C’era
una volta …
un
grazioso giovane. Era un bel ragazzo, alto e
proporzionato. Tutte le fanciulle del paese si sarebbero innamorate di
lui, se
non fosse stato per un difetto. Ogni volta che passeggiava per le vie
della
città nessuno poteva non notare i due sottili tronchi
d’albero che gli erano
cresciuti lì, dove sarebbero dovute esserci le sue gambe. Ad
ogni passo
faticava a trascinarsi in avanti e le gambe gli dolevano molto per lo
sforzo.
Quando si specchiava una lacrima gli rigava il viso.
La
gente del paese lo guardava con diffidenza e disgusto:
come poteva essere che uno come lui fosse nato proprio lì,
in un paesello così
tranquillo e morigerato?
Quando
lo incontravano per strada facevano finta di
nulla, si scansavano e lo lasciavano passare. E se il poveretto alzava
gli
occhi per salutare, si scontrava inevitabilmente con la fredda
indifferenza e
il sospetto dello sguardo degli altri.
Il
giovane si rintanava in casa, a osservare fuori, la
vita, la gente “sana”. Non capiva perché
potessero essere così ostili nei suoi
confronti. Che cosa aveva fatto? Era così deforme? Era
così disgustoso? E ogni
giorno se ne andava a letto senza trovare una risposta …
Tutto
questo durò per molto tempo, finché un giorno
decise
di andarsene da quel posto maledetto. Prima dell’alba, quando
ancora tutti
dormivano e nessuno poteva vederlo, sgusciò fuori dalla sua
porticina e si
incamminò, lentamente, verso un posto nuovo. Migliore.
Cammina,
cammina, attraversando monti, mari, laghi e
campagne, sopportando il gelo, il caldo torrido, la pioggia e il vento
tagliente, giunse alle porte di una cittadina che, confrontata con il
suo
paesino, sembrava immensa.
Immediatamente si
ritrovò frastornato dall’ambiente nuovo, dinamico,
moderno, a lui sconosciuto.
Osservò stupito e ammirato le villette a schiera, tutte
decorate e graziose, le
automobili parcheggiate nel vialetto d’ingresso, ognuna per
ogni casetta. Il
sole risplendeva, gli uccelli cantavano, e le persone erano felici. E
il giovane
ragazzo si convinse di poter essere felice anche lui.
Improvvisamente
si rese conto di aver bisogno di mangiare
qualcosa. Ma quello era un ambiente sconosciuto, non sapeva come
muoversi, dove
cercare del cibo. Intravide una casetta nel cui giardino una signora di
mezz’età stava potando un’aiuola. Le si
avvicino zoppicando e, gentilmente, le
chiese se avesse qualcosa da mangiare. La signora sobbalzò
un po’ per lo
spavento, un po’ per lo sgomento. Vedendola titubante, il
giovane era già
pronto ad andarsene, quando improvvisamente la donna si
ridestò dal suo sbalordimento
e si interessò a lui, dimostrandosi premurosa e gentile,
preoccupandosi della
sua deformità.
E
così il ragazzo fece la conoscenza della sua nuova
famiglia. La vita sembrava bella e lui era felice.
Il
tempo passava e lentamente il giovane si inserì nella
vita del quartiere. Tutti cercavano di inserirlo in qualche
attività, in
qualsiasi attività, dalla più semplice alla
più complessa. Venne iscritto a
scuola, ai corsi pomeridiani di pallavolo, venne accompagnato a tutte
le feste.
Ma i suoi nuovi compagni lo snobbavano o lo guardavano come se fosse
una bestia
rara, nella pallavolo, come in qualsiasi altro sport non riusciva a
causa delle
sue gambe, alle feste non poteva ballare e risultava imbranato.
Così,
ancora una volta, il ragazzo si ritrovò a piangere
ogni notte, chiedendosi se non ci fosse veramente qualcosa che era in
grado di
fare.
Con
il passare del tempo, però, si rese conto che se
stava regolarmente al sole poteva far germogliare dei piccoli fiori. Ci
mettevano mesi a fiorire, ma era la cosa più bella che
avesse mai realizzato,
l’unica che lo facesse sentire davvero in pace con se stesso.
Tuttavia,
la sua famiglia era determinata a farne un
ragazzo come tutti gli altri, un ragazzo “normale”.
Anche lui doveva essere
capace di fare quello che facevano tutti, anche lui doveva avere la
vita di
tutti, anche lui doveva riuscire in ciò in cui riuscivano
tutti.
Lo
volevano aiutare, migliorare, trasformare, lo volevano
rendere adatto alla società, altrimenti ne sarebbe rimasto
fuori, escluso e
solo.
Così,
si impegnarono a sottoporlo a trattamenti di ogni
genere, fino ad arrivare alla chirurgia plastica. Il risultato ottenuto
era
grandioso, impensabile, incredibile: il giovane aveva finalmente uno
splendido
paio di gambe che avrebbero fatto invidia al più bel ragazzo
della terra.
L’unica differenza con quelle di tutti gli altri era che i
suoi nuovi arti
erano finti, di plastica, meccanizzati. Ma nessuno sembrava farci caso,
anzi
era meglio, più efficiente, più innovativo.
Il
povero ragazzo si era ritrovato frastornato da tutto quel
vortice di avvenimenti che avevano sconvolto la sua vita. Lui non
voleva le
gambe nuove, non gli dispiacevano le sue, le amava, ci aveva convissuto
per
tanto tempo.
Con
quelle poteva far crescere i fiori.
Ma
appena provò a spiegarsi, tutti rimasero scioccati e
sconvolti: come! Non voleva le gambe nuove? Non voleva essere come
tutti gli
altri? Voleva continuare a essere un ragazzo disadattato e zoppo? Non
voleva
integrarsi nella ridente e solare vita di quartiere e da lì
spiccare un balzo
verso il mondo?
No,
non lo voleva, ma come poteva insistere dopo che
tutti si erano adoperati con così tanto entusiasmo per
aiutarlo e “integrarlo”?
Così,
cominciò a vivere come una persona
“normale”.
Il
tempo passò e lentamente, ma inesorabilmente, il
ragazzo si trasformò. Era ammirato dalle ragazze, lodato
dagli insegnanti,
accolto in tutte le case del quartiere, ma i suoi modi si fecero via
via sempre
più rigidi, i suoi sorrisi sempre più impostati e
le sue emozioni, i suoi
desideri … la sua linfa vitale si raffreddò.
E
non poteva porvi rimedio.
Questo
ragazzo non sfondò mai e non raggiunse mai il
successo, se non si conta la promozione a direttore di banca nella sua
città.
Morì
come muoiono tutti e venne seppellito in una tomba come
quella di tutti.
Dopo
poco tempo tutti si dimenticarono di lui.
Se
avesse mantenuto le sue gambe di legno non sarebbe
morto da solo, ma assieme a se stesso.
Invece,
morì come muoiono gli uomini che non sanno far nascere
i fiori.