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Autore: Soqquadro04    06/01/2015    3 recensioni
[AU!1967!(mezza)teen!Delena – tutti umani | Soldier!Damon | 6133 parole]
[...] I soldati muoiono tutti in un unico modo – non importa se siano giovani o vecchi o per chi o per cosa combattano, non importa quanto siano lontani da casa, perché la paura rende tutti uguali e la morte lo stesso.
I soldati – non importa come o quando o perché succede – muoiono tutti con un nome stretto fra le labbra e una voce che grida nelle orecchie e volti, un'immagine in mente, a cui dire addio.
A un certo punto, quando sei veramente disperato [...] c'è comunque una parte di te che pensa che ce la farai – che per premiarti di tutto quello schifo ce la farai a tornare a casa e forse, solo forse, se sarai molto fortunato, non sarà dentro una cassa di legno.
Il canto del cigno, lo chiamano, allo stesso modo dell'ultima sferzata di vita nei moribondi [...]
Non te ne accorgi mai, quando succede [...] Così, senza gloria e senza ingiuria, semplicemente così, da un momento all'altro, in un giorno qualunque – senza avvisare.
Sei morto,
così, e non importa a nessuno tutto quello che lasci.
Genere: Angst, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Damon Salvatore, Elena Gilbert, Un po' tutti | Coppie: Damon/Elena
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Autore: Soqquadro04
Disclaimer: non sono miei ma mi odiano comunque per tutto questo, credo.
Generi: Introspettivo, Angst, Romantico, Guerra, (una sorta di) Storica
Avvertimenti:
Rating: Giallo (più per gli argomenti che altro, forse tendente all'Arancione)
N/A - Note dell'Autrice:

Buon Natale, buon anno e buona Befana, gente <3
So che sono sparita da, tipo, secoli. Lo so.

E so anche che tutto ciò non è molto natalizio (e che sono in ritardo in ogni caso), ma perdonatemi ç_ç
Appunto per questo ricompaio con questa... cosa tormentata. E OOC da morire.
E niente, è un esperimento - e anche un modo per sbloccare un terribile blocco. Volevo provare a vederli anche così – segnalatemi qualsiasi strafalcione storico notate.
Per il resto, sono stanca ma volevo solo dirvi che ad ogni modo cercherò sempre di trovare un po' di tempo per scrivere e farmi viva di tanto in tanto perché mi aiuta sempre, un sacco, e non sarebbe giusto scomparire da un momento all'altro senza neppure avvisare.
Direi che è tutto per quanto riguarda i vaneggiamenti senza senso, in ogni caso.
Passiamo alle cose utili, dai.

Note tecniche:
- Il titolo significa, letteralmente "Attraverso le asperità alle stelle (oppure) il desiderio di me sarà con te per sempre".
La seconda parte mi è venuta in mente perché stavo sfogliando il mio vecchio libro di latino, l'ho trovata e mi è piaciuta quindi è lì un po' così - la prima parte ha origine da una credenza greca secondo la quale gli eroi, una volta morti, venivano portati sull'Olimpo, vicino alle stelle (ringraziamo Wikipedia, qui, se vi interessa anche qualche curiosità o situazione in cui è stata utilizzata)

- *Si dice “canto del cigno”, in medicina, un miglioramento temporaneo delle condizioni dei pazienti terminali, causato dall'organismo che rilascia in un colpo le ultime energie rimaste.
Qui la leggenda da cui ha origine.

- *2 Nove settimane corrispondono a circa tre mesi, ed è il periodo in cui il bambino passa da embrione a feto;

- Sempre ringraziando Santa Wiki, qui e qui qualche informazione sulla guerra (che è poi quello su cui mi sono basata per la maggior parte per i cenni seriamente storici)

- Un po' di indicazioni temporali:
1. La storia si svolge nell'arco di un anno circa;

2. Damon ed Elena hanno diciannove anni nel 1966, Stefan ne ha tredici;
3. [SPOILER] Elizabeth nasce a marzo, quindi nel luglio del 1967 ha tre mesi;
4. Elena compie gli anni il ventitré agosto, Damon il ventotto giugno e Stefan il primo novembre (sperando di avere tutte le date giuste e di non avere fatto un casino);
5. Ho saltato le lettere da fine settembre a marzo perché sarebbero state tutte più o meno identiche, e mi sembrava solo ridondante e piuttosto inutile.

Qualsiasi commento di qualsiasi tipo (soprattutto se critico, a dire il vero, è ben accetto).

A presto,
la vostra Soqquadro

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Per aspera ad astra

                                            (vel)

desiderium mei tecum semper erit

 

Il cuore vive finché ha qualcosa da amare, così come il fuoco finché ha qualcosa da bruciare.
Victor Hugo

A warning to the people, the good and the evil:
this is war.
To the soldier, the civillian, the martyr, the victim:
this is war. […]


I do believe in the light, raise your hands up to the sky.
The fight is done, the war is won.
Lift your hands towards the sun [...]
The war is won.

It's the moment of truth and the moment to lie,
the moment to live and the moment to die;
the moment to fight, the moment to fight, to fight, to fight, to fight...

[…] It's a brave new world,
from the last to the first.

To the right, to the left,
we will fight to the death,
to the edge of the Earth.
It's a brave new world. [...]

I believe in nothing, not the end and not the start.
I believe in nothing, not the Earth and not the stars;
I believe in nothing, not the day and not the dark.
I believe in nothing, but the beating of our hearts...
I believe in nothing, one hundred suns until we part.
I believe in nothing, not in Satan, not in God.
I believe in nothing, not in peace and not in war.
I believe in nothing,
but the truth of who we are.
30 Seconds To Mars – This is war


I soldati muoiono tutti in un unico modo – non importa se siano giovani o vecchi o per chi o per cosa combattano, non importa quanto siano lontani da casa, perché la paura rende tutti uguali e la morte lo stesso.
I soldati – non importa come o quando o perché succede – muoiono tutti con un nome stretto fra le labbra e una voce che grida nelle orecchie e volti, un'immagine in mente, a cui dire addio.

A un certo punto, quando sei veramente disperato – quando sembra che non resti più niente e che tanto varrebbe consegnarsi direttamente in mano agli altri, a quel punto – c'è comunque una parte di te che pensa che ce la farai – che per premiarti di tutto quello schifo ce la farai a tornare a casa e forse, solo forse, se sarai molto fortunato, non sarà dentro una cassa di legno.

Il canto del cigno*, lo chiamano, allo stesso modo dell'ultima sferzata di vita nei moribondi – irrazionale, illusorio e doloroso, quando tutto finisce.

Non te ne accorgi mai, quando succede – è solo un pensiero come un altro. Poi un'esplosione, o una pallottola vagante o un assalto o uno scontro.
Così, senza gloria e senza ingiuria, semplicemente così, da un momento all'altro, in un giorno qualunque – senza avvisare.

Sei morto, così, e non importa a nessuno tutto quello che lasci.

Quel giorno non sembra diverso da tutti gli altri – l'afa è insopportabile, l'umidità offusca la realtà, come gettandola sott'acqua, e il sole batte con violenza irreale, i colori – verde, marrone, azzurro intenso e limpido e immenso, su nel cielo – vividi e feroci che aggrediscono gli occhi irritati dal sudore, mentre avanzano faticosamente, guadando un acquitrino per allontanarsi dal campo – non è più sicuro, come se esistesse un posto sicuro.

Damon Salvatore scaccia una zanzara particolarmente grossa con un gesto infastidito, sistemandosi meglio il fucile in spalla – la Virginia in luglio non è poi molto diversa da lì, alla fine.

Gli verrebbe da sorridere, se non fosse che è tutto talmente inutile e che fa caldo e che è stanco, sono stanchi – non dormono decentemente da due giorni e l'acqua potabile scarseggia e sono sudici e il caldo confonde i pensieri, li mescola fra loro, guida la mente attraverso un filo di ragionamenti completamente slegati fra loro.

Un gruppo di uomini accaldati, alla deriva - nemmeno sentono qualcosa, prima dello sparo.

Dopo non c'è tempo per pensare, è tutto un caos infinito e senza senso e ci sono soltanto ordini gridati e urla e altri spari e gente che cade – persone che aveva imparato a chiamare amici – che finiscono attaccati in quel modo, alle spalle, e c'è il sangue.

Il sangue, ancora prima del dolore – l'adrenalina alle stelle, adesso è troppa per sentire dolore ma il sangue sì, quello sgorga e impregna quella terra straniera, traditore.
I soldati muoiono tutti in un unico modo – e i soldati imparano a non avere paura del sangue, finché non è il loro, finché macchia mani pressate sulla stoffa di un'altra divisa, finché non arriva, infine, il dolore.

Damon Salvatore è un soldato e ha vent'anni e gli manca casa sua – e non vuole morire lì, su quel terreno molle in quel posto selvaggio alla fine del mondo.

Damon Salvatore ha un fratello che è ancora troppo giovane per affrontare questo – ha ancora gli occhi puliti e il cuore integro e non può essere lui a spezzarlo, non può fargli questo, e vorrebbe gridarlo al mondo che lui deve vivere, non può solo finire così, non può permettersi di fargli del male, l'ha promesso.

Damon Salvatore ha una figlia e ancora non l'ha mai vista sorridere.

Vorrebbe gridare ma non ha voce, non c'è aria – o forse c'è, ma è densa e pesante e sembra olio, umida e irrespirabile e c'è la luce del sole, accecante, rumori lontani e indistinti molto al di là dei margini della sua attenzione – e l'unica cosa che può fare con quel poco che rimane di lui è tentare di trattenere quei filamenti di pensiero, inseguirli, stancamente, e sarebbe così bello poter chiudere gli occhi e sognare ed essere ancora a casa per Natale.

L'ultima immagine nitida nella sua mente è un ricordo sbiadito di un pomeriggio d'estate, di quello che sembra un tempo molto lontano – un anno è così lungo, certe volte.

Perché Damon Salvatore è un soldato, e ha vent'anni, e ha un fratello troppo giovane per tutto questo, e ama una donna dagli occhi grandi ed enormi e sinceri, una donna bella e triste e infinitamente migliore di quanto lui potrà mai essere e non c'è dolore più grande di morire e non poterle dire addio (non c'è tempo di scrivere una lettera e non ha più fiato, non c'è nessuno a cui dirlo, solo un grande silenzio, ormai, tutto intorno), morire e non essere più lì e non poter vivere nemmeno nei ricordi di sua figlia.

E così, prima del buio, il suo ultimo pensiero vagamente cosciente è per loro, per lei – per quella gente che aspetta, dall'altra parte del mondo. E la morte non fa nemmeno troppa paura.

Elena.

 

*****

21 agosto 1966

Quella in cui arriva la Lettera è una tarda mattinata identica a qualsiasi altra di quell'estate – un'estate della Virginia, tipica, afosa, ansimante collezione di giornate riempite di cose a caso e forse risate, qualche volta, e di giornali e notizie e preoccupazioni di ogni giorno.

Infila la chiave nella serratura, dopo aver lasciato Stefan da Elena perché ha il turno del pomeriggio, gira, clic – e quando entra nell'anticamera è semplicemente lì, rischia di calpestarla, una busta dall'aria ufficiale fra le bollette (troppo salate) e la pubblicità e l'altra robaccia che arriva sempre per posta.

Non ci sarebbe bisogno di aprirla, in realtà – è lì ed è normale che ci sia, era solo questione di tempo –, eppure lo fa lo stesso perché la speranza è sempre l'ultima a morire.

Ma se ne va anche lei, alla fine.

Non che non se lo aspettasse – negli ultimi tempi, negli ultimi mesi (da febbraio, a dire il vero, quando erano stati raggiunti dalle notizie dei bombardamenti – da marzo, allo sbarco in un qualche posto dimenticato da Dio a quanto pare di grande importanza) era una possibilità che aleggiava sempre più spesso nelle considerazioni, un elefante nella stanza, nelle serate di quella sua famiglia strana e vagamente disfunzionale, incrinata, con un equilibrio tutto particolare. Perfetto, a suo modo.

È vagamente consapevole che arriverà in ritardo, se non si muove, anche mentre legge parole troppo formali sul bene della patria e il gentile invito a raggiungere l'aeroporto Tal dei Tali di lì a due giorni e una firma svolazzante incredibilmente fuori posto su una carta simile – pensa che in fondo Donovan può anche coprirlo altri cinque minuti, giusto il tempo di respirare e piegare il foglio e infilarlo in un cassetto e respirare respirare respirare (e scacciare il pensiero che dovrà dirlo ad Elena, a Stefan – che dovrà veramente mettersi in piedi davanti a loro e sopportare quello sguardo chiaro e parlare, spiegare con tutta la calma del mondo che, tempo un paio di giornate misere, dovrà andare via, chissà dove, fino alla fine del mondo).

Sa di poterlo fare, se solo non ci pensa – se ci pensasse arriverebbe anche la paura (perché Damon ha paura, ha imparato a non mostrarlo perché da sempre troppe persone contano su di lui, ma è ovvio che ha paura) e non può permetterselo.

Quindi piega la Lettera in due, quattro, otto e la nasconde in un cassetto del mobile, sotto documenti gettati lì dentro alla rinfusa – si chiude la porta alle spalle, prende l'ultimo respiro libero e si prepara a iniziare il suo turno al Grill come se non fosse successo nulla.

 

Si chiude la porta alle spalle, la busta che brucia in tasca, e si lascia dietro il calore opprimente della sera estiva, per ritrovarsi in quello più familiare e meno fisico delle conversazioni ad alta voce che risuonano perennemente fra i muri di casa Gilbert – c'è sempre qualcuno che parla, che ride, perché nel silenzio ci sono troppe cose in agguato.

Sorride, nonostante tutto, di un sorriso triste e tanto pieno di consapevolezza da essere straziante – quel piccolo mondo in bilico è sempre esattamente lo stesso, con i suoi problemi e le sue gioie, e il dolore che gli prende il cuore non ha nulla a che fare con la paura di non tornare più (è sapere che non lo sarà più, dopo quella sera – non sarà più identico a se stesso, ci saranno nuovi rituali, più mostri nascosti nelle ombre, e sarà colpa sua).

Il corridoio è troppo breve – fa capolino in cucina, nessuno si accorge di lui, tutti continuano a mangiare e chiacchierare e la gola si stringe un po' di più.
A tavola c'è un posto vuoto – il suo, niente di allarmante.

C'è Stefan, ovviamente, il piatto ancora mezzo pieno, perso in un discorso che non può comprendere, arrivato a metà dell'arringa, con i suoi gesti misurati (Stefan che è tutto quel che rimane della sua vera famiglia, ancora un bambino in un mondo troppo giovane, che eppure a volte dà l'impressione di essere più adulto di quanto tutti loro immaginino, con quel suo sguardo serio e i tratti già marcati).

Dall'altro lato ci sono Jenna e Ric, altrettanto ovviamente, che lo ascoltano, attenti, e ogni tanto si scambiano un'occhiata divertita di sottecchi – non hanno mai avuto figli, non c'è nessun altro e non c'è mai stato, solo quei tre orfani allo sbando da salvare dal mondo di fuori.

E l'hanno fatto con tutto l'amore possibile – non prova nemmeno più a contare le volte in cui Jenna li ha coperti, lui e Stefan, (dopo che sua madre non aveva più potuto farlo) quelle notti che si addormentavano sul divano, e tanto meno quelle in cui è stato solo Alaric che gli ha impedito di fare diversi degli errori più grandi della sua vita.

Ric è più di un amico e persino più di un padre – sicuramente più di quello che era stato Giuseppe –, e non sa come dirglielo, ora che non ha più tempo.

E poi c'è Elena, e sinceramente non ricorda neppure un tempo in cui non c'è stata.
È da sempre nei suoi ricordi, si è visto crescere riflesso nei suoi occhi e ha visto cambiare lei, giorno dopo giorno, mese, anno, una vita in comune e se non è questo l'amore – se non è questo, cos'altro potrebbe esserlo?

Le è accanto dal primo respiro che ha fatto – più o meno, almeno –, e mentirebbe se dicesse che a volte non ha desiderato essere da tutt'altra parte, perché Elena ha i suoi momenti no e anche lui ne ha, e sembra che coincidano un po' troppo spesso – tanto spesso che qualche passante di Mystic Falls se li ricorda ancora, due bambini alti un metro in due che si facevano smorfie dietro le gambe delle madri, litigando per Dio solo sa quale motivo.

Quelle volte, in ogni caso, non sono mai state abbastanza, non rispetto a tutte quelle in cui lei è stata l'unica cosa bella in tutta una giornata orribile – tutti quegli istanti di parole che non hanno bisogno di essere dette e dita che si sfiorano appena.

Non sa con quale coraggio, con quale forza dirle che non ci sarà più, per chissà quanto tempo, e che forse nemmeno tornerà più indietro – che non sarà lì a vederla compiere diciotto anni, lei che sembra così giovane, ora, in quel vestito a pois un po' da bambina, i capelli raccolti.

Chiude gli occhi, solo per un attimo, cerca di pensare e ignorare il dolore che si fa sempre più forte, sempre più pesante – solo che non serve a nulla, chiudere gli occhi e lasciare tutto fuori, quando il mostro è dentro.

Quindi riapre le palpebre, guarda per l'ultima volta quel diorama fragile – si schiarisce la voce, tenta di sorridere.
E si prepara a farlo crollare.

 

Più tardi, ancora seduto sul bordo del letto, accarezza un'ultima volta i capelli di Stefan, sospirando – è scivolato in un sonno agitato, inquieto, solo quando è stato sicuro che non sarebbe partito quella notte, senza dirgli nulla per non fargli del male.
Ha quasi paura di alzarsi, di lasciarlo in balia dei mostri dei pensieri, ma alla fine si convince, esitante.
Elena lo aspetta accoccolata su uno dei divani, le braccia incrociate sul petto – quando le si avvicina, sente il suo respiro spezzato.

Alla luce del fuoco e al buio del resto del mondo, lei incastra il capo nell'incavo del suo collo, ripiegando meglio le gambe sotto il corpo, stretta a lui come se non volesse lasciarlo più andare – china il capo, accarezzandole la schiena, piano. Profuma di rose ed estate, e trema nel suo abbraccio – non piange, però, stringe i pugni e non piange, seppellendo il volto nella stoffa della sua maglietta.

Le bacia la testa, e ancora c'è un silenzio infinito che aleggia nella stanza – nessuno dei due ha ancora il coraggio di parlare.
Parlare lo renderebbe reale, secondo lei – parlare non servirebbe a niente, pensa lui.

Ci sono certi momenti della tua vita, certi istanti che sai, nel profondo, verranno ricordati per sempre, fino all'ultimo secondo dell'ultimo giorno, impressi indelebilmente nella memoria, fotogrammi bruciati di vecchie pellicole. Lo sa, Damon – come sa che uno di quelli che compongono la sua, di vita, è quello del volto di Elena, nell'istante preciso in cui aveva messo insieme i pezzi. Quando aveva capito cosa stava provando a dirle.

Neanche allora aveva pianto, ma sul suo viso era come passato, in un secondo, impercettibile, il ricordo di loro – passato e sparito, lasciandole gli occhi spazzati da una sofferenza gelida.

E non lo dimenticherà mai, non potrebbe in nessun modo – nemmeno se volesse, e non vuole, Damon, perché lei è ancora una volta l'unico motivo che può renderlo in grado di andare avanti, ogni parte di lei, ogni frammento.

Forse, infine, parla perché il silenzio è davvero troppo da sopportare, quella notte – forse solo per riempire il vuoto, per cercare di colmare quella voragine di terrore e mancanze che si fa sempre più grande, un fantasma, una proiezione di quello che sarà.

«Ti amo. Lo sai che ti amo, vero?» per un attimo pensa che non abbia davvero bisogno di una risposta, Elena, che sia semplicemente la prima cosa che le è venuta in mente – poi si allontana appena, abbastanza da guardarla negli occhi, e capisce che è molto di più.

 

Rispondimi.
Dimmi che lo sai – dimmi che capisci.
Dimmi che non lo faresti, se dovessi scegliere.
Dimmi che mi ami come io amo te, con questa forza e questo strazio e questa paura, ora.
Dimmi che veramente farai qualsiasi cosa per tornare a casa.

 

È bella, Elena, impaurita e forte e angosciata – lo è sempre stata, in troppi modi diversi (bella come una bambolina graziosa, con le guance paffute e gli occhi enormi; bella nel modo un po' buffo in cui lo sono le giraffe – alta e dinoccolata, goffa com'era; bella come l'alba, timida e fresca e splendente di vita), e quel giorno è bella come lo è la notte, tormentata e scura di ombre e per questo capace di nascondere il dolore, a volte.

E può darle solo una risposta, e stringerla un po' di più, e amarla come si ama ciò che si è destinati a perdere, e sussurrare il resto fra i sui capelli, tutto quello che nessuno all'infuori di lei deve sentire.

«Lo so.» e tornerò.

*****

5 settembre 1966

24 agosto 1966, Mystic Falls

Caro Damon,
ti sei dimenticato qui la felpa che ti ha regalato Jenna per Natale. Sono quasi certa che tu lo abbia fatto di proposito – o forse semplicemente non ti serve una felpa, lì.

Dicono che fa caldo, alla fine del mondo.
La gente lo chiama così, quel posto. Io lo chiamo inferno – tu dovere.
È un giorno che te ne sei andato e già si sente che non ci sei più, che non ci sarai domani, né il giorno dopo o quello dopo ancora, e chissà per quanto ancora, Damon.

Stefan non mi parla da quando ti ha salutato, è salito in camera di corsa non appena Alaric ha messo in moto, sbattendo la porta, e non è sceso neppure per mangiare – credo si vergogni per essersi mostrato così normale, così bambino, in un certo senso. Chissà da chi ha preso quest'orgoglio smisurato, mi chiedo.

Ho provato a bussare e non mi ha risposto – vorrei stargli vicino, Dio solo sa quanto vorrei che mi permettesse di abbracciarlo, ma forse è troppo presto e basta.

Ha paura, e gli manchi Abbiamo paura, e ci manchi.

Jenna è silenziosa, scostante. È in cucina, sta preparando dei biscotti – o almeno credo che lo siano. Non assomigliano a dei biscotti, più a calzini anneriti, ma non penso di aver voglia di dirglielo (lo sai anche tu che cucina solo quando è preoccupata, e siccome è preoccupata a causa tua, al momento dovresti essere qui a offrirti cavallerescamente di assaggiare i biscotti-calzini al posto mio).

C'è un po' troppo silenzio, senza di te – è strano realizzare che è probabilmente la prima volta in diciannove anni che sei così lontano da me (è strano anche realizzare che ho effettivamente diciannove anni, a dire il vero – vorrei che fossi qui, ora. Tutta questa tristezza non è proprio quello che mi ero immaginata, quando pensavo alla mia festa di compleanno).
Ma posso possiamo affrontarlo, il silenzio, ce la faremo – ce la facciamo sempre.

Stiamo bene. Staremo bene.
Comunque ti mando una foto, metti caso che a forza di non vedermi mi scambi per un'infermiera.

È la mia preferita, credo – anche se ne abbiamo tante, io e te, quella volta sembravi solo... felice. Lo ero anche io.

E poi mia madre credeva che portasse fortuna avere una fotografia di casa nascosta nella valigia – ti dice che che ci sarai di nuovo, a casa tua, un giorno.

Diceva anche che non c'è modo migliore di dire arrivederci di una lettera, perché a una lettera devi rispondere – tu hai tutte e due, quindi non ci sono scuse per non tornare.

Tua, con amore,
Elena

 

Apre la busta e un foglietto stropicciato cade sul letto – o su quello che chiama letto, perlomeno.

La luminosità giallastra della lampada trema sulla carta, e lui quasi sorride leggendo le righe fitte e ordinate della calligrafia di Elena – quasi sorride, non lo fa davvero, ci sono troppe cose dietro le parole. Riconosce il tentativo di essere leggera, nonostante tutto, di essergli vicina con ogni frase cancellata, una mano tesa per tirarlo in piedi quando non ce la farà più da solo.

Piega un braccio dietro la testa, stendendosi, cercando una posizione più comoda – qualcuno ride, più in là, qualche commento ad alta voce intorno, ma per il resto quella sera il campo è quasi troppo silenzioso; è lì da meno di un mese e le serate sono già routine, una bottiglia di whiskey non esattamente autorizzata che passa di mano in mano, i racconti e sì, è esattamente come dicono che sia, commenti sboccati e urla notturne compresi.

Si rigira la fotografia fra le dita, avvicinandola al volto per vederla meglio – ricorda il pomeriggio in cui Jenna l'ha scattata, le ore pigre di una domenica di giugno che si susseguivano e si accavallavano fra loro, forse un paio di giorni prima o dopo il suo compleanno, non ne è certo, una di quelle giornate in cui il tempo scorre al rallentatore e il caldo non è ancora tanto esagerato da farti impazzire.

Lui ed Elena erano sdraiati sullo scampolo di prato davanti la pensione, non si erano nemmeno preoccupati di prendere una coperta su cui stendersi – non facevano nulla più che far nulla, niente di speciale.
Guardavano il cielo da ore, non parlavano neppure – non era necessario, la calma era troppo perfetta per aver bisogno di parole, pareva un peccato turbare quel silenzio rumoroso di auto in lontananza e cicale e respiri vicini.

Stavano semplicemente lì, le dita che di tanto in tanto si sfioravano – era bella, Elena, e ad essere sinceri pensa di avere osservato più lei che le nuvole, con la coda dell'occhio, stampandosi nel cuore la curva del suo collo, le ombre che il sole le disegnava sul viso.

Poi lei si era tirata a sedere, così, senza un motivo preciso – lui si era limitato a inarcare un sopracciglio prima di sollevarsi sui gomiti, cercando di capire.
Il bacio l'aveva colto di sorpresa.

Jenna deve averli visti da una finestra del salotto, forse mentre aiutava Stefan a fare i compiti – non ha mai spiegato perché ha pensato che valesse la pena immortalare il momento, ma l'ha fatto comunque e ora lo tiene fra le mani, quell'istante fragile, e Dio solo sa quanto vorrebbe poter tornare indietro.

 

Non sa per quanto rimane a fissare la carta lucida, cercando di trattenere il ricordo, solo un altro po'.
La voce di Enzo, vicina al suo orecchio, lo fa sobbalzare, sorpreso. Non si era nemmeno reso conto che fosse rientrato.

«Bel bocconcino, la mogliettina.» non lo corregge neanche, non ne vale la pena.

È un tipo strano, Enzo – con quell'accento e lo sguardo perennemente annoiato, impertinente, divertente, anche. Poteva anche andargli peggio con il suo vicino di branda, dopotutto – quindi alza un angolo della bocca in qualcosa che non è proprio un sorriso e gli lancia un'occhiata di avvertimento, la fronte aggrottata.
Lui si allontana, alzando le mani – gli fa un cenno col capo, prima di sdraiarsi al suo posto, e sta sorridendo quando parla ancora.

«Tranquillo, amico. Preferisco le bionde.» alza gli occhi al cielo e l'altro ride davvero, e per un momento può quasi fare finta che sia una serata come tante e che quel tipo strano che è Enzo sia solo un amico come tanti – poi il caldo della notte e le zanzare prendono il sopravvento e può solo mettere via la busta e cercare di dormire.

Chissà che non possa sognare casa.
 

*****

16 settembre 1966

«Elena, Elena!» alza la testa, istintivamente, sentendosi chiamare – impiega un secondo in più per riconoscere la voce di Stefan. Sta cambiando, è normale, sta diventando più profonda ed è persino buffo, delle volte, sentirlo parlare con quel tono così basso, quel ragazzino smilzo dagli occhi troppo grandi.

Lo sente entrare in casa di corsa, e sorride appena, strofinando con più decisione la padella – quando fa capolino in cucina, con una busta in mano, però, lascia perdere i piatti e si asciuga le mani, l'ansia che si d'improvviso opprimente.
Prende una sedia e si sfiora il ventre, senza neppure pensarci – corruga la fronte, e aspetta che sia Stefan a leggere perché è un modo per sentirlo più vicino, anche mentre è lontano e lontano e lontano.


 

Mi mancate anche voi – ogni giorno, ogni momento.

 

Damon è lontano da ventiquattro giorni, quattro ore e ventisette minuti e ci sono certi momenti in cui l'unica cosa che vorrebbe è rintanarsi sotto un mucchio di coperte e non uscirne mai più – ventiquattro giorni, quattro ore e ventisette minuti e lei ha troppe cose da dire e non è giusto che debba farlo con una lettera.

 

In realtà, le giornate sono tutte uguali – un'attesa tesa allo spasimo, per un attacco che neppure siamo certi arriverà, accampati di fianco a questo villaggio minuscolo dal nome impronunciabile.

 

Parla del caldo e degli insetti, e di feriti e del cielo di notte, dove ci sono molte più stelle che lì – verso metà lettera Jenna compare sulla soglia, le braccia conserte. Ascolta e non parla, solo le si avvicina e le accarezza i capelli, delicata.

 

Non c'è mai silenzio, mai tranquillità, e da un lato questo è un bene perché ti impedisce di pensare, di riflettere o persino di aver paura, a volte – la notte è il momento peggiore, con le grida degli animali sui rami e il rumore delle tristezze di tutti noi qui ammassati. E il cielo è pieno di stelle, come non se ne vedono mai a casa – molto più numerose e brillanti.

Ti piacerebbe, questo cielo, non fosse proprio questo.

 

Vorrebbe poter parlare, stringere i denti e farsi confortare senza più pensare a nulla – addormentarsi e sognare e credere davvero che tutto un giorno tornerà al suo posto.
Vorrebbe che fosse una promessa.

 

Saluta Jenna e Ric da parte mia – di' a Stefan che gli voglio bene e che non deve preoccuparsi.
Andrà tutto bene, ve lo giuro.

Ma non c'è niente da dire, in fondo.

Ti amo,
Damon

 

 

Più tardi, quella notte, si rigira nel letto senza riuscire a prendere sonno – ci sono troppi pensieri, c'è la felicità e la paura e l'ombra di un futuro incerto che le vela gli occhi.
Resta stesa supina, le dita intrecciate sullo sterno, e nel silenzio del suo respiro spezzato il rumore della porta che si apre è perfettamente udibile.

Non volta nemmeno il capo, e non dice nulla quando il peso di Stefan fa abbassare il materasso – lui si infila sotto le coperte e le si accoccola accanto, la testa sul suo stesso cuscino.
La sua voce è un mormorio quasi indistinto.

«Posso dormire con te?» lo chiede tutte le notti, da quando lui è partito – tutte le notti non gli risponde neppure.
Solo lo stringe un po' più forte, sussurrando rassicurazione fra i capelli chiari, perché Damon non può più farlo.

 

*****

25 settembre 1966

17 settembre 1966, Mystic Falls

Vorrei tanto non dovertelo dire così – scriverlo e non vedere la tua espressione, non poter capire cosa pensi.
Ho sempre pensato che sarebbe successo, ma non ora, non
così – e ti mentirei se ti dicessi che non ho paura. Perché sono spaventata, sono spaventata a morte e tu non ci sei e anche con tutto il supporto di Jenna e Ric, senza di te è come essere sola.

Fa paura come rimanere soli la notte, senza nessuna mano da stringere, al buio.
E quindi sì, sono spaventata e non so cosa fare
non so come farò senza di te.

E mi piacerebbe poter sentire che non scapperai non appena l'avrò detto – o scritto, o quello che è –, e sarebbe bello anche trovare un modo più dolce per dirtelo, ma non è possibile.

Quindi, solo

Sono incinta, di circa nove settimane*2 – non si vede nemmeno, ancora, solo una curva leggera.
Non lo diresti mai, se non lo sapessi – ma c'è, sai. Un chicco d'uva, ma è lì.

Jenna mi ha accompagnato all'appuntamento per l'ecografia – era quasi più emozionata di me, ci crederesti? – e all'improvviso non è stato più un sogno, non l'astrazione di due linee rosse su un bastoncino di plastica. Era lì, reale, piccolissimo – raggomitolato su se stesso, minuscole mani e piedi e fragile, così fragile.

Ed è nostro, Damon, e Dio solo sa quanto avrei voluto averti lì – quanto vorrei, adesso, averti qui e comportarsi da genitori troppo giovani in due, perdersi cercando il reparto bambini al negozio d'abbigliamento, scegliere nomi assurdi e scartarli e semplicemente essere in due in tutto questo.

E ti amo, sai quanto ti amo – solo... ricorda che hai promesso.
Ricordalo, e torna da me, un giorno.

Torna da noi.

Tua,
Elena

 

Non riesce a respirare, per un momento o per qualcosa più di un momento – semplicemente non ci riesce, qualcosa nel petto che grida e la gioia e la paura e le domande e l'amore.

Vorrebbe alzarsi da quella terra polverosa e solo correre, e urlare e maledire quel posto e tornare a casa – baciarla, e baciarla, e baciarla e non lasciarla più andare.
Non fa niente di tutto questo, mentre Enzo solleva la testa dalle coperte arrotolate che usa come cuscino – incuriosito, lo osserva per un paio di secondi, cercando di capire se le notizie siano belle o brutte.

Non lo sa neanche lui, a dire il vero – cosa potrebbe offrire, a quel bambino, se non un padre distrutto dalla stanchezza, nel migliore dei casi?
Ma è – sarà – suo figlio. O sua figlia.

Ha diciannove anni, Damon, e capisce cosa intende Elena quando dice di avere paura – sono giovani, anche troppo. Sono lontani e forse non si vedranno mai più e la ama, la ama così tanto da stare male e non può pensarci, non può proprio pensarci, non quella sera, non quando è da mesi che la gioia non è così incandescente, tanto da fare male.

Quindi guarda Enzo e sorride e le parole gli escono di bocca prima che possa anche solo rifletterci e, per la prima volta da troppo tempo, ride davvero.

«A quanto pare, diventerai zio.»

*****

24 dicembre 1966

Appoggia i palmi alla base della schiena, stirandosi appena – fa una smorfia, quando avverte una fitta di dolore.

Sospira, leggera, e prende fra le mani la teglia del pollo, cercando di non bruciarsi – spinge la porta della cucina con una spalla, accolta da uno scroscio di risate e complimenti e tutta quell'allegria alcolica che caratterizza il Natale.
Non è come tutti gli altri anni, però – c'è un posto vuoto a capotavola e nessuno lo riempirà, ed è un dolore continuo e costante che si scava la strada fino al cuore.

Rischia di dimenticare il suo odore, l'esatta sfumatura dei suoi occhi, ed è Natale e nessuno può darle l'unico regalo che desidera veramente.
Scaccia il pensiero, alza la testa e sorride, e prova a non avere paura, solo per un po'.

 

Due ore dopo, quando ormai non c'è quasi più nessuno – Bonnie e Caroline se ne sono già andate, Matt con loro, sono rimasti solo loro quattro, seduti sul divano a guardare uno stupido film natalizio –, il trillo del campanello è quanto di più inaspettato possa esserci.

Ric aggrotta la fronte – si alza per andare ad aprire, cauto, calmando Jenna con una carezza distratta.

Poi, un verso sorpreso e una risata e – e la voce di Damon.
La voce di Damon, veramente, e non solo un sogno o un ricordo o-

Si alza in piedi di scatto e quasi inciampa nella coperta, corre all'ingresso e lui è lì.
È lì ed è vivo e reale sotto le sue mani, mentre lo sfiora e lo bacia e piange e ride e non sa più come fare ad arginare la felicità pulsante di vederlo ancora.

Ha una divisa polverosa addosso, ed è magro e emaciato e ha i capelli troppo corti rispetto a quanto ricordava – ma i suoi occhi sono sempre gli stessi, sempre identici, sempre suoi, azzurri e azzurri dell'azzurro più intenso. Suoi.
E chissà chi l'ha ascoltata pregare, lassù, ma Elena ringrazia – e forse il Natale davvero è magico, in fondo.

 

Quella notte non dormono – non è possibile neppure pensare di riuscirci, quando l'altro è lì, così vicino, così vero.
Damon le parla, sottovoce, ogni tanto, le racconta di cose che non vorrebbe ascoltare – lei non ha niente da dire (solo un mormorio continuo, rassicurante, e – ti amo ti amo ti amo).

Non dimenticherà più i suoi occhi quando l'aveva vista con quel pancione di sei mesi, come se fosse semplicemente la donna più bella del mondo, con le guance rosee e quel pigiama largo e la schiena a pezzi, con le iridi spalancate e liquide di sogni, scure, quasi nere, brillanti di tutto quello che deve ancora essere.

Forse si addormenta, alla fine, quando l'alba già irrompe dalle finestre, cullata dal sussurro costante della sua voce.

 

*****

21 marzo 1967

Il dolore è quasi insopportabile – le sembra che una morsa d'acciaio le sia avvolta attorno al ventre, sempre più stretta, sempre di più. Che la stia soffocando.
Chiude gli occhi, più stretti che può – stringe i denti e prova a respirare e le dita di Jenna intrecciate alle sue, che le scostano i capelli dal viso e la sua voce lontana che le dice che andrà tutto bene.

Grida, sente la sua voce uscirle dalle labbra come un suono distorto, lontano, qualcuno che le dice di spingere, solo un'ultima volta – e poi è finito, così all'improvviso, e per un attimo immobile c'è solo silenzio.
Poi, il pianto di un neonato – un pianto forte (sono qui ora sono qui), gli occhi che si aprono, le braccia sfinite che si tendono per farlo calmare.

È una femmina, le dice qualcuno – lo sapeva già. Non sapeva che era così incommensurabilmente bella, né che avesse mani così piccole e perfette, non che aveva già un sacco di capelli – neri, nerissimi, come quelli di Damon.
Le bacia la testa, ancora umida, è tutta umida – deve darla a un'infermiera che la lavi, la vesta, ma vuole solo sorriderle, solo un momento, e pensare, solo un momento, che oggi è primavera e lei ha una figlia e già la ama così tanto, così tanto.

Dopo la lascia alle cure di una ragazza bionda, chissà come si chiama, dovrebbe ringraziarla, forse – Jenna, accanto a lei, sta quasi piangendo.

Vorrebbe chiudere gli occhi e dormire, a dire il vero, ora – però si avvicina qualcun altro, a chiedere il nome della piccola.
Sorride ancora, un sorriso appena velato di tristezza.

«Elizabeth.» Elizabeth come la madre di Damon – bellissima e forte, dolce come un giorno d'estate anche quando non ne avrebbe avuto più motivo.
Elizabeth che era la migliore amica della sua, di madre – Elizabeth che è stata come una seconda mamma a sua volta, Elizabeth che se ne è andata una giornata di maggio.

Non è stato difficile, sceglierlo.

 

*****

17 aprile 1967

7 aprile 1967, Vinh

Elena,
questa potrebbe essere la mia ultima lettera per mesi – ci stiamo spostando sempre più vicino a Vinh, e gli attacchi sono frequenti, disastrosi. La posta potrebbe non riuscire a raggiungerci.

Ho paura, Elena.
Oggi ha piovuto, non pioveva da settimane.
Mi ha fatto pensare a te – mi ha fatto capire di essere un bugiardo.

Non so se sarà per sempre, non lo so perché so che potrei morire proprio qui, proprio ora. L'unica cosa certa, in questo posto, è che ci sarà sempre qualcuno ad aspettarci a casa se mai torneremo – l'unica cosa che ti tiene in vita, a volte. E ti amo, Elena, non hai idea di quanto ti amo, di quanto si può amare qualcuno quando un momento ci sei e vivi e respiri e ami e quello dopo chissà.

Vai avanti, Elena – se veramente questa è l'ultima lettera, devi promettermi che andrai avanti, che lo farete tutti. Non sono io che vi tengo in piedi, fate tutto da soli – non hai bisogno di me per essere una buona madre e una donna meravigliosa, Elizabeth non sentirà mai la mia mancanza (e soffro di questo, è una tortura pensarlo, ma è meglio così – è meglio così piuttosto che se potesse ricordarmi, se mi conoscesse). Stefan ha voi, sarà orfano solo sulla carta.

Ricordi quella volta, avremo avuto sette anni, che hai attraversato mezza città solo per venire a vedere come stavo? Avevo l'influenza, o il raffreddore, non ricordo, sdraiato a letto sotto chili di coperte. Si gelava, era inverno inoltrato – sono di sopra e all'improvviso sento suonare il campanello, sento mia madre ridere.

E poi compari tu, avvolta in una sciarpa rossa troppo lunga, con le guance rosse per il freddo e un tremendo cappotto a righe blu – mi guardi per un momento, poi inizi a toglierti di dosso cappello, sciarpa e cappotto e ti arrampichi sul mio letto.
E mi abbracci, come se stessi morendo o che so io – te lo ricordi?
L'istante in cui mi sono innamorato di te?

Ti amo – ti amo così tanto, vi amo così tanto.
Sarò sempre con te, Elena – sempre, in qualsiasi modo, sarò con te.

Damon

 

*****

16 luglio 1967

3 luglio 1967, ambasciata americana di Saigon

È con immenso rimpianto che si informa la famiglia che il sig. Damon Salvatore, soldato di stanza a Vinh, è coraggiosamente perito per la patria e per il bene di questa grande nazione.
Lo scontro è avvenuto poco lontano dai confini della città – non ci sono sopravvissuti, e non c'è modo di risarcire voi tutti, membri della famiglia, di questa tragica perdita.
Le più sentite condoglianze,

James Halloway, segretario generale

   
 
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