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Autore: Melian    04/01/2015    10 recensioni
"Nella penombra, sembrò un bacio: lo sconosciuto abbracciò Anthon con la foga spropositata di una belva e gli tappò la bocca con una mano, mentre il ragazzo si divincolava, trovando però un'inaspettata potenza a disilludere le sue speranze di fuga. Sembrò un bacio, ma in realtà fu un morso: la gola squarciata, il sangue che fluiva – poesia."
[Vincitrice del premio speciale "Post tenebra lux" per le migliori tinte dark al contest "Children of the night" indetto da MyPride sul forum di EFP]
"La storia partecipa al contest -La Melodia Segreta dei Sogni- indetto da E.Comper sul Forum"
Genere: Horror, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Mondo di Tenebra'
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SOMNIUM


 


 

“Non sono niente.
Non sarò mai niente.
Non posso volere d’essere niente.
A parte questo,
in me ho tutti i sogni del mondo.”
(Fernando Pessoa)

 

 

Eveline era rintanata sotto le lenzuola, nel mezzo del letto in ferro battuto.
La sua sagoma spiccava sotto la stoffa come un fantasma polveroso, mentre la luce di una candela sciolta e quasi del tutto consumata brillava come un cuore di calda energia sotto le coltri.
La fiamma aranciata le accarezzava il profilo, dipingendo su di lei morbidi chiaroscuri e rendendole gli occhi scuri più lucidi e grandi di quanto già non fossero.
Il libro spiegato sul letto, che lei leggeva con tanta avidità, sembrava improvvisamente ancor più antico: ogni grinza della carta e imperfezione dell'inchiostro risaltavano.
Il resto della stanza era immersa in una fitta penombra, dove tutto poteva prendere vita da un momento all'altro quando, discreta e leggera, la luna si affacciava oltre l'orlo delle spesse nuvole.
Eveline, tuttavia, non aveva paura del sospiro della casa – un sommesso scricchiolio come di un uomo vecchio che raddrizza le vecchie ossa stanche – che le giungeva remoto, poiché, da quando suo padre aveva trovato quel romanzo sugli scaffali di una vecchia libreria nel centro storico, lei non riusciva a smettere di leggere.
A sedici anni, le ragazze erano concentrate sugli abiti costosi e le scarpe raffinate, passando la maggior parte del tempo davanti alla specchiera e a racimolare inviti per le feste dell'alta società dove, un giorno, speravano di trovare marito.
Unica figlia femmina di una famiglia che contava già due maschi, Eveline invece voleva viaggiare e, se non poteva farlo fisicamente, se lo concedeva almeno con la sua immaginazione. Suo padre era più indulgente con lei che con i suoi fratelli, e le permetteva di buon grado di perdersi in quella fantasticherie.
Quando leggeva, infatti, le sembrava di librarsi sopra i tetti delle case, attraverso le strade tortuose.
Cosa avrebbe dato per vivere un'autentica avventura?
Il suo libro, colmo di splendide figure, la portava per mano attraverso i deserti e le giungle, in un caleidoscopio di luoghi e nomi che la affascinavano.
Eveline desiderava che quel romanzo non finisse mai.

 

***



“Lo sciabordio dell'acqua è un suono puro.
Goccia, dopo goccia, dopo goccia, chissà dove una fonte sgorga e corre senza requie, come sangue nelle vene del mondo.
La terra: la sua consistenza, la friabilità e l'umidità sotto le dita.
Le dita, la mano, il braccio... si muovono? Oppure è un sogno?
Oh, l'acqua!
Sete. Tremenda, orribile sete.
L'arsura mi consuma: il palato come carta vetrata, la lingua una pietra pomice, le viscere rattrappite.
Sete. Sete. Sete.
Ossessione. Pensiero fisso. Devo smettere di...
Ah, cose darei per poter bere e mettere fine a questo tormento? Solo un sorso, un misero sorso!
Le dita si muovono, piano, lentamente, ciecamente.
Una larva. Una larva strisciante incapace di muoversi come vorrebbe, dalla coscienza anestetizzata, senza futuro, senza passato... no, il passato resta e torna con la violenza di una visione abbacinante.


[…]

Camelie. Camelie bianche. No, sono rosse. Ondeggiano, caracollano docilmente alla brezza notturna. Dove le ho già viste? Sono una delle tante immagini che ogni tanto catturo quando spingo la mia mente fuori dall'involucro incartapecorito del mio corpo?
Il profumo dei fiori che si piegano docilmente sotto le dita...

Il profumo dell'incenso nella sala più nascosta del tempio e le sue spire che si innalzano sinuosamente ad abbracciare le membra della statua di granito assisa in trono: il volto severo e sereno come solo quello di un dio sa essere; le vesti di lino pregiato impregnate di oli sacri; la Doppia Corona ornata da un ureo d'oro; le offerte votive sull'altare.
Amon Ra, Signore Nascosto, sole che si innalza e vivifica, disco dorato e accecante.

Il sole è accecante e brucia!
Brucia davvero?
No, non ancora...
Il sole d'Egitto mi bacia, la sabbia del deserto si modella assecondando i miei passi, il tempio risuona della mia voce e delle mie preghiere. La mia ombra si allunga sulle pareti coperte di affreschi dai colori vivacissimi, così intensi da farti balzare il cuore nel petto.
La processione dei sacerdoti uebui ha una cadenza sacramentale così familiare, ipnotica: un volo dell'anima.
La litania delle preghiere, il brivido che mi percorre se sfioro i geroglifici incisi nella pietra, le Parole di Potere che prendono vita: sì, ancora!
Tutto, pur di non pensare alla sete che mi divora, alle orride creature che mi strisciano accanto e si nutrono di ciò che resta del mio corpo svuotato.
Apri la bocca al morto con il cucchiaio d'oro e recita la formula magica perché possa tornare a parlare nell'Aldilà, davanti al Tribunale di Osiride. Apri i suoi occhi, cosicché possa vedere la Bilancia di Maat su cui, in bilico, c'è il suo cuore.ii
Devo aprire gli occhi?

[…]

Chi sono io? Cosa sono io? Sono la mia Sete.
Avrei dovuto dormire, fino a che la terra non fosse andata incontro alla rovina e la mia tomba scoperchiata.

Avrei dovuto... perché sono di nuovo sveglio?”

 

 

***

 

 

La porta si aprì piano, con un cigolio che la fece sobbalzare: Eveline trattenne un singulto, ingoiando un grido di paura quando una mano frugò tra le lenzuola sotto cui si era seppellita.
Il cuore le batteva all'impazzata e fissò con gli occhi sgranati, assurdamente dilatati, il viso di una donna china su di lei, per poi tirare un improvviso sospiro di sollievo nel riconoscerla.
«Signorina, che cosa ci fa ancora sveglia?»
Le chiese la governante in tono di sorpresa e, assieme, rimprovero. Arricciò le labbra e si sistemò gli occhiali come faceva sempre quand'era contrariata: Eveline conosceva bene quella smorfia.
«Oh, signora Agnes, siate buona: solo un'altra pagina!»
«Non vi fa bene sforzare la vista in questo modo. Cercate di riposare, adesso. Sapete cosa pensa vostro padre del fatto che rimaniate alzata fino a tardi.»
Agnes fu perentoria e le sfilò il libro da sotto al naso, lasciandolo aperto sul comodino. Quando prese la candela, stava per soffiarci su, ma Eveline la fermò.
«No, per favore: lasciatela accesa. Mi fa compagnia.»
La governante annuì, lasciando il moccolo accanto al libro e rimboccando le coperte di Eveline con premura. Le lasciò una carezza tra i capelli scuri e si avviò di nuovo alla porta, restando pochi istanti sulla soglia.
«Buonanotte, signorina. Fate bei sogni.»
«Buonanotte, Agnes.»
La porta si chiuse ed Eveline rimase immobile, con il fiato trattenuto. Si girò su un fianco e osservò la fiamma che, testarda, scioglieva la cera che poi gocciolava sul candeliere di ferro, quindi il libro e il segno che aveva lasciato ad un angolo della pagina, a mo' di frettoloso segnalibro.
Si imbronciò, eppure non osò muoversi: aveva il sospetto che qualcuno dei domestici potesse coglierla di nuovo in flagrante.
Cercò di scacciare il desiderio di correre nella biblioteca e stendersi sul tappeto, circondata da pile dei suoi libri preferiti.
Si concentrò, allora, sul vaso di camelie bianche sul davanzale della finestra e le sembrò quasi di poter sentire il suono dei petali che si schiudevano.
Le palpebre le si fecero pesanti.

 

 

***

 

Deve esserci una ragione, se sono sveglio.
Forse i lacci degli incantesimi che proteggevano il luogo del mio riposo si sono sciolti e, adesso, sono esposto alla curiosità e al timore degli uomini.
Eppure, non troverebbero altro che un vecchio mausoleo polveroso e un sarcofago che non possono spostare.
Se pure lo scoperchiassero, comunque, immagino già il loro raccapriccio: sono una cosa vecchia e muffosa, dagli abiti ormai marci e incapace di aprire gli occhi, con le braccia incrociate sul petto come i vecchi Faraoni, un misero modo per proteggere il cuore da qualsiasi malintenzionato.
La coscienza è la mia nemica: avrei preferito il deliquio alla consapevolezza di essere intrappolato in macilente spoglie che non hanno niente a che fare con ciò che ero un tempo.
Terrore, disgusto, disperazione. Ne possiamo provare? Dopo tutti questi secoli, posso davvero dire di provare un qualche sentimento? Forse mi giudico molto semplicemente un miserabile, un rimasuglio degli orrori del Vecchio Mondo che avrebbe dovuto restare nascosto.
Voglio smettere di pensare. Voglio tornare al sonno, voglio schermarmi dai tumulti del mondo e dalle voci umane che mi raggiungono con troppa insistenza perché la Bestia non ne sia pungolata e attratta.

Ora capisco come doveva sentirsi lui quando gli presi il Sangue.
Incatenato e bloccato in un sarcofago come il mio, lo trovai in una vecchia mastaba violata dai ladri. Avrei dovuto scongiurare quell'opera sacrilega, ma ne compii un altrettanto ignominiosa.
Era una creatura selvaggia, tutto istinto... come me.
Ma io gli rubai il segreto, il fuoco di Prometeo, l'alchimia perfetta: diedi vita alla Grande Opera contro tutte le leggi d'Egitto e dei Bevitori di Sangue.
Mi resi come Thot tre volte grande, come Ermete Trismegisto. Solve et coagula. Nigredo. Albedo. Rubedo. Muori nell'oscurità del fango, rinasci come la fenice nel suo eterno splendore, tocca l'Oro dell'immortalità.
E l'Oro è rosso, è sangue, è liquido e scorre, scorre... rotola lungo i polsi squarciati e dalla gola della creatura da cui bevo: così dolce, così terribile, così immenso!

Non ero destinato al Sangue, lo presi con la forza.
Forse, ciò che mi è accaduto ha ripagato l'antico torto mosso a colui che non avrebbe mai voluto generarmi e urlava gemiti inarticolati di sdegno e furore.
Ricordo... ricordo con insolita vividezza ogni notte che ho vissuto come un predatore, più feroce del Khamsiniii stesso, spinto dalla cieca collera di Seth a razziare i villaggi che avrei dovuto proteggere.
Rimembro il rollio di una nave che risaliva il Nilo e poi si spingeva oltre, verso il mare aperto. Detestavo il mare: così insidioso, così capriccioso, così vasto...
Eppure, il mare mi portò lontano e il brillio della luna sulle Porte Scee di Ilio è vivido nella mia memoria, assieme allo specchio di argento liquido che era lo Scamandro, dove le donne facevano il bagno nude.
Il cavallo di legno e l'incendio distrussero la città: ricordo l'odore acre dalla carne bruciata, il rumore assordante dei pianti e dei lamenti come quelli di maiali sgozzati... e sangue, sangue ovunque, sul filo delle spade rutilanti, sui pavimenti delle case violate con l'inganno, sui gradini del tempio di Atena.

Oltre, andai oltre. Gli anni piovvero su di me, seppellendo il desiderio dell'Egitto.
Cosa cercavo? Cosa ho sempre cercato? Quale domande mi facevo e quali risposte pretendevo?
La memoria è una sgualdrina. La memoria è una maledizione. O forse è la nostra più grande fortuna.
Ci rende i testimoni perfetti di una storia che si ripete e dove gli uomini compiono sempre le stesse azioni e i medesimi errori senza imparare nulla.
Ma che sia dono o logorio, essa ci accompagna sempre e noi possiamo rievocare ogni suono, volto o sapore con la vividezza di chi vi è immerso in quel preciso momento.
La memoria è matrigna.
Vorrei smettere di pensare.
Devo continuare a pensare.... prima che la Sete mi fagociti e il mio corpo finisca per divorare l'ultimo barlume di vita che lo anima, consumandomi come una candela solitaria.


[…]

Atene. L'agorà.
Democrito. Platone. Aristotele.
Alessandro Magno. Alessandro in India come Dioniso.
Dioniso e l'ebbrezza delle sue Menadi, l'ebbrezza e la corsa sfrenata nelle selve...
Oblio.
Il ghiaccio e la neve, nella profonda e selvaggia Gallia. I Druidi nel seno delle foreste che innalzavano lodi alla Dea e al Dio.
E poi uccidevano il Dio, lo davano in pasto alla Grande Madre che lo partoriva di nuovo e, infine, lo sposava, prima che il Re Cervo venisse sacrificato nuovamente quand'era ora di cogliere il grano. Un cerchio.
Sangue. Sangue. Sangue! La terra beve il sangue. Si nutre del sangue del Cervo, del Dio che poi tutti divorano e fanno festa.
E il Dio sono io e divoro il sangue al banchetto reale.”

 

 

***

 

La taverna era una bolgia di grida e risate volgari.
Gli avventori, una torma di galeotti e malfattori, stavano seduti scompostamente su seggiole sgangherate e scompagnate davanti al camino, bevendo birra scadente e vino annacquato.
In un angolo, si giocava a carte. Di colpo, uno degli uomini impegnati nella partita si alzò con uno scatto repentino, facendo ribaltare la sedia e lanciando con un gesto di disgusto le carte francesi sul pianale.
«Ne manca una! Hai barato, sporco bastardo!» urlò con la faccia congestionata dalla rabbia al suo avversario.
Quello, al contrario, si schermì con un sorrisetto tutto denti. «Sei ubriaco, amico, pagami la vincita e poi togliti dai piedi!»
In tutta risposta, l'altro – con una lunga cicatrice che gli attraversava la guancia destra – estrasse un pugnale nascosto sotto la giacca e si avventò sul baro, afferrandolo per il colletto.
Quasi scoppiò una rissa, ma l'oste e il suo garzone sbatterono fuori i due litiganti.
«Gelatevi le chiappe di fuori, fino a che non vi sarete dati una calmata!», esclamò il proprietario della bettola, chiudendo con un tonfo la porta.
Poco dopo, però, l'uscio tornò a socchiudersi e l'oste, scorciandosi le maniche della camicia, borbottò: «Vi avevo detto di restare fuori...», ma rimase sconcertato quando si accorse di trovarsi davanti ad una persona del tutto diversa. «Ah, non ce l'avevo con voi. Accomodatevi.»
Lo sconosciuto gli fece un breve cenno con il capo: stretto in un cappotto dai bottoni preziosi; portava un cappello calato sugli occhi e il bavero sollevato, cosicché il suo volto non era pienamente visibile. Sfilò tra i tavoli, fino a trovare ciò che cercava: un angolo appartato, in penombra, da dove poteva osservare il resto della sala.
Davanti ad una finestra che, probabilmente, non vedeva uno straccio da settimane, stava seduto un ragazzino in abiti dimessi che suonava un flauto, da cui traeva il suono basso e un po' patetico di una melodia triste.
Da sotto la falda del cappello, lo straniero osservò il musicista a cui nessun altro dava retta. Rimase affascinato dal movimento fluido delle dita, dalla precisione con cui scivolavano – accarezzavano – la silhouette dello strumento come se fosse stata la schiena di una bella donna. Socchiuse le palpebre, trattenendo un brivido di improvvisa libidine quando fissò le labbra del ragazzo soffiare contro la bocchetta del flauto... come se lo baciasse, come se ci facesse l'amore con la struggente malinconia di uno condannato al patibolo. Persino la musica, adesso, sembrava meno infelice e acquisiva una nota dolceamara.
Un pensiero impuro, la malizia di chi sente che tutto gli è dovuto, spinse l'uomo ad avvicinarsi al musicista e a sedergli accanto.
«Hai del talento. Come ti chiami?»
La voce bassa e suadente, roca come di chi non parla da troppo, solleticò l'orecchio del giovane che non aveva nemmeno ancora un filo di barba sulle guance.
«Anthon, signore. Volete che suoni qualcosa in particolare? Conosco tante canzoni...»
«Devi suonarne solo una: la melodia perfetta.»
Nella penombra, sembrò un bacio: lo sconosciuto abbracciò Anthon con la foga spropositata di una belva e gli tappò la bocca con una mano, mentre il ragazzo si divincolava, trovando però un'inaspettata potenza a disilludere le sue speranze di fuga. Sembrò un bacio, ma in realtà fu un morso: la gola squarciata, il sangue che fluiva – poesia.


Eveline dormiva serena.
Remoto, sul fondo della strada su cui si affacciava il palazzo dove viveva, il vento spazzava le foglie marroni e le pagine di un vecchio giornale – portava la data del 20 gennaio 1801 –, facendole volteggiare come smosse da fili invisibili.
Non c'era anima viva e il fischio del vento era l'unico suono che si potesse udire nella notte scura di un inverno rigido e inclemente. Solo la bellezza silenziosa dei primi fiocchi di neve riuscivano a rendere, forse, meno crudeli i profili arcigni delle case e il suono stridente di qualche segnavento sui tetti.
La musica del flauto risalì lungo la stradina, rotolando tra l'acciottolato e innalzandosi, dolcemente, in una serenata alla luna pallida e distante.
La neve vorticò attorno alla figura che – incurante del gelo – avanzava con una leggerezza da predatore, facendo volare via il suo cappello e schioccare le falde del cappotto sbottonato.
Il flautista si fermò davanti al vecchio palazzo di inizio '700, proprio sotto la finestra dove Eveline riposava.
Attese, i sensi preternaturali affinati: il respiro leggero della ragazza lo raggiunse e un sorriso sornione gli curvò le labbra. La chiamò attraverso la sua musica, ora impetuosa e scrosciante, come il pifferaio magico di un'antica favola.
Eveline spalancò gli occhi, vacui e distanti di un sonnambulo. Scese dal letto a piedi nudi, allungò le mani con la grazia di un cigno che prende il volo e spalancò la finestra: la corrente si insinuò nella stanza, le gonfiò la camicia da notte e le scompigliò i capelli. Le camelie bianche nel vaso dondolarono come piccole campanelli argentei.
Il Vampiro raggiunse il davanzale con un balzo sconcertante, eseguito con la stessa leggerezza di un leopardo a caccia, lo stesso fremito lubrico di un amante impaziente.
«Vieni: fidati di me.»
La candela che ondeggiava sul comodino si consumò del tutto e si spense; la stanza piombò nell'oscurità. Le pagine del libro vennero sfogliate freneticamente dal vento tagliente, mentre Eveline – con il sorriso incosciente e puro delle vergini al martirio – scivolava nell'abbraccio del Vampiro.
Fidarsi è già farsi uccidere un po’.

 

***

 

Il sangue della prima uccisione mi formicola fin nelle ossa. O è la Sete che torce ogni vena rinsecchita?
Il flauto, la bettola, l'odore del corpo del giovinetto...
Sogno il sangue. Sto impazzendo.
Sento ancora il suo sapore in bocca, la sensazione stordente del nastro cremisi che fluisce da un corpo all'altro e dei mille brividi che fanno accapponare la pelle.
La magnifica sensazione delle zanne che violano la carne umana, spalancando abissi di dolore e di piacere: per questo vale la pena continuare ad esistere; di questo siamo fatti, senza vergogna, senza limiti, poiché i limiti sono per i mortali e noi siamo quanto di più vicino agli Dei.


Mi piace camminare sotto la neve: il tragitto dalla locanda al quartiere borghese mi fa scoprire il mondo mutato del diciannovesimo secolo. Sono davvero io? Ho sconfitto la solitudine e ho trovato la forza di levarmi?
Passeggiare su questa strada gelata non è diverso dal calpestare le sabbie dell'arena nel Colosseo, dove i gladiatori si scannavano sotto lo sguardo eccitato e capriccioso della plebaglia; o attraverso le strade infangate ai piedi di una rocca medievale nell'anno Mille, tra i preti che ammaestravano le folle di poveracci alla superstizione.
L'uomo ha avuto bisogno di inventarsi mostri per giustificare le proprie nefandezze, eppure – davanti a quelli veri, come me – ha avuto paura.
Osservo le mie mani, avvolte in guanti di pelle da ricco gentiluomo, suonare il flauto... no, le mie mani hanno le dita adunche e le unghie taglienti come artigli rapaci e si muovono con maestria lungo lo strumento.

La musica...
Per quanto ammaliante possa essere la musica che sappiamo produrre, non riesce davvero ad avere il sentimento di cui sanno caricarla i mortali.
La nostra arte è l'omicidio. Uccidere, significa vita: preda e predatore corrono sullo stesso filo, in una danza che fa galoppare i cuori all'unisono.
Se è davvero semplice poter spappolare il cranio di un uomo tra le dita, è molto più difficile comprendere il valore della morte.
Cos'è la morte? E la vita? Siamo erranti sballottati su strade dove non incontriamo mai pienamente né l'una, né l'altra, ed esse ci appaiono come remoti riflessi di specchi ustori.

Lassù, in una stanza, una ragazza sogna. Sogna dei paesi sconfinati dove correre senza freni e urlare per sentire l'eco della propria voce tra i monti; sogna l'amore sconfinato...
Camelie. Ecco dove le avevo viste: tremano per colpa del vento.
Lei è nell'arco delle mie braccia a si abbandona come il più tenero bocciolo e, mentre la stringo, mentre avverto il soffice tepore del suo seno acerbo contro il mio petto, mentre passo le dita tra i suoi capelli e le bacio le labbra piccine, io mi sento vivo.
La gola sottile e il sospiro che le sfugge eccitano la fame, la Bestia, la cupidigia. Mia, solo mia!
Affondo i denti. Sì, così, finalmente...
Le lacrime le rigano il volto cereo dall'orrore. Si divincola, apro le braccia e sorrido: l'uccellino non si rende conto di essere in gabbia e prova a spiccare il volo.
Il sangue la inonda come un velo cremisi, schizza sulle camelie che lo bevono voraci.
Camelie rosse. Ora capisco.

[…]

Oh, ti prego, il sangue! Dammi il tuo sangue, fanciulla! Ti prego, ti prego, ti prego.
No, no, non svanire, non adesso!
La terra. La mia prigione. Debole, sono troppo debole.
Dov'è? La mia dolce ragazza, dov'è?
Chi sono? Dove sono?

Tormentato dalle visioni che non sono mie, annaspo con le dita contro il coperchio del sarcofago, le sento vibrare e spezzarsi, mentre gratto con furia.
Alphonse: si chiama così. Non voglio più vedere attraverso i suoi occhi!

[…]

Passi. Passi sopra la mia testa.
Terra smossa. Qualcuno sta scavando!
«Ti cercavo, ti ho trovato. Adesso ti libererò.»

Alphonse. La sua voce mi giunge ovattata, una voce sovrannaturale. Non ne sentivo una da centinaia di anni, ma so riconoscerla.
Il coperchio di granito scricchiola, lentamente si sposta e la luce della luna mi ferisce gli occhi.
Un volto assorto, dove il sangue umano fluisce inconfondibile sottopelle rendendo i lineamenti meno spigolosi e ferini, mi fissa e vede una mummia cadente, con le gengive ritratte tra le labbra secche e le palpebre assenti su occhi oscenamente vivi e sporgenti.
«Dov'è la ragazza?», gli chiedo immediatamente con un sibilo gracchiante e orribile.

«È morta.»"

 

 

 

 

 

 

_______________________

Note dell'autrice

Sono arrivata alla fine di questa vera pazzia. Non so in che altro modo chiamarla, se non esperimento, prova, allucinazione, non saprei! XD
Ho cercato di creare una storia basata su due stili diversi e due “dimensioni” diverse: da un lato c'è il racconto in terza persona e al passato che riguarda Eveline e quanto accade nella locanda, dall'altro lato c'è – invece – un racconto in prima persona e al presente.
Se lo stile delle parti in terza persona è magari più descrittivo e “pulito”, ho optato - per tutte le parti in prima persona – per uno stile diverso, onirico, persino un po' confusionario, con frasi brevi e secche, altre più lunghe con pause, frasi lasciate in sospeso e rapidissimi cambi di argomento, assecondando visioni veloci che si rincorrono e sovrappongono della voce narrante.
Insomma, ho cercato di creare una specie di flusso di coscienza, dove si procede per analogia, con una logica dovuta tutta a ciò che un ricordo precedente rievoca e a cui si aggancia, un po' come in uno stato di delirante dormiveglia.

L'idea era quella di far sovrapporre il personaggio che parla in prima persona – e che volutamente non ha nome – con l'altro Vampiro,Alphonse, che entra in scena: lui vive il presente attraverso o suoi occhi, tanto che gli sembra di agire in prima persona. E' la presenza di questo Vampiro che lo induce a svegliarsi, il fatto che lui lo cerchi, il fatto che funga – per il prigioniero – da antenna e cassa di risonanza del mondo fuori dal sepolcro.
Ci ho provato, non so se ci sono riuscita. Spero solo di non aver fatto un pasticcio.

Una note: Alphonse è il personaggio di un altra mia storia, Letter to Alexandra (http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2886889), ma direi che – ai fini di questa one shot – non c'è alcuna difficoltà reale nell'inquadrare il contesto della storia che, quindi, essa si regge da sola, anche al di là della long a cui, tramite Alphonse, ho deciso di legarla.


Il banner è stato realizzato da MyPride, come premio speciale per il contest a cui la storia era iscritta.


Questa storia, comunque, è stata scritta per alcuni contest indetti sul forum di EFP:

- “Children of the Night”, di My Pride, con la richiesta di scrivere di Vampiri che hanno vissuto secoli e hanno visto il mondo cambiare.

- “Darkness” di Nelith e Selis, con il pacchetto IV:
genere: Horror; prompt: un libro aperto e una candela ormai consumata; immagine: http://i57.tinypic.com/303h4p1.jpg

Come ho usato il pacchetto? Il mio dubbio più grande è, in realtà, sul genere “horror”, perché ho cercato di renderlo, ma in maniera soft, più su una sensazione inquietante e opprimente, visionaria, ma non eclatante.
Per quanto riguarda i due prompt, li ho inseriti fin dall'inizio e tornano progressivamente per tutta la storia che riguarda Eveline.
L'immagine è quella che ho voluto interpretare in modo particolare: le camelie (credo siano camelie) sono fiori che tornano spesso, il flauto (dovrebbe essere un flauto, no? XD) ha un suo ruolo di spicco e le mani... beh, le mani sono un po' quelle del Vampiro che ruba il flauto alla sua prima preda e anche quelle che si sovrappongono e si confondono nelle visioni del Vampiro che, invece, è bloccato nella sua prigione.

- “Quanti punti vuoi?” di DonnieTZ.
La lista dei prompt inseriti è la seguente:

Coppie:
adulto + ragazzo 5 pt che è contemporaneamente benestante/nobile + umile 4 pt e boia + vittima 5 pt (mi riferisco in particolare al Vampiro e al musicista nella bettola, non so se possano essere considerate tutte queste coppie insieme o singolarmente. u.u)

ambientazioni:
vicino alla finestra 5 pt (dove ci sono le camelie e dove Eveline viene agguantata dal Vampiro, ma anche dove si trova il musicista nell'osteria)
biblioteca o libreria 5 pt (è quella dove il padre di Eveline trova il libro)
davanti al camino 5 pt (nell'osteria)
Antica Grecia 5 pt (viene nominata dal racconto del Vampiro)
Medioevo 4 pt (viene citato l'Anno Mille)

tematiche:
La peggior cosa che potrebbe accadere al personaggio… accade. 5 pt (parlando di Eveline, ma anche del musicista)
Mangiare è come fare sesso... e fare sesso è come mangiare. 5 pt (per i Vampiri e il sangue)
Il modo in cui un personaggio maneggia un oggetto suscita in un altro pensieri maliziosi 6 pt (il modo in cui il musicista suona il flauto nell'osteria)

generi e sottogeneri:
introspettivo 6 pt
soprannaturale 5 pt
storico 5 pt
horror 4 pt
mistero 3 pt

avvertimenti ecc:
giallo 3 pt
slash 6 pt (in realtà, è solo accennato tra il Vampiro e il musicista, non so se è considerato valido)

oggetti:
mazzo di carte a cui ne manca una 4 pt
libri 2 pt
acqua 2 pt
pugnale 2 pt
sangue 2 pt
porta 2 pt
occhiali 2 pt
camicia 2 pt
lacrime 2 pt

azioni:
litigare 4 pt
lanciare un oggetto 4 pt (le carte durante la rissa)
mordere 4 pt
ridere 3 pt (le risate nella taverna)
leggere 3 pt
dormire 3 pt
baciarsi 3 pt
piangere 4 pt
correre 3 pt

citazioni:
“Fidarsi è già farsi uccidere un po’” 5 pt

 

Infine, vi lascio un paio di note esplicative di alcuni riferimenti all'Antico Egitto presenti nel testo:

iSacerdoti uebu, ovvero sacerdoti puri: erano la carica “base” degli ordini sacerdotali egizi. Si chiamavano così perché si rasavano completamente e vestivano esclusivamente di lino bianco, seguendo una dieta particolare.

iiQuesti gesti appartengono al rituale dell'Apertura della Bocca che gli Egizi praticavano durante i riti funerari, in modo che – nell'Aldilà – il defunto potesse nuovamente ricorrere ai propri sensi.

iiiÈ il nome egizio del Ghibli, il vento del deserto.

   
 
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