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Autore: Iama    03/01/2015    6 recensioni
Brevi frammenti del diario di una siyhara introducono la storia di un uomo che ha deciso di non essere salvato. Un uomo come tanti, non certo un eroe. Un uomo che non ha combattuto per gli altri, ma per se stesso. Egoismo? Forse. Forse no.
*
Erano tornati nel bosco. Di nuovo tra gli alberi, di nuovo tra i loro rami soffocanti.
Il sole, basso all’orizzonte, illuminava poco alla volta il cielo. L’alba riscaldava lentamente la foresta, immersa nel freddo che aveva portato la notte. Gocce di rugiada brillavano sulle foglie, riflettendo i colori dell’arcobaleno.
Izar e Athala camminavano tra gli alberi fitti, lungo uno stretto sentiero che avevano imboccato a fatica. Man mano che procedevano, la vegetazione si sfoltiva lasciando spazio all’erba soffice e bagnata. Immersi nella quiete non parlavano, sebbene le loro anime portassero un fardello da cui era difficile liberarsi.
Genere: Fantasy, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Dalla prima volta che lo vidi, capii che in lui c’era qualcosa di speciale. Quando mi dissero che avrei dovuto essere la sua neyashne, non la presi così male come feci invece in altre occasioni. Al tempo non capivo. Poi, e solo poi iniziai a comprendere ogni cosa.
- Dai diari della siyhara Athala
 
 
 
Un ragazzo stava rannicchiato a terra. La cella era gelida, e dall’unica finestrella non entrava che un debole fascio di luce insufficiente a riscaldarla. Stava accovacciato tra la sporcizia, gemendo per il freddo e la fame. I capelli lunghi e sporchi gli ricadevano davanti agli occhi, e la barba ispida completava un volto incavato e giallognolo. Davanti a lui, una ciotola contenente avanzi di cibo che non era riuscito a mangiare. Mai un giorno un piatto era uscito vuoto dalla cella, mai un giorno il suo corpo debilitato era riuscito a trarre beneficio da quei miseri pasti. Semplicemente non riusciva a mangiare e, rannicchiato sul pavimento lurido e freddo, aspettava che una delle neyashne venisse a portar via la ciotola piena.
Non seppe dire con precisione quanto tempo rimase immobile prima che qualcuno arrivasse, osservando la luce della finestrella che mutava orientamento. Sentì dei passi provenire dall’esterno della cella e alzò lo sguardo. Si scostò dal viso una ciocca di capelli che gli ostacolava la vista e rimase fermo a guardare la neyashne che entrava nella cella. La ragazza si avvicinò e prese da terra la ciotola.
«Anche oggi niente, Izar?», domandò senza aspettarsi una risposta.
Il ragazzo la osservava incantato uscire dalla cella. Avrebbe desiderato andarsene da quel posto lurido; tutto ciò che lo divideva dalla libertà erano delle sbarre di ferro.
«Athala…», sussurrò. Si alzò in piedi tentennante e mosse qualche passo in avanti.
«Athala!», ripeté. Afferrò una delle sbarre con mano tremante, ancorandosi a quel ferro gelido.
La ragazza si fermò. Si voltò verso la cella.
«Prego?»
«Aiutami, Athala.» Una supplica.
«Come sai il mio nome?», disse lei avvicinandosi alle sbarre, disprezzo misto a un leggero timore nella voce. «Cosa vuoi da me?»
«Non mi riconosci? Io ti riconosco, io ti conosco», sussurrò Izar. «Tu non mi riconosci? Noi siamo amici, aiutami.»
Il ragazzo afferrò d’istinto il polso della neyashne, che fece cadere la ciotola con gli avanzi. Un’onda lo pervase da capo a piedi. Aumentò la presa, e crebbe la scarica di energia che attraversava il suo corpo. Fissava la ragazza negli occhi, e lei non riusciva a distogliere lo sguardo da quei cristalli neri brillanti di follia. Il tutto non durò più di qualche secondo. L’estasi venne interrotta dalla ragazza che strappò bruscamente il braccio da quella morsa gelida e perentoria.
«Io non ti conosco», sibilò acida. «So solo che sei un pazzo. Un pazzo!»
Si allontanò a passo spedito dalla cella, dimenticando di raccogliere la ciotola rotta. Non si voltò più.
«Athala!», disse Izar. «Perdonami! Athala, non volevo!»
“Cos’ho fatto?”, pensò, sentendosi mancare il fiato. Ricadde a terra scompostamente e si rannicchiò ai piedi delle sbarre. Le mani tra i capelli, il viso sul pavimento sporco. Una lacrima gli percorse la guancia gelida.
“Cos’ho fatto?”
 
 
Passarono una decina di giorni prima che Athala ritornasse.
Prima dell’incidente, come lo definiva lui, la neyashne era di turno nella sua cella a giorni alterni. Gli portava la ciotola degli avanzi a orari precisi, e a orari altrettanto precisi passava a riprenderla. Era sempre piena.
Izar giaceva a terra. La barba più lunga, i capelli più sporchi. Gli avevano messo una catena al piede destro, fissata al muro. Riconobbe il passo di Athala quando ancora era distante, e non si mostrò sorpreso quando la ragazza entrò nella cella per portar via la scodella.
«Sei tornata.»
Athala non rispose, limitandosi a raccogliere la ciotola da terra.
Uscita in fretta dalla cella, venne fermata da un uomo robusto che si trascinava appresso alcune catene.
«Buongiorno, splendore», la salutò lui. «Oggi è un gran giorno per il nostro amico qui.»
Izar, chino a terra, ascoltava con attenzione la voce rauca dell’uomo. Sentì uno sferraglio e, quando alzò lo sguardo, si trovò davanti a quella presenza massiccia che lo osservava con un sorriso bieco.
«Oggi si fa gran festa, bello mio. La Kishnà è sempre un evento emozionante, potrei quasi commuovermi.»
Detto questo, incatenò i polsi del ragazzo e gli liberò la caviglia solo dopo essersi assicurato che non potesse scappare. Izar sentì una morsa stringergli ogni parte del corpo e a fatica gettò un’ultima occhiata fuori dalla cella. Vide Athala immobile a osservarlo, con la ciotola in mano. Le lanciò uno sguardo carico di supplica, ma non osò parlare. Lei, in risposta, lo fissò negli occhi un’ultima volta prima di voltarsi e allontanarsi dalla cella.
Izar rimase solo. Alle sue spalle uno sferragliare di catene, i polsi legati e dolenti. La risata del boia gli giungeva ovattata seppur fosse viva e presente.
Cadde in uno stato di trance dove tutto era buio, dove neanche la flebile luce di una finestrella poteva illuminare il suo corpo gelido.
“Ho freddo.”
 
 
«Avanti, bello mio, non sei contento? Dovresti esserlo. Fai un bel sorriso. Quando saremo fuori, dovrai sorridere a tutti. E quando ti taglierò la testa dovrai avere ancora il sorriso. Sarai bellissimo.»
La voce roca del carnefice risuonava nelle orecchie di Izar, mentre procedeva per i corridoi delle segrete. Un anello di ferro gli stringeva il collo e quando, senza un motivo preciso, veniva tirato indietro dal boia, gli mancava il respiro. I polsi incatenati dietro alla schiena dolevano. Le caviglie legate fra loro lo facevano procedere lento, e ogni tanto un calcio pesante gli spezzava la schiena dal dolore.
«Mi stai ascoltando, pezzo di…»
La voce del boia s’interruppe, accompagnata da un rumore sordo. Izar si sentì tirare al collo per un’ultima volta, poi avvertì la presa sulla catena allentarsi. Quando s’illuse di essere libero, si sentì trascinare verso il basso e cadde a terra. Il boia, svenuto sotto di lui, aveva finalmente mollato la presa.
Guardandosi attorno, notò cocci di ceramica sparsi sul pavimento. Quando alzò lo sguardo, vide un volto familiare incorniciato da capelli scuri.
«Athala», sussurrò.
La ragazza gli porse una mano e lo aiutò ad alzarsi. Frugò tra i vestiti del boia e ne estrasse un mazzo di chiavi. Con non poche difficoltà Izar venne liberato dalle catene. Per la prima volta dopo mesi si sentì libero.
“Devo a quella ciotola la mia vita”.
Osservò la ragazza incatenare polsi e caviglie dell’uomo steso a terra e frugare nuovamente tra i suoi vestiti, per poi estrarne una mazza di legno e un pugnale.
«Sbrigati, tra un po’ verranno a cercarti.»
Seguì la ragazza attraverso le segrete. A fatica riusciva a reggere il passo. La velocità e l’abilità con cui Athala procedeva per quei cunicoli evitando le celle occupate dagli altri prigionieri lo stupivano maggiormente ad ogni passo.
“No, devo a lei la mia vita.”
Giunsero a una porta massiccia e, mentre Athala cercava nel mazzo la chiave per aprirla, Izar si ridestò dai propri pensieri.
«Perché mi hai aiutato?»
La ragazza trovò la giusta chiave e aprì il portone.
«I tuoi occhi», rispose voltandosi. «Ma ora non farmi perdere tempo. Andiamocene.»
Oltrepassò la porta, e Izar la seguì senza fiatare. L’adrenalina aumentava a ogni passo. Il ragazzo non si sentiva così bene, così pieno di energie da tanto tempo.
“Le devo la mia vita.”
 

 
Se mi pentii di averlo aiutato a evadere? Solo un po’, e solo all’inizio. Appena fuggiti dalla fortezza, dovemmo passare una notte al freddo; in seguito, di notti al freddo, ne passai molte di più. Ma ormai avevo imparato come sfuggire alla morsa gelida delle tenebre contando solo su me stessa. E smisi anche di maledire Izar per avermi abbandonata.
- Dai diari della siyhara Athala
 
 
Quando trovarono un luogo adatto in cui fermarsi, era già calato il sole. Gli ultimi sprazzi di luce filtravano attraverso le fronde degli alberi, proiettando figure sinistre sull’erba scura. Il cielo violaceo era carico di nubi. In lontananza, su una delle torri della fortezza di Idara, sventolava una bandiera rossa. Ma in quel momento Izar era troppo occupato per badarvi.
Stava osservando da un po’ Athala, alle prese con due pietre. La ragazza tentava di accendere un fuoco rudimentale con cui scaldarsi un po’. La grotta nella quale sostavano era gelida, e la notte sempre più imminente non portava che altro freddo.
«Maledizione!», sbottò Athala. Sfregando le pietre, si era colpita la mano.
Izar, che stava immobile in piedi, si avvicinò alla ragazza. Non si fermò ad assisterla, non sarebbe stato di alcun aiuto. Le passò accanto e prese da terra il pugnale.
«Vado…», disse, interrompendosi. Athala non badava a lui. «Vado.»
Uscì dalla grotta. Il buio era calato. Distinse a fatica un sentiero stretto, costeggiato da un rivoletto d’acqua quasi asciutto. S’incammino seguendo quella stradina che si addentrava nella foresta.
Gli alberi sempre più fitti non lasciavano filtrare neanche uno spiraglio di luce.
“È troppo buio”, pensò.
“È troppo buio.”
 
 
Procedeva alla cieca da un po’, quando scorse in lontananza un’oasi di quiete debolmente illuminata. Affrettò il passo lungo il sentiero e giunse a un laghetto. Piccola distesa di acqua limpida, rischiarata dalla luna che si rifletteva maestosa sull’acqua. La vegetazione si era diradata, e il cielo mostrava le sue stelle.
Si avvicinò allo specchio d’acqua. S’inginocchiò sull’erba, ammirando il suo riflesso scuro nell’acqua. Non ricordava di essere così magro; la fame iniziava a far sentire i propri effetti.
Immerse la testa nel laghetto gelido e rimase sott’acqua per qualche secondo.
I capelli bagnati gli si appiccicarono al volto, lasciando cadere fra gli steli d’erba minuscole goccioline d’acqua.
Prese il pugnale, abbandonato accanto a lui, e con un movimento secco tagliò una ciocca di capelli. La lasciò cadere sull’acqua. Continuò a tagliare finché i capelli non furono abbastanza corti da non ricadere sugli occhi. Con non poche fatiche riuscì a togliere anche la barba. La lama guizzava veloce sul volto scarno, e la superficie del laghetto si riempiva di riccioli scuri.
Terminato il lavoro, si alzò velocemente. La testa prese a girare. Un velo scuro gli coprì gli occhi facendolo barcollare. Temette per un attimo di cadere nel lago, ma riacquistò lucidità. “Devo mangiare”, pensò.
Sapeva che avrebbe dovuto aspettare ancora molto prima di poterlo fare.
Ripercorse il sentiero per tornare alla grotta, fermandosi di tanto in tanto a raccogliere alcune more e altre bacche. Avevano un buon odore.
Camminò immerso nell’oscurità finché non giunse dinanzi alla grotta, ora illuminata, ed entrò. Athala era riuscita ad accendere il fuoco.
Lasciò il pugnale a terra vicino alla mazza di legno, e depositò le bacche davanti alla ragazza.
«Grazie», disse lei.
Izar si sedette vicino al fuoco. Osservava le fiamme rincorrersi nei loro giochi luminosi, mentre creavano bizzarri disegni di luce. Quando il giallo intenso acquistava gradazioni rossastre, aggiungeva un rametto e soffiava per ravvivare la fiamma.
Rimase incantato per molto tempo, in assoluto silenzio. Né lui né Athala proferirono più parola.
Ma dentro, dentro erano corrosi dai pensieri. Izar ripensava di continuo alle catene, alla sensazione del ferro gelido sul collo, sui polsi. Ripensava al freddo della cella, mentre si scaldava col fuoco.
Tentò più volte di indovinare a cosa la ragazza stesse pensando, ma i suoi occhi erano imperscrutabili e un’aura d’impenetrabilità ornava la sua figura illuminata dalle fiamme.
“Grazie.”
“E Scusa.”
 
 
Due ragazzini giocavano in una grotta. Una bambina dai capelli lunghi, un bambino dagli occhi neri. Ridevano beati, dimentichi del resto del mondo.
«Vieni!», gridò il bambino, correndo verso l’interno della grotta. La bambina lo seguì. Gli afferrò la mano, la strinse forte. «Non lasciarmi.», sussurrò.
Camminarono a lungo nel buio.
Due uomini uscirono da una grotta, mano nella mano. Una donna dai capelli lunghi, un uomo dagli occhi scuri. Stavano l’una di fronte all’altro.
«Fallo», disse la donna. I loro sguardi s’incrociarono, e l’uomo le strinse la mano. Una sensazione di benessere pervase il suo corpo magro, che stava iniziando a tramutarsi. Le dita si allungarono, divenendo scheletriche. Le braccia ridotte all’osso, le costole sporgenti. Il viso s’incavò, diventando nero. Tutto il corpo era nero, e in quel nero brillavano due pozzi scuri. I suoi occhi, i suoi occhi erano rimasti gli stessi.
Un alone di oscurità avvolse l’uomo, e poi la donna. Lei iniziò a sentirsi debole, divenne pallida. Dopo poco si accasciò a terra esanime.
L’uomo nero, lentamente, stava riacquistando il suo aspetto originario. Teneva ancora stretta la mano morta della donna. Se ne accorse solo quando la sua mente tornò lucida. Gridò. Gridò con quando fiato aveva in corpo.
«Athala!», gridava.
«Athala!», gridò. O così gli parve. Si svegliò di soprassalto, col fiato corto. Immerso nell’oscurità, Izar vedeva solo scintille rosse tra le braci del fuoco ormai morto.
Si mosse alla cieca nel buio della grotta, finché non sentì qualcosa. Il braccio di Athala. Cercò il polso. Sentendo il cuore della ragazza battere ritmicamente, si quietò. Dormiva ancora.
“È viva”.
Tornò al suo posto, vicino alle braci spente. Soffiò, sollevando una spolverata di cenere. Il fuoco era spento, non sarebbe più riuscito ad accenderlo. Si rannicchiò su se stesso in cerca di un briciolo di calore. Faceva freddo.
Gli sembrò nuovamente di stare nella cella, nelle prigioni della fortezza, sul pavimento gelido e sporco. Poteva sentire gli altri detenuti urlare, scuotere le sbarre, graffiare i muri.
Scacciò via quei pensieri e chiuse gli occhi, sperando di riuscire a riaddormentarsi. Già sapeva che non sarebbe stato semplice. Nulla, da quel momento in poi, sarebbe stato semplice.
“Devo solo dormire.”

 

 
Izar mi raccontò di lui, ma non volle dirmi cosa lesse in quel libro. Forse, più semplicemente, non ne ebbe il tempo. Ritornai a Edern, in seguito, e recuperai il manoscritto. Lessi finché le pagine non s’interruppero — ancora una volta c’entrava Izar — e così capii. Gli esperimenti del Re, di cui tanto si è parlato e si parla tuttora, non erano solo storie. Voleva creare un esercito superiore con la magia. Ma quale uomo di senno riporrebbe le sue speranze nella magia? Quale uomo farebbe mai affidamento su pietre nere di un lago incantato? Il Re lo fece. E utilizzò dei ragazzi per i suoi esperimenti. Ma si accorse, dopo tempo, che i risultati non erano quelli sperati. Le morti aumentarono a dismisura in tutti i paesi del reame, e allora capì di avere sbagliato. Quei ragazzi, da prototipi di combattenti erano diventati tristi mietitori.
Per questo il Re decise di catturarli. E ucciderli.
- Dai diari della siyhara Athala
 
 
Giunsero nel borgo di Edern dopo due giorni di cammino. Athala si era nutrita di ciò che il bosco aveva da offrire, ma ancora sentiva il peso della fame. Izar, invece, era sempre più debole. Il suo corpo risentiva del digiuno ogni ora, ogni minuto di più. Camminava sui sassi a piedi scalzi, ma trovava sollievo nella speranza che il dolore servisse a tenerlo sveglio e cosciente.
Edern era un piccolo antico borgo circondato dai boschi. Le case di pietra risentivano degli effetti del tempo e tuttavia lottavano per rimanere in piedi. Izar conosceva alla perfezione ogni via, ogni minuscolo anfratto del paesino, e si muoveva con dimestichezza evitando il più possibile di mettersi in mostra.
Appena erano arrivati, si era accorto di una strana luce negli occhi di Athala. Ci aveva letto malinconia. Non aveva domandato nulla.
Alcuni bambini giocavano vicino ai muretti, lanciandosi palle di stoffa o rincorrendosi per le vie. Più di un ragazzino si era fermato a guardare Izar che, vestito di stracci, camminava al fianco di una ragazza composta. E più di un ragazzino venne da lui allontanato. Desiderava rimanere solo e impedire ai ricordi dei tempi passati di riaffiorare. E più di tutto, voleva bloccare sul nascere le immagini legate al sogno di qualche notte prima, ancora stampate a fuoco nella sua mente.
“Non hanno preoccupazioni, loro.”
Camminavano da un po’ senza meta, quando Athala si decise a porre la domanda che Izar si aspettava da quando erano fuggiti.
«Perché la Kishnà? Che hai fatto, Izar?», chiese.
Fece per rispondere, ma una voce lo distrasse.
«Ehi tu, straccione!» Izar si voltò. Un vecchio stava ritto davanti alla porta di una bottega. «Io ti conosco! Tu sei quel bastardo che mi ha rubato i libri!»
Realizzò tutto in pochi attimi. «Scappa», disse alla compagna. Iniziarono a correre
«Dove credi di andare? Rivoglio i miei libri!»
La voce del vecchio giungeva ovattata alle orecchie del ragazzo che correva sui sassi, dietro ad Athala. Gli dolevano le gambe, i piedi. Si sentì colpire a una spalla, e una fitta di dolore s’irradiò lungo il braccio destro. Non si voltò per vedere cosa lo avesse colpito. La vista offuscata; davanti a lui scorgeva solo la figura sfocata della ragazza.
Non seppe dire per quanto aveva corso.
Giunto a un muretto piuttosto alto si lasciò cadere a terra esausto, tra la polvere. Athala si avvicinò e si sedette, col fiatone, accanto a lui.
«Ti ha colpito?», chiese. Izar non rispose. Osservava il cielo violaceo e il sole che stava scomparendo. Con una mano si teneva la spalla. Bruciava.
La ragazza gli tolse la mano dal braccio e scostò la camicia. Un segno rosso spiccava sulla spalla, ma non fu quello a stupirla. Era rimasta rapita da un ovale nerastro, marchiato sulla pelle del ragazzo. Sfiorò quel segno con le dita.
Quando Izar se ne accorse, Athala aveva già visto. Fece per allontanarla, ma si rese conto che sarebbe stato solo un gesto inutile. E un altro gesto inutile era nascondersi ancora.
«Credo di doverti delle spiegazioni», sussurrò. «Ma ne so meno di quanto tu creda.»
«Ti ascolto.»
“È il momento.”
 
 
Izar le raccontò ciò che si sentì in dovere di raccontare. Tra le tante cose, ciò escludeva il sogno di qualche notte prima. Non entrò nei dettagli. Si limitò a riferirle che, all’età di sedici anni, era stato portato via da casa. Era insieme ad altri ragazzi, anche più piccoli. Su di loro si erano svolti i cosiddetti “esperimenti”, pagine buie della storia di Idara che si era tentato di nascondere.
Le raccontò di come, una volta rimandato a casa, non era più riuscito a mangiare. Disse anche di quella volta che, afflitto dalla fame, aveva involontariamente ucciso un uomo. Non se n’era accorto finché non era tornato lucido, e ancora stringeva la mano cadaverica. A quella morte ne erano seguite altre, molte altre. Tentava di trattenersi il più possibile fino a che, accecato dalla fame e dalla debolezza, non si lasciava andare.
Poi, iniziarono a dargli la caccia.
A tradirlo fu la sua famiglia.
«Mi hanno catturato una notte, mentre dormivo», disse. «Mi hanno tenuto in quella cella aspettando che raggiungessi il culmine della debolezza per giustiziarmi.»
Athala lo osservava muta, e Izar vide la paura nei suoi occhi. Ci lesse il timore di aver liberato un assassino.
«Non voglio farti del male», aggiunse.
«Hai detto di conoscermi», disse la ragazza. «Io non ti ho mai visto, eppure… i tuoi occhi, Izar. Ho l’impressione che mi sfugga qualcosa.»
Non rispose. Rimasero in silenzio per un po’, finché Athala non tentò con un’altra domanda.
«Perché siamo venuti qui a Edern?»
Ancora Izar non rispose. Muto, osservava il cielo diventare scuro, e la luna e le stelle che brillavano. Non era ancora notte, ma il freddo iniziava a farsi sentire. Le voci lontane dei bambini si spegnevano una dopo l’altra, finché sul borgo non calò il silenzio.
La strada era deserta, o così sembrava. Izar udì dei passi avvicinarsi. Erano leggeri, aggraziati: i passi di una fanciulla. La vide passare, ignara della loro presenza. Illuminata dalla luna pallida, ritornava forse a casa.
“Devo farlo.”, pensò Izar. “O di questo passo morirò.”
Si alzò. Lanciò uno sguardo triste ad Athala, che ancora sedeva sui sassi. La ragazza gli passò la mazza di legno. Non disse niente, non ce n’era bisogno.
Approfittando del buio, Izar seguì la giovane che camminava lenta lungo la strada. Povera fanciulla che non temeva la notte.
“Perdonami.”
 
 
Le aveva impedito di gridare stordendola. Non voleva che soffrisse, non più del necessario.
Quella fanciulla non avrebbe più rivisto la sua famiglia. Non avrebbe cenato al caldo coi suoi cari, non avrebbe dato loro la buonanotte
Mentre s’impossessava del suo spirito, aveva sentito qualcosa. Insieme alla sua aura ne aveva percepita un’altra, più debole. Era stata la prima a morire.
Capì quando ritornò lucido, notando il leggero rigonfiamento sotto la veste della ragazza. Una lacrima cadde nella polvere, vicino al giovane corpo morto.
«Scusami», sussurrò.
Rimase qualche istante a guardare il cielo. La luna, beffarda, sembrava sorridergli. ‘So cos’hai fatto’, diceva, ‘ti ho visto’. Nella sua bellezza, si prendeva gioco di lui.
Tornò sui suoi passi.
Athala era ancora seduta a terra, la schiena contro il muretto. Si avvicinò a lei. I loro sguardi s’incrociarono, e ancora nessuno dei due osò parlare.
S’incamminarono il silenzio lungo le vie del borgo.
«Di qua», disse a un certo punto Izar. «Devo andare in un posto.»
“Sì, devo andare in un posto.”
“Devo farla finita.”
 
 
Si erano appostati fuori dalla casa del vecchio che aveva colpito Izar. Erano rimasti in silenzio, al freddo, finché i rumori all’interno di quelle quattro mura non erano cessati. Le voci si erano spente, ed era giunto il momento di agire.
Erano entrati da una finestra della casa, e si erano poi spostati nella bottega. Al secondo piano si trovava una biblioteca di modeste dimensioni che, tuttavia, era piuttosto fornita.
Non appena vide gli scaffali ricolmi di libri, Izar si lasciò andare a un sospiro di sollievo. Era tutto come lo ricordava. Si fece dare il pugnale da Athala e lo posò su un tavolo al centro della stanza, quindi si mise a cercare. Uno scaffale, poi un altro. Libri polverosi di ogni forma e dimensione erano riposti con ordine sui ripiani. Libri di ogni genere, eccetto quello che interessava a Izar. Eppure c’era, una volta! Doveva esserci!
L’ultima volta che si era trovato in quel posto era giorno, e il vecchio proprietario non lo voleva ancora morto. Ora solo una lanterna illuminava gli scaffali bui, e la polvere si alzava da ogni libro che toccava.
“Eccolo!”, pensò alla vista di un manoscritto dalla copertina nera. Si lasciò sfuggire un sorriso. Veloce, prese il libro. Si sedette al tavolo, la lanterna in mano, il pugnale accanto a lui.
Sfogliò le pagine con foga, senza preoccuparsi di poterle rovinare. Trovò quello che cercava e iniziò a leggere. Gli occhi scorrevano veloci sulle parole. La scritta ‘Esperimenti, Spettri’ era impressa in cima alla pagina. Lesse due, tre pagine. La quarta la strappò insieme alla quinta.
Concentrato, non si accorse che qualcuno era entrato nella stanza.
«Izar», mormorò Athala. Per tutto il tempo era rimasta in disparte, e ora si avvicinava a lui con la mazza in pugno. Il ragazzo alzò lo sguardo dal libro e brandì il pugnale.
Si avvicinò alla porta, dove una figura sostava nell’ombra. Lo illuminò con la lanterna. Ne emerse un volto pallido dagli occhi chiari. Sorrideva.
«Sta’ indietro», intimò Izar, puntandogli contro il pugnale. Non sarebbe mai voluto arrivare al punto di uccidere un innocente. Sempre che non si fosse rivelata l’unica soluzione possibile. E poi, gli occhi di quell’uomo gli erano familiari.
L’uomo si avvicinò a lui. «Io ti conosco», disse. «Sei quello che ha rubato i libri a mio padre.»
Si avvicinò di più, e Izar deglutì. L’uomo tese il braccio destro e sollevò la manica. Sull’avambraccio spiccava, nero, un ovale.
“È come me!”, pensò Izar. Abbassò il pugnale.
«Ti hanno catturato?», chiese l’uomo. Izar, in risposta, annuì.
«E sei fuggito. Abbiamo delle prigioni sicure, vedo.»
«È stata lei», mormorò, illuminando Athala con la lanterna. «Mi ha aiutato lei a fuggire.»
Izar rimase in silenzio, mentre l’uomo misterioso si avvicinava ad Athala. Non fece domande, sebbene dentro morisse dalla curiosità.
«Conosco anche te», disse l’uomo rivolto alla ragazza. «Sei la figlia dei nostri vicini, sei…»
«Non è vero», lo interruppe secca Athala. Strinse la presa sulla mazza. «Non sono di qui.»
«Come preferisci.» Si avvicinò al tavolo, sotto lo sguardo di Izar, e diede una rapida occhiata al manoscritto. «Non c’è niente di utile su quel libro.»
«Non vuoi porre fine a questa sofferenza?», chiese Izar. «Ogni volta che… ogni volta mi sento sempre peggio. Siamo dei mostri, io, tu, gli altri.»
«E credi che quel libro possa aiutarti.» Un’affermazione.
«Lo voglio credere.» Izar lanciò un’occhiata ad Athala, che capì. Ancora una volta, non c’era stato bisogno di parole. Si diressero verso la porta.
“Andiamo”
 
 
Erano già lontani dalla casa quando un’illuminazione colse Izar. Mentre stavano uscendo dalla biblioteca, l’uomo misterioso aveva parlato. ‘Io sono Ylher’, aveva detto.
Quel nome, quegli occhi! Nella mente ritornarono, vividi, i ricordi degli esperimenti. Ricordò di come quel ragazzo, di qualche anno più grande, lo avesse sempre rassicurato. I suoi occhi di ghiaccio erano in grado di placarlo, di dare conforto al suo animo inquieto. Era come un fratello e Izar non era stato in grado di riconoscerlo.
«Conoscevo quell’uomo», disse all’improvviso. «Quando mi ha detto il suo nome, ho ricordato.»
Athala fissava il cielo scuro. Con uno sguardo carico di malinconia osservava la luna. «Parlava con me, Izar», rispose dopo un po’.
Ma il ragazzo non la sentì. O, forse, semplicemente non l’ascoltò. Da Ylher, i suoi pensieri erano passati ora al manoscritto. Aveva strappato quelle due pagine e, senza leggerle, le aveva nascoste in una manica. Parlavano del lago incantato e delle pietre nere.
 Le tirò fuori, le appallottolò. Le gettò a terra, tra i sassi.
«Cos’è?», chiese Athala.
«Niente.»
Gli bastava sapere dove si trovava quel lago. Solo quello, gli bastava.
“Solo questo.”

 


 
È stato incosciente, da parte sua, gettare quelle pagine. Non le lesse neppure. Si fidava ciecamente di se stesso, e forse sarebbe stato meglio non farlo. Non sapeva a cosa stava andando incontro, non l’aveva mai saputo. E io, io come potevo immaginarlo? Come avrei potuto sapere? Avrei dovuto impormi, agire, fermarlo. Non feci nulla di tutto ciò. Mi limitai a seguirlo.
E i suoi occhi, alla fine, si spensero. C’è sempre stato qualcosa di oscuro dietro quelle iridi nere. Lo intuii dal primo istante i cui in nostri sguardi s’incrociarono. Tuttavia non riuscii a salvarlo.
È il mio unico rammarico.
- Dai diari della siyhara Athala
 
 
Erano tornati nel bosco. Di nuovo tra gli alberi, di nuovo tra i loro rami soffocanti.
Il sole, basso all’orizzonte, illuminava poco alla volta il cielo. L’alba riscaldava lentamente la foresta, immersa nel freddo che aveva portato la notte. Gocce di rugiada brillavano sulle foglie, riflettendo i colori dell’arcobaleno.
Izar e Athala camminavano tra gli alberi fitti, lungo uno stretto sentiero che avevano imboccato a fatica. Man mano che procedevano, la vegetazione si sfoltiva lasciando spazio all’erba soffice e bagnata. Immersi nella quiete non parlavano, sebbene le loro anime portassero un fardello da cui era difficile liberarsi.
«È la strada giusta?», domando Athala, rompendo il silenzio.
«Sì, dovremmo quasi essere arrivati.»
«Non mi hai detto dove stiamo andando.»
Izar non le rispose. Non aveva dato alcuna indicazione alla compagna prima di partire, perciò era lecito che lo domandasse. Ma lui non voleva risponderle. Non credeva che preoccuparla prima del necessario fosse la scelta migliore. Mentre camminava, si domandava perché la ragazza continuasse a seguirlo. Certo, le aveva parlato del suo passato, ma non era stato esaustivo. E del viaggio che stavano compiendo non l’aveva informata. Eppure non si era tirata indietro; dopotutto, si fidava ancora di lui. Forse, era destino.
“Grazie, Athala.”
 
 
Izar si fermò, e con lui anche Athala, qualche passo più indietro. Avevano abbandonato il sentiero da un po’, ed erano giunti a una radura immensa. In quel luogo, l’erba cresceva senza incontrare ostacoli. Non c’erano alberi.
«Eppure dovrebbe essere qui», disse Izar rivolto a se stesso.
«Cosa? Perché siamo qui?» Athala lo raggiunse. Lo guardò dritto negli occhi. «Voglio una spiegazione. Ti ho seguito senza fare domande, dimmi almeno…»
«Un lago», la interruppe. «Un lago, dovrebbe esserci un lago! Dannazione!»
«Calmati.» Un ordine. La voce inflessibile.
“Scusa.”, pensò Izar. Non era riuscito a dar voce al suo pensiero. Athala, al suo fianco, lo osservava con occhi tristi. Non avrebbe mai dovuto coinvolgerla in quell’assurda impresa. Cosa sperava mai di fare? Aveva ragione Ylher, quel libro non l’avrebbe portato da nessuna parte. Ed era stato così sciocco! Gettare via le pagine, che gesto da incosciente!
Mentre la rabbia e la disperazione crescevano, iniziò ad avvertire freddo ai piedi. La sensazione si trasformò in qualcosa di diverso: sentiva bagnato. “È la rugiada.”
Si ridestò dai propri pensieri quando avvertì un tocco leggero sulla spalla. «Guarda», gli disse Athala.
Abbassò lo sguardo. L’erba era sparita. Al suo posto giaceva, immobile, una distesa di sassi scuri e freddi. Tra di essi scorreva, quasi impercettibile, dell’acqua. Improvvisamente capì.
«Allontanati», disse alla ragazza, che però non accennava a muoversi.
«Per favore», aggiunse.
La guardò negli occhi per l’ultima volta. Aveva paura.
«Sta’ attento…», sussurrò lei, e corse via.
Izar osservava il lago materializzarsi davanti a lui. Sull’acqua limpida si rifletteva il sole, creando infiniti giochi di luce. Lentamente, iniziarono ad affiorare dall’acqua degli alberi. Erano scuri, con pochi rami, quasi avvizziti. Non avevano una foglia.
Era immerso nell’acqua fino alle ginocchia, eppure non sentiva più il freddo. Non sentiva il bagnato, non sentiva l’acqua. Era rapito da quello spettacolo, dal lago che riluceva, dagli alberi che all’inizio evanescenti diventavano neri.
Un riflesso luminoso lo colpì in pieno viso, accecandolo per qualche secondo. Quando riacquistò la vista, vide le sue mani diventare scure. Le dita si stavano smagrendo, le unghie erano lunghe e nere.
Avvertì una fitta al cuore. Una morsa tenace che non lo abbandonava.
Sorrise per l’ultima volta, prima che il buio gli invadesse la mente.
“Finalmente.”
 
 
Athala era al sicuro tra la vegetazione. Lontana dal lago, osservava Izar che si stava trasformando. Vide le sue braccia allungarsi e smagrirsi e la schiena incurvarsi. Da quella distanza non riusciva a distinguere bene cosa stesse accadendo. Solo, riconosceva il suo compagno che stava mutando forma, mentre un alone scuro lo circondava.
Quando la foschia attorno a lui scomparve, non era rimasto nulla. Nulla se non un albero nero e avvizzito, con pochi rami e senza foglie.
Athala era rimasta incantata. Potevano essere passati secondi così come ore. La paura martellava nel petto, e il cuore sembrava voler scoppiare.
Perse un battito, solo un battito.
Un pensiero irrazionale, un ricordo.
Tutto all’improvviso si delineò nella sua mente, fino a formare una sequenza logica di immagini e avvenimenti. Ricordò. Ricordò ogni cosa.
Ricordò Ylher, il suo vicino di casa. Ricordò Edern. Ricordò il giorno che erano scomparsi i suoi genitori e l’avevano portata via. Tutti gli orfani venivano portati via. E ricordò Izar, il bambino con gli occhi scuri, il suo compagno di giochi d’infanzia, il suo migliore amico.
«Izar…», mormorò. «Izar!»
Iniziò a correre verso il lago, verso l’albero, verso Izar. Correva con la mente offuscata dai ricordi, con la vista impedita e gli occhi ciechi. Correva trattenendo il fiato, con lo stomaco in subbuglio.
Si fermò. Non aveva più senso andare avanti. Il lago era svanito, gli alberi erano svaniti, Izar era svanito. Tutto ciò che le restava di lui era un ricordo, misto alla consapevolezza di non averlo potuto salvare. Ma, in fondo, voleva davvero essere salvato?
Il sole brillava. L’aria era limpida e fresca.
Una lacrima rigò la guancia di una giovane donna in piedi nella radura. Un’unica lacrima. Volteggiò nell’aria, riflettendo la luce. Cadde tra l’erba, morendo così com’era nata.
Un pensiero le sfiorò la mente, per poi perdersi tra il vento.
“Ci rivedremo.”
“Aspetterò.”


 

 

Lascio di seguito un piccolo "vocabolario", nel caso qualcuno di voi voglia capire meglio alcuni termini. 
 
Neyashne: nome attribuito ad alcune donne che lavoravano nella fortezza di Idara. Erano incaricate di provvedere al nutrimento dei detenuti.
Siyhara: fuggitiva, ricercata per aver compiuto crimini contro il regno di Idara. (Da Siyhar.)
Kishnà: lett. “sfilata della morte”. Durante la Kishnà, il detenuto condannato a morte veniva fatto sfilare pubblicamente dinnanzi al re e alle cariche più importanti. Al termine della sfilata, veniva praticata la ghigliottina.
Bandiera rossa: era esposta in caso di allerta.


La storia partecipa al contest "La caduta dell'inverno boreale, ed altre storie" indetto da Deidaradanna93.
 
 
 
   
 
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