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Autore: Lusio    30/12/2014    3 recensioni
"Ed io amo te, mio principe..."
Un canto nato sotto volte fiorite, durante una notte calda d'estate, dalla voce di un giovane alla ricerca di un padre disperso, e di un suo coetaneo dagli occhi grigi e dai riccioli biondi. Due mondi verdi di prime foglie, due corpi non ancora toccati da mano estranea e bramosa, un gesto semplice e intimo riportato da un poeta antico e arrivato fino ai nostri giorni a raccontarci una storia silenziosa, come i sospiri notturni degli innamorati al loro primo amplesso.
Telemaco, il principe girovago, e Pisistrato, il principe auriga.
In queste poche pagine, la loro storia solo accennata in quel crogiolo di grandi avventure e mille passioni che è l'Odissea.
Genere: Poesia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Telemaco
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Kαι σ 'αγαπώ…

 

 

 

La reggia di Itaca aveva smesso di essere casa,  per Telemaco, il giovane principe, per sua madre Penelope  e per suo nonno Laerte, da quando i nobili dell’isola, pretendenti alla mano di sua madre, non vedova nel suo cuore, vi si erano insediati, preferendo quel palazzo e tutte le sue ricchezze alle loro, più modeste a confronto. Stavano divorando ogni cosa, ogni tipo di cibo, ogni pezzo del tesoro reale, ogni schiava, ogni pietra che componeva quel mondo nel quale Telemaco era cresciuto, sostenuto dalle mani, a volte amorevoli, a volte fredde per il dolore, della madre, da quelle indurite dai calli del nonno, e da quelle ossute della cara vecchia Euriclea. Il suo mondo gli veniva portato via da quei maledetti parassiti, armati della loro boria e della loro arroganza; avrebbe potuto sopportarlo se gli avessero strappato a forza il titolo di erede al trono, se avessero deposto sua madre e preso il potere per loro stessi, in quel caso avrebbe avuto, almeno, la consolazione di poter prendere le armi in mano e combatterli, magari anche morendo nel tentativo di riconquistare il trono dei suoi avi. Sarebbe stato mille volte meglio così. Ma la cosa peggiore in tutto questo, era che lui era sempre il principe di Itaca e sua madre la regina, e quei bastardi sputavano su di loro e sui loro titoli e sulle loro insegne.

Telemaco li odiava, tutti, dal primo all’ultimo. Odiava Antinoo, il peggiore di tutti, odiava Eurimaco, il loro capo, odiava anche Anfinomo, “il più buono”, quello che sua madre, in un momento di maggior sconforto, gli aveva confessato che avrebbe volentieri preso come marito se necessario, perché il più rispettoso, il più corretto di tutti i pretendenti, ma Telemaco aveva visto, nei suoi occhi, la stessa cupidigia degli altri quando si posavano sul trono; solo che gli sguardi che gli altri lanciavano a sua madre, lui li lanciava a Telemaco. Per questo il ragazzo lo odiava allo stesso modo in cui odiava gli altri.

E tutto perché di suo padre, Odisseo, non si avevano più notizie da dieci anni, da sommare agli altri dieci durante i quali aveva combattuto a Troia. Dopo quei primi dieci anni, terminata la guerra, di lui non di era più saputo nulla, si era perso, lui assieme ai suoi uomini, in mezzo alle onde del regno del dio Poseidone.

Tutti dicevano che era morto, ma Telemaco, e con lui Penelope e Laerte, erano sicuri, anzi sapevano con certezza che era ancora vivo. Lo sentivano in quel loro sangue che era lo stesso di Odisseo, in quel respiro che continuava a farli vivere come in attesa del ritorno della loro speranza, della loro salvezza.

Ma Telemaco, alla fine, si stancò di aspettare. A smuoverlo furono le parole di Mentore, il capo dei Tafi, nel quale il giovane vide l’ombra della loro protettrice Atena: Non è morto in terra il chiaro Odisseo, ma è ancora vivo, chissà dove, trattenuto sul vasto mare… Dalla sua terra natia non starà lontano ancora per molto… saprà come tornare.

Il giorno dopo, mettendo a parte delle sue intenzioni unicamente la fedele Euriclea, e anche il maledetto Antinoo, preparò una nave con alcuni uomini e provviste per il viaggio, e salpò alla volta di Pilo, per raccogliere informazioni su suo padre, dalla voce stessa di re Nestore, amico e compagno d’armi di Odisseo.

Quando approdò a Pilo, Nestore, i suoi figli e i suoi servitori erano sulla spiaggia a fare libagioni a Poseidone.

Appena il suo piede toccò la terra ferma, il primo a vedere Telemaco avvicinarsi, fu lui. Era un giovane della sua stessa età, con indosso abiti semplici ma di ricca foggia, i capelli biondi e ricci che gli ricadevano sulla fronte e gli occhi grigi tipici della stirpe di Nestore. Le sue labbra erano aperte in un sorriso di benvenuto.

- Siate il benvenuto, o straniero – disse; la sua voce ricordò a Telemaco il suono nato dalle corde di una lira – Stiamo celebrando Poseidone. Potete unirvi a noi, in modo che il dio vi sia propizio nei vostri viaggi per mare. Venite, sarete un ospite più che gradito per Nestore, sovrano di questa terra.

- Nulla mi giunge più gradito di questo vostro invito – gli rispose Telemaco, ricambiando il sorriso – Anche perché sono giunto proprio per conferire con il re Nestore. Sono Telemaco, principe di Itaca.

A sentire il suo nome, il ragazzo sconosciuto lo prese per mano, allargando ancora di più il suo sorriso, e lo condusse nell’ampio cerchio di persone sedute sulla spiaggia su pelli di pecora, guidandolo davanti ad un uomo alto, dall’aria marziale e autoritaria, il viso solcato di rughe incorniciato di capelli e barba bianchi come la neve e gli stessi occhi grigi del giovane. Telemaco vide per la prima volta il saggio Nestore, domatore di cavalli, uno degli uomini più valorosi che avessero mai solcato la terra.

- Padre – disse il ragazzo, chinandosi di fronte al vegliardo – Il principe Telemaco di Itaca, figlio di Odisseo, è venuto a rendervi omaggio.

Lo sguardo del vegliardo mutò da freddo e concentrato sulla cerimonia che si stava tenendo lì sulla spiaggia, a lieto e commosso quando si posò sul giovane Telemaco – Quale gioia per un vecchio soldato, rivedere gli occhi di un suo amico e commilitone sul viso del suo unico figlio. Pisistrato – si rivolse al giovane che aveva condotto Telemaco, allungando il braccio venato di vene bluastre e da vecchie cicatrici di guerra; e il ragazzo di nome Pisistrato, lo afferrò delicatamente e lo aiutò a mettersi in piedi – Il bastone della mia vecchiaia – sospirò Nestore, compiaciuto, appoggiandosi a lui – Il mio figlio minore, Pisistrato; se non erro dovreste avere pressappoco la stessa età – lo presentò a Telemaco che si vide rivolgere dal ragazzo un altro sorriso pieno e sincero che gli fece rombare il sangue nelle orecchie. Il vecchio Nestore gli si accostò, gli passò la mano callosa sui capelli e sul viso e i suoi occhi grigi lo fissarono paternamente – C’è molto, in voi, di vostro padre, principe Telemaco.

- È proprio mio padre la ragione che mi ha spinto a venire da voi, nobile Nestore.

Capendo al volo ciò che Telemaco avrebbe voluto da lui, Nestore lo invitò a sederglisi accanto. Rendendo onore al senso dell’ospitalità, Pisistrato gli sfilò i sandali con le sue stesse mani e gli offrì del vino in una coppa d’oro e pezzi di carne cotta di uno dei tori sacrificati; nel mentre di quelle azioni, Telemaco non staccò mai lo sguardo da quel sorriso che nulla chiedeva se non di essere. Ma tornando col pensiero alla sorte del padre, mise da parte quel sentimento nuovo che si andava facendo largo nel suo petto, senza però rifiutarlo, e tornò a rivolgersi al vecchio re. Se c’era qualcuno che poteva riferirgli nei dettagli la partenza dei sovrani Achei da Troia conquistata e distrutta, quello era Nestore. Ma l’uomo, purtroppo, non poté riferirgli nulla più di quanto fosse già stato narrato da altri. Forse Menelao, il re di Sparta, avrebbe potuto dargli qualche informazione in più essendo l’ultimo dei capi Achei ad essere ritornato nella sua patria. Telemaco avrebbe voluto partire subito ma il sole stava già toccando l’orizzonte del mare e Nestore rifiutò di lasciar partire col buio un ospite, figlio di un amico fraterno, come anche di permettergli di dormire sulle dure assi di una nave.

- Sarete ospite in casa mia; mi assicurerò personalmente che vi vengano concessi tutti i trattamenti che si addicono al vostro rango. Venite – si rivolse al resto degli astanti – torniamo al palazzo. Così come abbiamo reso onore a Poseidone Scuotiterra, così faremo alla Glaucopide Atena, patrona del signore di Itaca, Odisseo – e aiutato dal sostegno del figlio minore, si rimise in piedi, imitato da Telemaco e da tutti i presenti; ma Pisistrato, prendendo la mano del padre e portandosela al petto, disse – Padre, io devo fare la mia invocazione al dio.

- Vai, vai, figlio mio – gli concesse il padre, facendogli un segno benedicente sul capo.

Col permesso paterno che lo liberava, Pisistrato si sfilò la tunica mostrando il suo nudo corpo da giovane di venti estati e si lanciò a perdifiato nel mare. Lì, i suoi piedi in corsa prima e le sue mani poi, sollevarono spruzzi d’acqua salmastra fino al cielo rosso del tramonto e la sua voce si alzò al di sopra del rumore delle onde, scandendo la sua preghiera personale a Poseidone.

E per tutto il tempo, Telemaco guardò il principe suo coetaneo, attratto non solo dal suo aspetto bello e, come il suo, non ancora toccato da mano estranea e bramosa, ma anche dalla sua libertà, la sua spensieratezza, la sua pace, tutte cose che egli sentiva troppo lontane da sé e dal suo mondo. Come anche quel padre che si appoggiava con fiducia sulle spalle dell’amato figlio minore, quella madre, la regina Euridice, che li aspettava al palazzo, mentre sovrintendeva alla preparazione del banchetto, i capelli scuri striati di grigio, delle rughe leggere intorno agli occhi e un sorriso che era tutto amore e tutto madre.

In Pisistrato, Telemaco iniziò ad amare la vita che a lui era stata negata. E iniziare ad amare il principe di Pilo per e nella sua propria persona sarebbe stato, per il principe di Itaca, un’azione tanto naturale quanto la sua ricerca del padre.

 

* * *

 

Nestore fece preparare per Telemaco un giaciglio nel loggiato pieno di fiori, dove l’odore delle piante si mischiava a quello del mare e della sera. Il ragazzo nascose a malapena un senso di gioiosa eccitazione quando si rese conto che proprio con Pisistrato avrebbe diviso il letto. Fu lui stesso a condurlo nel loggiato, con lo stesso sorriso di benvenuto che da allora avrebbe sempre associato a lui, lo precedette sul letto riccamente preparato, lasciando dietro di sé i sandali e la cintura d’oro che gli stringeva la tunica in vita, sotto la quale si potevano vedere i lineamenti dei muscoli che si stiravano piacevolmente. Poi si voltò verso Telemaco che, pensando che volesse ancora una volta chinarsi davanti a lui per sfilargli i sandali, se li tolse da solo, come anche il manto tenuto su una spalla da una fibbia con lo stemma dello scudo di Atena. Infine, i due ragazzi si sdraiarono sul letto, fianco a fianco, sotto una volta contornata di fiori.

Nonostante il dolce vino sorseggiato poco prima di ritirarsi, il sonno tardava ad arrivare e Telemaco, in preda a mille pensieri agitati, si girava e rigirava senza posa nel suo lato del letto.

- È il pensiero di vostro padre che vi toglie il sonno, principe Telemaco? O quello di vostra madre? – gli si rivolse Pisistrato, sollevandosi sul gomito in modo da fissare meglio Telemaco; i suoi capelli biondi, nel blu della notte estiva, parevano bianchi come quelli del padre.

- Di entrambi – rispose Telemaco – e non credo possa esistere niente di peggio per un figlio che dividersi, al tempo stesso, tra la preoccupazione per un padre che forse è perso in una terra lontana o sepolto in mare, e quello per una madre in balia di uomini privi di ogni senso dell’onore – con un sospiro, Telemaco affondò ancora di più il capo nel guanciale e i suoi occhi andarono a cercare i contorni del viso di Pisistrato, in cerca di una risposta ad una domanda che non gli dava requie – Com’è crescere con un padre?

Pisistrato, colto alla sprovvista dalla domanda, boccheggiò per un istante, in cerca delle parole giuste, in modo da non ferire il ragazzo sdraiato accanto a lui – Non lo so – si ritrovò a confessare, alla fine – Non sono proprio “cresciuto” con un padre. Per i miei primi dieci anni di vita, di mio padre conoscevo solo il nome e le gesta, e vederlo ritornare, dopo la fine della guerra, non fu l’incontro che mi ero aspettato: eravamo due perfetti estranei l’uno per l’altro, lui un vecchio comandante circondato dai figli più grandi che lo avevano seguito a Troia, io un bambino che aveva appena lasciato le sottane della nutrice per gli insegnamenti degli istitutori. Sono passati ancora degli anni prima che ci trovassimo veramente, quando tutti gli altri figli se ne sono andati e l’età di mio padre ha richiesto un sostegno giovane e fidato. Avete pensato che, qualora vostro padre fosse vivo, potrebbe non essere l’uomo che vi aspettate?

Soffocando un lamento di frustrazione, Telemaco si passò una mano sul volto – Sì, certo che ci ho pensato, e sebbene questa sia la mia paura più grande, non posso non pensare al fatto che… che almeno avrei un padre.

In quel momento, i loro due mondi ancora verdi di prime foglie si scontrarono, l’orfano e il figlio, collassando e trovando un punto nuovo, creato quasi per caso e dove si vedevano come quei semplici ragazzi che erano, che per sorte avversa o propizia avevano titoli di principi, di figli e di orfani.

Ad un tratto, la mano di Pisistrato si posò delicatamente sulla fronte di Telemaco, accarezzandola per poi posare il dito medio sulla radice del naso e, massaggiandogliela, dire – Quando ero più piccolo e non riuscivo a prendere sonno, la mia nutrice mi massaggiava la fronte in questo modo per tranquillizzarmi.

Forse fu veramente il potere terapeutico di quel tocco, forse la voce di Pisistrato, forse il calore e l’odore della sua mano, fatto sta che, piano piano, Telemaco si lasciò andare al morbido abbraccio del sonno. Prima di cadere nell’incoscienza, credé di sentire le labbra di Pisistrato sulle sue palpebre.

Ma i suoi sogni furono ugualmente agitati: vide sua madre contusa, piangente e con le vesti lacere, i polsi stretti in pesanti catene e intorno a lei quei maledetti schifosi che la dileggiavano, la percuotevano, la spingevano a terra; ad un tratto, Antinoo la tirò per una catena e la trascinò ai piedi del trono dove si sedette in maniera scomposta e tentò di spingere la testa di lei tra le sue gambe, come Telemaco gli aveva visto fare altre volte con le schiave e, con una risata sguaiata, diceva – Vediamo se il tuo amato Odisseo verrà in tuo soccorso! – e indicava un punto alle spalle di Telemaco, testimone impotente di quella scelleratezza onirica; lui si voltò e vide la carcassa decomposta dall’acqua di mare e divorata dai pesci di un uomo simile a Nestore, ma Telemaco sapeva in cuor suo che si trattava del suo padre sconosciuto, Odisseo.

Soffocando un urlo, Telemaco si ridestò.

La prima cosa che avvertì fu la mancanza di quel contatto che prima lo aveva accompagnato al suo riposo; Pisistrato era sdraiato supino accanto a lui, ma durante il sonno, le sue braccia lo avevano lasciato. Ora sentiva di volere ancora quel contatto. Con delicatezza, per non svegliare l’altro ragazzo, si riaccostò a lui. Con la mente ancora inebriata dal sonno, si soffermò a guardare il suo viso bianco e dai lineamenti cesellati, contornati da riccioli biondi, calmi e distesi nella pace del riposo; poi, come se non potesse farne a meno, lo sguardo di Telemaco scese dal viso fino al petto di Pisistrato: la tunica gli scendeva in maniera languida da una spalla, lasciando scoperto un capezzolo, roseo sul bianco del suo pettorale.

Nel vedere il suo coetaneo addormentato, Telemaco si sentì colto da un calore mai provato che lo bruciava dal petto ai lombi, gli faceva ardere la gola per la sete e tremare le mani che desideravano solo accarezzare quel corpo, quei capelli, quel viso.

Tremando per la forte emozione, Telemaco lasciò andare la sua mano che si posò sulle labbra di Pisistrato, e si spostò sulle guance che iniziavano appena a coprirsi di un primo morbido strato di barba, sulla gola calda dove il sangue batteva nella giugulare e quel petto che lo stava facendo impazzire.

Con un lieve sobbalzo, Pisistrato si ridestò e i suoi occhi assonnati andarono ad incontrarsi con quelli scuri e lucidi di Telemaco che rimase immobile, con la mano sul cuore di lui, in attesa di uno spaventoso e doloroso rifiuto.

Rifiuto che però non arrivò.

- Principe… - fece per dire Pisistrato, la voce arrocchita dal sonno.

- Il mio nome – lo interruppe Telemaco, la voce spezzata dall’emozione.

- Cosa? – chiese l’altro senza capire.

- Chiamami col mio nome, ti prego.

Pisistrato rimase in silenzio, immobile per alcuni istanti, finché il suo viso non assunse un’espressione consapevole e sorridendogli dolcemente e passandogli una mano tra i suoi capelli neri, disse – Telemaco.

Sentendosi liberato da ogni remora da quella carezza, Telemaco catturò le labbra di Pisistrato con le sue, lasciò che il suo corpo premesse contro quello dell’altro, e lo cinse con le braccia, lasciandosi abbracciare a sua volta e rendendo le loro gambe un fremente groviglio di arti. Dal petto di entrambi traboccava quel sentimento che, chi poteva, sfogava sui campi di battaglia ma che in tempo di pace si consumava tra le lenzuola, nel silenzio notturno, quando i gemiti e i sospiri diventavano la musica degli amanti.

Telemaco era cresciuto col mito dell’amore che aveva unito i suoi genitori, ma non ne aveva mai compreso pienamente il senso, mai fino a quel momento.

In quegli ultimi anni aveva assistito ai brutali accoppiamenti tra i pretendenti e le schiave della reggia, e quindi aveva sempre dato per scontato che il rapporto tra due persone fosse qualcosa di sporco, ma in quel momento, le carezze e i baci che Pisistrato gli stava donando e che Telemaco stesso era desideroso di disseminare su tutto il suo corpo, la loro dolcezza ma anche la loro giovanile passione, lo allontanavano sempre più dai turpi ricordi di Itaca per sostituirli con quelli nuovi di quella notte di Pilo, sotto una volta fiorita, la pelle del giovane principe di quella terra sotto le sue dita, il suo sapore nella sua bocca.

Le loro mani scostarono le loro rispettive tuniche finché queste non finirono in un angolo del letto, inutili come le armature nel momento del riposo. Il nudo contatto dei loro corpi, la frizione che andò a crearsi li percorse come un fulmine del Cronide Zeus e smosse le loro membra fin nel profondo, cambiando la cadenza delle loro voci rendendole più profonde e stillando cascate di sudore da ogni poro della loro pelle.

Quando alla fine si lasciarono cadere, sfiniti ed ebbri, sul letto, Telemaco ebbe la forza bastante per lasciare un ultimo bacio sulle labbra di Pisistrato.

- Grazie, grazie Pisistrato – mormorò con un filo di voce – Grazie per avermi mostrato quanto può essere dolce un sentimento.

 

* * *

 

Quale gioia fu per Telemaco il sapere, il giorno dopo, che avrebbe continuato il suo viaggio verso Sparta, alla reggia di Menelao, accompagnato da Pisistrato.

- In tutta la terra di Pilo non c’è auriga più veloce di mio figlio – aveva detto Nestore, pieno di orgoglio – Sulla sua biga arriverete a Sparta in meno di un giorno

La ricerca del padre acquistò un sapore più dolce ora che accanto a sé avrebbe avuto quel caro amico, quell’amore che aveva preso vita come una fiamma, una fiamma che non voleva estinguersi. Qualunque sarebbe stato l’esito del suo viaggio, la presenza di Pisistrato sarebbe stata la sua forza, come il suo corpo gli fece da sostegno durante il loro viaggio.

Sulla biga trainata da possenti cavalli consacrati a Poseidone, Pisistrato si ergeva saldo e statuario, seguace del vento veloce che li sferzava entrambi nella corsa, lui con le redini tra le mani, Telemaco avvinghiato al suo petto, non riuscendo a trattenere il riso causato dall’ebbrezza della corsa.

A Sparta, alla corte di Menelao dove si narrò della caduta di Troia, ricordando le gesta dell’astuto Odisseo, Pisistrato era accanto a lui, a placare le sue lacrime di figlio. Quando la ancora bella e fatale Elena, più lorda di sangue di mille guerrieri per tutto il male portato sulla terra, eppure perdonata da tutti proprio per la sua esteriorità, diede loro vino speziato con una polvere di sua creazione, Pisistrato era sempre lì, sul suo stesso triclinio, a condividere nuovamente baci e carezze, sotto gli occhi di tanti altri ubriachi di vino misto a polvere di loto, senza alcuna vergogna, anzi consolidando quel sentimento che prendeva, di minuto in minuto, il nome di amore, ed intonando il loro canto sulle corde della lira sottratta ad un musicista addormentato.

 

Ed io amo te, mio principe auriga,

perché con te posso correre su una biga

sulle ali del vento

e tra gli spruzzi d’acqua salmastra della riva,

e posso stringerti per non cadere

e tu mi tieni a te

ed io non ho timore

perché con te ho imparato cosa significa

amare.

 

Ed io amo te, mio principe girovago,

tu vestito del panno del viandante

e col bastone del pellegrino

e con i sandali consumati dalla tua ricerca

del padre perduto,

e posso spogliarti e vestirti

di abiti di te più degni

e ristorarti col vino speziato

della mia bocca.

 

Quell’amore appena sbocciato arrivò troppo presto alla sua separazione, momentanea nel cuore dei due giovani, ma magari anche necessaria per evitare che si consumasse troppo presto, come la vita di una falena che inizia col tramonto e termina con l’alba. Iniziò quando Telemaco sveglio Pisistrato toccandolo col piede; fu un gesto così semplice e così intimo che Pisistrato fu certo che non lo avrebbe mai dimenticato, che se un poeta l’avesse riportato su una tavoletta di cera, tutto il mondo l’avrebbe ricordato nei secoli a venire.

- Atena mi è venuta in sogno – gli sussurrò all’orecchio Telemaco.

- Cosa ti ha ispirato a fare?

- Mi invoglia a ritornare ad Itaca; mia madre ha bisogno di me, e i pretendenti sembra che vogliano ricorrere alla forza per appropriarsi del potere.

- Non ci rivedremo più allora? È un addio? – la voce di Pisistrato era densa di afflizione, come se qualcuno gli stesse strappando una parte del corpo. L’amico, l’amato che era già una parte stessa del suo essere fatta carne in comune con la sua.

Per sopire quel dolore che stava sorgendo nel compagno, Telemaco gli prese il viso tra le mani e lo bacio – No – rispose, intervallando ogni parola con un nuovo bacio – No, nessun addio. Voglio lasciar passare questi eventi voluti dagli dei, aspettare che gli ingiusti paghino per tutto il male che hanno fatto, che mio padre ritorni, perché so che lo farà, e che questa storia finisca. Poi ritornerò.

- Ritornerai? – chiese Pisistrato, gli occhi illuminati di pura gioia.

- Sì, ritornerò – rispose Telemaco, un altro bacio sulle labbra del principe auriga – Tornerò da te e insieme viaggeremo, visiteremo tutti i luoghi che si porranno d’innanzi a noi, e non ci fermeremo fino a quando non avremo trovato un posto che sia solo nostro.

- È una promessa?

- È una certezza. Da quando ti ho conosciuto ho imparato a capire che differenza c’è tra una speranza e una certezza. E…

Ancora un bacio, ancora un respiro condiviso, ancora due corpi stretti l’uno all’altro.

- … σ 'αγαπώ.

 

 

 

Nota dell’autore:

Inizio col dire che sono un ragazzo. Lo so, è raro trovare un ragazzo che scrive per questi lidi, ma io sono l’eccezione XD

L’idea per queste poche pagine mi è venuta dopo aver letto il primo capitolo di “Secondo natura” di Eva Cantarella, dove l’autrice pone l’attenzione sul fatto che, nell’Odissea, il rapporto tra Telemaco e Pisistrato, per quanto messo poco in risalto se paragonato ai più noti Achille e Patroclo nell’Iliade, è molto simile a quello di due innamorati. Io ho semplicemente romanzato un po’ questa piccola parte del poema. Aggiungete poi il fatto che ho avuto la sfortuna di vedere quella pseudo telenovelas mal fatta che è stata “Il ritorno di Ulisse” e scrivere questa fanfiction è stata per me una necessità/esorcismo mentale.

Le parti in corsivo sono prese dal poema. Anfinomo era veramente il più bello e il più buono dei pretendenti; quando questi ultimi pianificarono l’assassinio di Telemaco, lui fu l’unico ad opporsi, eppure venne comunque ucciso al ritorno di Odisseo, ironia della sorte, proprio da Telemaco; ho pensato quindi di inventare un possibile motivo che scatenasse l’avversione del principe per il “pretendente buono”. Per la questione “Elena: colei che ha inventato la droga” rimando a Luciano De Crescenzo.

Il titolo in greco antico, tradotto in italiano è “E io amo te”. E in bocca a Telemaco, alla fine, è “ti amo”.

Spero che vi sia piaciuta. Fatemi sapere cosa ne avete pensato J

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Un saluto a tutti

Lusio

  
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