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Autore: Teddy_bear    05/01/2015    0 recensioni
Vi siete mai fermati a pensare a quanti avvenimenti, nel corso delle ore, dei giorni, succedono? Prendiamo la città di Londra, quante vicende accadono al suo interno? Vorrei provare a raccontarvi una storia.
Ma non è una semplice storia.
C'è un lui e c'è una lei. Un Aaron ed una Rain.
In questo racconto non saprete se è più malato lui, lei, o il loro rapporto.
E voi lo amereste mai... Un cannibale?
Genere: Dark, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Trailer: http://www.youtube.com/watch?v=JrnDDpjIwkc



[Introduzione]

 

Londra possiede, all'incirca, otto milioni di abitanti, e quello che accadde ad uno di questi potrebbe incuriosire, quanto terrorizzare.

Sto per raccontarvi una storia; ma non è una semplice storia.

Nessuno mai si sofferma sul lato nascosto di una persona: forse per timore, forse per incoscienza, o codardia. Eppure il lato nascosto potrebbe, in questo caso, esser il 'bene'; ed il lato mostrato, d'altro canto, il 'male'.

Sto per narrarvi di Aaron Cabell; colui che riuscì a colmare, di colori, il suo vuoto mondo, in bianco e nero.

«Quando si conosce il peggio di una persona, hai due possibilità: liberartene definitivamente, o iniziare a volerle bene per davvero.»

Predazione infraspecifica. Bastano queste due parole per riassumere il tutto.

 

Prologo.*

 

La pioggia picchiettava in terra, quel giorno di metà ottobre, a Londra.

Aaron si alzò dal letto, maledicendo la sveglia ed il suo fastidioso rumure che gli vibrava nelle orecchie, ogni volta, troppo presto.

Si mise a sedere sul bordo, osservando i vetri della finestra, di camera sua, appannati e le persiane ancora chiuse, mentre l'oscurità era presente in quella camera fredda.

Scosse la testa, passandosi una mano tra i capelli mossi, ed arruffati, data l'ora del mattino.

«Aaron, ben svegliato.»

Gwen, la madre, gli sorrise cordialmente, mentre si affrettava a sistemarsi i capelli in uno chignon.

Aaron, spesso, si chiedeva come ella potesse esser così energica alle sei di mattina. Egli, infatti, mugugnò, in risposta, una sorta di 'buongiorno' seguito, successivamente, da un 'ho sonno' scivolato fuori così, dalle sue labbra un po' più arrossate.

«Hai dormito stanotte?» gli chiese Gwen, abbottonandosi la giacchetta del taglier.

«Sì, abbastanza.» rispose, dirigendosi verso il bagno, chiudendo poi, delicatamente, la porta.

Aaron contempò la sua immagine, che lo specchio rifletteva, per qualche secondo; scosse il capo, ancora una volta, non capendo il motivo di quei pensieri. Si scompigliò i capelli ricci, e si sciacquò il viso, nella speranza che l'acqua lo potesse, finalmente, privare di tutti i suoi problemi, o meglio, di quel problema. Ma, a quanto pare, non vi era stata trovata ancora la soluzione, e più il tempo passava, più la sua malattia si faceva spazio nella sua mente, distruggendolo piano, e torturandolo con dei pensieri così insani da spaventare chiunque; eccetto qualcuno.

Aveva dichiarato apertamente chi era un paio di anni prima, quando aveva all'incirca sedici anni, dove il problema era solo una piccola radice pronta a far crescere un grande albero. La maggior parte dei suoi conoscenti non si era fatta molti scrupoli ad abbandonarlo, come le persone crudeli fanno con un cane, quando devono partire per qualche vacanza; l'avevano lasciato lì, a crogiolarsi nella solitudine che era diventata la sua migliore amica e non c'è cosa peggiore di lasciare solo un individuo che, nonostante tutto, preserva un cuore all'interno del suo corpo.

Ma, ad Aaron, la solitudine non spaventava; presto imparò a conviverci, trovandosi addirittura bene. Le persone che gli rimasero accanto, invece, furono i membri della sua famiglia: sua madre e sua sorella.

Sua madre, Gwen, era una donna eccezionale: amava il suo lavoro di avvocato, nonostante spesso chiamava, nella sua testa, il figlio, con l'appellativo 'causa persa' -ovviamente in modo affettuoso- amava cucinare, amava fare shopping la domenica pomeriggio, amava le belle giornate di sole rare a Londra... Ma, soprattutto, amava i suoi figli.

Daisy, invece, era la sorellina di Aaron. Una bambina di nove anni che si divertiva a guardare i cartoni animati con le amichette, una bambina spensierata, gentile e giocosa che appena poteva agghindava con strani nastri, ed elastici, i capelli ricci di suo fratello.

Aaron, a volte, si diceva di non c'entrare nulla con quella famiglia così bella. Lui era a conoscenza di ciò che lo stava, lentamente, divorando. E questo guscio, questa barriera, che aveva creato all'esterno, ed all'interno, di se stesso lo faceva apparire ciò che egli in realtà non era.

Aaron Cabell soffriva di predazione infraspecifica; in tutti i sensi. Ne era affetto come malattia, e ne soffriva perchè lo faceva soffrire. Ma con gli anni era riuscito anche a rimarginare, come si rimargina una ferita, questa sofferenza... Il punto è che ogni ferita, lascia una cicatrice.

Egli non riusciva ad aprirsi con nessuno e, se lo faceva, le conseguenze erano devastanti, sia per lui, che per gli altri.

«Non ce la faccio più.»

Si ritrovava, qualche volta, a sussurrare frasi di questo tipo, a fargli eco nelle proprie orecchie, a diventare una macchia indelebile nel cervello.

Le ricadute furono sempre più presenti, in quei mesi. Ed i quesiti che si poneva sulle persone erano diventati più reali, la vita che lo circondava un'allucinazione, i suoi desideri più espliciti, e tutto ciò che bramava sempre più vicino al suo cuore, piuttosto che alla mente.

Lui non voleva esser così, ma doveva. Tutto ciò era come se gli fosse stato imposto da una divinità, un qualcosa più grande di lui... Come se la sua stessa malattia fosse una forza ma, al tempo stesso, una debolezza.

E mentre la sua sindrome si faceva spazio attraverso il suo corpo, raggiungendo piano piano il cuore, la zona dove c'erano i sentimenti puri, sinceri, leali e soprattutto buoni, lui si sentiva sempre più sconfitto. Sempre più distrutto.

Aaron lottò sin da piccolo, per questo suo lato. Lui non scoprì di esser un antropofago, lui lo seppe; lo seppe quando si ritrovava a leccarsi le labbra vedendo qualcuno, lo seppe quando certi interrogativi erano delle fastidiose voci in testa, lo seppe quando l'istinto tentava di prendere il sopravvento. Ed era proprio perchè lo sapeva, che egli cercava di non pensarci e di comportarsi normalmente.

«Aarry, tutto bene?» la madre bussò piano alla porta del bagno, per accettarsi che fosse tutto a posto, visto che erano passati alcuni minuti; d'altro canto, il ragazzo sembrò risvegliarsi da una sorta di trance, un viaggio da cui era difficile fare ritorno. Sbuffò, infatti, al nomigliolo che la madre gli diede, ricordandosi della sua infanzia. Deglutendo, tentò di formulare una risposta.

«Sì, esco.» e così, lasciò quella stanza della casa dirigendosi, poi, in camera sua.

Indossò la solita divisa scolastica, un po' lisa e sgualcita, maledicendo mentalmente il motivo percui doveva alzarsi ogni mattina. Dopo aver preso lo zaino, si diresse verso la camera di sua sorella, per salutarla; aprì lentamente la porta, cercando di creare meno rumore possibile, e avanzò verso il letto dove ella ancora dormiva, piegandosi sulle ginocchia, per arrivare a quel volto per tratti simile al suo.

«Ciao Daisy.» le accarezzò delicatamente i capelli lisci, sentendosi in colpa nei suoi confronti, perchè lei era solo una bambina che non riusciva a rendersi conto della situazione. Aaron si guardò intorno, catturando ogni dettaglio di quella camera, tra le sue ciglia: osservò le pareti rosa confetto cosparse di poster raffiguranti qualche cantante di cui non ricordava il nome, i mobili pieni di pupazzi, la scrivania disordinata, e tutto il resto di quello che lo circondava, in quel momento. Scosse la testa, pensando a quanto lui e sua sorella fossero diversi, e non capì se pensare che fosse una sfortuna o, viceversa, una fortuna. Guardò l'orologio al suo polso; era tardi. Si alzò dal tappeto dove poco prima si era inginocchiato, e si affrettò a dirigersi verso scuola.

«Non mangi nulla, per colazione?» gli domandò Gwen.

Mangiare. Dio, quanto avrebbe voluto cancellare quella parola dalla sua esistenza. Volere, potere. I peggiori nemici di Aaron.

«No, vado che è già tardi.» le rispose.

Si sbrigò ad uscire di casa, percorrendo quelle stradine di Londra che sapeva a memoria.

Si mise gli auricolari nelle orecchie, mentre 'Read All About It' gli faceva eco, procurandogli dei brividi, facendolo catapultare in un mondo dove era lui il vero padrone.

 

You've got the words to change a nation
But you're biting your tongue 
You've spent a life time stuck in silence 
Afraid you'll say something wrong 
If no one ever hears it how we gonna learn your song? 
So come on, come on 
Come on, come on 
You've got a heart as loud as lions 
So why let your voice be tamed? 
Baby we're a little different 
There's no need to be ashamed 
You've got the light to fight the shadows 
So stop hiding it away 
Come on, Come on 

 

Quella canzone la sentiva sua; ogni parola, ogni timbro vocale era per lui.

Grida, Aaron.

Urla, Aaron.

Scoppia, pensava.

 

I wanna sing, I wanna shout 
I wanna scream till the words dry out 
So put it in all of the papers, 
I'm not afraid 
They can read all about it 
Read all about it oh 
Oh-oh-oh 
Oh-oh-oh 
Oh-oh-oh 
Oh-oh-oh 
Oh-oh-oh 
Oh-oh-oh 

 

Ed egli scoppiò; non lo diede a vedere, come suo solito, ma lo fece.

Mosse i cappelli con fare frustato, si sistemò nel modo migliore lo zaino sulla spalla e strinse i pugni, fino a farsi diventare le nocche bianche. Sembrava quasi che volesse uscire dal suo corpo, scappare dai suoi pensieri e non tornare mai più.

 

At night we're waking up the neighbours 
While we sing away the blues 
Making sure that we remember yeah 
Cause we all matter too 
If the truth has been forbidden 
Then we're breaking all the rules 
So come on, come on 
Come on, come on, 
Let's get the tv and the radio 
To play our tune again 
It's 'bout time we got some airplay of our version of events 
There's no need to be afraid 
I will sing with you my friend 
Come on, come on 

 

Per qual motivo sembrava che il mondo ce l'avesse con lui? Perchè le persone lo rendevano così... Instabile?

 

I wanna sing, I wanna shout 
I wanna scream till the words dry out 
So put it in all of the papers, 
I'm not afraid 
They can read all about it 
Read all about it oh 
Oh-oh-oh 
Oh-oh-oh 
Oh-oh-oh 
Oh-oh-oh 
Oh-oh-oh 
Oh-oh-oh 

 

Un respiro profondo, un altro respiro profondo ed un altro ancora.

Ce la puoi fare, Aaron. Sei forte, pensava.

Il cuore che martellava, quasi volesse uscire dal suo petto, e l'ansia a divorargli ogni organo del corpo.

Supera anche questa giornata, si ripeteva.

L'entrata di scuola piena di studenti era un incubo; alcuni lo guardavano con disgusto, altri con gli occhi terrorizzati ed altri ancora con pietà. Si sentiva chiuso in gabbia, solo, contro dei leoni affamati di lui e delle sue debolezze. Poi scosse il capo, abbassandolo verso la punta della sue scarpe, e camminò svelto verso l'edificio. I bisbigli erano ogni giorno più distruttivi, quali: "è arrivato il cannibale", "che schifo", oppure "chissà chi avrà intenzione di mangiare oggi". Si era pentito di aver detto a tutti chi era, il secondo dopo averlo dichiarato; e, nonostante fossero passati due anni, la gente ricordava. Perchè la gente non perdona. Non aveva mai fatto del male a nessuno, ma per le persone era come se fosse un omicida.

Sei solo, Aaron.

Fai schifo.

Nessuno mai ti vorrebbe nella sua vita.

Quando ascoltava questa voce dentro di sè, si sentiva anche peggio. Erano più i momenti in cui si odiava, che quelli in cui andava fiero di esser ciò che era.

Ad ogni corso che frequentava era sempre seduto da solo, così come a mensa e durante le conferenze scolastiche. A volte desiderava avere un vero amico; uno di quelli che non giudica, con cui si fanno stupidaggini su stupidaggini, poi si diceva di avere già Daisy, la sua sorellina, quindi andava fin troppo bene così.

«Aaron.»

Al suono della penultima ora di un'altra giornata stressante, lo psicologo della scuola, il dottor Wright, lo chiamò.

Non di nuovo, pensò Aaron.

«Dica.» si voltò, cercando di esser il più cortese possibile.

«Volevo solo dirti che se ti dovesse interessare un aiuto, il mio studio è disponibile.» il dottore diede ad Aaron un biglietto da visita, con tutti i riferimenti per avere una seduta.

«La ringrazio, ma non ce n'è bisogno.» si affrettò a dire il moro, mentre si dirigeva verso l'altro corso, l'ultimo di quella giornata.

«So chi sei, Cabell.» disse l'altro.

«No, mi creda, non lo sa.» rispose subito il ragazzo «Se lo sapesse davvero, non sarebbe qui ora, a discuterne.» agginse poi «E saprebbe che la cosa migliore è solo starmi alla larga, mio caro dottore.» concluse, leccandosi le labbra, mentre la sua voce prendeva un tono più grave e più rauco.

«Non mi fai paura.» ribattè Wright.

Aaron aggrottò le sopracciglia, portandosi inconsapevolmente i capelli mossi davanti agli occhi scuri e «non le credo.» affermò dirigendosi di pochi passi verso l'uomo.

«Cabell, ho visto casi peggiori del tuo. Ho visto persone schizofreniche, bipolari, tossicodipendenti, fobiche ed alcolizzate. Ho conosciuto persone che facevano del male e che si facevano del male. Tu sei in entrambe le categorie.» spiegò pazientemente.

«Io non faccio del male.» disse Aaron «le persone mi stanno distanti ed io sono distante dalle persone, è un giusto compromesso, no?» domandò poi.

«No. Tu non hai ancora capito ciò che ti fa bene, e ciò che ti fa male.» sospirò lo psicologo.

«Vado a lezione, è tardi.» tagliò corto il ragazzo, dirigendosi verso l'ultimo corso.

Wright sospirò, lasciando andare.

Aaron poteva farcela, ma non voleva farcela. Ecco il suo vero problema.

Quando anche l'ultima ora suonò, Aaron fece un grande respiro di sollievo. Si precipitò verso il cancello dell'edificio, spintonando qua e là qualche studente che neanche conosceva.

La sua dimora non gli era mai sembrata così incantevole come in quel momento; suonò il campanello dicendo, successivamente, un «mamma, sono io.» con la voce spezzata per via della corsa.

Gwen aprì la porta, ritrovandosi davanti il figlio completamente distrutto; lo leggeva nei suoi occhi, lo notava dalle sue labbra mai curvate verso l'alto, lo osservava dal suo capo sempre chino verso il basso. Così, come a scavare nell'anima tormentata del suo bambino, ormai cresciuto, lo abbracciò; sentiva che da un momento all'altro, Aaron, si sarebbe sgretolato, sarebbe caduto a pezzi e non si sarebbe più ricomposto. Suo figlio era instabile e lei cercava di salvarlo, tramite degli abbracci materni che sapevano di amore, cura e protezione.

«Ogni volta che tu cadrai, io ci sarò a curare le tue ferite.»

Era la frase che Gwen gli sussurrava, ogni volta che lo trovava in questo stato.

Aaron abbracciò piano la madre, quasi avesse paura di poterla perdere, e quelle parole gli portarono i ricordi della sua infanzia.

 

Era solo un bambino tutto capelli ricci ed occhietti vivaci, aveva circa nove anni, quando si recava nei boschi vicino a casa sua con Jeremy, il suo amico d'infanzia.

Erano soliti a fare delle gare in bicicletta; chi arrivava primo alla "grande pianta" -così la chiamavano loro- avrebbe avuto l'onore di mangiare più fette di torta per merenda.

Aaron aveva una bicicletta rosso fuoco, mentre Jeremy una blu cobalto. E spesso si ritrovavano a discutere per chi l'avesse più bella, o per quale fosse la più veloce, non sapendo che la velocità dipendeva solo da loro e da quanto forte pedalavano.

«Stavolta vinco io!» esclamava Jeremy, mentre sfrecciava verso quella fatidica pianta.

«Ti piacerebbe!» ribatteva Aaron, ridacchiando, sentendo già il sapore della torta al cioccolato in bocca.

Poi il bambino dai capelli ricci cadde, sbucciandosi le ginocchia e facendosi male.

«Aarry, ti sei fatto male?» aveva domandato preoccupato, l'amico, andandogli accanto.

«Chiama mia mamma.» invece aveva detto, con le ginocchia doloranti, Aaron.

«Subito.» aveva risposto l'altro.

E quando Gwen era arrivata, con un sorriso dolce e rassicurante, suo figlio si sentiva già meglio.

«Si è fatto male, il mio piccolo Aarry?» gli aveva chiesto, baciandogli la fronte piena di boccoli.

«Sì.» aveva sussurrato il bambino.

«Ogni volta che tu cadrai, io ci sarò a curare le tue ferite.» aveva detto la donna.

 

E mai come in quel momento, Aaron aveva capito il senso della frase.

Sua madre ci sarebbe stata, sempre. A prescindere da ogni cosa.

«Entra e sfogati, Aarry.» gli disse, prendendolo per il braccio diventato muscoloso e pieno di vene sporgenti.

«Sono stanco di quella scuola, mamma.» le spiegò, sedendosi sul divano di pelle in salotto «odio quando le persone mi guardano sapendo chi sono.» aggiunse scuotendo la testa e sospirando «e odio quando le persone credono di conoscermi.» concluse, portandosi le mani sugli occhi e respirando irregolarmente, ansioso.

«Shh, calmati, va tutto bene.» la madre riprese a confortarlo, abbracciandolo, e dandogli dei piccoli baci sui capelli profumati di shampoo.

«Io non ce la faccio più. Sto scoppiando, capisci? Tutti quanti sanno come appaio, ma non chi sono veramente.» le disse, stringendola, e martoriandosi il labbro inferiore.

«In questo mondo dove ciò che appari diventa indiscutibilmente ciò che sei, l'unica speranza è trovare qualcuno che sappia invadere la tua anima e unirla alla sua, Aaron.» gli spiegò, saggiamente.

«Stronzate. Non troverò mai quella persona e nemmeno voglio incontrarla.» sussurrò, inebriandosi del profumo della madre.

«Quando si conosce il peggio di una persona hai due possibilità: liberartene definitivamente, o iniziare a volerle bene per davvero. Aarry, tu sei speciale e presto anche le persone se ne accorgeranno.» gli accarezzò una guancia, cullandolo di dolci parole.

«Speciale? Come può un cannibale esserlo?» le chiese, sentendo l'odio verso se stesso invaderlo.

«Non sei un cannibale, tesoro.» gli sussurrò «Sei Aaron Cabell, un ragazzo di diciott'anni con una mente che va solo capita ed ascoltata.» aggiunse «e un cuore che va solo amato.» concluse, poi.

«Come no. Dici così perchè sei mia madre.» sputò amaramente.

«Oppure dico così perchè sono sincera.» ribattè Gwen.

«Grazie, mamma. Ma io non voglio star un attimo di più in quella scuola.» disse.

A Gwen, d'altro canto, venne un'idea; magari assurda, o magari geniale.

«Ti ricordi quella vacanza che facemmo a Dublino con papà? Dai tuoi zii? Ti eri divertito moltissimo.» sorrise al ricordo «che ne dici di andare a vivere là? Frequenterai la stessa scuola di Bonnie e ti farebbe bene cambiare aria. Io e Daisy ce la caveremo.» lo rassicurò, sistemandoglì il colletto della divisa scolastica.

«Non credo sia una buona idea... Mi manchereste troppo.» ammise il ragazzo.

«Ohw. Non preoccuparti; da quando ho imparato come si usa Skype avremmo modo di sentirci tutte le volte che tu vorrai. Vivi la tua vita, Aarry. Prova ad esser felice.» gli sorrise, ammicando.

«Non mi piace quella faccia; a cosa stai pensando, mamma?» le chiese, con sospetto.

«Oh, nulla. Lo capirai.» canticchiò, alzandosi dal divano e prendendo la cornetta del telefono.

Nuova vita, nuova scuola, nuove conoscenze...

«No, scordatelo, mamma.» affermò, puntandole un dito contro.

«Io non ho detto nulla, hai pensato tutto tu, bambino mio.» rise, mentre un'altra voce gli arrivò presto al suo orecchio destro.

Aaron alzò gli occhi al soffitto, imprecando contro i viaggi mentali della madre.

«Joseph, mi passi mia sorella?» udì dalla madre, aspettò qualche secondo, e poi «Ciao Liz, sto per farti una proposta.»

E ciò che accadde dopo, fu solo l'inizio.

«Come sarebbe a dire che Aarry se ne va?!» domandò Daisy, già con le lacrime agli occhi, per la partenza del fratello.

«Dais, lo faccio solo per stare meglio. Ci sentiremo spesso, te lo prometto.» rispose Aaron, mentre chiudeva la sua valigia.

«Piccola mia, guardami.» sospirò Gwen «nemmeno io desidero che tuo fratello se ne vada, ma è la cosa migliore. Ha bisogno di un po' di distrazione e questo non significa che lui si dimenticherà di noi, di te.» le spiegò, abbassandosi all'altezza della figlia, accarezzandole i capelli.

«Io non voglio.» disse Daisy, in preda ai singhiozzi.

«Scricciolo.» la canzonò, prendendola per le spalle e facendola voltare verso di lui, chiamandola con quel nomigliolo affettuoso che le riservava «Tu sei la persona che amo di più. Sei una rompi balle, mi rendi i capelli ridicoli, mi fai guardare i cartoni animati, hai la passione per quel cantante idiota di cui non mi ricordo il nome, e mi fai esser sempre lo sposo per le tue bambole, ma... Io ti adoro e non so cosa farei senza di te. Io voglio sempre vederti felice e so che lo stesso vale per te, con me. Percui lasciami provare ad esser felice.» le disse dolcemente.

«Non lo sei qui? Con me e mamma?» gli domandò, asciugandosi gli occhietti.

«Certo che lo sono. Ma preferisco trovare un altro tipo di felicità e, questa, non è qui.» le baciò la fronte abbracciandola.

«Va bene.» disse, capendo, la piccola «Justin Bieber, comunque.» affermò.

«Mh?» le domandò, ridacchiando.

«Il cantante che mi piace è Justin Bieber. Tutti lo conoscono; sei pessimo, Aarry.» ridacchiò, ricambiando l'abbraccio.

«Io non lo sopporto, Daisy.» ammise.

«Ti adoro anch'io, fratellone.» rispose a quella dichiarazione d'affetto lasciata in sospeso, sfregando il naso sulla maglietta del fratello.

«Ah, che schifo Dais!» affermò, ripulendosi.

«Allora, hai tutto pronto?» gli chiese la madre.

«Sì, tutto.» le rispose, guardando verso la sua valigia «Domani si parte.» sospirò poi, malinconico.

«Andrà tutto bene, vedrai.» lo rassicurò, come sempre.

«Sicuramente meglio di adesso.» ridacchiò il riccio.

«Daisy, forza andiamo a dormire, che tuo fratello si deve svegliare presto domani.» disse Gwen, prendendo la figlia per mano.

«Buonanotte, Aarry.» aggiunse poi, la donna.

«'Notte, fratellone.» gli sorrise la sorella.

«Buonanotte.» sospirò il ragazzo.

Quando la porta della sua camera si chiuse, Aaron si sentì colmo di pensieri. I suoi zii erano a conoscenza della sua malattia ed aveva il presentimento che non lo avrebbero mai accettato, a far parte della loro famiglia. Alla fine era come un intruso, antropofago per giunta, si poteva biasimarli? Li avrebbe capiti e si sarebbe nuovamente sentito solo. Scacciò questo pensiero, dicendosi che fosse solo una paranoia e che sarebbe andato tutto bene, mentre si metteva sotto le coperte e spegneva la luce, cercando di dormire.

La mattina seguente, tutto sembrò più limpido ed armonioso.

Era l'inizio di una nuova vita; lontano dai preguidizi, dai pettegolezzi, dalle persone senza cuore... Lontano da tutto.

Solo lui e nessun altro. O, certo, anche i suoi zii e la cugina, ma rimaneva il suo inizio. La sua partenza verso l'ignoto.

«Mi mancherai tantissimo, Aarry. Fai buon viaggio.» la madre gli baciò entrambe le guance, stringendolo ancora. Gli addii all'aereoporto erano la cosa peggiore: strazianti, dolorosi e tristissimi.

«Mi soffochi così, mamma.» ridacchiò, staccandosi da lei, sorridendole.

«Ciao fratellone.» disse, invece, la sorella «Ti voglio bene.» aggiunse poi.

«Anch'io, scricciolo, anch'io. Sii sempre felice.» le sussurrò, prendendola in braccio.

«Sei il mio migliore amico, Aarry.» affermò, stringendogli il collo con le braccia esili.

«E tu sei la mia ancora di salvezza, Daisy.» la strinse ancora una volta, prima di farle toccare di nuovo terra coi piedi.

Poi sentì chiaramente una donna parlare del suo volo, e capì che era ora di andare.

«Ciao famiglia, io vado.» fece un respiro, e si voltò.

«Ciao, piccolo mio.» Gwen aveva già la voce rotta, ma capì che era la scelta giusta per il figlio.

Amare significa sacrificarsi. Amare significa lasciare andare.

«Ciao Aarry.» disse, invece, la sorellina muovendo la mano a mo' di saluto, nonostante stesse piangendo.

Aaron guardò un'ultima volta la madre e la sorella, e provò il vero significato della

mancanza.

«Tornerò, ve lo prometto.» gridò, infatti.

Aaron si sentiva vuoto.

Aaron era un ragazzo che non aveva speranze.

Ed è da qui, che parte la sua vera e propria storia.

Angolo autrice:
ebbene, sì, sono tornataaaaaa :D *alla gente non frega nulla di questo, hanno letto la storia e fa loro schifo*.
Hahaha, no, va beh, sono tornata davvero ed ho anche una nuova storia -questa qui- nella mia testolina, più contorta però ed anche malata, ehehe.
Mi piacciono da matti le storielle malate *u* quindi, niente, sono fatta così.
Vi prometto che aggiornerò presto le altre due, e che mi dedicherò anche a questa.
Ditemi solo se, secondo voi, ne vale la pena. Siate sincere, e ditemi cosa ne pensate.
Inoltre, non temete, Rain arriverà presto nella vita di Aaron ^^ hahah.
Se volete, mi trovate anche qui: ask.fm/Teddy_bear_efp
Un abbraccio ed un bacione, mi siete mancate.
Teddy x.

 

 

   
 
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