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Autore: Terre_del_Nord    14/11/2008    31 recensioni
Sirius Black e la sua Nobile Casata; gli Sherton e la Confraternita del Nord; l’Ascesa di Lord Voldemort e dei suoi Mangiamorte; gli Intrighi di Lestrange e Malfoy; le leggende di Potere e Sangue risalenti a Salazar Slytherin. E Hogwarts, i primi passi dei Malandrini e di chi, Amico o Nemico, condivise la loro Storia. UNA STORIA DI AMORE E DI GUERRA.
Anni 70. Il Mondo Magico, alle prese con Lord Voldemort, sempre più potente e feroce, farà da sfondo dark a storie d'amicizia per la vita, a un complicato rapporto tra un padre e i suoi figli, a vicende di fratelli divisi dalle scelte e dal sangue, a storie d'amore romantiche e avventurose. Gli eventi sono narrati in 1° persona da vari personaggi, canon e originali. "Nuovo Personaggio" indica la famiglia Sherton e altri OC.
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HABARCAT (Chap. 1/20) *** ORION (Chap. 21/24) *** HOGWARTS (Chap. 25/39) *** MIRZAM (Chap. 40/52) *** STORM IN HEAVEN (Chap. 53/62) *** CHAINS (Chap. 63/X) *** FEAR (Chap.97/) ***
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VINCITRICE 1° TURNO "Harry Potter Final Contest"
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Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: I Malandrini, Mangiamorte, Nuovo personaggio, Regulus Black, Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'That Love is All There is' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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That Love is All There is

Terre_del_Nord

Slytherin's Blood

Habarcat - I.004 - Pureblood

I.004


Sirius Black
12, Grimmauld Place, Londra - ven. 25 dicembre 1970

Passammo il giorno di Natale a Grimmauld Place con lo zio e la sua famiglia e, di nuovo, non riuscii a vedere Andromeda: non capivo cosa le stesse accadendo, mi accorsi soltanto che nessuno ne parlava più, come se lei non fosse mai esistita. Ricordai il Natale precedente, già allora nessuno le rivolgeva la parola e lei aveva un aspetto piuttosto afflitto, tipico di chi passa giornate intere in camera propria a piangere. Con me era stata come al solito gentile e disponibile, ma non si confidò, mi aveva guardato come fossi l’unica persona che le era rimasta, timorosa di potermi in qualche modo perdere. A fine giornata, sorprendendola sola alla finestra di fronte all’albero di Natale, avevo preso coraggio e mi ero avvicinato: piangeva, non mi disse nulla, solo mi guardò amorevole e mi accarezzò i capelli.

    “Non cambiare mai, Sirius, fai questo per me, e ti prego, almeno tu, non odiarmi, se puoi.”.
    “Perché dovrei odiarti, sei l’unica persona con un cuore in tutta la famiglia!”.

Mio padre mi aveva chiamato dal salotto proprio in quel momento e Andromeda mi aveva invitato a tornare subito dai miei senza dire più nulla: da quel giorno non l’avevo più vista e ad un anno di distanza, in quella stessa stanza, mi ritrovavo a pensare al significato delle sue parole. Mi accorsi che mia madre mi stava osservando torva, forse aveva capito che stavo pensando a Andromeda, ma feci finta di nulla e continuai a comportarmi in modo dignitoso, quel giorno stavo riuscendo a superare incolume persino l’esame Bellatrix: la consideravo una pazza da sempre, ma da qualche tempo mi sembrava peggiorare, da quando parlava sempre di quel suo Lord Voldemort. Naturalmente ero abituato ai discorsi sulla superiorità del sangue, perché non c’era giorno che mio padre non dicesse sempre le stesse cose, ma papà, pur con tanti difetti, non era un fanatico sanguinario che farneticava di morte e distruzione. Persino quando parlava con mia madre delle Cacce al Babbano, mi illudevo che dicesse per scherzo: ero convinto che mia madre ne fosse capace, ma avrei giurato sulla mia testa che, mai e poi mai mio padre amasse davvero concedersi come divertimento una cosa del genere, non perché lo stimassi, ma perché nonostante tutto non aveva la faccia da assassino. Mia cugina invece si deliziava nel leggere e commentare di carneficine, violenze e torture, facendomi rizzare i peli sulla schiena: ero più che convinto che fosse capace di compiere azioni simili in prima persona, o addirittura che lo stesse già facendo.
Appena gli zii furono tornati a casa, mi fiondai in camera, nel mio letto: per Natale i nostri genitori avevano destinato la camera di fronte a mio fratello perché, a detta loro, ormai eravamo entrambi grandi abbastanza da stare ognuno per conto proprio, così da quella notte avrei dormito da solo. All’inizio avevo preso la cosa come un dono gradito, perché a lui sarebbe toccata la stanza più piccola e perché finalmente avevo un mio nido tutto per me, senza il rompiscatole tra i piedi tutto il tempo, però poi, nell’inusuale silenzio della mia stanza mi sentii perso e capii che d’ora in poi mi sarebbe stato ancora più difficile divertirmi in quella casa. Mi alzai e, avvolgendomi la coperta intorno alle spalle, guardai dalla finestra quella notte senza luna, in cui la neve scendeva in morbide giravolte illuminate dai lampioni babbani. Mi addormentai con la testa appoggiata al vetro dopo un po’, ipnotizzato da quella danza ovattata, perdendomi in un dormiveglia confuso in cui sogni e ricordi dolorosi si mischiavano. Quando il gelo che mi mordeva i piedi mi fece ridestare, mi decisi finalmente a tornare sotto le coperte: mi voltai e l’enormità della mia stanza, da cui erano spariti il letto e i mobili che ora erano nella stanza di fronte mi fece stringere di nuovo le viscere. Com’era possibile che invece di festeggiare mi trovassi a immalinconirmi così? Tra l’altro l’avrei rivisto di sotto già a colazione l’indomani e l’avrei trovato immediatamente insopportabile e avrei faticato parecchio per non insultarlo o fargli i dispetti. Accesi il lume accanto al letto deciso a leggere a qualcosa, distrarmi era l’unica soluzione, di certo quei pensieri strani su mio fratello erano dovuti agli eccessi alimentari della giornata appena trascorsa: avevo notato che quando avevamo ospiti, e la pressione e il controllo dei miei era superiore al solito, annegavo la noia nel cibo e nel succo di zucca.
Mi avvicinai alla scrivania e aprii il cassetto in cui avevo messo “Storia del Quidditch” che Sherton mi aveva regalato a Yule, e nel caos che mi si riversò addosso emerse anche la scatola delle foto, quella in cui raccoglievo le immagini troppo imperfette perché mia madre le accettasse nell’album di famiglia. La presi e andai a letto, lasciando il libro nella sua bella carta da regalo e rovesciando le foto tra le coperte alla ricerca di un ricordo piacevole: la maggior parte risaliva a qualche anno prima, ultimamente non amavo troppo l’idea di farmi fotografare, perché non sopportavo di dovermi mettere in posa, di dovermi pettinare come un cretino come piaceva alla mamma, di dovermi vedere come voleva che fossi. Quelle di quando io e mio fratello eravamo davvero piccoli erano strane, però, per lo più Regulus mi baciava una guancia e io gli spettinavo i capelli, sorridenti e felici. Che cos’era successo da allora? Guardai verso la porta, chissà se stava dormendo o anche lui si sentiva strano quella notte, forse dovevo alzarmi e andare a vedere, ma … no, non era il caso. Emersa dal caos sopra le coperte, una piccola striscia di carta da pacchi apparve tra le foto, la presi, ci misi un po’ a metterla a fuoco ma poi ricordai, era proprio lei, la carta di “Dulcitus” di due anni prima, il Natale del giuramento. Altro che preoccuparsi per il moccioso, tutti i problemi che avevo in quella casa nascevano da lui e quella carta ne era una delle tante testimonianze. Ripresi le foto e le ributtai alla rinfusa nella scatola, chiudendola con il laccio e avendo cura d lasciare fuori la striscia d carta di Dulcitus. Ora ricordavo perché l’avevo conservata, doveva tenermi fermo nella mia decisione, dovevo resistere…

*

Sirius Black
12, Grimmauld Place, Londra - mer. 25 dicembre 1968

    “Aspettami, aspettami Sirius!”

Quel pomeriggio di Natale, di ritorno dalla festa a casa dei Rosier, Andromeda era venuta a trovarci con i genitori e le sorelle, graziose quanto lei, ma non altrettanto simpatiche. Ogni nostra parola, anche la più gentile, rivolta a una di quelle due, era accolta con freddezza: le nostre cugine non erano entusiaste delle nostre visite se andavamo a trovarle, né venivano da noi volentieri; annoiate com’erano si capiva che ci consideravano solo due mocciosi di scarso interesse per ragazze raffinate, mondane e ambiziose come loro. E soprattutto, senza volerlo, ricordavamo costantemente loro come la famiglia di Cygnus avesse fallito nel disegno di dare un erede maschio alla nobile e antichissima casata dei Black. Andromeda era diversa: era la mia cugina preferita, quella che aveva per noi sempre un sorriso e una carezza, quella che da piccoli ci leggeva storie a letto per farci addormentare, e che si divertiva con noi, vestendoci o pettinandoci come delle bambole. Non l’avrei mai permesso a nessuno, sia chiaro, ma con lei era diverso.
Con Andromeda Black tutto era diverso. Era bellissima, come era naturale per una Black, con quei capelli neri e gli occhi di ossidiana blu, i tratti del viso regolari e perfetti. E dolcissimi. In questo non era una Black, no: sembrava che la natura avesse donato a quel corpo, già bellissimo a 15 anni, anche la generosità e la grazia di cui era privo il resto della mia famiglia. Era l’unica che conoscevo tra i miei parenti, ad avere un cuore che serviva non solo a pompare quel nostro aristocratico, purissimo, antichissimo sangue Black. Un cuore creato per amare.
Probabilmente ero innamorato di lei, come si può esserlo a otto anni della cugina più grande che si adora da sempre, quel tanto da farmi aspettare con ansia il suo ritorno da scuola, le visite reciproche, i pranzi per altro odiosi di famiglia. Quel tanto da farmi anche rendere conto che, benché felice di vederci, qualcosa era cambiato, qualcosa la turbava, muovendosi come una serpe velenosa in fondo alla sua anima e rendendo i suoi occhi meno luminosi e più tristi. Avrei voluto essere tanto grande e maturo da chiederle cosa avesse, darle la mia mano e giurarle che avrebbe potuto contare sempre su di me, ci sarei sempre stato, per lei. Ma avevo solo otto anni e mi animava solo una feroce rivalità con mio fratello, capace di spegnere qualsiasi raziocinio e mettermi inevitabilmente nei guai, fin da allora. E nulla avrebbe reso diverso quel giorno. Andromeda ci aveva portato per regalo una gigantesca scatola piena di cioccorane, Gelatine "Tuttigusti +1", e altre prelibatezze. Avevo sgranato gli occhi, felice e stupito, quando avevo visto il marchio di Dulcitus sulla carta che ricopriva la scatola: avevo saltato l’ultima visita a Diagon Alley due settimane prima, costretto a casa, in punizione, quindi ero preda di un violento desiderio represso. Quando Andromeda la porse a me, solo perché ero più vicino a lei di mio fratello, l’avevo afferrata subito, vorace, ed ero corso su per le scale, diretto in camera, senza nemmeno dire grazie, senza curarmi di nessuno, senza pensare di condividere con Regulus quel dono. Lui m rincorse subito su per le scale, scordandosi che ero più veloce e agile.

    “Tanto non mi prendi, tanto non mi prendi!”.

Ridevo superando due scalini per volta, il fiato grosso per la fatica e le risate con cui animavo le scale, sempre tanto oscure e opprimenti, mentre mio fratello arrancava sulle sue corte gambette da puttino.

    “Quando arriverai avrò già finito tutto!”.

Mi piaceva canzonarlo, adoravo fargli venire le lacrime agli occhi e vederlo piangere come una bimbetta: mio fratello non mancava mai di darmi delle straordinarie soddisfazioni, era la vittima perfetta! Soprattutto perché a quei tempi era l’unica vittima disponibile. Mi voltai, con il mio miglior ghigno canzonatorio stampato in faccia, in tempo per vedere i riccioli scuri di mio fratello sparire sull’ultimo pianerottolo, cui seguì il solito tonfo sordo, le solite urla del ritratto di non so quale austero trisavolo, e infine il pianto straziante di Regulus. Stavo scendendo con la derisione stampata in faccia per far si che alla sofferenza fisica del ginocchio sbucciato si aggiungesse la mia classica presa per i fondelli, quando la voce d nostra madre emerse dal salone, tre piani più in basso, attirata dalle urla da animale portato al macello del bamboccio.

    “Cosa hai combinato stavolta, disgraziato?”

Immancabilmente, secondo "Lady Walburga Black", se Regulus piangeva, era colpa mia. Mia madre e zia Druella salirono all’istante, i movimenti impediti dalle loro ricche vesti, trovando Regulus in lacrime, il ginocchio sinistro sbucciato e il nobile sangue Black che gli disegnava bizzarri ghirigori sulla pelle diafana della gamba. Ed io in piedi dinanzi a lui, la scatola di ciocco rane stretta al petto come un ramo a cui, naufrago, mi aggrappavo per non annegare: Mia madre mi strappò via la scatola e la diede a Regulus, lasciandomi in mano appena una striscia di carta, poi mi diede uno schiaffo che mi girò il viso dall’altra parte. Mi morsi il labbro inferiore per non piangere, non potevo farlo in pubblico, da bravo Black, ma se anche fossimo stati soli, non avrei versato una sola lacrima, per non darle quella soddisfazione.

    “Guarda cosa gli hai fatto!”.

Mi strattonò perché osservassi il sangue di mio fratello, il nobile sangue di un Black, versato e sprecato sul gradino di pietra antica, sibilandomi addosso, infuriata, con i bellissimi occhi azzurri accesi d’odio. Benché avesse un aspetto così terribile, io non avevo paura di lei, no, nemmeno allora; era finito persino il tempo in cui m sentivo male vedendo che non mi amava, che mi considerava “ imperfetto”, e come tale non meritavo di stare al suo cospetto. Osservai Regulus che ancora frignava e soffocai a stento il mio ghigno di scherno continuando a guardare tutti loro con la mia migliore espressione innocente e stupita, quella di chi è capitato lì per caso e non si cura affatto di ciò che gli altri pensano o dicono, o fanno. Decisi di stare lì dinanzi a tutti loro, a mio fratello, a mia madre e a mia zia, pronto alla punizione inevitabile, come se fosse qualcosa che non riguardava me: sapevo che il cucciolo era il suo prediletto, perciò qualsiasi cosa avessi fatto o non fatto, detto o taciuto, sarei stato punito, tanto valeva toglierle almeno la soddisfazione di vedermi piangere o ribellarmi. O supplicare.

    “Che cosa ho mai fatto per meritare un figlio come te! Fila in camera e non farti più vedere, ci penserà tuo padre a farti sparire quella faccia da schiaffi! Razza d’insolente!”.

Mi prese per un braccio e mi trascinò dentro la nostra stanza, sbatté la porta alle mie spalle e diede tre giri di chiave, borbottando qualcosa sulla mia indegnità, con mia zia che le dava ragione, comprensiva. Poi scesero tutti e tre per le scale, la voce di mio fratello rispondeva gioiosa ai complimenti di mia zia, impastata, si capiva benissimo che stava parlando a bocca piena, sgranocchiando la mia cioccolata. Sospirai, nonostante il freddo aprii la finestra poi salii sul mio letto, incrociai le braccia sotto la nuca e rimasi ad osservare il cielo terso che occhieggiava da fuori: una leggera brezza soffiava carica dei suoni e dei profumi di una giornata londinese di festa. Avevo appena otto anni ma avevo già capito: avevo l’aspetto e il nome di un Black, ma non ero uno di loro, e ne ero ben fiero. Non ero fatto per stare al 12 di Grimmauld Place, e giurai, sul mio nobile sangue, che avrei fatto di tutto, per fuggire lontano da lì, per sempre. Mi rilassai. Ora avevo un proposito, mi lasciai cullare in un tenue torpore, assaporando nella mia immaginazione quello che mi avrebbe donato la vita, se fossi fuggito verso la libertà. Persi i sensi e mi abbandonai a un sonno leggero in cui anche Andromeda, la sua dolcezza, il mio amore per lei, si dissolvevano. E mio fratello, e i dispetti che m’inventavo per lui, diventavano solo un eco lontano …

*

Sirius Black
12, Grimmauld Place, Londra - ven. 25 dicembre 1970

Mi alzai di nuovo, presi dello scotch magico dalla scrivania e fissai la striscia di carta accanto al mio letto, in posizione un po’ nascosta così che io la vedessi ma i miei non se ne accorgessero, ripromettendomi di trovare quanto prima nei libri di incantesimi una formula di adesione permanente, così che non potessero strapparla via mai più. Finito il lavoro guardai soddisfatto il risultato, ora la stanza era un po’ più mia, col tempo avrei aggiunto altre tracce di me, avrei fatto vedere chi ero, avrei fatto vedere che ero Sirius, non il figlio di mia madre. Ma dovevo anche essere cauto e resistere: altri sei mesi e sarei partito per la Scozia, altri nove e sarei andato a Hogwarts per diventare un vero Mago. E allontanarmi da tutti loro per sempre.

***

Meissa Sherton
Herrengton Hill, Highlands - sab. 03 gennaio 1971

    "Scacco matto!”

Ero il volto della felicità, avevo combattuto a lungo quella sera e ora, per la prima volta, uscivo vincitrice da una partita perfetta contro mio padre.

    “Partita da manuale! Complimenti!”

Si sporse sulla scacchiera e mi stampò un bacio sulla fronte: lo guardai, adorante. Mio padre avrebbe compiuto quarant'anni in primavera, aveva i miei stessi capelli corvini, lunghi, gli occhi color dell’acciaio, l’incarnato abbronzato dalla vita all’aperto, i lineamenti decisi e la bocca perfettamente disegnata, esaltata da una leggera barba e da corposi baffi con cui amavo tanto giocare quando ero più piccola. Era alto, forte, proporzionato, aveva una naturale distratta eleganza, anche vestito con semplicità, come in quel momento. Si alzò, rimestò la legna nel caminetto che riscaldava e illuminava la stanza: eravamo nelle stanze di mio padre, nei sotterranei della torre di nord-ovest, in cui passava ore a studiare libri di erbologia e pozioni e a consultare il futuro leggendo le antiche rune del Nord e le pietre veggenti ereditate dal nonno. Benché non ci avesse sprecato la sua magia, il fuoco si ravvivò immediatamente, spandendo ovunque il suo colore aranciato: sulle pareti di pietra, sui mobili antichi, sugli arazzi e le teche, sui libri di discipline magiche e di scienza babbana, sulle ampolle che occhieggiavano dall’altra parte della stanza, sulle foto che ritraevano me, i miei fratelli e i miei genitori, sugli antichi quadri da cui ci guardavano i nostri antenati. E su di me, che restavo sul tappeto persiano di fronte al caminetto, con la mente che vagava lontana, gli occhi persi nel buio senza stelle di quella sera. Fuori dalle finestre ad arco acuto, la neve ricopriva tutto il mio mondo di un’impenetrabile coltre: il giorno era finito da un pezzo, io e mio padre eravamo scesi lì dopo cena, lasciando in salotto mia madre con Wezen, Rigel in punizione nella sua stanza, e Mirzam diretto a Inverness. Un’ombra di tristezza attraversò il mio viso, erano finite le vacanze di Natale e quello era l’ultimo giorno nelle Highlands, l’indomani saremmo ripartiti: stavolta sarebbero passati tre mesi prima del nostro ritorno. Mi passai una mano su una ciocca di capelli, fermandola dietro all’orecchio, sperando di mascherare quel momentaneo turbamento; ma il gesto non sfuggì a mio padre, come non gli era sfuggita l’espressione che da giorni avevo in volto: stava in piedi alla finestra, con un bicchiere di vino italiano in mano e aveva appena acceso magicamente un giradischi babbano preso a Londra, da cui ora usciva una musica melodiosa, il “Notturno 72”.

    “Sono giorni che ti vedo preoccupata, non sorridi quasi più”.

Tornò accanto a me, mi prese per mano e m’invitò a sollevarmi dal tappeto su cui avevamo giocato a scacchi, si sedette sulla sua poltrona accanto al caminetto e mi fece sedere a mia volta sulle sue ginocchia. Ne approfittai, felice, e abbandonai subito la testa sul suo petto, un po’ perché mi piaceva stare con lui così, respirare il suo profumo e scaldarmi col suo calore, un po’ perché in quella posizione avrei potuto parlargli senza guardarlo direttamente negli occhi. Sapevo già che sarebbe andato a fondo di quella storia, a qualunque costo: probabilmente aspettava l'occasione da giorni. Da sempre era solito abbandonare qualsiasi suo impegno, anche quelli più importanti, per correre da me, ed anche per questo lo amavo infinitamente. Tenevo gli occhi abbassati sulle mie mani, giocando coi bottoni della sua camicia blu notte, e le mie guance arrossivano per la vergogna.

    “Dimmi cosa succede e farò di tutto per renderti il sorriso, lo sai, devi solo chiedere”.

Mi accarezzava i capelli, le sue mani erano grandi e forti e per alcuni anche pericolose, ma c’era solo infinita dolcezza, sempre e solo dolcezza, per me.

    “Non è nulla … sono solo triste al pensiero di lasciare Herrengton”.

M’interruppi subito, la voce mi era uscita simile a un sussurro. Mi arrischiai a guardarlo, manteneva l’espressione incoraggiante, ma non era uomo da lasciar correre su nulla, in un modo o nell’altro avrebbe saputo la verità.

    “Lo immagino, sono triste anche io, ma lo sai, per la mamma e per il bambino è più prudente restare a Amesbury durante quest’inverno”.

Annuii, avevamo fatto quel discorso molte volte, era ragionevole e giusto. Mentre il viso mi si colorava del rosso della mortificazione, mio padre tornò a guardarmi con attenzione.

    “Ed ora dimmi la verità, Meissa, perché ti conosco: quello che provi non è tristezza, ma paura, e io voglio sapere chi o cosa ti sta togliendo la serenità”.

Alzai di nuovo lo sguardo sul suo viso, Alshain vide nei miei gli occhi verdi di sua moglie che lo fissavano. Attese: conosceva il valore della pazienza, arma che tutti, amici e nemici, gli riconoscevano, come ne riconoscevano l’implacabile determinazione e l’assoluta razionalità.

    “Padre ... continuerai a volermi bene anche se… anche se… sì, anche se non finissi a Serpeverde?”.

Sentivo le parole uscirmi con difficoltà, quasi sputassi macigni, temevo di vedere rabbia in lui; ma per quanto scrutassi a fondo, in quegli occhi del colore del mare in tempesta non riuscivo a vedere altro che il riflesso di una ragazzina impaurita. Sembrò persino meravigliato che fosse quello il motivo dei miei turbamenti.

    “Chi ti ha messo in testa quest’idea? Certo che ti amerei ugualmente, sei mia figlia!”.
    “E’ per quello che si sono detti Rigel e Lucius…”.

La sua espressione cambiò, la mascella si contrasse e gli occhi s’incupirono: sapeva che c’era qualcos’altro nel mio turbamento ed era proprio ciò che aveva sospettato.

    “Uno dei due ti ha detto questo? Hanno cercato di convincerti di questo?”.

Non volevo mettere mio fratello di nuovo nei guai, dopo Yule era stato in punizione per tutte le vacanze, ma temevo di aver già compiuto il danno.

    “No, io ... ho sentito quando hai chiesto a Rigel cos’era successo alla festa, giorni fa …”.
    “Capisco. Allora è arrivato il momento di fare un certo discorso, noi due ….”.

Mi sorrise, mi passò la mano sul viso, in una tenera carezza, e mi baciò la fronte: era sereno ma anche un po’ triste, un tempo passava molte più sere davanti al fuoco con me, seduta sulle sue ginocchia, a tirargli i baffi. Allora lui era stato senz’altro più felice, proprio per merito della sua famiglia, che era tutto per lui; negli ultimi tempi i suoi affari e i suoi viaggi gli avevano rubato spesso questi piaceri, e il più delle volte, al ritorno, aveva un’espressione cupa e tesa. Mi chiedevo se vivere vicino ai Malfoy non avrebbe peggiorato le cose: non avevo idea di cosa stesse accadendo, ma anche un cieco avrebbe notato che il suo umore peggiorava ogni volta che incrociava Abraxas.

    “E’ passato molto tempo da quando ti ho parlato di mia madre, di Ryanna Meyer, ti ricordi in quale casa ha frequentato Hogwarts?”.
    “Non è stata a Serpeverde come te?”.
    “No, Mey, gli Sherton sono Serpeverde da sempre, certo, ma tua nonna, come quasi tutta la famiglia purosangue dei Meyer, era una Corvonero. Per questo, Lucius ti ha chiamato in quel modo, lo faceva anche suo padre con me, da ragazzini, prima del mio smistamento. Ma non è di lui che dobbiamo parlare. Guarda …”.

Si sporse a prendere un album di foto da un cassetto della sua scrivania, erano molto vecchie, e io non ricordavo di averle mai viste: conoscevo il viso di mia nonna perché ovunque a Herrengton c’erano i suoi ritratti, a dimostrazione di quanto mio nonno l’avesse amata, le immagini che sfogliavo ora, però, andavano ben oltre, perché l’autenticità e la spontaneità di quel sentimento scaturivano dalle risate, dai baci, dall’amore con cui guardavano i loro figli, dalla tenerezza con cui si tenevano per mano. Non stavano in una posa concordata, non stavano fingendo, erano veri, reali.

    “I miei genitori si sono amati davvero, per oltre 40 anni, anche se venivano da case diverse: da quell’amore sono nato io, e di conseguenza tu e i tuoi fratelli. Non avrei ereditato da loro niente di davvero importante, se i miei sentimenti per i miei stessi figli dipendessero dal colore di una cravatta, non credi? Tu sei mia figlia, Meissa, sei il mio sangue, sei forse quanto di meglio mi ha donato la vita. E’ ciò che hai nell’anima che conta per me, non i colori che avranno i tuoi vestiti”.

Mi accarezzò di nuovo il viso, e mi guardò in un modo che mi fece sentire una vera stupida, come potevo aver dubitato del suo amore per me? Come potevo aver creduto alle sciocchezze che Lucius Malfoy aveva detto a mio fratello, guadagnandosi tra l’altro un pugno in faccia? Sorrisi.

    “Allora ti ho rasserenato almeno un po'?”

Annui, senza parlare, lui mi diede un altro caloroso bacio sulla fronte.

    “E’ colpa mia se sei rimasta turbata, e ti chiedo scusa. Ho esagerato parlando come se fossi la futura Serpeverde di casa, ma sai … per intere generazioni nella nostra famiglia sono nati solo dei maschi, in sette secoli sono nate solo quattro bambine tutte poi smistate a Corvonero; poi dieci anni fa sei nata tu, nel giorno dell’equinozio di primavera, e sei cresciuta con un carattere forte, determinazione, ambizione, talenti degni di Salazar stesso.”.

Mi fece sedere sull’altra sedia, si alzò, rimestò il fuoco, si versò da bere e fece ripartire il disco. Andò alla finestra, osservando le stelle che finalmente facevano capolino tra le nubi.

    “Tutto questo, lo ammetto, mi ha esaltato, anche se, obiettivamente, vedo da me che stai sviluppando anche altre "virtù", che potrebbero diventare persino più rilevanti: non mi stupirei nemmeno di vederti a Grifondoro, sai? No, non fare quella faccia schifata, sto parlando sul serio. Ma basta divagare, il punto è che tu sei e sarai sempre mia figlia, indipendentemente dal risultato dello smistamento,finché rispetterai la nostra famiglia. Agli Sherton non interessano i dettagli, ma un’unica cosa, sostanziale e ben più profonda: credo tu sappia benissimo di cosa sto parlando...”.

Mi guardò a lungo, per farmi capire quanto importante fosse quel discorso.

    “… parlo della nostra natura magica, del nostro essere da sempre perfetti e puri: il mondo ci chiama “purosangue”, noi siamo purosangue, è questo che fa sì che il nostro potere sia massimo, intoccabile ed indiscutibile. Innumerevoli maghi e streghe potenti sono venuti a renderti omaggio al momento della tua nascita, come è accaduto quando è nato Wezen, e gli altri tuoi fratelli prima di te. Come può un neonato che non ha ancora manifestato alcun potere, meritare quegli onori, Meissa? Ovunque ti giri qua dentro, gli stemmi ti ricordano che la nostra è la famiglia de "Les Bien-Aimès", “i prediletti di Salazar”, ma onestamente, cosa ci fa essere tali dopo un millennio, se chi ha fatto la storia è ormai cenere da oltre 1000 anni? Cos'altro se non il nostro sangue, la sua purezza e perfezione? ”.

Avevo sentito mio padre fare discorsi simili ai miei fratelli, ma era la prima volta che lo faceva a me: non potevo crederci, mi trattava come un'adulta, mi considerava davvero sua pari; ero orgogliosa e spaventata allo stesso tempo, perché rendendomi consapevole diventavo anche responsabile.

    “Il tuo sangue è tutto, Meissa, rispettalo e vivi serena, tutto qua. Se poi hai dei dubbi vieni da me o da tua madre, e non badare alle ciance degli altri, ai loro stupidi pregiudizi. C'è altro di cui vuoi parlarmi?”

Mio padre bevve tutto d’un sorso il vino nel bicchiere, in silenzio, guardandomi dall’alto in basso intensamente, con un’espressione indecifrabile, poi sospirò e mi si avvicinò di nuovo. Avevo altro da chiedergli e lui lo sapeva, qualcosa che ascoltando i miei fratelli, mi aveva davvero messo il terrore addosso, ma non avevo il coraggio di chiedergli se fosse la verità. Non volevo sapere, volevo poter sperare ancora per un pò che fosse tutto uno scherzo. Provai a mentirgli.

    “No padre, solo … quando inizieremo la mia istruzione?”

Indagò i miei occhi, sapeva che avevo mentito, ma lasciò perdere. Gli baciai la mano che m aveva appoggiato sulla guancia, in una carezza.

    “In primavera. Fino a 11 anni non puoi sapere nulla di più, e non posso farti vedere nulla finchè siamo nel Wiltshire, col Ministero che... Ora torniamo di sopra, è tardi, dai”.

Si era rabbuiato ma quando gli sorrisi tornò sereno, mi alzai e lo aiutai a rimettere in ordine la scatola degli scacchi e i cuscini sul tappeto persiano, lui spense il fuoco, recuperò il mantello e se lo appoggiò al braccio, poi mi cinse le spalle mentre mi avvinghiavo al suo fianco, respirando il suo profumo e il suo calore; percorremmo il corridoio di pietra che si affacciava sulle scogliere e salimmo fino all’ala sinistra del chiostro che racchiudeva il cortile delle rose. Entrati nel salone salutai mia madre, poi salimmo fino alla mia camera, dove mio padre mi augurò la buona notte con un altro bacio sulla fronte e mi lasciò alle cure di Kreya, richiudendo infine la porta dietro di sé, con la bacchetta alla cintola e il suo inconfondibile profumo di cedro e sandalo. Mi guardai intorno: l’armadio e i cassetti erano vuoti, gli ultimi bauli erano stati portati via a novembre per il trasloco. Eppure, avevo il cuore più leggero, perché mio padre mi avrebbe amato per sempre: prima di spegnere la luce guardai il ritratto di mia nonna. Le sorrisi. Aveva creato l’uomo migliore e il destino me l’aveva donato per padre. No, non avrebbe fatto nulla che potesse ferirmi. Mai. Scivolai nel sonno. Ero serena, ero pacificata col mondo. Ero ancora troppo giovane per comprendere che quel discorso che mi aveva rasserenato aveva in sé qualcosa di temibile e oscuro, che presto avrebbe condizionato tutta la mia vita.

***


Meissa Sherton
Amesbury, Wiltshire - mart. 12 gennaio 1971

    "E’ metà gennaio e voi ragazzi non siete mai venuti a trovarmi. Devo offendermi seriamente?”

Orion Black esordì così quella sera, mentre stavamo tutti attorno al caminetto del salotto al termine della cena. Appena arrivato, con fare misterioso, aveva tirato fuori dal panciotto un pacchetto di cioccorane prese da Dulcitus per me, poi mi aveva sfidato a scacchi fino all’ora di cena, chiedendomi come stessi e raccontandomi di quando con mio padre aveva lanciato la polvere “fosforella” nei bagni dei prefetti l’ultimo anno, mandando fuori d testa il custode della scuola. "Zio" Orion era una presenza costante nella nostra vita nel Wiltshire, ed era forse l’unica persona che vedevo volentieri. Quell’uomo, distinto e falsamente burbero, era il miglior amico dei nostri genitori, il nostro padrino e una persona piuttosto buffa: con lui, le serate finivano sempre in sonore risate, ci raccontava degli aneddoti sulle gesta all’epoca della scuola, i dispetti ai danni dei Grifondoro, le vittorie della squadra di Serpeverde di cui nostro padre era stato cercatore, ci parlava di luoghi misteriosi e ricchi di fascino della scuola, di cui i miei fratelli avevano già approfittato grazie alle sue indicazioni, le scorribande nella foresta proibita e anche qualche poco ortodossa visita ad alcuni locali di Hogsmedge molto apprezzati dai ragazzi. Un clima ben diverso da quello che si respirava quando ci facevano visita altri conoscenti di mio padre: dopo un paio di giorni dal nostro arrivo, ci fece visita niente meno che il Ministro della Magia, con la scusa di un saluto di cortesia, in realtà per verificare con mio padre se ci fossero “falle” nella nostra sistemazione; dopo due ore di perlustrazione, durante le quali cercò invano di convincere papà a far sparire un paio di oggetti che teneva sottochiave in mansarda, se ne andò senza toccare un solo boccone della superba cena che Kreya aveva preparato per lui. L’atmosfera pesante che si respirava all’arrivo di Abraxas Malfoy, cugino di 2^ grado di nostro padre, non aveva però eguali: non sapevo ancora il perché, ma ogni volta che era prevista una sua visita mi mandavano subito in camera mia, sicché, benché fosse spesso da noi, io vedevo lo “zio” solo in occasioni ufficiali e ricorrenze. Di solito appena si ritiravano in sala da pranzo, io sgattaiolavo fuori e mi sistemavo sul pianerottolo del primo piano, spiando non vista: quelle cene trattavano per lo più argomenti che non capivo, per i quali lo “zio” si infervorava moltissimo, mentre nostro padre si mostrava sempre piuttosto scettico; sembrava che Malfoy cercasse di convincerlo a fare qualcosa, che tra l’altro turbava parecchio sia mia madre sia mio fratello, ma non riuscivo mai a capire di più, perché a quel punto mio padre lo invitava a seguirlo in salotto, gettava degli incantesimi “muffliato” e parlavano animatamente fino a notte fonda. In un paio di occasioni la discussione degenerò ancor prima di ritirarsi in privato, facendosi tanto accesa che sentii la voce di mio padre, come sempre calma ma gelida come la morte, invitare il cugino a sparire e non farsi rivedere prima di aver recuperato il senno. Dopo le visite di Malfoy, rimaneva pensieroso e turbato, per alcuni giorni usciva prestissimo e rientrava molto tardi, oppure restava a casa a parlare via camino con Orion Black, prendendo accordi per vedersi a Londra.

    “Mei è stata un po’ influenzata, Orion, non ci pareva il caso portarla a Grimmauld Place, hai due ragazzi anche tu!”.
    “Tutte storie, Dei, è da Yule che mi sfuggono, soprattutto Mirzam!”.

Mio fratello divenne porpora e finse di rivolgere l’attenzione alle fiamme del caminetto.

    “Terrò a bada Walburga, se è questo il problema, d’accordo? Ma per favore smettila di farmi questo torto”.

E sorrise vedendo l’occhiataccia che aveva rimediato da mio fratello.

    “Facciamo così: venite venerdì, ci saremo solo Walby, io e i ragazzi, e potremo parlare tranquillamente; il sabato successivo poi è il compleanno di Regulus, e lì mi offenderei davvero se lo mancaste, tra l’altro i ragazzi ci sperano tanto, sono ancora elettrizzati dalla Danza delle Spade, Mir, sembrano finalmente usciti dal loro stato catatonico!”.

Mio padre in piedi davanti al caminetto dapprima tossicchiò sommessamente poi si mise a ridere apertamente, scuotendo la testa sotto lo sguardo interrogativo del suo amico.

    “Ma quale stato catatonico, Orion! Siete voi due che li trattate come due principini! Troppe regole, troppa etichetta, sempre sotto una campana di vetro! Lasciali partire per Herrengton quest'estate e al ritorno non li riconoscerai!”.

Strizzò l’occhio al suo amico, che lo guardò scettico reprimendo a stento una rispostaccia.

    “Sì, lo so che farebbe bene a entrambi cambiare aria, e star lontano dalle sottane della madre, ma per carità non farmeli volare su quell’ippogrifo, è un uccellaccio demoniaco!”.
    “Alceos non è un uccellaccio, è il MIO ippogrifo e non lo farò di certo montare da due damerini inglesi qualsiasi!”.

Non riuscii a trattenermi, lasciando il nostro ospite e i miei allibiti: fu Orion a rompere il silenzio con una sonora risata mentre io diventavo viola di vergogna.

    “Ma senti che piccola scozzese impertinente! Sei proprio la degna figlia di tuo padre! Ma ricordatelo: quando sposerai uno dei miei figli, dovrai pagarmi profumatamente se non vorrai che gli riveli quanto hai appena detto! Damerini inglesi, roba da matti!”.

Il mio colorito peggiorò, da quando li avevo visti a Yule, pensavo che fossero carini, e mi auguravo che fossero anche simpatici, visto che avrei dovuto frequentarli spesso fino al ritorno in Scozia. Ma da qui a pensare che avrei dovuto sposare uno di loro…..

    “Hai perso la lingua eh! Lo immaginavo: sei rimasta colpita anche tu dal fascino di noi Black”.

Orion mi guardava gongolante, mentre la faccia mi andava in fiamme.

    “Basta con queste stupidaggini, Orion! E tu, fila in camera, è tardi!”.

Mi avviai, sorpresa dall’uscita urtata di mio padre, con un piccolo saluto intimidito a Orion, ma nel salire rimasi appostata sul solito pianerottolo, ad ascoltare.

    “Stai scherzando o sei impazzito? Era solo una battuta, Alshain! Cosa diavolo ti è preso?”.
    “Sono stanco di certi discorsi. Salazar! E’ solo una bambina!”.
    “Ma era uno scherzo, Al! Diglielo anche tu, Dei! Merlino santissimo! Solo una dannata battuta! Quante volte abbiamo detto sciocchezze simili e ci abbiamo riso sopra?! Dimmelo.... ma... Lasciamo stare, tu sei sempre più strano e io invece devo fare un discorso serio con Mirzam, non perdere tempo con un paranoico come te."

Sorseggiò il suo whisky e si ivolse a mio fratello che già aveva una faccia risentita.

    "Allora, ragazzo mio… mi è giunta voce che sei interessato a una delle figlie di Cygnus, e se è vero, come tuo padrino, sarei ben lieto di favorirti presso mio cognato, non che ce ne sia bisogno nel tuo caso, ma…. Io ho parlato chiaro, ora sta a te, è nel tuo interesse dire come stanno le cose, visto che tuo padre è così pazzo da lasciarvi liberi di decidere da soli”.
    “Ti interessa una delle figlie di Cygnus? Oh Mir, è stupendo, è una famiglia perfetta per noi!”.

Mia madre era sbalordita, e al tempo stesso entusiasta, ma Mirzam lasciando da parte la sua proverbiale educazione, si alzò ammutolito dal divano e scomparve per le scale con la rapidità di un fulmine, diretto nella sua stanza, senza salutare nessuno. Mia madre si morse un labbro per la vergogna. Mio padre e Orion assistettero sgomenti, per quanto era inverosimile una scena simile.

    “Salazar! Ti prego di scusarlo Orion, sono settimane che è turbato da qualcosa e non c’è verso di capire che cos’ha. Per favore, spiegaci cosa sono queste dicerie, perché noi non ne sappiamo nulla”.
    “Lestrange mi ha chiesto se è vero che vostro figlio è interessato a Bellatrix, perché vorrebbe chiederne la mano per Rodolphus”.
    “E perché Lestrange non l’ha chiesto direttamente a noi? E’ stato qui a dicembre al ricevimento, abbiamo parlato di tutto, poteva chiedermelo in faccia, invece di metterti in mezzo! Qualcosa non torna Orion, Mir e Rod hanno amici in comune, ne avrebbero parlato di certo e saprebbero entrambi come stanno le cose.”.
    “Ma se non parla nemmeno con voi! E’ peggio di un’ostrica, non sembra nemmeno tuo figlio! E comunque Lestrange, indipendentemente da quelloo che eventualmente direbbe tuo figlio, vuole assicurarsi di non pestare i piedi a te, ma non ha nessuna intenzione di affrontarti a viso aperto, lo sanno tutti che non vi potete vedere dai tempi di Hogwarts”.
    “Al diavolo Lestrange! Tu che ne pensi Dei?”.
    “Su Lestrange non ho idee, ma posso assicurarti che se Mirzam vuole una delle figlie di Cygnus, si tratta di una delle altre due. Orion, senza offesa, ma Bella .. diciamo che qualsiasi marito sarebbe solo un bel trofeo per lei, da tenere al secondo posto nel cuore, nella mente e magari anche nel suo letto. Mirzam è l’erede di Hifrig, per quante promesse gli abbiamo fatto, non lo lasceremmo mai a una donna così… volubile”.

Gli occhi di mio padre divennero particolarmente cupi, Orion stava per ribattere offeso ma si morse la lingua, finì di bere il suo whisky e fissò il fuoco: l’evidenza dei fatti lo schiacciava.

    “Pensi lo stesso anche tu, Alshain?”.

Papà si alzò di nuovo, il bicchiere di whisky in mano, per rimestare il fuoco.

    “Chi non desidererebbe delle nozze Sherton- Black? Ma Bella.. no, non è adatta a mio figlio”.
    “Ma se invece fosse proprio Bella, cosa faresti? Ti opporresti? Verresti meno alle promesse che hai fatto ai tuoi figli?”.
    “In casi come questo, sì, Orion, ritirerei la mia parola, per il bene dei miei figli sputerei anche sul mio onore….”.

Orion lanciò un’occhiata eloquente ai miei genitori, io non potevo credere di assistere a quella discussione, vedere i miei e il mio padrino mercanteggiare sul destino di mio fratello. Dopo non molto si salutarono, con la promessa da parte di mia madre che avremmo fatto loro visita quel venerdì: mi sentii gelare il sangue nelle vene, Walburga era una donna intrigante e impicciona, mi aveva osservata con un’attenzione maniacale a Yule. E io ne avevo paura. Quando vidi che Orion era sparito nelle fiamme, diretto a Grimmauld Place, e che i miei genitori spegnevano le lampade a gas, pensai di salire in camera, ma le voci dei miei mi bloccarono.

    “Tieni i miei figli il più lontano possibile da Walburga Black, Dei. Non devono circolare voci su nessuno di loro, su Meissa in particolare, siamo intesi? C’è già Malfoy impegnato a fare danni”.
    “Pensavo volessi che frequentassimo i Black, che i nostri figli facessero amicizia con loro”.
    “Sì certo, ma queste dicerie su Mirzam non mi piacciono, e anche se si tratta della famiglia di Orion, siamo cauti, d’accordo? Almeno finché non siamo sicuri…”.
    “Dovrei essere io la chioccia protettiva lo sai? Lasciali spettegolare, Al, lasciali dire, quello che conta siamo solo io, te e la nostra famiglia”.

Mia madre sorrise e lo baciò voluttuosa, lasciandolo un attimo interdetto, voleva davvero parlare con suo figlio, subito, ma poi la guardò, l’afferrò stringendola a sé e dal suo viso sparì l’espressione contrariata e qualsiasi turbamento. Parlarono sommessamente poi sentii la risata giocosa e affannata di mia madre, stranamente rossa in viso mentre mio padre le baciava dolcemente il collo e l’accarezzava attraverso il vestito.

    “Non vedo l’ora di filarcela in Scozia, stare per conto nostro, averti tutta per me, sempre!”.

Ogni parola era un bacio.

    “Oh Al… credo proprio che dovremmo farci piacere il Wiltshire ancora per un bel pezzo!"

Sorrise misteriosa e felice, mio padre la guardò interrogativo, poi si illuminò e le pose delicatamente una mano sul ventre, risero e ripresero a baciarsi ancora con più foga stringendosi forte l’un l’altra, mentre io filavo in camera mia incuriosita da quelle parole.



*continua*



NdA:
Ringrazio quanti hanno letto, hanno aggiunto a preferiti/seguiti/ecc, hanno recensito e/o hanno proposto/votato questa FF per il concorso sui migliori personaggi originali indetto da Erika di EFP (maggio 2010).

Valeria



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