Kαι
σ 'αγαπώ…
La reggia di
Itaca aveva smesso
di essere casa, per
Telemaco, il giovane
principe, per sua madre Penelope e
per
suo nonno Laerte, da quando i nobili dell’isola, pretendenti
alla mano di sua
madre, non vedova nel suo cuore, vi si erano insediati, preferendo quel
palazzo
e tutte le sue ricchezze alle loro, più modeste a confronto.
Stavano divorando
ogni cosa, ogni tipo di cibo, ogni pezzo del tesoro reale, ogni
schiava, ogni
pietra che componeva quel mondo nel quale Telemaco era cresciuto,
sostenuto
dalle mani, a volte amorevoli, a volte fredde per il dolore, della
madre, da
quelle indurite dai calli del nonno, e da quelle ossute della cara
vecchia
Euriclea. Il suo mondo gli veniva portato via da quei maledetti
parassiti,
armati della loro boria e della loro arroganza; avrebbe potuto
sopportarlo se
gli avessero strappato a forza il titolo di erede al trono, se avessero
deposto
sua madre e preso il potere per loro stessi, in quel caso avrebbe
avuto,
almeno, la consolazione di poter prendere le armi in mano e
combatterli, magari
anche morendo nel tentativo di riconquistare il trono dei suoi avi.
Sarebbe
stato mille volte meglio così. Ma la cosa peggiore in tutto
questo, era che lui
era sempre il principe di Itaca e sua madre la regina, e quei bastardi
sputavano su di loro e sui loro titoli e sulle loro insegne.
Telemaco li
odiava, tutti, dal
primo all’ultimo. Odiava Antinoo, il peggiore di tutti,
odiava Eurimaco, il
loro capo, odiava anche Anfinomo, “il più
buono”, quello che sua madre, in un momento
di maggior sconforto, gli aveva confessato che avrebbe volentieri preso
come
marito se necessario, perché il più rispettoso,
il più corretto di tutti i
pretendenti, ma Telemaco aveva visto, nei suoi occhi, la stessa
cupidigia degli
altri quando si posavano sul trono; solo che gli sguardi che gli altri
lanciavano a sua madre, lui li lanciava a Telemaco. Per questo il
ragazzo lo
odiava allo stesso modo in cui odiava gli altri.
E tutto
perché di suo padre,
Odisseo, non si avevano più notizie da dieci anni, da
sommare agli altri dieci
durante i quali aveva combattuto a Troia. Dopo quei primi dieci anni,
terminata
la guerra, di lui non di era più saputo nulla, si era perso,
lui assieme ai
suoi uomini, in mezzo alle onde del regno del dio Poseidone.
Tutti
dicevano che era morto, ma
Telemaco, e con lui Penelope e Laerte, erano sicuri, anzi sapevano con
certezza
che era ancora vivo. Lo sentivano in quel loro sangue che era lo stesso
di
Odisseo, in quel respiro che continuava a farli vivere come in attesa
del ritorno
della loro speranza, della loro salvezza.
Ma Telemaco,
alla fine, si stancò
di aspettare. A smuoverlo furono le parole di Mentore, il capo dei
Tafi, nel
quale il giovane vide l’ombra della loro protettrice Atena: Non è morto in terra il chiaro Odisseo,
ma è
ancora vivo, chissà dove, trattenuto sul vasto
mare… Dalla sua terra natia non
starà lontano ancora per molto… saprà
come tornare.
Il giorno
dopo, mettendo a parte
delle sue intenzioni unicamente la fedele Euriclea, e anche il
maledetto
Antinoo, preparò una nave con alcuni uomini e provviste per
il viaggio, e salpò
alla volta di Pilo, per raccogliere informazioni su suo padre, dalla
voce
stessa di re Nestore, amico e compagno d’armi di Odisseo.
Quando
approdò a Pilo, Nestore, i
suoi figli e i suoi servitori erano sulla spiaggia a fare libagioni a
Poseidone.
Appena il
suo piede toccò la
terra ferma, il primo a vedere Telemaco avvicinarsi, fu lui. Era un
giovane
della sua stessa età, con indosso abiti semplici ma di ricca
foggia, i capelli
biondi e ricci che gli ricadevano sulla fronte e gli occhi grigi tipici
della
stirpe di Nestore. Le sue labbra erano aperte in un sorriso di
benvenuto.
- Siate il
benvenuto, o straniero
– disse; la sua voce ricordò a Telemaco il suono
nato dalle corde di una lira –
Stiamo celebrando Poseidone. Potete unirvi a noi, in modo che il dio vi
sia
propizio nei vostri viaggi per mare. Venite, sarete un ospite
più che gradito
per Nestore, sovrano di questa terra.
- Nulla mi
giunge più gradito di
questo vostro invito – gli rispose Telemaco, ricambiando il
sorriso – Anche
perché sono giunto proprio per conferire con il re Nestore.
Sono Telemaco,
principe di Itaca.
A sentire il
suo nome, il ragazzo
sconosciuto lo prese per mano, allargando ancora di più il
suo sorriso, e lo condusse
nell’ampio cerchio di persone sedute sulla spiaggia su pelli
di pecora,
guidandolo davanti ad un uomo alto, dall’aria marziale e
autoritaria, il viso
solcato di rughe incorniciato di capelli e barba bianchi come la neve e
gli
stessi occhi grigi del giovane. Telemaco vide per la prima volta il
saggio
Nestore, domatore di cavalli, uno degli uomini più valorosi
che avessero mai
solcato la terra.
- Padre
– disse il ragazzo,
chinandosi di fronte al vegliardo – Il principe Telemaco di
Itaca, figlio di
Odisseo, è venuto a rendervi omaggio.
Lo sguardo
del vegliardo mutò da
freddo e concentrato sulla cerimonia che si stava tenendo lì
sulla spiaggia, a
lieto e commosso quando si posò sul giovane Telemaco
– Quale gioia per un
vecchio soldato, rivedere gli occhi di un suo amico e commilitone sul
viso del
suo unico figlio. Pisistrato – si rivolse al giovane che
aveva condotto
Telemaco, allungando il braccio venato di vene bluastre e da vecchie
cicatrici
di guerra; e il ragazzo di nome Pisistrato, lo afferrò
delicatamente e lo aiutò
a mettersi in piedi – Il bastone della mia vecchiaia
– sospirò Nestore,
compiaciuto, appoggiandosi a lui – Il mio figlio minore,
Pisistrato; se non
erro dovreste avere pressappoco la stessa età – lo
presentò a Telemaco che si
vide rivolgere dal ragazzo un altro sorriso pieno e sincero che gli
fece rombare
il sangue nelle orecchie. Il vecchio Nestore gli si accostò,
gli passò la mano
callosa sui capelli e sul viso e i suoi occhi grigi lo fissarono
paternamente –
C’è molto, in voi, di vostro padre, principe
Telemaco.
-
È proprio mio padre la ragione
che mi ha spinto a venire da voi, nobile Nestore.
Capendo al
volo ciò che Telemaco
avrebbe voluto da lui, Nestore lo invitò a sederglisi
accanto. Rendendo onore
al senso dell’ospitalità, Pisistrato gli
sfilò i sandali con le sue stesse mani
e gli offrì del vino in una coppa d’oro e pezzi di
carne cotta di uno dei tori
sacrificati; nel mentre di quelle azioni, Telemaco non
staccò mai lo sguardo da
quel sorriso che nulla chiedeva se non di essere. Ma tornando col
pensiero alla
sorte del padre, mise da parte quel sentimento nuovo che si andava
facendo
largo nel suo petto, senza però rifiutarlo, e
tornò a rivolgersi al vecchio re.
Se c’era qualcuno che poteva riferirgli nei dettagli la
partenza dei sovrani
Achei da Troia conquistata e distrutta, quello era Nestore. Ma
l’uomo,
purtroppo, non poté riferirgli nulla più di
quanto fosse già stato narrato da
altri. Forse Menelao, il re di Sparta, avrebbe potuto dargli qualche
informazione in più essendo l’ultimo dei capi
Achei ad essere ritornato nella
sua patria. Telemaco avrebbe voluto partire subito ma il sole stava
già
toccando l’orizzonte del mare e Nestore rifiutò di
lasciar partire col buio un
ospite, figlio di un amico fraterno, come anche di permettergli di
dormire
sulle dure assi di una nave.
- Sarete
ospite in casa mia; mi
assicurerò personalmente che vi vengano concessi tutti i
trattamenti che si
addicono al vostro rango. Venite – si rivolse al resto degli
astanti – torniamo
al palazzo. Così come abbiamo reso onore a Poseidone
Scuotiterra, così faremo
alla Glaucopide Atena, patrona del signore di Itaca, Odisseo
– e aiutato dal
sostegno del figlio minore, si rimise in piedi, imitato da Telemaco e
da tutti
i presenti; ma Pisistrato, prendendo la mano del padre e portandosela
al petto,
disse – Padre, io devo fare la mia invocazione al dio.
- Vai, vai,
figlio mio – gli
concesse il padre, facendogli un segno benedicente sul capo.
Col permesso
paterno che lo
liberava, Pisistrato si sfilò la tunica mostrando il suo
nudo corpo da giovane
di venti estati e si lanciò a perdifiato nel mare.
Lì, i suoi piedi in corsa
prima e le sue mani poi, sollevarono spruzzi d’acqua
salmastra fino al cielo
rosso del tramonto e la sua voce si alzò al di sopra del
rumore delle onde,
scandendo la sua preghiera personale a Poseidone.
E per tutto
il tempo, Telemaco
guardò il principe suo coetaneo, attratto non solo dal suo
aspetto bello e,
come il suo, non ancora toccato da mano estranea e bramosa, ma anche
dalla sua
libertà, la sua spensieratezza, la sua pace, tutte cose che
egli sentiva troppo
lontane da sé e dal suo mondo. Come anche quel padre che si
appoggiava con
fiducia sulle spalle dell’amato figlio minore, quella madre,
la regina
Euridice, che li aspettava al palazzo, mentre sovrintendeva alla
preparazione
del banchetto, i capelli scuri striati di grigio, delle rughe leggere
intorno
agli occhi e un sorriso che era tutto amore e tutto madre.
In
Pisistrato, Telemaco iniziò ad
amare la vita che a lui era stata negata. E iniziare ad amare il
principe di
Pilo per e nella sua propria persona sarebbe stato, per il principe di
Itaca,
un’azione tanto naturale quanto la sua ricerca del padre.
*
* *
Nestore fece
preparare per
Telemaco un giaciglio nel loggiato pieno di fiori, dove
l’odore delle piante si
mischiava a quello del mare e della sera. Il ragazzo nascose a malapena
un
senso di gioiosa eccitazione quando si rese conto che proprio con
Pisistrato
avrebbe diviso il letto. Fu lui stesso a condurlo nel loggiato, con lo
stesso
sorriso di benvenuto che da allora avrebbe sempre associato a lui, lo
precedette sul letto riccamente preparato, lasciando dietro di
sé i sandali e
la cintura d’oro che gli stringeva la tunica in vita, sotto
la quale si
potevano vedere i lineamenti dei muscoli che si stiravano
piacevolmente. Poi si
voltò verso Telemaco che, pensando che volesse ancora una
volta chinarsi
davanti a lui per sfilargli i sandali, se li tolse da solo, come anche
il manto
tenuto su una spalla da una fibbia con lo stemma dello scudo di Atena.
Infine,
i due ragazzi si sdraiarono sul letto, fianco a fianco, sotto una volta
contornata di fiori.
Nonostante
il dolce vino
sorseggiato poco prima di ritirarsi, il sonno tardava ad arrivare e
Telemaco,
in preda a mille pensieri agitati, si girava e rigirava senza posa nel
suo lato
del letto.
-
È il pensiero di vostro padre
che vi toglie il sonno, principe Telemaco? O quello di vostra madre?
– gli si
rivolse Pisistrato, sollevandosi sul gomito in modo da fissare meglio
Telemaco;
i suoi capelli biondi, nel blu della notte estiva, parevano bianchi
come quelli
del padre.
- Di
entrambi – rispose Telemaco
– e non credo possa esistere niente di peggio per un figlio
che dividersi, al
tempo stesso, tra la preoccupazione per un padre che forse è
perso in una terra
lontana o sepolto in mare, e quello per una madre in balia di uomini
privi di
ogni senso dell’onore – con un sospiro, Telemaco
affondò ancora di più il capo
nel guanciale e i suoi occhi andarono a cercare i contorni del viso di
Pisistrato, in cerca di una risposta ad una domanda che non gli dava
requie –
Com’è crescere con un padre?
Pisistrato,
colto alla sprovvista
dalla domanda, boccheggiò per un istante, in cerca delle
parole giuste, in modo
da non ferire il ragazzo sdraiato accanto a lui – Non lo so
– si ritrovò a
confessare, alla fine – Non sono proprio
“cresciuto” con un padre. Per i miei
primi dieci anni di vita, di mio padre conoscevo solo il nome e le
gesta, e
vederlo ritornare, dopo la fine della guerra, non fu
l’incontro che mi ero
aspettato: eravamo due perfetti estranei l’uno per
l’altro, lui un vecchio
comandante circondato dai figli più grandi che lo avevano
seguito a Troia, io
un bambino che aveva appena lasciato le sottane della nutrice per gli
insegnamenti degli istitutori. Sono passati ancora degli anni prima che
ci
trovassimo veramente, quando tutti gli altri figli se ne sono andati e
l’età di
mio padre ha richiesto un sostegno giovane e fidato. Avete pensato che,
qualora
vostro padre fosse vivo, potrebbe non essere l’uomo che vi
aspettate?
Soffocando
un lamento di
frustrazione, Telemaco si passò una mano sul volto
– Sì, certo che ci ho
pensato, e sebbene questa sia la mia paura più grande, non
posso non pensare al
fatto che… che almeno avrei un padre.
In quel
momento, i loro due mondi
ancora verdi di prime foglie si scontrarono, l’orfano e il
figlio, collassando
e trovando un punto nuovo, creato quasi per caso e dove si vedevano
come quei
semplici ragazzi che erano, che per sorte avversa o propizia avevano
titoli di
principi, di figli e di orfani.
Ad un
tratto, la mano di
Pisistrato si posò delicatamente sulla fronte di Telemaco,
accarezzandola per
poi posare il dito medio sulla radice del naso e, massaggiandogliela,
dire –
Quando ero più piccolo e non riuscivo a prendere sonno, la
mia nutrice mi
massaggiava la fronte in questo modo per tranquillizzarmi.
Forse fu
veramente il potere
terapeutico di quel tocco, forse la voce di Pisistrato, forse il calore
e
l’odore della sua mano, fatto sta che, piano piano, Telemaco
si lasciò andare
al morbido abbraccio del sonno. Prima di cadere
nell’incoscienza, credé di
sentire le labbra di Pisistrato sulle sue palpebre.
Ma i suoi
sogni furono ugualmente
agitati: vide sua madre contusa, piangente e con le vesti lacere, i
polsi
stretti in pesanti catene e intorno a lei quei maledetti schifosi che
la
dileggiavano, la percuotevano, la spingevano a terra; ad un tratto,
Antinoo la
tirò per una catena e la trascinò ai piedi del
trono dove si sedette in maniera
scomposta e tentò di spingere la testa di lei tra le sue
gambe, come Telemaco
gli aveva visto fare altre volte con le schiave e, con una risata
sguaiata,
diceva – Vediamo se il tuo amato Odisseo verrà in
tuo soccorso! – e indicava un
punto alle spalle di Telemaco, testimone impotente di quella
scelleratezza
onirica; lui si voltò e vide la carcassa decomposta
dall’acqua di mare e
divorata dai pesci di un uomo simile a Nestore, ma Telemaco sapeva in
cuor suo
che si trattava del suo padre sconosciuto, Odisseo.
Soffocando
un urlo, Telemaco si
ridestò.
La prima
cosa che avvertì fu la
mancanza di quel contatto che prima lo aveva accompagnato al suo
riposo;
Pisistrato era sdraiato supino accanto a lui, ma durante il sonno, le
sue
braccia lo avevano lasciato. Ora sentiva di volere ancora quel
contatto. Con
delicatezza, per non svegliare l’altro ragazzo, si
riaccostò a lui. Con la
mente ancora inebriata dal sonno, si soffermò a guardare il
suo viso bianco e
dai lineamenti cesellati, contornati da riccioli biondi, calmi e
distesi nella
pace del riposo; poi, come se non potesse farne a meno, lo sguardo di
Telemaco
scese dal viso fino al petto di Pisistrato: la tunica gli scendeva in
maniera
languida da una spalla, lasciando scoperto un capezzolo, roseo sul
bianco del
suo pettorale.
Nel vedere
il suo coetaneo
addormentato, Telemaco si sentì colto da un calore mai
provato che lo bruciava
dal petto ai lombi, gli faceva ardere la gola per la sete e tremare le
mani che
desideravano solo accarezzare quel corpo, quei capelli, quel viso.
Tremando per
la forte emozione,
Telemaco lasciò andare la sua mano che si posò
sulle labbra di Pisistrato, e si
spostò sulle guance che iniziavano appena a coprirsi di un
primo morbido strato
di barba, sulla gola calda dove il sangue batteva nella giugulare e
quel petto
che lo stava facendo impazzire.
Con un lieve
sobbalzo, Pisistrato
si ridestò e i suoi occhi assonnati andarono ad incontrarsi
con quelli scuri e
lucidi di Telemaco che rimase immobile, con la mano sul cuore di lui,
in attesa
di uno spaventoso e doloroso rifiuto.
Rifiuto che
però non arrivò.
-
Principe… - fece per dire
Pisistrato, la voce arrocchita dal sonno.
- Il mio
nome – lo interruppe
Telemaco, la voce spezzata dall’emozione.
- Cosa?
– chiese l’altro senza
capire.
- Chiamami
col mio nome, ti
prego.
Pisistrato
rimase in silenzio,
immobile per alcuni istanti, finché il suo viso non assunse
un’espressione
consapevole e sorridendogli dolcemente e passandogli una mano tra i
suoi
capelli neri, disse – Telemaco.
Sentendosi
liberato da ogni
remora da quella carezza, Telemaco catturò le labbra di
Pisistrato con le sue,
lasciò che il suo corpo premesse contro quello
dell’altro, e lo cinse con le
braccia, lasciandosi abbracciare a sua volta e rendendo le loro gambe
un
fremente groviglio di arti. Dal petto di entrambi traboccava quel
sentimento
che, chi poteva, sfogava sui campi di battaglia ma che in tempo di pace
si
consumava tra le lenzuola, nel silenzio notturno, quando i gemiti e i
sospiri
diventavano la musica degli amanti.
Telemaco era
cresciuto col mito
dell’amore che aveva unito i suoi genitori, ma non ne aveva
mai compreso
pienamente il senso, mai fino a quel momento.
In quegli
ultimi anni aveva
assistito ai brutali accoppiamenti tra i pretendenti e le schiave della
reggia,
e quindi aveva sempre dato per scontato che il rapporto tra due persone
fosse
qualcosa di sporco, ma in quel momento, le carezze e i baci che
Pisistrato gli
stava donando e che Telemaco stesso era desideroso di disseminare su
tutto il
suo corpo, la loro dolcezza ma anche la loro giovanile passione, lo
allontanavano sempre più dai turpi ricordi di Itaca per
sostituirli con quelli
nuovi di quella notte di Pilo, sotto una volta fiorita, la pelle del
giovane
principe di quella terra sotto le sue dita, il suo sapore nella sua
bocca.
Le loro mani
scostarono le loro
rispettive tuniche finché queste non finirono in un angolo
del letto, inutili
come le armature nel momento del riposo. Il nudo contatto dei loro
corpi, la
frizione che andò a crearsi li percorse come un fulmine del
Cronide Zeus e
smosse le loro membra fin nel profondo, cambiando la cadenza delle loro
voci
rendendole più profonde e stillando cascate di sudore da
ogni poro della loro pelle.
Quando alla
fine si lasciarono
cadere, sfiniti ed ebbri, sul letto, Telemaco ebbe la forza bastante
per
lasciare un ultimo bacio sulle labbra di Pisistrato.
- Grazie,
grazie Pisistrato –
mormorò con un filo di voce – Grazie per avermi
mostrato quanto può essere
dolce un sentimento.
*
* *
Quale gioia
fu per Telemaco il
sapere, il giorno dopo, che avrebbe continuato il suo viaggio verso
Sparta,
alla reggia di Menelao, accompagnato da Pisistrato.
- In tutta
la terra di Pilo non
c’è auriga più veloce di mio figlio
– aveva detto Nestore, pieno di orgoglio –
Sulla sua biga arriverete a Sparta in meno di un giorno
La ricerca
del padre acquistò un
sapore più dolce ora che accanto a sé avrebbe
avuto quel caro amico,
quell’amore che aveva preso vita come una fiamma, una fiamma
che non voleva
estinguersi. Qualunque sarebbe stato l’esito del suo viaggio,
la presenza di
Pisistrato sarebbe stata la sua forza, come il suo corpo gli fece da
sostegno
durante il loro viaggio.
Sulla biga
trainata da possenti
cavalli consacrati a Poseidone, Pisistrato si ergeva saldo e statuario,
seguace
del vento veloce che li sferzava entrambi nella corsa, lui con le
redini tra le
mani, Telemaco avvinghiato al suo petto, non riuscendo a trattenere il
riso
causato dall’ebbrezza della corsa.
A Sparta,
alla corte di Menelao
dove si narrò della caduta di Troia, ricordando le gesta
dell’astuto Odisseo,
Pisistrato era accanto a lui, a placare le sue lacrime di figlio.
Quando la ancora
bella e fatale Elena, più lorda di sangue di mille guerrieri
per tutto il male
portato sulla terra, eppure perdonata da tutti proprio per la sua
esteriorità,
diede loro vino speziato con una polvere di sua creazione, Pisistrato
era
sempre lì, sul suo stesso triclinio, a condividere
nuovamente baci e carezze,
sotto gli occhi di tanti altri ubriachi di vino misto a polvere di
loto, senza
alcuna vergogna, anzi consolidando quel sentimento che prendeva, di
minuto in
minuto, il nome di amore, ed intonando il loro canto sulle corde della
lira
sottratta ad un musicista addormentato.
Ed
io amo te, mio principe auriga,
perché
con te posso correre su una biga
sulle
ali del vento
e
tra gli spruzzi d’acqua salmastra della riva,
e
posso stringerti per non cadere
e
tu mi tieni a te
ed
io non ho timore
perché
con te ho imparato cosa significa
amare.
Ed
io amo te, mio principe girovago,
tu
vestito del panno del viandante
e
col bastone del pellegrino
e
con i sandali consumati dalla tua ricerca
del
padre perduto,
e
posso spogliarti e vestirti
di
abiti di te più degni
e
ristorarti col vino speziato
della
mia bocca.
Quell’amore
appena sbocciato
arrivò troppo presto alla sua separazione, momentanea nel
cuore dei due
giovani, ma magari anche necessaria per evitare che si consumasse
troppo
presto, come la vita di una falena che inizia col tramonto e termina
con l’alba.
Iniziò quando Telemaco sveglio Pisistrato toccandolo
col piede; fu un gesto così semplice e
così intimo che Pisistrato fu certo
che non lo avrebbe mai dimenticato, che se un poeta l’avesse
riportato su una
tavoletta di cera, tutto il mondo l’avrebbe ricordato nei
secoli a venire.
- Atena mi
è venuta in sogno –
gli sussurrò all’orecchio Telemaco.
- Cosa ti ha
ispirato a fare?
- Mi
invoglia a ritornare ad Itaca;
mia madre ha bisogno di me, e i pretendenti sembra che vogliano
ricorrere alla
forza per appropriarsi del potere.
- Non ci
rivedremo più allora? È
un addio? – la voce di Pisistrato era densa di afflizione,
come se qualcuno gli
stesse strappando una parte del corpo. L’amico,
l’amato che era già una parte
stessa del suo essere fatta carne in comune con la sua.
Per sopire
quel dolore che stava
sorgendo nel compagno, Telemaco gli prese il viso tra le mani e lo
bacio – No –
rispose, intervallando ogni parola con un nuovo bacio – No,
nessun addio.
Voglio lasciar passare questi eventi voluti dagli dei, aspettare che
gli
ingiusti paghino per tutto il male che hanno fatto, che mio padre
ritorni,
perché so che lo farà, e che questa storia
finisca. Poi ritornerò.
-
Ritornerai? – chiese
Pisistrato, gli occhi illuminati di pura gioia.
-
Sì, ritornerò – rispose
Telemaco, un altro bacio sulle labbra del principe auriga –
Tornerò da te e
insieme viaggeremo, visiteremo tutti i luoghi che si porranno
d’innanzi a noi,
e non ci fermeremo fino a quando non avremo trovato un posto che sia
solo
nostro.
-
È una promessa?
-
È una certezza. Da quando ti ho
conosciuto ho imparato a capire che differenza c’è
tra una speranza e una
certezza. E…
Ancora un
bacio, ancora un
respiro condiviso, ancora due corpi stretti l’uno
all’altro.
-
… σ 'αγαπώ.
Nota
dell’autore:
Inizio col
dire che sono un
ragazzo. Lo so, è raro trovare un ragazzo che scrive per
questi lidi, ma io
sono l’eccezione XD
L’idea
per queste poche pagine mi
è venuta dopo aver letto il primo capitolo di
“Secondo natura” di Eva
Cantarella, dove l’autrice pone l’attenzione sul
fatto che, nell’Odissea, il
rapporto tra Telemaco e Pisistrato, per quanto messo poco in risalto se
paragonato ai più noti Achille e Patroclo
nell’Iliade, è molto simile a quello
di due innamorati. Io ho semplicemente romanzato un po’
questa piccola parte
del poema. Aggiungete poi il fatto che ho avuto la sfortuna di vedere
quella
pseudo telenovelas mal fatta che è stata “Il
ritorno di Ulisse” e scrivere
questa fanfiction è stata per me una
necessità/esorcismo mentale.
Le parti in
corsivo sono prese
dal poema. Anfinomo era veramente il più bello e il
più buono dei pretendenti;
quando questi ultimi pianificarono l’assassinio di Telemaco,
lui fu l’unico ad
opporsi, eppure venne comunque ucciso al ritorno di Odisseo, ironia
della
sorte, proprio da Telemaco; ho pensato quindi di inventare un possibile
motivo
che scatenasse l’avversione del principe per il
“pretendente buono”. Per la
questione “Elena: colei che ha inventato la droga”
rimando a Luciano De
Crescenzo.
Il titolo in
greco antico,
tradotto in italiano è “E io amo te”. E
in bocca a Telemaco, alla fine, è “ti
amo”.
Spero che vi
sia piaciuta. Fatemi
sapere cosa ne avete pensato J
La mia
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recensisco anche telefilm, film e libri: https://www.facebook.com/pages/Lusio-EFP/162610203857483
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Un saluto a
tutti
Lusio