mai si sognava. Queste percezioni a volte uscivano dal nulla e lei si sentiva
sempre in preda al terrore perché non capiva il significato di ciò che le
succedeva. Era un qualcosa fuori dal suo controllo.
Spesso si convinceva che era
soltanto pazza.
Devron sapeva però che non era
del tutta vera quell’affermazione, perché nel caso contrario nessun’altro
vedrebbe ciò che vedeva lei. E ogni volta, cercava con tutta se stessa di
scacciar via quella voce dall’inflessione sempre soave e tranquillizzante che
sussurrava nei suoi pensieri quando l’accadeva qualcosa di spiacevole. Proprio
ora, quella voce bisbigliava di non aver paura. Devron con tutto ciò, non
poteva far altro che sentirsi sconvolta. Non si mosse dal suo angolo per
diverse ore.
*
Erano già le tre quando Devron
si decise ad alzarsi da terra e preso coraggio, cominciò a pulir via quel
sangue dall’odore ormai rivoltante. Soltanto mezz’ora dopo si rese conto che
quel liquido bruno e rosso, non sarebbe mai sparito da quella casa. Buttò via
lo straccio, il secchio pieno d’acqua sporca e il disinfettante perché non
poteva pulir via quel casino da sola. Con le mani nei capelli pensò a cosa
raccontare al padre, quando lui avrebbe fatto ritorno stasera e non gli venne
in mente alcuna assurda scusa stavolta. Poi, entrando in camera sua s’accorse
che la finestra era aperta - forse prima non l’aveva notato, presa dall’agitazione
- l’andò a chiudere. Devron aprì il cassetto del suo comodino, per riporre il
vocabolario che aveva portato a scuola stamattina. Subito notò un bigliettino -
un pezzo di carta strappato - che lei sapeva con certezza che non era roba sua
ed esitò, prima di prenderlo in mano. C’era una scritta e non con il sangue e
prima di leggere il presunto messaggio, una nuova scossa di paura attraversò
Devron. Dopo aver letto ciò che c’era
scritto sul foglietto sgualcito, Devron se lo mise in una tasca e non disse una
parola né fece alcuna smorfia. Non si era tranquillizzata ma sapeva ora, che i
suoi sogni avevano un significato fondato. Poi, ebbe di nuovo quella sensazione
stravolgente che qualcosa sarebbe accaduto tra non molto.
Qualcosa - un’entità in contatto
con la sua essenza o qualcosa del genere, pensava lei - premeva alla testa ma
questo non causava dolore; solo un sottile fastidio. Devron uscì di casa con
urgenza. A quest’ora, fuori c’erano solo donne a passeggio per i viali dagli
spogli alberi. A quel tempo, uomini e donne stavano separati per gran parte
delle ore, per questo dopo la scuola Devron doveva tornare presto a casa,
perché un’ora e mezza più tardi sarebbero stati i maschi ad andare a lezione.
S’era deciso così al governo; si diceva che c’era meno violenza e la
criminalità poteva esser tenuta sotto controllo in modo migliore.
Però, tutto questo era
disumanizzante.
Devron camminò per lungo tempo
per le strade di quella San Francisco che nelle foto di decenni passati, sembrava
molto meno grigia e austera. Era quasi l’ora del coprifuoco per le donne,
quando la giovane giunse di fronte la nuova chiesa che rappresentava la nuova
religione mondiale, ovvero tutte le religioni in una. Si diceva messa solamente
il sabato; la mattina per le donne e il primo pomeriggio per gl’uomini. Uomini
e donne potevano riunirsi ogni domenica, il giorno festivo. Oggi che era
giovedì però, il giorno delle confessioni.
Dalla chiesa uscì una giovane
ragazza - probabilmente aveva l’età di Devron - seguita da una donna più
anziana, forse la madre. La giovane aveva lunghi capelli biondi e mossi
abbelliti con un cerchietto bianco e portava una borsetta alla moda a tracolla.
Era la comune ragazza media dell’anno duemilasedici. Devron provò un moto di antipatia
verso di lei, al solo vederla. Quella strana sensazione di inevitabilità che
premeva nella sua testa, s’era calmato ma Devron era ancora agitata. La voce
fastidiosa e metallica che proveniva dai megafoni, annunciava l’ora
dell’imminente coprifuoco. Proprio in quel momento una violenta scossa di
terremoto - o era parso un terremoto a Devron - colpì l’area e Devron si sentì
tirare giù da una forza sconosciuta. Poi, come in un sogno si ritrovò in un
luogo buio e senza suoni né forme. A pochi metri da lei c’era la ragazza
bionda, che stava immobile come una statua, con gl’occhi vuoti e sbarrati e
c’era sangue dappertutto. Devron si mise a urlare, perché sentì una spiacevole
sensazione salirgli dal petto. Credeva d’impazzire.
– Non aver paura – qualcuno
cercava di rassicurarla ma Devron continuava a pensare che forse quella voce,
era soltanto un’allucinazione.
- Sei una di noi, non devi
temere – Devron si guardò intorno, ma non c’era nessuno oltre lei e la ragazza
in coma. Cercava una via d’uscita, perché in tutta quell’oscurità non riusciva
a respirare. Ormai era sicura che sarebbe morta ed era stanca e confusa. Si
mise a piangere.
- Ascolta; tu hai una missione,
ti racconterò ogni cosa – quella voce era vicina adesso e lo sguardo di Devron
venne catturato da un’ombra vicina alla ragazza bionda che presto si svelò.
Prima, Devron riuscì a vedere solo una figura indistinta di ombra e luce
oscillante. Poi, man a mano che essa veniva avanti assumeva un aspetto sempre
più consistente ma non ancora umano. La voce però, a sentirla bene era quella
di una donna: – Non sei come gli altri umani – e anche
l’aspetto incerto si stava tramutando in un essere umano. Devron vedeva una
ragazza come lei adesso – che le somigliava molto – con corti capelli corvini e
spaventosi occhi color porpora. L’espressione del viso – da ciò che intravedeva
Devron tra quell’ombra – era immota e innaturale. Non era lei che sussurrava
emozioni incomprensibili nella sua mente.
Devron indietreggiò
involontariamente, quando l’altra fu a meno di mezzo metro da lei: – Chi sei ? – domandò lei e si stupì della
propria freddezza.
– Ciò che vuoi tu – disse la
misteriosa visione – Non ho un nome umano col quale essere identificata ma tu
puoi chiamarmi Alter, sei vuoi – Devron ci capiva sempre meno, eppure aveva
sempre saputo con certezza che questo giorno sarebbe giunto. Alter riprese la
parola: – Sento la tua paura e questo mi causa parecchio fastidio, ma non è
colpa tua in fondo; capita a tutti quando vengono contattati – disse senza
cambiare tono – Non ha importanza di dove siamo adesso; non chiedermi niente ma
ascolta ciò che ho da dirti – parlò ancora la lo spettro – non sapeva che altra
definizione darle, Devron – e adesso la sua voce s’era fatta più sottile, quasi
supplichevole.
– Perché dovrei ascoltarti,
questo… è assurdo – proclamò Devron con rabbia – E’ solo un sogno… – avrebbe
voluto esserne più convinta – … o è solamente la mia pazzia, perché nel mondo
reale niente di tutto ciò esiste e neanche tu ! –
Una risata maligna fece eco in
quel vuoto: - Nel mondo reale come lo definisci tu esiste qualcosa di ben
peggiore di tutto ciò – e Alter fece una giravolta per mostrarle quel luogo
tenebroso e senza tempo, nel quale Devron era sospesa.
– E lei ? – si riferiva alla
ragazza in stato catatonico, che pochi minuti fa usciva dalla chiesa con la
madre, con portamento superbo e il volto disteso.
– Lei fa parte della missione ma
adesso ascolta cos’ho da dirti perché è molto importante, soprattutto per te;
dimmi, preferiresti marcire in un mondo dove la morte è l’unica vera giustizia
? – le chiese con gli occhi fissi su di lei, senza batter ciglio. Devron non
disse niente stavolta; la sola cosa che voleva in questo momento, era che tutto
ciò finisse presto. La voce di Alter l’atterriva: – La libertà non è mai stata
degli umani; sono solo creature impure, nient’altro che resti genetici di una
stirpe che una volta era stata perfetta e la sola a governare interi mondi –
Devron non voleva ascoltare ma non poteva farne a meno – Essi erano stati la
progenie della vita che furono relegati, ormai estinti, nel profondo delle
acque marine, perché gli Dei l’avevano puniti senza giustizia; no, non sono gli
Dei inventasti dagl’uomini, sono l’Energia pura che viaggia da dimensione a
dimensione – non poteva essere la realtà – Gli Dei si erano corrotti dopo
Eternità d’esistenza; loro hanno scelto di annientare l’Universo per rimanere
immortali e così è imploso tutto e tutto ha di nuovo avuto inizio. Quei pochi
superstiti si sono trovati di fronte il nulla; alcuni sono impazziti mentre
altri hanno dovuto viaggiare all’infinito per giungere qui, in un tempo ormai
inesistente. Loro, esseri d’oscurità, non potevano vivere in superficie perché
sarebbero stati distrutti dalle forze di questo mondo. Esiste il loro ultimo
regno nel centro degl’oceani; un regno dormiente ormai da secoli e invisibile
all’occhio dell’uomo, per questo mai ci hanno trovato. Gl’umani la chiamano
Atlantide -
Devron tremò inconsciamente a
quel nome. Nei suoi sogni c’era sempre stata una parola che da sveglia non
sapeva pronunciare, perché non era una lingua di questo mondo ed era Atlantide;
in lingua umana però, non esistevano vocaboli per pronunciarla.
– E io che c’entro ? – ebbe la
forza di domandare lei.
– Sei l’ultima discendente pura
della nostra stirpe – disse Alter – Pensaci bene, non sai neanche dove sei nata
e non ha mai conosciuto tua madre; perché non parli con quell’uomo ? – si
riferiva al padre, ovviamente e Devron fu presa di nuovo dalla collera – Quando
ti ha presa all’orfanotrofio, la donna che lui tacciava per tua madre, era già
morta – Devron urlò.
– No, non è vero ! questo è solo
un brutto sogno… solo un sogno… – disse
a denti stretti ma ormai, sentiva già d’aver perso la testa.
- E’ stato il sacerdote supremo
che ti ha portato via dal Regno; è stato lui che in cambio della sua essenza
vitale, ti ha reso un’umana. Lui non credeva più nel regno, e ha preferito
sacrificare l’ultima speranza, condannando te
e l’intero Regno. Eri l’ultima Sembianza e l’unica possibilità di far
rinascere Atlantide e adesso il Regno ti chiama; il Regno vuole risorgere… –
– No… – era stanca, Devron.
– E’ tutto nel tuo DNA, è da
esso che sei legata al Regno e non puoi tirarti indietro; sarai tu a far
risorgere la libertà o a condannare per sempre la tua stirpe… –
– Smettila… smettila, ti prego !
– troppi ricordi creduti morti, facevano male.
– E’ quasi ora, hai poco tempo per decidere; quando un angelus si
farà vivo tu lo seguirai e in base alla sua vita o alla sua morte, adempierai
la tua sorte e la sorte della stirpe primigenia – Alter disse queste parole
sibilline e quasi incomprensibili per Devron, prima di scomparire portandosi
dietro l’oscurità. Quando si risvegliò, Devron era in un letto d’ospedale. Si
sentiva debole e il suo corpo era dolorante e la sensazione era quella di
essere caduta da un’altezza notevole. Il volto preoccupato e indagatorio del
padre la scrutava dal monitor sopra il suo letto – ormai in quasi ogni ospedale
si usava questo sistema a causa delle nuove regole – e Devron si rilassò un po’.
Il padre le disse che l’aveva trovata svenuta davanti la chiesa e che quand’era
tornato a casa per prendere la sua roba, aveva trovato i muri imbrattati di
sangue. Devron fece un altro sospiro di sollievo, almeno non era pazza, poi
raccontò all’uomo – mentendo – che era da un po’ di tempo che non si sentiva
nel pieno della forma. A nessuno disse del bigliettino e neanche degli strani
sogni e avvenimenti che le accadevano ormai da troppo tempo. Il padre le
assicurò che per un po’ si sarebbero trasferiti a Lan, la città dove vivevano i
genitori dell’uomo; di sicuro l’avrebbero ospitati nella loro casa. Almeno
finché l’impiccio non si risolveva.
– E l’altra ragazza ? – chiese
al padre.
– Quale ragazza ? –
– C’era una ragazza bionda
vicino alla chiesa, sta bene ? –
– Mi spiace ma non ho visto
nessun’altra ragazza oltre a te; c’era già il coprifuoco – disse il padre
alzando le spalle.
– Dovresti riposare adesso,
parleremo con calma quando lascerai l’ospedale, buona notte Devron – poco dopo
il collegamento video si oscurò. Lei avrebbe voluto chiedergli se… no,
probabilmente era meglio di no e poi non era pronta e forse non lo sarebbe mai
stata. Ma poi perché dar retta a un brutto sogno ? Non aveva alcun senso e non
voleva esser considerata una pazza. Devron non riuscì a prender sonno quella
notte, tormentata ancora da quell’incubo e nella sua testa c’era sempre quel
nome.
*
Cinque giorni dopo
quell’incidente pieno di sangue, Devron era ancora spaventata a morte. Sperava che
un po’ di vacanza a Lan l’avrebbe aiutata a distendersi. Non era più tornata
sull’argomento col padre. Voleva soltanto dimenticare quella brutta esperienza.
Qui a Lan, c’era il sole e il verde che circondava la città, ti faceva pensare
di stare nell’Eden delle vecchie leggende di una volta.
Devron si trovava bene,
nonostante tutto.
E la scuola di quella città era
molto più bella e solare, anche se più piccola. Però non parlava molto con le
compagne. Di solito i nuovi arrivati non erano visti con curiosità come una
volta nelle scuole – come gli raccontava suo padre – perciò lei pensava allo
studio.
Cercava di vivere la sua vita,
nonostante quanto era accaduto e nonostante sentisse la follia prendere il
sopravvento.
*
Poi un giorno, Devron conobbe
qualcuno. Era stato dopo le lezioni, quando Devron – come suo solito – s’era
attardata a tornare a casa. Era quasi arrivata e d’un tratto vide un ragazzo,
sull’altro lato della strada. Lui le sorrise sfuggevole e Devron si costrinse a
fermarsi, incuriosita. Non era la prima volta che un ragazzo le sorrideva ma
lui aveva qualcosa che nessun altro aveva. Devron non sapeva esattamente cosa
ma era una bella sensazione. Lui si chiamava Johannes. Era biondo e aveva gli
occhi di un bellissimo verde acqua e il suo sorriso era enigmatico o forse
soltanto malinconico. Quel giorno non si erano detti molto ma lei fu molto
colpita, oltre che dalla sua bellezza, anche dal suo modo di fare, così solare
ma al tempo stesso troppo tenebroso. Era stato un colpo di fulmine, Devron era
già innamorata e neanche sapeva perché. Quel giorno, senza neanche sapere il
nome dell’altro, passeggiarono per le strade – ancora deserte – mano nella
mano. Nei sogni di Devron questo non era mai successo. Per lei non era uno
sconosciuto ma una parte di lei che qualcuno le aveva tolto molto tempo or
sono. Lui e Devron decisero di vedersi in segreto e oggi, era il loro primo
appuntamento. Lei non era più in sé e soltanto ora, s’accorgeva di non aver mai
provato nulla di simile per nessuno.
Neanche a suo padre aveva detto
di lui.
Era quasi sera – le sei e dieci
– e Devron aspettava il suo ragazzo all’ombra rigogliosa del parco di Lan, dove
però, gli uccelli non cantavano da anni ormai. C’era un silenzio che
s’avvicinava molto a al silenzio di quei suoi ambigui e claustrofobici sogni.
Devron per un attimo si perse
nelle sue congetture astruse e quando tornò in sé, Johannes le veniva incontro
chiuso nel suo giacchetto scuro. Dopo il consueto ‘ciao’ si abbracciarono, come
una coppia di fidanzati che si conosceva fin troppo bene. Devron si era messa
del profumo per l’occasione, un misto di spezie orientali e rosa. E tutto ciò le
sapeva di già vissuto. I due ragazzi rimasero a lungo in silenzio, godendo solo
della presenza dell’altro, camminandosi affianco.
– Mi piace stare così – disse
Devron prendendolo per mano.
Johannes ricambiò con uno dei
suoi nostalgici sorrisi: – Sei bella Devron, non ho mai incontrato una ragazza
come te, perfino i tuoi occhi blu sono diversi da quelle delle altre, c’è
qualcosa in essi che non so spiegare – e divenne triste tutt’a un tratto, ma
non le aveva lasciato la mano.
– C’è qualcosa che non va ? – domandò
stupidamente lei – mentre il cielo si faceva sempre più scuro – poi si fermò.
Voleva guardarlo negli occhi.
Voleva sapere.
Lui scosse il capo: – E’ tutto a
posto, credimi ma da quando ti ho incontrato non ho un attimo di pace con mio
padre, che non fa altro che chiedermi chi sei – Devron sentì un moto di
tenerezza per lui e gli prese il volto tra le mani, a consolarlo. Poi arrossì
al pensiero che non si erano mai baciati.
– Scusa – Devron ritrasse le mani.
– Lascia stare – disse lui
mentre riprendevano a camminare. Devron si sentì un po’ colpevole e si chiese
perché Jo non prendesse l’iniziativa. Forse lei non gli piaceva davvero ma
allora non avrebbe senso uscire insieme rischiando una multa. Oppure si era
accorto che lei era strana però neanche in questo caso avrebbe senso perché del
resto anche lui violava le regole. Nonostante ciò, lei sentiva di conoscerlo da
sempre e quando lo guarda negli occhi sentiva di appartenergli e che lui le
apparteneva. Devron pensò a suo padre; se lui fosse venuto a sapere che la
figlia si frequentava di nascosto con qualcuno – violando le regole –, sarebbe
stato di certo contrariato, per quanto la sua mentalità fosse aperta.
I due ragazzi giunsero nel posto
dove Johannes aveva lasciato la moto. Lui le aveva promesso di portarla in un
bel posto, dove non c’erano né guardie armate né videocamere. Aiutò Devron a
salire sul motorino – lei non c’era mai salita in vita sua – poi partirono. Era
davvero scomodo, pensò lei con le braccia strette – troppo strette – a Jo per non
cadere.
Poco più di dieci minuti dopo,
s’intravedeva la spiaggia: – Questo era
il mio nascondiglio segreto, da piccolo – le disse lui, dopo aver lasciato da
una parte la moto ed aver portato Devron in una buia caverna piena di
stalattiti, che si trovava nell’entro di un cumulo di scogli a diversi metri
dalla spiaggia. C’era l’alta marea e le onde si insinuavano fin dentro la
grotta. Non c’era alcuna illuminazione, a parte la luna piena all’esterno.
L’atmosfera era inquietante ma Devron non aveva paura perché c’era lui, anzi
trovava la situazione molto eccitante: - Non ci veniva nessuno uno volta, per
via della storia dell’uomo serpente che sacrificava umani nei giorni di luna
piena – spiegò lui. Più si addentravano e più s’allontanava lo sciabordio delle
onde che sbattevano con violenza sugli scogli. La voce di Johannes la riportò
di nuovo alla realtà: – E’ solo una leggenda; un uomo dalle apparenze di
rettile deve sacrificare anime umane alla fine e all’inizio dell’anno solare,
per nutrire l’Anima della sua stirpe, che giace miglia e miglia sotto l’oceano
ma questo non spiega gli omicidi avvenuti in passato –
– Johannes… – lei iniziava a
sentire freddo.
– Ci siamo quasi – disse lui
fermandosi di fronte a una fenditura nel suolo che si poteva facilmente sentire
con le mani.
– Vuoi portarmi laggiù ? – chiese Devron con una certa
preoccupazione.
– Non aver paura Devron, non c’è nessun pericolo – disse.
Lei si mise a ridere: – Sei
tutto matto ! – e lei che lo seguiva a quell’ora, più di lui.
– Scendo prima io – disse Johannes, poi dopo un po’ sparì dallo
spazio ch’aveva condiviso con Devron. Passarono forse dei minuti e lei si
sentiva sempre più inquieta. Una sensazione di paura si fece viva in lei e si
sentiva bruciare le vene da fiamme ardenti mentre tutto diveniva spaventoso.
Aveva un impulso irrefrenabile di gridare; i suoi incubi la sommergevano
nuovamente.
– Devron ! – era Johannes che la
chiamava. Scese con lentezza, procurandosi però qualche graffio sui bracci
scoperti. Camminarono ancora un po’, Devron a tastoni dietro di lui, con il
cuore che batteva forte per la sensazione di spavento.
– Eccoci qui – erano giunti in
una sorta di laguna sotterranea. Una piccola cascatella grondava dall’alto
della parete e strani pesci luminosi nuotavano in superficie nell’incavo
roccioso circolare pieno d’acqua. Se non fosse stata presa dall’agitazione,
Devron avrebbe di sicuro pensato che tutto ciò era davvero romantico. Tremava
perfino e non per il freddo e non si era mai sentita tanto debole.
– E’ davvero bello – riuscì però
a dire lei.
– Sapevo che ti sarebbe piaciuto
– poi si ritrovò con la testa poggiata sulle spalle di Johannes e le braccia di
lui intorno alla sua vita e sembrava tutto così bello e familiare. Ora sarebbe
potuto succedere di tutto e a lei non sarebbe importato.
Devron sorrise: – Che magia hai
usato con me, Johannes ? – il tempo sembrava non scorrere più mentre la sua
mente vagava e vagava e lei era certa di non esser mai stata una persona
sentimentale. Allora era vero che l’amore faceva perdere il senno. Lei sarebbe
rimasta così per sempre, ma sapeva che non era possibile. Ora, i loro volti
erano vicini come mai lo erano stati. Devron poteva sentire il caldo respiro
dell’altro, sul viso infreddolito. Il gocciolio dell’acqua calcarea era l’unico
suono che si sentiva, oltre ai loro respiri. Johannes la strinse a sé con più
forza. Poi piegò la testa e Devron incontrò le sue labbra, calde e morbide.
Quello era il suo primo bacio e lei era davvero euforica all’idea. Non aveva
mai provato qualcosa di così strano e bello.
– Devron… che ti succede ? –
queste furono le ultime parole che sentì quella sera prima di svenire. Era
successo quando stavano risalendo. Devron si era sentita mancar l’aria e aveva
chiesto a Johannes di ritornare in superficie.
*
Passarono diversi giorni da
quella volta e Devron non aveva più avuto nessuna notizia di Johannes. Quella
sera quando era svenuta, aveva di nuovo avuto gl’incubi. Domandò al padre chi
l’avesse riaccompagnata a casa, e lui le disse ch’era stato un ragazzo, di cui
però non aveva voluto sapere il nome. Devron non la prese per niente bene. Ora
che il padre sapeva, si sentiva scoperta. Non l’aveva neanche sgridata, come se
farsi riportare a casa mezza svenuta da uno sconosciuto durante il coprifuoco, fosse
la cosa più normale del mondo. Devron si sentiva ancora più confusa. Non capiva
cosa stava esattamente succedendo. Oggi, aveva passato l’intero pomeriggio
chiusa in camera sua, a scrivere poesie che parlavano di speranza.
– Devron, devo parlarti – disse il padre sulla soglia. Strano che
non l’avesse sentito bussare; ultimamente era sempre così distratta.
– Dimmi – lasciò cadere la penna sul foglio non più bianco.
– Stasera torno a San Francisco
–
– Ah –
– Pensavo che forse, ti farà
bene rimanere qui ancora per un po’; qui l’aria è pulita e i nonni saranno
felici di averti con loro –
– E’ per… quella sera giusto, mi stai punendo ? – la stava
abbandonando anche lui. O forse pensava che era troppo scossa per tornare in
quella casa. Forse era così.
– No, non c’entra niente quella storia, è solo che ultimamente ti
ho vista molto scossa, un altro po’ lontano da casa ti farà bene, ecco tutto e
siccome devo partire per l’Europa per diversi giorni, non vorrei lasciati sola
– le spiegò il padre.
Devron parve pensarci un
momento: – Per me va bene, ma mi chiedevo perché non mi ha detto niente,
riguardo a Johannes – aveva detto il suo nome.
– E così si chiama Johannes… –
– Non t’importa ? –
– Devron, di questo ne
riparleremo un'altra volta… è un argomento troppo delicato e ora non c’è tempo;
la sola cosa di cui mi raccomando è che tu non ti cacci in nessun guaio e
rispetta il coprifuoco… fin ora non sei stata beccata ma potrà accaderti in
futuro, perciò stai attenta – poi aggiunse soprappensiero – Quando tornerò,
avremo molte cose di cui parlare – quella sera, Devron non ebbe i soliti brutti
sogni. La mattina dopo pioveva e Devron amava camminare sotto la pioggia. Però,
quel giorno si sentiva triste. Aveva bisogno di rivedere Johannes. Così ebbe la
bella idea di ritornare alla grotta. I lunghi capelli corvini erano tirati su
in una coda di cavallo, da un fermaglio rosso. Era triste anche perché tra
pochi giorni, avrebbe compiuto diciotto anni e a lei non piacevano i
compleanni. Di solito ci si divertiva il giorno del compleanno ma lei piangeva
sempre. Suo padre soprattutto appariva mesto. Nonostante questo, Devron non
aveva mai pianto davanti a lui. Ora che si ritrovava in questa grotta dai
recenti ricordi angoscianti e belli al tempo stesso, si sentiva quasi al sicuro.
Devron, bagnata e sommersa dall’acqua fino ai ginocchi si addentrò di più e
quasi non avvertiva il freddo della tempesta. Una sensazione a lei conosciuta
ma indescrivibile a parole, le si aprì dentro. Giunta fino in fondo, una
presenza inconsistente l’aspettava nascosta nel buio. Devron si fermò; non
vedeva né sentiva nulla ma sapeva che c’era qualcosa. Non voleva scappare,
quindi si fece forza e aspettò. Era come se Devron già sapesse cosa sarebbe
accaduto eppure aveva paura.
La paura non spariva mai.
– Devron – la chiamò una voce bassa e rauca, che la fece
rabbrividire e due occhi rosso fuoco s’illuminarono nell’oscurità. Lei sapeva,
che se avrebbe voluto conoscere la verità questa era l’ora. Era questo il segnale
che aveva sempre aspettato.