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Autore: Puerto Rican Jane    04/01/2015    4 recensioni
Una serie di omicidi fanno supporre l'arrivo di un seguace di Jack lo Squartatore. La pista sanguinosa che conduce Sherlock e John alla verità li porterà a dover fronteggiare un nemico che forse non possono gestire, forse più grande di loro.
Iniziata come one shot, è diventata una raccolta di casi del duo.
Genere: Azione, Suspence, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson, Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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OMICIDIO LETTERARIO
 
“Sembra che quella attuale sia la crisi economica più pesante dell’ultimo secolo. Non si parla solo di disoccupati, senza tetto, cassintegrati, precari, ma di veri e propri morti. Solo negli ultimi cinque giorni sono stati tre i casi di suicidio nella città di Londra (info a pag. 13). Il clima di malessere, l’aria tesa e pesante attorno a noi si fa ogni giorno più opprimente e non sono pochi quelli che decidono di mettere la parola fine alla propria vita. Molti la chiamano “la crisi omicida”. Ma come possiamo affermare che non ci sia nessuno dietro di essa? Come non rendersi conto che il vero omicida è il governo europeo che…”
 
Noioso. Decisamente noioso.
Sherlock richiuse con un gesto spazientito il quotidiano che John aveva appena portato al 221B di Baker Street. Ne aveva abbastanza di suicidi. Provava per essi una repulsione senza limite. Era una cosa che lui non avrebbe mai fatto.
«John, dovresti smetterla di comprare questo giornale. Decisamente troppo demagogico» sentenziò.
«Niente di interessante, allora? Speravo ci fosse qualche indagine in corso sulla quale avremmo potuto investigare».
«Ne ho letto le prime tre righe. E’ sufficiente».
John scosse la testa. Sempre il solito. Gli offrì una tazza di thè che aveva appena preparato e sprofondò nella sua poltrona con il computer sulle ginocchia, una tazza fumante nella mano. Sollevò di sottecchi gli occhi, mentre con le dita fingeva di battere i tasti del laptop, imitandone il rumore. Osservò  il suo compagno: non aveva niente che non andasse. Beveva il thè come sempre, risolveva eccellentemente enigmi come sempre, aveva il carattere lunatico come sempre. Ma era proprio questo il problema: come poteva essere quello “di sempre”? Non dopo quello che era successo tre settimane prima. John lo aveva osservato attentamente in quel periodo: Sherlock doveva aver racchiuso l’episodio del bunker (1) nella polverosa soffitta del suo palazzo mentale. Non ne parlava, non lo menzionava, quando John aveva provato ad accennarvi, con il solo intento di aiutarlo, lui aveva sbrigativamente evitato la domanda. Perché lo faceva? Perché si teneva dentro gelosamente una cosa di quel genere? John non aveva la presunzione di dire di conoscere tutto di Sherlock, sapeva che era un uomo che parlava di sé raramente, e che si fidava in modo ancor più restio, ma sperava che almeno per quella volta ne avrebbe parlato con lui, che, insomma, si poteva considerare il suo migliore amico; lo avrebbe aiutato, era quello che faceva sempre: lo aiutava. Ora che ci pensava non l’aveva nemmeno ringraziato… Non che se lo fosse aspettato, certo: Sherlock esprimeva la sua gratitudine in modi decisamente bizzarri.
«Ti sarei grato se finissi di spiarmi da dietro il computer, John Watson» disse  Sherlock con voce monotona, senza smettere di mescolare lo zucchero nella tazza.
John borbottò qualcosa che assomigliava a: «Dovranno canonizzarmi».
Il cellulare di Sherlock spezzò il silenzio che si era appena formato. Allungò pigramente la mano e rispose con un secco: «Sì?». L’unico che potesse chiamarlo, e avesse inoltre l’onore di ricevere una risposta, era Lestrade. Mycroft non usava mai le chiamate, a meno che non ne fosse costretto. John si congratulò con se stesso per quella deduzione che Sherlock avrebbe definito ridicola.
«…perché dovremmo venire, quando il fatto è così chiaro? Non ho intenzione di… Oh! Potrebbe essere quasi interessante. Dacci mezz’ora». Sherlock riattaccò in fretta, e si alzò avvicinandosi a John e chiudendogli frettolosamente lo schermo del computer.
«Abbiamo quello che sembra un caso. Dobbiamo raggiungere Lestrade in Dean Street. Preparati» disse, dirigendosi verso l’uscio. John, cercando di ignorare i suoi modi e gesti bruschi, si separò dal tepore della sua amata poltrona.
 
Nella secondaria Dean Street, un condominio si levava solitario a guardia delle vie sottostanti come un silente guardiano. Ma non era riuscito a proteggere proprio uno dei suoi inquilini.
La scena del crimine si trovava al quarto piano dell’edificio. Era una normalissima stanza anonima, quella di un qualsiasi borghese medio londinese, un posto che sapeva di casa solo per chi vi abitava, un posto tranquillo. L’unica nota stonata era il corpo appeso al soffitto.
Il cadavere di un uomo sui trent’anni girava lentamente, appeso per il collo al lampadario, impiccato in mezzo al salotto, in una grottesca imitazione di un uomo che si guardi attorno curioso.
John e Sherlock si fecero largo tra gli agenti, scortati da Lestrade che intanto aveva iniziato a spiegare: «Si chiama Eric Williams. L’ha trovato il suo avvocato, che era passato per chiarire alcune questioni legali. Sembra che sia stato appena assolto da una qualche accusa, non ho ancora i dettagli».
«I tuoi uomini non hanno spostato qualcosa? Ne sei certo?» chiese Sherlock con una leggera nota aggressiva.
«No, penso di no. Nonostante tu non ci creda, i miei agenti possono anche essere professionali».
«Mi permetto di dissentire».
Sherlock cominciò a camminare attorno al corpo, gli occhi fissi su di esso. John fece per seguirlo, ma quasi inciampò su un grosso libro che giaceva a terra: “I fratelli Karamazov”. Era sicuro di non averlo mai letto. Lo appoggiò su un mobile sul quale troneggiava un grande televisore e raggiunse Sherlock.
«Sai dirmi, John, qual è la cosa sbagliata in questo suicidio?» chiese Sherlock con aria assorta.
«Io… non saprei. Forse non avrebbe dovuto suicidarsi perché era appena stato assolto dal tribunale» tentò John.
«Oh, no John. Questo è appena una debole eco della vera motivazione. Dimmi John, se volessi impiccarti, cosa faresti?»
«Come, scusa?» chiese John incredulo.
«Descrivimi le azioni che faresti se volessi impiccarti. Momento per momento» rispose calmo Sherlock.
«Ecco… prenderei una corda robusta, la assicurerei a un gancio o a qualcosa di simile. Poi… poi legherei l’altro capo attorno al mio collo e… scusa, ma cosa c’entra? » si interruppe John, non riuscendo a capire il punto.
«E’ fondamentale, John, è il primo passo per capire. Ma hai saltato la parte principale, il nocciolo. Prima di legarti il cappio al collo dovresti salire su una sedia e, una volta fatto, quale sarebbe la cosa indispensabile che dovresti fare? Dovresti calciarla via. Altrimenti sarebbe inutile. Ora dimmi, John, vedi la sedia in questione?»
John si guardò intorno. Poco lontano da dove si trovavano c’era una sedia di legno marrone scuro. Ma allora…
«Se si fosse realmente suicidato, avrebbe calciato la sedia. Se l’avesse calciata, ora si troverebbe a terra, e una distanza sicuramente minore. E dato che Lestrade mi ha assicurato che nessuno ha spostato niente, ecco la risposta alla mia prima domanda: la cosa sbagliata in questo suicidio è che è un omicidio» disse Sherlock con un velo di orgoglio. «Avrò bisogno di esaminare il corpo, c’è ancora un particolare che non quadra. Quando potrò analizzarlo al Bart’s?»
 
Il corpo di Eric Williams era adagiato su una barella bianca. Sherlock vi girava attorno indaffarato con la lente in mano. Si avvicinò alla sua bocca, così tanto che il naso era quasi a contatto con le labbra del morto, e inspirò rumorosamente. Si lasciò cadere su una sedia e chiuse gli occhi per un paio di minuti. Mentre era nel suo palazzo mentale, John osservò Molly affaccendarsi attorno al corpo di un uomo di quarant’anni che, a quanto pareva, si era sparato alla testa.
«Benzodiazepine» mormorò a un tratto Sherlock.
«Come dici?» chiese John, non sicuro su quello che il detective avesse appena detto.
«Avrò bisogno del tossicologico, Molly. Benzodiazepine, John. Sei un dottore, dovresti saperlo»
«Sonnifero?»
«Esatto, ma non so ancora quale esattamente. Per questo ho bisogno del tossicologico»
Molly tornò dopo poco tempo con due fogli di carta stampata in mano, e ne tese uno a Sherlock.
«Come pensavo: Lexotan. Quindi doveva conoscere il suo assassino. E’ evidente che gli è stato somministrato assieme ad un alcolico dopo averlo fatto ubriacare, cosa che si può dedurre sia dal suo alito e sia dal tossicologico. La vittima non era un bevitore inesperto, lo si può capire dal fatto che era affetto l’epatite cronico alcolica. Quindi quello che è l’assassino doveva conoscere questa sua tendenza all’alcool, deve averlo invitato a bere qualcosa e ne ha approfittato per somministrargli il Lexotan. Ergo, conosceva il suo assassino. Non credo sia stato un omicidio passionale, non era sposato né fidanzato, né aveva relazioni di alcun genere: guardalo, era povero, trasandato, sciatto, non aveva cura di sé, non cercava di piacere agli altri. Ma questo ci da un indizio: forse è stato un omicidio per denaro, forse un debito…L’assassino deve essere un uomo molto furbo e forte: ha tentato quasi brillantemente di far passare il suo per un suicidio, e ha avuto la forza fisica di sollevarlo e appenderlo alla corda, ma nonostante questo tendo ad escludere il fatto che sia un omicida navigato, ha commesso il fatale errore di riposizionare la sedia al suo posto in un attimo di ipercorrettismo: un omicida seriale non avrebbe mai commesso un errore così grossolano.»
«Sherlock, guarda un po’ qui» John interruppe il flusso di pensieri del detective, osservando un altro foglio che reggeva in mano. «Questo è il tossicologico dell’uomo che stava esaminando Molly, quello che si è sparato. Anche lui aveva assunto Lexotan. E’ morto il giorno prima della nostra vittima. Forse è solo una coincidenza, ma…»
«Non è assolutamente una coincidenza. Fa’ vedere.» disse Sherlock porgendo la mano per esaminare il foglio. Il detective prese a bisbigliare tra sé e sé, e si accostò al tavolo poco distante sul quale era adagiato quel secondo cadavere. Cominciò a girargli attorno, esaminando accuratamente la ferita alla testa procurata dallo sparo. Quando sollevò la testa era raggiante.
«John, vieni a vedere.» disse con la voce che vibrava per l’eccitazione.
Quando John lo raggiunse, gli indicò il lato della testa devastato dal proiettile. «Osserva bene questa ferita John. Ti sembra che la pistola possa essere stata impugnata da quest’uomo?»
John osservò attentamente il buco procurato dal proiettile: c’era in effetti qualcosa che non andava…
«No, non può decisamente essersi sparato. La traiettoria sarebbe diversa. Il colpo proviene da qualcun altro che reggeva la pistola in piedi su di lui.» concluse John.
«Esattamente, John. Stai facendo grandi progressi. Tenendo conto dell’altezza dell’uomo, il colpo è stato sparato da qualcuno che era lì al suo fianco, che lo sovrastava. Probabilmente era in stato di incoscienza quando è successo. La scientifica non si è premurata di verificare questo piccolo ma fondamentale dettaglio, affrettandosi ad archiviare il caso come un suicidio. Ma ora abbiamo le prove che questo è un omicidio, e il killer deve essere lo stesso di Eric Williams: il Lexotan è stato ingerito volontariamente, quindi si trovava in un drink, quindi, di nuovo, la vittima conosceva il suo assassino. Dobbiamo fare dei controlli incrociati per vedere se questi due uomini avevano conoscenze in comune.»
 
I controlli incrociati non diedero nessun risultato. Sherlock era frustrato: chi poteva volere quei due uomini morti, e per di più uccisi in un modo così particolare? Debiti? No, la seconda vittima, Arthur Federici, era un avvocato ricco ed influente, assolutamente senza debiti. Cosa si poteva volere da un povero e un ricco? Vecchie scaramucce? No, nessuna conoscenza comune, o almeno non ancora nota. Erano stati aggirati con maestria, con cautela, erano stati scelti e cercati espressamente, avevano ricevuto un trattamento preferenziale, ma allo stesso tempo l’assassino voleva che fossero umiliati con l’onta del suicidio, voleva che tutti credessero che fossero dei deboli. Chi poteva volerlo? Chi poteva avere un gusto così sottile e preciso del macabro?
«Sherlock, Molly ha appena mandato un messaggio, sembra piuttosto interessante»
La voce di John lo riscosse dai suoi pensieri: reggeva in mano il suo cellulare e lesse l’sms ad alta voce: «“Il tossicologico di altri due recenti casi di suicidio ha mostrato che anche queste vittime avevano ingerito Lexotan. Se ti sembra importante ti aspetto al Bart’s. MH”. Penso che dovremmo andare subito a dare un’occhiata, che ne dici?»
«Come fai a sapere la password del mio cellulare?» chiese invece Sherlock, senza aver apparentemente prestato attenzione alle sue parole.
«Ma… hai sentito quello che ho appena detto? Potrebbe essere la svolta per il caso! Comunque non serve essere un genio per sbirciare dietro la tua spalla e vedere mentre digiti “asdfghjk”».
 
Paul Kennedy era un parroco di provincia. Jane Bones un’importante cacciatrice di teste. Il primo si era gettato da una torre nel centro di Londra, la seconda sotto un treno a King’s Cross. Il primo conduceva una vita modesta, la seconda era immersa nella mondanità e nella sfrenatezza. Non si conoscevano, non sapevano dell’esistenza l’uno dell’altra, né conoscevano Eric Williams o Arthur Federici. Ciò che queste quattro vittime avevano in comune era l’aver ingerito senza saperlo il Lexotan e l’essere poi state uccise simulando un loro suicidio. Chi c’era dietro la maschera?
Esaminando le foto dei luoghi di ritrovamento dei due cadaveri, Sherlock e John erano giunti alla conclusione  che sia il parroco sia la cacciatrice di teste erano stati gettati contro la loro volontà da una terza persona dall’alto di una torre e sulle rotaie, poco prima dell’arrivo del treno al binario 9. Avevano le vittime. Avevano le prove. Non avevano il movente ma, soprattutto, non avevano l’assassino.
Il corpo ridotto a pezzi del parroco era una presenza inquietante al centro della stanza, fiancheggiato dalla giovane dal corpo devastato dall’impatto con il treno. Sherlock, senza premurarsi di chiedere niente a nessuno, preso dall’irritazione di non sapere e non capire, prese a perquisire il cadavere del sacerdote, apparentemente immune alla puzza di decomposizione.
«Questo è interessante…» disse estraendo da una tasca interna quello che sembrava un vecchio libro sgualcito e rovinato dall’acqua. «Cosa ci faceva un parroco con un libro di Victor Hugo pochi attimi prima di morire?». Nonostante fosse sporco di sangue rappreso, era ancora visibile il titolo sulla copertina “Notre Dames de Paris”.
«Forse aveva semplicemente la passione per la letteratura francese?» ipotizzò John.
«Sono restìo a crederci. Guardalo, era anziano, un parroco vecchio stampo, con una mentalità chiusa, probabilmente anche un po’ ignorante: come potrebbe mai apprezzare un libro ottocentesco che parla di un gobbo e di amori illeciti?»
«Hai letto “Notre Dames de Paris”? No, fammi indovinare, hai visto il film della Disney?» chiese John ridacchiando.
«Ho letto il libro quando era al liceo. Le mie conoscenze spaziano dall’apicoltura a “Les Miserables”.» ribatté Sherlock impassibile, che intanto si era già spostato sul secondo cadavere e aveva emesso una specie di grugnito di trionfo. Dalla borsa di Jane Bones estrasse un voluminoso libro che recava scritto in copertina a caratteri cubitali “Anna Karenina”.
«Anche questa è una coincidenza? Scommetto il 221B che Jane Bones non ha mai letto Anna Karenina» esclamò Sherlock soddisfatto. «Ora abbiamo un altro elemento di collegamento, per quanto possa sembrare futile. Ma da ciò che una persona legge si può scoprire molto di più di quanto si possa fare esaminando il loro cellulare. Pensa se quando ci siamo incontrati la prima volta mi avessi prestato il tuo libro preferito: avrei potuto disezionarti. Questo particolare libro però non dice niente riguardo Jane Bones Quello che bisogna capire è: questi libri sono messaggi da parte del killer o delle vittime? In realtà sono molto più propenso alla prima opzione. E’ evidente che queste due vittime non avessero la più pallida idea di chi fossero Tolstoj o Hugo o di cosa parlassero i loro libri. La domanda successiva è: perché? Perché aiutarci a capire quando avrebbe potuto lasciare la sua opera perfetta? Perché rovinarla inserendo queste pecche? E’ veramente deludente. O forse… Forse non sono indizi su lui stesso… ma sulle vittime!»
John si sentiva sempre così escluso quando Sherlock cominciava a dedurre: era come se non potesse essere ammesso a quell’interessante conferenza forense che si teneva nel Mind Palace di Sherlock.
«Ti dispiacerebbe spiegare anche ai poveri mortali?»
«Non c’è tempo John. Devo andare in biblioteca.»
«Devo cominciare a chiamarti Hermione?(2)»
«Non scherzare John! Siamo ad una svolta! Presto, usciamo da qui, non penso di poter sopportare a lungo il tanfo di putrefazione.»
 
Sherlock era nascosto da una pila di libri. John non era sicuro se quella fosse solo una scena teatrale o se avesse veramente intenzione di leggerli tutti entro la chiusura della biblioteca. Sbirciando dietro la muraglia di libri, vide che stava digitando un messaggio. Che melodrammatico.
«Quindi… dopo aver provveduto ad erudirci sui classici Ottocenteschi, mi spieghi qual è il legame con il caso?»
«Non cercare di fare ironia, John, non ti riesce bene. In realtà la nostra ignoranza letteraria ci ha rallentato molto in questo caso. Se avessimo prestato attenzione da subito a questi due libri in particolare avremmo subito capito il collegamento fondamentale. Sai qual è il finale di Anna Karenina e Notre Dames de Paris?»
«Niente spoilers, grazie.(3)»
«Anna Karenina muore. Come? Gettandosi sotto le rotaie. Claude Frollo, il sacerdote padre adottivo di Quasimodo, muore. Come? Gettato da una torre. Ti sembrano coincidenze? Esaminiamo i casi uno alla volta. Jane Bones: una adultera, alla moda, sofisticata, immersa nella mondanità. Proprio come la protagonista del suo libro, e come lei trovata sotto un treno. Paul Kennedy: un sacerdote, vecchio stampo, apparentemente dedito alla sua missione, stimato dai suoi fedeli come il personaggio del suo libro e, come lui, trovato morto dopo essere caduto da una torre. Ma la cosa più importante di questi libri è che ci spiega anche le loro colpe: Anna Karenina era un’adultera. Claude Frollo, uomo libidinoso, non riuscendo ad ottenere l’amore della fanciulla che credeva di amare, ne ha provocato la morte.»
«Sai vero che non siamo più nell’Ottocento, ed avere relazioni fuori dal matrimonio non è reato?» obbiettò John.
«Ovviamente, ma questo è solo ciò a cui i libri ci hanno indirizzato, ora sta a noi procedere. Questa è la mia supposizione: le colpe dei libri rispecchiano le colpe reali. Devono essere una sorta di… avvertimento, di monito, affinché i crimini commessi dalle vittime non cadano nell’oblio. Jane Bones doveva essere una squillo o qualcosa di simile. Paul Kennedy deve aver ceduto ai peccati della carne o, persino, all’omicidio. Il nostro killer si è posto come giustiziere, la sua intenzione era di riportare la giustizia nel suo mondo di valori distorti. Innegabilmente doveva conoscere tutte e quattro le vittime, e bene, se era conoscenza di quelle che credeva fossero le loro colpe (che oltretutto dobbiamo verificare). Ma allora come mai niente è emerso dai controlli incrociati? Ambienti diversi, lavori diversi, quartieri diversi, niente in comune. Mi sfugge qualcosa di essenziale, qualcosa qui davanti…Oh!» esclamò quando, però, il telefono vibrò. «Lestrade ha risposto al mio precedente messaggio. Anche nella valigetta che Arthur Federici aveva quando è morto è stato trovato un libro: il “Conte di Montecristo”. Dobbiamo darci ancora alla lettura. Manca solo Eric Williams… Lestrade dice non aver trovato niente»
Ma all’improvviso John, che dopo molto tempo passato in compagnia di Sherlock aveva cominciato a servirsi dei suoi metodi di memorizzazione, disse:
«Quando andammo alla casa di Eric Williams, io inciampai in un libro che era a terra. Era qualcosa di russo, un nome strano: Kari… Karm…»
«Karamazov! Ma certo! “I fratelli Karamazov” di Dostoevskij. Ora abbiamo delle solide basi di lavoro, il resto verrà da sé. Dobbiamo solo individuare quali sono i misfatti del signor Williams e del signor Federici.»
 
La cosa non si rivelò così semplice. Sherlock insistette per leggere i due libri (due bei mattoni consistenti) integralmente. John, più pratico e sbrigativo, preferiva l’alternativa chiamata “Wikipedia”. Nonostante Sherlock ribadisse il fatto che qualcosa sarebbe potuto sfuggir loro se si fossero affidati ai discutibile riassunti del web, John si rifugiò in bagno col portatile per sfuggire alle proteste urlate del consulente investigativo. Dopo un quarto d’ora, John aveva le risposte alle loro domande.(3)
«Eric Williams è il servo che si impicca dopo aver ucciso il padrone e rubato i suoi soldi. Arthur Federici è il sostituto procuratore che incarcera un uomo innocente per suo tornaconto e, alla fine impazzisce. Non dovresti sottovalutare Wikipedia così tanto.»
Sherlock emise un sonoro grugnito di disapprovazione. «Ora sappiamo quello che è il movente, almeno apparentemente. L’assassino ha voluto punire vittime che non erano state condannate.»
Per la seconda volta, John ebbe un’intuizione decisiva.
«Ti ricordi quando andammo  nella casa di Eric Williams? Lestrade ci disse che il suo corpo era stato trovato dall’avvocato, che Eric era appena stato assolto dal tribunale da una qualche accusa. Se facessimo qualche ricerca in procura forse potremmo sapere qualcosa riguardo»
Sherlock si era alzato di scatto in piedi. Nei suoi occhi brillava di nuovo quella luce euforica che lo pervadeva durante un bel caso.
«Ottimo John! Magnifico! Ecco qual’era il particolare che non tornava!» e gli schioccò un umido bacio sulla fronte.
«Da quando tutte queste effusioni?» chiese John ridacchiando.
«Siamo vicini alla soluzione, John!»
 
Era ormai sera inoltrata, ma l’ufficio del procuratore distrettuale di Londra al terzo piano era ancora affollatissimo: avvocati in giacca e cravatta correvano da ogni parte con fascicoli giudiziari in una mano, un caffè, rigorosamente ristretto, nell’altra, e un auricolare all’orecchio, al quale urlavano senza ritegno.
«Cosa dice McCoy per il programma protezione testimoni?» «Allora, White farà l’accordo? Cosa? Credimi lo farà, ha le pezze al culo ormai, cederà.» «… e tu cita il caso Oswald! E fammi trovare il verbale domattina alle nove sulla mia scrivania.»
«Perché gli avvocati sono sempre così… impazienti. Insomma,quando pensi ad un avvocato te lo immagini che sbraita al telefono o che urla “Obiezione, vostro Onore!”» disse John guardandosi intorno con un mezzo sorriso. Sherlock rispose ridacchiando. No, non sapeva fare ironia.
 
«Buonasera, sono il vice procuratore distrettuale Malcom Goodman. Posso aiutarvi in qualche modo?»
Malcom Goodman era un uomo sulla cinquantina, con capelli grigi ancora ricci, delle piccole rughe maliziose attorno agli occhi azzurro ghiaccio, un ghiaccio che sembrava non poter essere sciolto, sormontati da due sopracciglia scure che davano un’aria di severità a quel volto aguzzo. Sembrava un uomo contro il quale era meglio non mettersi. John lo avrebbe definito “il classico avvocato”.
«Dobbiamo controllare dei fascicoli giudiziari.» disse Sherlock con aria imperiosa. Nella mente di John si formarono numerosi scenari, in ognuno dei quali loro venivano calciati fuori dalla porta dal vice procuratore a suon di imprecazioni.
«Forse non sa come funzionano le cosa qui. E’ della polizia? Ha bisogno di un mandato, di un permesso firmato dal giudice…» ribattè con aria scocciata il signor Goodman.
«Sono l’ispettore Lestrade», disse Sherlock senza lasciargli terminare la frase, estraendo quello che sembrava il distintivo di Greg, «sto seguendo un caso di vitale importanza. Mi lasci fare il mio lavoro o, come ben sa, può essere accusato di intralcio alla giustizia» terminò con aria sicura.
Malcom Goodman lo squadrò da capo a piedi, strinse gli occhi e dilatò leggermente le narici. Nonostante il tono convinto di Sherlock, non sembrava credere a una parola della sua versione
«Perfetto. La mia collega le farà strada.»  disse tuttavia, e  con voce severa chiamò quella che sembrava in realtà la sua assistente personale, una donna sui quaranta con delle scure ombre sotto gli occhi. «Porti questi due agenti agli archivi.» disse con voce incolore, senza guardarla, mentre afferrava il telefono e cominciava a comporre un numero, senza più badare a loro.
 
«Fammi indovinare. Rubi ancora i distintivi a Greg.» sospirò John., quando l’assistente del procuratore li lasciò soli, dopo aver procurato i quattro archivi.
«Perché me lo chiedi se sai già la risposta?»
«Spero in un improbabile diniego.» Avrebbe dovuto chiamare Greg per scusarsi da parte di Sherlock, anche se a lui l’idea non sarebbe passata per l’anticamera del cervello nemmeno tra vent’anni.
«Vediamo cos’abbiamo» disse Sherlock sfogliando il primo fascicolo «Eric Williams. Due capi d’imputazione nel novembre 2014: rapina e omicidio di primo grado. Esattamente come era da aspettarsi, proprio come nei “Fratelli Karamazov”. Assolto. Una perfetta combinazione tra un bravo avvocato e scarse prove. Questo è interessante: l’avvocato dell’accusa è il nostro caro Malcom Goodman. Non deve piacergli perdere. Arthur Federici ora, l’avvocato.», prendendo il secondo fascicolo, « Ha rischiato di essere radiato dall’Albo per frode processuale, ma è riuscito a cavarsela. A quanto pare aveva fatto condannare un uomo nonostante avesse le prove della sua innocenza. Ma potevamo già intuirlo da “Il conte di Montecristo”. E lavorava… in questo ufficio. Terzo piano. Jane Bones, la cacciatrice di teste: tribunale civile», e prese un fascicolo decisamente più piccolo degli altri «Aveva chiesto il divorzio e l’affidamento del figlio, ma le era stato rifiutato. Il marito, coincidenza vuole che sia morto due mesi dopo la sentenza. E infine Paul Kennedy, il sacerdote. Capi d’imputazione: omicidio di primo grado e stupro. Sentenza: innocente fino a prova contraria. Ma guarda qui, John: il procuratore era sempre Malcom Goodman. Cosa ne pensi?» chiese infine Sherlock, dopo quel soliloquio
«So cosa vorresti che io dicessi: Malcom Goodman ha qualcosa a che fare con questo caso. Ma è il vice procuratore di Londra e seguirà una marea di casi, mentre questi sono solo due su quattro» ribattè John. Non voleva giungere a conclusioni affrettate: nemmeno a lui aveva fatto una buona impressione Malcom Goodman, ma non era un buon motivo per accusarlo a priori.
«Tre su quattro, John. Non hai ascoltato attentamente: l’avvocato, Arthur Federici, lavorava per lui. Ricordi? Terzo piano. Non esistono coincidenze. Ora dobbiamo solo far quadrare il caso di Jane Bones. La procura non si occupa di casi civili, quindi come poteva, se supponiamo che il killer sia il signor Malcom, essere conoscenza del suo caso?» Sherlock si premette le dita sulle tempie, come a stimolare il suo cervello a ragionare. «L’avvocato della Bones era», disse leggendo il fascicolo «una certa Emma Stark. Oh! Elementare, i conti tornano(4)!» Si era alzato di scatto dalla sedia e aveva cominciato a camminare avanti e indietro, con un’euforia evidente «John, hai prestato attenzione alla collega di Goodman?»
«Quella specie di assistente? Penso sia piuttosto frustrata e scontenta del suo lavoro. Non ho notato molto altro»
«E invece c’è tutto da notare. Era proprio lei l’avvocato di Jane Bones. Segui il ragionamento: il signor Goodman la tratta con sufficienza, quasi con disprezzo, molto di più di quanto non riservi agli altri suoi collaboratori, quindi deve essere nuova. Nuova, ma non il suo primo lavoro da avvocato. Ha ben superato i quarant’anni, ed è stata molto veloce ed efficiente nell’archivio, quindi non è la prima volta che ha a che fare con l’avvocatura. Dunque come mai questo nuovo posto di lavoro? Se fosse stata trasferita da un altro ufficio della procura, avendo una lunga esperienza di cause penali, dovrebbe essere al lavoro su qualche processo. Invece, come vedi, è costretta a compiti marginali, fotocopie e noiose ricerche negli archivi. Come mai non le assegnano un  caso? Di certo in un ufficio come questo il lavoro non manca, e un aiuto a smaltire il carico è sempre ben accettato. Allora come si spiega? L’unica risposta possibile è che non ha esperienze di cause penali. E’ la prima volta che lavora nella procura. Questa ci porta ad intraprendere l’ultima ed unica strada possibile: se non lavorava in procura, fino a poco tempo fa era un avvocato della difesa, cause civili. Per un qualche motivo deve aver deciso di cambiare indirizzo professionale, forse per il salario. Ma ti dirò di più. Questo ex avvocato della difesa è la stessa che difese Jane Bones, la stessa Emma Stark. Non se hai notato il nome sul cartellino che ha dovuto mettere entrando nell’archivio.»
«Quindi l’assistente del signor Goodman era lo stesso avvocato di Jane Bones?» John non poteva negare di essere ammirato. Dando solo una breve occhiata a quella donna, senza scambiarci una parola, era riuscito a ricostruire la sua vita lavorativa. Stupefacente.
«Esattamente. Essendo l’avvocato della Bones doveva conoscere molto bene la sua situazione. Goodman deve averle fatto alcune domande sui suoi casi passati, e questo processo dev’essere emerso. Ora abbiamo un collegamento, una persona connessa a tutti i quattro i casi. E’ troppo una coincidenza per essere una coincidenza. Nello stesso momento in cui ho posato gli occhi sul signor Goodman, ho capito che aveva qualcosa di particolare. Un uomo rigido e intransigente, un uomo che ha faticato per raggiunger la sua posizione, uno che si è fatto da sé. E’ un uomo che vuole vedere applicata la legge in tutti i suoi aspetti, senza pietà, che si erge a insaziabile giudice. Un uomo che ha sempre vinto e non sopporta perdere.» terminò Sherlock con voce grave.
«Un egregio lavoro, signor Holmes»
Una voce fredda e calcolata li raggiunse dalle spalle. Sia John che Sherlock si voltarono velocemente, incontrando lo sguardo di ghiaccio di Malcom Goodman.
Il suo corpo era avvolto nell’ombra, e solo quegli occhi glaciali brillavano nell’oscurità. Se ne stava ritto, con le mani dietro la schiena, come se stesse per tenere la sua arringa finale in tribunale.
«Penso di averla sottovalutata signor Holmes. Sì, la conosco, nel nostro ambiente è piuttosto famoso. L’ho lasciata entrare solo per uno scrupolo personale: voleva sapere fin dove era a conoscenza, fin dove si sarebbe spinto. In poche agili mosse è riuscito a capire il mio gioco. Servirebbero uomini come lei in procura. Purtroppo, » sospirando, avvicinò la mano sinistra alla cintura, da dove estrasse una calibro 38, « non posso permettere né a lei, né al suo compagno di uscire da qui. Deve capire ho delle priorità».
Si avvicinò loro lentamente, inesorabile, la pistola salda nella mano, un’espressione fastidiosamente neutra in viso. Non potevano farsi illusioni: quell’uomo non avrebbe esitato.
«Assolutamente comprensibile. Priorità. Certo. Ma vorrei chiederle una cosa, un ultimo capriccio personale: come e perché. Non riesco a capirlo. Ho bisogno che lei me lo spieghi: siamo entrambi due uomini intelligenti, precisi e calcolatori e, nonostante tutto, nutro per lei un grande rispetto. Ho bisogno di sapere» disse Sherlock senza arretrare di un passo, la voce calma.
John non aveva dubbi che Sherlock, nella sua perspicace testa, avesse in realtà già capito i perché e i come di Malcom Goodman: stava solo stuzzicando lievemente il suo ego, guadagnando qualche minuto. Sperava solo che Goodman non lo capisse.
«Mi delude, signor Holmes». Male, molto male. «Da lei mi aspettavo qualcosa di molto più brillante. Le spiegherò tuttavia cosa mi ha spinto a fare ciò che ho fatto, ma per un mio capriccio personale. Non si illuda che questo mi distolga dai miei intenti. Farei qualsiasi cosa pur di salvare me stesso, ma non posso sfuggire alla tentazione di umiliarlo almeno un po’, Mr Holmes.»
Se non fosse stato per la pistola puntata contro di loro, sarebbe parso uno scambio di idee particolarmente acuto ad un circolo di dibattito: regnava una calma surreale, ma estremamente tesa.
«Ciò che ho fatto è facilmente spiegabile, se lei è bravo solamente la metà di quello che si dice. Un motivo semplice, quasi elementare, un motivo che ha spinto da sempre uomini molto più capaci di me: un bisogno di giustizia. Da tempi immemori l’uomo si pone a giudice universale: la necessità di armonia e di equità ha da sempre animato l’uomo. E ora mi guardi negli occhi, signor Holmes, e mi dica che è giusto che un Eric Williams giri tranquillamente per le strade di Londra dopo aver rapinato e ucciso il suo capo. Mi dica che è giusto che una Jane Bones partecipi a festini dopo aver ucciso il marito per la custodia del figlio. Mi dica che è giusto che un uomo innocente venga condannato all’ergastolo solo per soddisfare l’ego di un avvocato mezza tacca. Mi dica infine che è giusto che un sacerdote si nasconda dietro la sua religione e il suo Dio dopo aver stuprato e ucciso una povera ragazza. Non le crederei, tuttavia, anche se lo dicesse. Tutto ciò è stato fatto solo per equità, solo perché delle famiglie ottenessero giustizia. Niente di più, niente di meno. Ho sperato che quei libri, lasciati da me, avrebbero fatto luce sulle loro colpe e li avrebbero finalmente condannati per quello che erano. Ma devo aver sopravvalutato l’essere umano». Un veloce lampo di divertimento attraversò i suoi occhi per poi sparire così come era venuto. John non osava aprir bocca: temeva che dicendo una sola parola avrebbe interrotto quell’equilibrio irreale che si era creato.
«No». La voce decisa di Sherlock al suo fianco lo colse alla sprovvista. «Per quanto voglia illudere me e, forse, se stesso, non è così. Non è per questo che lo ha fatto. Oh, no! Decisamente no! Un uomo con sete di giustizia avrebbe semplicemente premuto il grilletto o, più normalmente, sarebbe ricorso in appello. Ma inscenare un suicidio? Il Lexotan? Gli indizi attraverso i libri? No! Questo è un uomo che vuole mostrare quanto è astuto, quanto è colto, quanto ama sopraffare gli altri. Ma non è solo questo: vuole anche vendicarsi, umiliare le vittime con l’onta del suicidio. Vittime che l’hanno fatta franca, vittime che l’hanno avvilito, non importa. Lei non sopporta perdere. Questa è una bassa sete di vendetta che non può trovare giustificazioni. Molto astuto, certo, ma è lei che mi ha deluso: per favore, come si può essere talmente idioti da lasciare una sedia a tre metri dall’impiccato, per di più in piedi! Veramente mediocre, Mr Goodman».
Evidentemente non aveva potuto resistere oltre. Sherlock doveva avere l’ultima parola, probabilmente ne andava della sua vita. E in questo modo aveva detto addio a una possibilità di fuga.
Il movimento di Goodman fu fulmineo, la sua mano quasi impossibile a vedersi: con una furia selvaggia abbattè il calcio della pistola sulla tempia di Sherlock. Fu così veloce che John realizzò ciò che era accaduto due secondi dopo. Intanto Goodman, senza smettere di puntare la pistola, aveva stretto un braccio attorno al collo di Sherlock: le sue palpebre sbattevano velocemente, presto sarebbe svenuto. Un rivolo di sangue gli contornò l’occhio.
«Non un passo, Dottor Watson. Non un movimento». La voce di Goodman risuonava imperiosa all’interno dell’archivio. Non un rumore. Tutti erano già andati. Non c’era più nessuno.
«Lasci. Subito. Il mio amico.» John si stupì di come la sua voce suonasse calma e decisa. Decisamente non come il resto del suo corpo e della sua mente: una lotta infuriava dentro di lui, diviso tra l’agire impulsivamente, usando la forza, e l’aspettare e usare il cervello. Sherlock. Doveva concentrarsi su quello. Cosa avrebbe fatto Sherlock? Avrebbe calcolato e usato il raziocinio. Se si fosse avvicinato, Goodman avrebbe sparato a Sherlock. Se fosse scappato, avrebbe sparato a lui. Se avesse parlato in modo avventato, il calcio della calibro 38 lo avrebbe presto raggiunto. Doveva rimanere fermo, aspettare e ascoltare. Tenne gli occhi fissi sul viso di Sherlock, viso che si stava lentamente rilassando, per poi cadere infine in un sonno che sarebbe stato molto agitato.
«Terrò il suo compagno come garanzia che lei non aprirà bocca. Non dovrà dire a nessuno quello che ha visto oggi o, mi creda, lo verrò a sapere. Non siete gli unici ad avere degli informatori a Londra. Il suo amico starà per un po’ in mia compagnia: se vuole che resti vivo non deve parlare con nessuno di quello che è successo. Mi ha capito? Con nessuno. Addio, non penso ci rivedremo».
Senza voltare le spalle a John, indietreggiò e tornò nell’ombra, andandosene.
John lasciò uscire l’aria finora trattenuta. Sherlock era in pericolo. Sapeva che non l’avrebbe tenuto in vita per più di qualche giorno, giusto il tempo per organizzare la sua fuga dal paese. E lui, John, era la sua unica salvezza. Ma sapeva cosa fare. Aveva un piano.
 
Tornò a Baker Street. Aveva il fiato corto, ma non per la stanchezza dovuta alla corsa che aveva appena fatto. Sapeva quello che doveva fare, ma aveva paura. Non per lui, certo. Aveva invaso l’Afghanistan, era pronto a qualsiasi pericolo, anelava il pericolo. Aveva paura per Sherlock. Non solo era in pericolo, ma era in pericolo lontano da lui. Non era mai successo. Avevano affrontato numerosi rischi, ma mai separati. John era sempre stato lì: la mano armata, il supporto, l’aiuto, l’amico. Aveva sempre potuto monitorare la situazione, calmare Sherlock, farlo ragionare, intervenire. Mentre ora era a Baker Street, e doveva aspettare, aspettare tre interminabili ore. E Sherlock era con quello squilibrato in stato di incoscienza. Ma persino in quel momento era riuscito ad essere geniale. Chiuse gli occhi e ripensò brevemente a ciò che era avvenuto poco prima: Goodman che colpiva Sherlock, lui che si accasciava, cercando lo sguardo di John.
Si riscosse e salì le scale, raggiungendo la sua stanza: nel primo cassetto, ad aspettarlo fedelmente, c’era la sua pistola. Aveva pensato che, tornando a Londra, sarebbe diventata un’estranea per lui; al contrario si era rivelata uno degli elementi che avevano sancito la sua amicizia con Sherlock quando, ancora sconosciuti, aveva sparato a un tassista per salvarlo. Sembrava una vita prima.
Tornò in soggiorno alla sua amata poltrona, e vi si lasciò cadere di peso. Doveva aspettare esattamente come sapeva di dover fare.
 
***
Immobile sul ciglio della strada, John fermò un taxi. Quelle tre ore erano stato interminabili, piene di dubbi e di paura, piene di vecchi scheletri. Sherlock si fidava di lui, non poteva deluderlo: la sua stessa vita dipendeva da lui, ora.
«All’industria Briscoe, in Sandson Street» disse deciso, entrando nel taxi. Durante il tragitto ripassò mentalmente per l’ennesima volta le fasi del suo piano d’azione. Era semplice, fin troppo semplice. Doveva funzionare.
Il taxi lo lasciò in una zona abbandonata di fronte al buio e massiccio edificio che recava la scritta “Vetreria Briscoe” a caratteri cubitali sul fronte. Come Sherlock ci fosse arrivato, John non sapevo dirlo. Ma si fidava di lui, ciecamente. Ripensò di nuovo a quei momenti nell’archivio, a Sherlock che, nonostante il colpo tremendo, era riuscito a ragionare instancabilmente, e quelli che all’inizio sembravano battiti di ciglia confusi, John aveva presto capito essere lettere in alfabeto morse:“t-r-e h b-r-i-s-c-o-e”.
Tre ore, Briscoe.
Dopo una breve ricerca su internet, aveva scoperto che Briscoe era il nome di un’importante industria di vetri negli anni novanta, ora fallita. A Londra rimaneva ancora un edificio appartenente a quella catena, abbandonato. Aveva dovuto aspettare almeno tre ore per dare a Sherlock il tempo di svegliarsi e a Goodman il tempo per portarlo in quell’edificio. Non sapeva come Sherlock lo avesse dedotto, ne come avesse avuto la certezza di quel luogo, ma non poteva mettere in dubbio ora le conclusioni di Sherlock.
Chiuse la cerniera del giubbotto e cacciò la mano destra in tasca, la sinistra chiusa attorno alla pistola. Con un passo calmo e deciso si diresse sul retro dell’edificio, aggirandolo: non gli sembrava una grande idea entrare dall’ingresso principale. Il sottile spicchio di luce della luna illuminava i suoi passi, nascondendolo però alla vista. Trovò una porta socchiusa sul lato sinistro dell’edificio: spinse lentamente ed entrò senza far rumore. Il buio all’interno era talmente opprimente che gli pulsava sugli occhi. Stette qualche secondo immobile, in ascolto, in modo sia da abituare gli occhi, sia da captare un qualunque rumore. Un impercettibile brusio davanti a lui stuzzicò le sue orecchie. Con passo felpato cominciò a muoversi. Iniziò a distinguere pian piano i contorni degli oggetti attorno a lui: vecchi carrelli, secchi di ferro, pezzi di vetro, pinze abbandonate. La stanza in cui si trovava si affacciava infine in un ampia sala vuota, sorretta da numerose colonne, inondata dalla luce della luna che passava attraverso i vetri rotti delle finestre. E proprio lì, al centro della sala, con i polsi legati a una delle colonne, c’era Sherlock. Se ne stava con la schiena ritta contro la colonna, lo sguardo attento sull’uomo che torreggiava su di lui: le linee marcate e dritte che formavano la sua figura erano evidenziate dalla luce spettrale che penetrava dai cocci delle finestre. Malcom Goodman, la pistola in pugno come un prolungamento del suo braccio, stava in piedi con fare imperioso davanti a Sherlock. La sua voce fredda raggiunse le orecchie di John, ma non riusciva a coglierne le parole. Si avvicinò lentamente, facendo ben attenzione a non calpestare la grezza polvere di vetro blu che ricopriva il pavimento, producendo un inconfondibile scricchiolio. Una volta a portata d’orecchio, vide che Goodman stava parlando al telefono: «…confermato per le cinque, allora. San Pietroburgo. Mi occuperò della burocrazia una volta arrivato. Devo solo provvedere ad un’ultima faccenda. Bene». Con poche frasi concise terminò la chiamata. John restò nascosto dietro una colonna, in attesa.
«All’archivio devo aver perso la testa.» bofonchiò Goodman, rivoltò più a se stesso «Certo, a quest’ora avrei già risolto il mio problema se avessi sparato a entrambi, ma voglio concedermi un po’ di divertimento. Sarà divertente vedere il suo piccolo dottore correre di qua e di là a cercarla, non osando parlare a nessuno, quando in realtà lei sarà già morto. Purtroppo io non sarò qui a godermi la scena» disse sogghignando tetramente
«Invece potrebbe sorprenderla, il mio dottore. Non dovrebbe sottovalutarlo, neanche per un istante». Sherlock non potè trattenersi dal rispondere. Adorava essere in superiorità rispetto ai suoi avversari, e ancora di più adorava farlo capire un po’ alla volta.
Una risata priva di allegria uscì dalla bocca di Goodman.
«Proprio lei, Holmes, fra tutti, non mi aspettavo avrebbe parlato spinto dai sentimenti. Watson sarà suo amico, ma perché si illude che verrà a soccorrerla? Lei è un uomo intelligente, non dovrebbe lasciare che speranza ed emozioni offuschino la sua vista, quando la realtà è così chiara».
Goodman si avvicinò di qualche passo, fino a trovarsi di fronte a Sherlock, la pistola carica puntata alla sua fronte.
«Quanto è idiota. Nemmeno se la realtà ballasse nuda davanti al suo naso la vedrebbe. E infatti così è stato» ridacchio Sherlock, incurante della canna a pochi centimetri da lui.
Con un movimento improvviso il calcio colpì violentemente la mascella di Sherlock.
Senza un altro attimo di esitazione John, con una mira da cecchino, mirò alla schiena di Goodman. Lo sparò rimbombò brutalmente nell’edificio. John scattò quando ancora Goodman non era a terra, e gli fu addosso in pochi secondi. Con una foga selvaggia colpì Goodman con un gancio sinistro tale da rompergli la mascella. Goodman era ancora vivo. Lo sparo di John era calcolato al millimetro: abbastanza da tramortirlo, ma non da ucciderlo. Non ancora almeno. In qualche minuto.
«Mai più! MAI PIU’!». La rabbia lo aveva colto alla sprovvista, improvvisa e brutale. Voleva solo causare più dolore possibile a Goodman, lui che aveva colpito Sherlock. La voce di quest’ultimo che gli intimava di fermare la pioggia di pugni gli giunse ovattata dalle spalle, ma si fermò, ricordandosi che aveva cose più importanti di cui occuparsi.
«Come stai, Sherlock? Ti fa male? Lascia che controlli» disse mentre lo liberava dai lacci che lo legavano alla colonna.
«Polvere… polvere di vetro» bofonchiò Sherlock, la cui mascella stava cominciando a gonfiarsi a vista d’occhio. Per un attimo John si chiese se quel bastardo avesse procurato a Sherlock anche danni al cervello.
«E’ stata la polvere di vetro blu sulle scarpe di Goodman che mi ha aperto la strada. Quella particolare tonalità di blu non è comune, e solo l’industria Briscoe la produceva. Sapevo che Goodman doveva avere una specie di base per lui e i suoi informatori. La deduzione da lì è stata facile. Dovevo solo essere veloce e prudente a fartelo capire, ma non ho mai dubitato di te. Ottimo lavoro, John». Il dottore sorrise in risposta e si chinò ad esaminare la mascella paurosamente gonfia di Sherlock: era un colpo decisamente brutto.
«Avanti» disse, aiutandolo ad alzarsi porgendogli la mano «torniamo a Baker Street: devo medicarti questa botta».
 
 
 
Note:
  1. Riferimento alla precedente storia di questa serie, “Hunt”. Se non l’avete letta non è assolutamente un problema per la comprensione di questa fanfic, e non dovrebbero esserci spoilers.
  2. Ovviamente Hermione Granger. Per chi non ha mai letto Harry Potter, Hermione, quando è in dubbio su qualcosa, si rifugia in biblioteca. Mi piace pensare a John come ad un Potterhead.
  3. Io vi ho avvertito. Attenti agli spoilers.
  4. Scusate, non resistito alla tentazione di far dire a Sherlock una frase di Kronk, da “Le follie dell’imperatore”. Per quante volte io abbia visto quel cartone, rido sempre come la prima volta.
 
*angolo autrice*
Questo sarebbe una specie di regalo di Natale. In realtà l’avevo iniziato ad agosto e sarebbe dovuto uscire a settembre ma… è stato un parto gemellare scriverlo. Spero che leggendo non troviate delle incongruenze o dei periodi mal formati: in tal caso vi prego di segnalarmeli. Questi pochi mesi di scuola mi hanno un po’ distrutta. Vedrò di rifarmi durante le vacanze. Mi scuso se ho causato atroci spoiler a chiunque stesse leggendo i libri citati. Spero di non avervi deluso con questa storia, e spero soprattutto non sia risultata banale.
Vorrei anche annunciarvi che ho un altro progetto in porto (per non farmi mai mancare niente): pensavo di scrivere una long da dieci capitoli su *rullo di tamburi*: Ten e Rose! Sono appassionata di Doctor Who, ed era da un po’ che questa idea mi ronzava in testa. Per ora ho solo progettato al trama e scritto il prologo, e qualora mi sembri decente la pubblicherò una volta terminata, altrimenti nada. Non scrivo qui maggior informazioni, voglio lasciarvi il dubbio.
 
(non so se avete notato, fra i vari riferimenti nei nomi a Doctor Who e Breaking Bad, quelli nel nome di Malcom Goodman: è una fusione tra Malcom Tucker e Saul Goodman. Un avvocato badass.)
 
Per FD. Affinché sappia che non è dimenticato. Spero gli sarebbe piaciuta.
 
PRJ
  
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