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Autore: Part of the Masterplan    06/01/2015    2 recensioni
"Ha due grandi occhi scuri e la pelle chiara. Sorride appena, quasi una fulminea smorfia che si smorza non appena la matita tocca nuovamente il foglio e riprende a scrivere. Chissà cosa poi.
Magari vuole diventare Edgar Allan Poe e allora il mio sogno di diventare la Woolf non sarebbe poi così fuori luogo."
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ebbene sì, non ho resistito e ho deciso di provare a scrivere il passato. Spero che il mio ennesimo espermento funzioni, o almeno vi piaccia un po'.
L'idea è quella di scrivere ogni capitolo basandomi sulle tracce di Whatever People Say I Am, That's What I'm Not
ma per ora l'idea è ancora abbastanza nebulosa e aggrovigliata e devo sciolgere la matassa dei pensieri per vedere come svilupparla.
Le mie uniche long parlano di Oasis, quindi devo ancora prendere le misure con questa novità.
Ringrazio con il cuore già da ora chi c'è, chi passa anche solo per una lettura veloce, chi mi supporta e chi mi ha messo in testa quest'idea.
Grazie a ognuno di voi.

Ah, e ovviamente: tanti auguri Alex Turner. Non potevo che iniziare questa long proprio oggi.
Con affetto, Part of the Masterplan.

 


 
“Buon primo giorno, tesoro.”
“Grazie, mamma.”
Chiudo dietro di me la portiera della macchina con un suono secco, lascio che il mio sguardo indugi un attimo in più sui miei stivaletti neri che calpestano l’asfalto ghiaioso. Al tre alza lo sguardo e, diamine, muovi il culo.
Inspiro. Uno.
Espiro. Due.
Lascio che l’aria sfugga dalle mie labbra. Tre.
Davanti a me, in una mattina che non si è premurata di lasciar filtrare dalla coltre grigia di nuvole nemmeno un raggio di sole, la Stocksbridge High School mi aspetta nei suoi cupi mattoni rossi e le alte finestre dai profili bianchi. Non so davvero cosa aspettarmi e nella mia testa si affollano mille pensieri diversi che sembrano correre e inciamparsi nel vociare concitato di gruppetti di ragazze e ragazzi fuori dalla scuola. Mentre mi avvicino all’entrata, tenendo tra le mani la mia cartellina con il documenti per finalizzare la mia iscrizione qui, contraggo nervosamente le spalle, sperando di rendermi più piccola di quel che sono. Indifferenza, di questo ho bisogno. Necessito che tutti coloro che mi stanno intorno mi siano totalmente indifferenti e non inizino a puntarmi con l’indice o a guardarmi di traverso.
Incamero più aria possibile tra i polmoni e inizio la mia sfilata tra ragazzi e ragazze di ogni età: ci sono quelli del primo anno, li vedi laggiù in un posto un po’ riparato dagli occhi indiscreti con i pantaloni troppo a vita alta, e quelli dell’ultimo, che al centro dell’attenzione di tutti osservano con prepotente noncuranza tutto ciò che li circonda e scherzano tra loro alzando la voce. In mezzo, tra i due estremi, immagino ci siano i miei futuri compagni di classe, sedicenni con qualche passione nella vita, tormenti sentimentali e sogni un po’ più grandi del dovuto. Penso spesso che a sedici anni ci sia ancora consentito sognare come quando eravamo bambini, ma con un po’ più di realismo. Buon dio, tesoro, non dire a scuola che vuoi diventare un astronauta, se proprio devi, dì che vuoi fare il pilota di aerei. O l’astrofisico. D’yer wanna be a spaceman? It’s still not too late. Sorrido tra me e me delle mie associazioni mentali. Se mi chiedono cosa voglio fare da grande, non devo rispondere Virginia Woolf. Magari la giornalista, perché poi la scrittrice sembra un po’ troppo snob. Devo solo non dare nell’occhio e – “Scusa!” un tizio con i capelli scuri e ricci, la corporatura tutt’altro che esile e una felpa grigio scuro sopra la divisa – gli abitanti di Sheffield si vestono abbinati con il colore del cielo? – mi piomba addosso, spinto da un altro idiota con i capelli rossi.
“Figurati.” accenno un sorriso imbarazzato bramando di raggiungere il prima possibile il grande portone d’entrata.
“Ehi, tu!” la voce, dopo un attimo di esitazione, mi chiama. Mi volto lentamente, pregando ogni divinità possibile di evitare un teatrino imbarazzante come accade nei film “Sei nuova?”
“Mmm, sì.” mugugno.
“Ah,” alza la testa in segno di approvazione, rivolgendosi ai suoi amici “benvenuta, allora.”
Entro nell’atrio della scuola, un arioso corridoio dal pavimento lucido si estende davanti a me, sulla sua superficie le ombre delle finestre disegnano strane geometrie scure. Lungo tutta la parete, decine e decine di armadietti dalle ante colorate.
“Ti serve qualcosa?” una donnina magra con voluminosi capelli rossi si avvicina a me, zoppicando appena. Immagino che lei sia Annabel, la bidella che la mia vicina di casa – ex studentessa in questa scuola – mi ha inquadrato come “tizia rossa che cammina male”. A dire il vero la mia vicina di casa mi ha fornito identikit su parecchie figure chiave di questo posto, “tanto per orientarti” ha detto scrollando le spalle e inzuppando un biscotto al burro per metà nel the.
“Sono una nuova studentessa… Mi chiamo Beth Connell, arrivo da Manchester…”
Annabel alza teatralmente le mani al cielo per poi giungerle davanti a sé con un applauso “Ma certo! La nuova studentessa da Manchester! Io sono Annabel, vieni, seguimi. Puoi lasciare i documenti in segreteria” spiega mentre inizia a camminare per un più stretto corridoio laterale su cui si aprono numerose porte di uffici “e poi ti accoglierà il docente della tua prima ora, che se non vado errata è il professor Ginley.”
Per fortuna Annabel mi dà le spalle e non può vedere la fulmina espressione di terrore che mi si dipinge sul volto. La mia vicina di casa mi ha anche derisa quando ha saputo che tra i miei professori c’era il signore Ginley. “In bocca al lupo!” ha ridacchiato pulendosi le mani dal biscotto ormai terminato “Io non ce l’avevo, ma dicono che sia uno dei più stronzi.”
Dopo aver lasciato la mia cartellina a una segretaria occhialuta dai capelli di un biondo sbiadito, Annabel mi fa strada verso quella che ho capito essere l’aula professori. Lì, più o meno al centro della sala, un foglio in mano e l’altra tra i capelli rossastri, staziona il temuto Signor Ginley che, richiamato dalla bidella, scuote il capo come risvegliato da un pensiero che lo stava assorbendo troppo a fondo. Il suo sguardo, dapprima severo, sembra rilassarsi alla mia vista. “Buongiorno, signorina…”
“Connell.” sorrido.
“Connell, giusto. Scusi, ero impegnato a decifrare cosa ci fosse scritto qui.” solleva il foglio in aria per poi lasciarlo ricadere sul tavolo di legno scuro intagliato “E’ pronta per il suo primo giorno di lezioni?”
“Sì, direi di sì.”
“Ne sono sicuro.” si abbassa a raccogliere la sua ventiquattro ore e mi indica il corridoio “Venga, dirigiamoci pure in classe.” La campanella è suonata da qualche minuto e ora l’intera struttura che prima sembrava affogare nel silenzio, è investita da un trambusto sommesso di libri, zaini e risa.
“Oggi è il primo giorno dopo le vacanze natalizie, quindi non si stupisca, solitamente non c’è tutto questo rumore.”
Scrollo le spalle. “Oh, capisco.”
“Mi dica, che scuola frequentava a Manchester?” mi indica l’aula che dobbiamo raggiungere, fuori dalla quale un gruppetto di ragazzi si fionda dopo aver visto il professore procedere verso di loro.
“L’Altrincham Grammar School.”
Sposta lo sguardo su di me, sorpreso. “Una delle migliori scuole di Manchester. Complimenti. Ho visto i suoi voti ed erano ottimi.”
“Mi piaceva la mia scuola.”
“Spero si trovi a suo agio qui. Prometto che farò del mio meglio per non fargliela rimpiangere.” sorride educatamente, entrando in classe quasi con un balzo. Era una minaccia o una frase gentile?
“Buongiorno!” esordisce con tono vispo.
La risposta non lo è altrettanto.
Davanti a me una quindicina di ragazzi e ragazze sono seduti al loro banco, un libro e un quaderno, l’astuccio e la divisa con i colori della scuola. In fondo all’aula, con sorpresa, c’è il ragazzo che mi ha travolta all’entrata. Quando si accorge di me, alza due dita e mi sorride, poi si avvicina all’orecchio del suo compagno di banco sussurrandogli qualcosa. Quello, impegnato a scarabocchiare con la matita l’ultima pagina del libro di letteratura, rivolge lo sguardo a me, distrattamente. Ha due grandi occhi scuri e la pelle chiara. Sorride appena, quasi una fulminea smorfia che si smorza non appena la matita tocca nuovamente il foglio e riprende a scrivere. Chissà cosa poi.
Magari vuole diventare Edgar Allan Poe e allora il mio sogno di diventare la Woolf non sarebbe poi così fuori luogo.
Vedo quello che sarà il mio banco, una solitaria isola vicino alla finestra posta diagonalmente rispetto a quel bambino cresciuto dell’ultima fila.
“Prima di iniziare, vi presento – aspettate un attimo.” si interrompe, il viso assume un’aria buffa “Oggi è il 6 gennaio. Sbaglio o è il compleanno di uno di voi?”
Tutti si voltano verso i due, ridacchiando.
“Helders o Turner?”
Il riccio indica con entrambe le mani il futuro scrittore. “Turner, sir.”
Sorrido. Non so se è per la pronuncia del cognome, T’ner, o per l’indifferenza che il ragazzo in questione finge, quasi ritraendosi, nonostante il viso che ormai si è tinto di rosso lo tradisca.
“Perfetto! Turner, è fortunato! Oggi invece di interrogarla, le ho portato un’ospite speciale!”
Turner fa oscillare lo sguardo tra me e il professore.
“Turner, sorrida! Ragazzi, questa è Beth Connell, la vostra nuova compagna, di Manchester. Per piacere, facciamola sentire a suo agio.”
Un “Ciao, Beth.” non troppo convinto, ma neanche eccessivamente ostico, mi accoglie nella stanza dalle pareti color panna.
“Prenda pure posto.” mi indica il banco vuoto verso il quale mi dirigo, gli occhi delle ragazze in prima fila seguono attentamente i miei movimenti.
“Ah, Turner, buon compleanno. Per oggi si rilassi, la interrogherò un altro giorno.”
Thank you, sir.”
Mi volto, a cercare le labbra da cui questo accento diverso dal mio, un po’ strambo, eppure dolce e in qualche modo familiare, proviene. Troppo impegnato a scrivere su quel libro, o un impareggiabile secchione, o qualcuno che ha qualche buona storia da raccontare.
“Signorina Connell, sa,” riprende il professore disponendo sulla cattedra una stilografica e il libro di testo “in questa classe i due signori là dietro le potrebbero dare filo da torcere. Turner scrive molto bene ed Helders è il migliore in francese.”
“Sono imbattibile, Beth!” esclama, suscitando una risata collettiva e qualche commento acido in seconda fila.
“Sarà interessante.” sorrido.
Il signor Ginley ridacchia, prima di guardare verso il riccio. “Helders, la signorina Connell è troppo dolce ed educata per dirle che sua mamma è francese. Calmi la sua intraprendenza.”
Una risata ancora più forte anima la stanza, cerco con lo sguardo Helders che scuote la testa come dopo aver perso una partita cruciale per la vittoria del campionato.
 
La campanella suona con un trillo deciso, accompagnata dal quasi simultaneo rumore dei libri chiusi e infilati negli zaini. Qualcuno sbadiglia, qualcun altro si affretta verso la porta con urgenza.
In fondo al mio, di zaino, c’è il quaderno su cui scarabocchio qualche idea, i miei pensieri, pezzi di canzoni.
Sovrappensiero, raggiungo anche io la porta, alzando lo sguardo in tempo prima di finire contro Turner, che a testa bassa armeggia con la chiusura del casco della moto. Sorride, teso, e mi fa segno di precederlo nell’uscita.
“Grazie e… Auguri.”
Thank you.”
In lui sorridono gli occhi, non le labbra, ne sono abbastanza sicura.
“Al, che cazz – ” Helders mi si para davanti, cercando oltre le mie spalle il suo amico. Mi chiedo perché debba sempre attentare alla mia incolumità con la sua grazia da ippopotamo “Oh, scusa, Beth. Non volevo.”
“Non fa niente.”
“Ah, comunque,” mi ferma, costringendomi a voltarmi “io sono Matt e lui è Alex.”
“Piacere di conoscervi.” sorrido.
“Torni a casa da sola?”
Annuisco, quasi a dire Tu che ne pensi?
“Vuoi un passaggio? Abbiamo la moto e…”
“No, grazie, Matt. Andrò a piedi, mi piace camminare.”
Alex mi guarda, come impassibile. Qualcosa nei suoi occhi, però, si muove. C’è qualcosa. Forse mi sta sorridendo.
“Come preferisci. Sappi che se vuoi essere scortata, beh, ci offriamo noi!”
Don’t be a dickhead, Matt. Lasciala in pace.” commenta l’altro con una manata sulla spalla.
“A domani.”
“A domani.” risponde uno dei due.
L’altro, manco a dirlo, alza il mento sussurrando un “Bye.”
Alex, Alex Turner. 
  
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