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Autore: WhiteWitch    08/01/2015    5 recensioni
Detroit, ruggenti anni '20. In un'America piegata dalla legge Volstead, con il ricordo della guerra ancora in mente, Thomas ha bisogno di un nuovo motivo per vivere e non sa ancora che quella ragione che tanto cerca è già accanto a lui.
"Ascolto ancora vecchia musica jazz e da qualche parte, nascosta in soffitta, ho ancora la sua camicia. Quella macchiata di sangue, con un buco all'altezza del cuore. È di sopra, in una scatola insieme a tutte sue cose, il libro di Rimbaud, il vestito giallo e un disco in vinile. Posso quasi sentirla, quella scatola, posso avvertirne la presenza mentre guardo il soffitto nella nostra camera al secondo piano, in una bella casa nei dintorni di Boston. Una casa con la staccionata bianca e la porta rossa, le siepi ben tosate e la cuccia del cane in giardino. Sono quasi sicuro che Antoine riderebbe, se mi vedesse così: il tipico americano di fine anni '70, che passa le sue giornate da pensionato innaffiando il prato e costruendo orologi nella rimessa sul retro mentre ascolta Cab Calloway alla radio. Katherine dice che questa mia mania per i ruggenti anni '20 è divertente. Non vuole essere divertente, è solo malinconia".
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Il Novecento
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Conobbi Jack non appena misi piede in trincea, nel 1916, sul fronte occidentale vicino a Ginchy. Eravamo gli unici americani in mezzo ad un gruppo eterogeneo di francesi. C'era un tizio che sembrava essere belga. Nessun tedesco, ma questo è più che ovvio. Era normale che Jack ed io diventassimo amici, nessuno di noi due riusciva a dire qualcosa in francese a parte “devo pisciare, dove la faccio?”. Avevamo parecchio in comune, insomma, e per un bel po' l'unico suono che udii all'infuori delle granate fu quello del suo russare nei momenti di calma.
Eravamo volontari, tutti e due: con il senno di poi direi che eravamo due idioti, ma all'epoca ci era parso così giusto andare a combattere i tedeschi. Ostacolare la Germania significava ostacolare la dittatura e noi dovevamo farci onore, rappresentavamo l'America in tutto il suo splendore.
Non fa nessuna differenza. Francia, Germania, Stati Uniti: la stessa merda. Ti apre la mente, marciare nel fango insieme a gente che fino a un giorno prima consideravi troppo diversa, troppo lontana anche solo per paragonarti a loro. Ebbene, dopo che ti ritrovi a cacare per terra, col rischio di crepare di dissenteria o di chissà quale altra bestialità, quando le forme di una donna non le ricordi più, beh, è quello il momento in cui siamo tutti uguali. Io, Jack, il soldato francese che tutti chiamavano Monsieur le Maire perché era stato sindaco, il ragazzo giovanissimo che fu abbattuto durante il mio primo giorno: nessuno era meglio o peggio di nessuno e anche coloro con i quali non sarei mai andato d'accordo divennero i miei migliori amici.
Feci amicizia con Antoine soltanto nel '17.
Era un periodo nero per la Francia, i soldati continuavano a morire e c'era bisogno di nuove reclute. Iniziarono a chiamare al fronte anche i ragazzini. Antoine aveva sedici anni quando ricevette la lettera di convocazione.
Era mingherlino, Antoine, con il viso sempre così sporco che non gli si vedevano le migliaia di lentiggini che gli coprivano la faccia. Aveva corti capelli rosso fuoco, spiccava in mezzo a tutti gli altri come un fiammifero acceso. Il volto era così dolce da sembrare quello di una femmina e la voce era talmente sottile che, al buio, mi sarei innamorato di lui subito.
Antoine parlava un po' di inglese e noi avevamo imparato un po' di francese: non fu difficile capirci. Jack ed io eravamo già uomini, nonostante avessimo solo ventisei anni, ma lui era così spaurito da provocare in noi un modo di affetto materno.
Fu mentre cercavo di rimetterlo in piedi che mi esplose accanto una granata. Mi soccorse Jack, trascinandomi via in una pozza di sangue. Non ho ricordi di quel momento, se non una paura così folle da cancellare ogni cosa, perfino il dolore. Paura di cosa, di preciso, non so dirlo.
Mi risvegliai in ospedale. Tutto intorno a me era buio, oscuro, perché avevo una benda sulla faccia. Cercai di togliermela, ma una donna, probabilmente un'infermiera, corse a fermarmi. Il dolore era insopportabile, l'unica cosa che volevo era strapparmi via la faccia. Faceva così male che forse avrei preferito essere morto.
La prima volta che mi permisero di vedermi allo specchio piansi.
Mancava tutto il naso. Non c'era più, molto semplicemente. Io, Thomas Daniel Scott, orgoglioso volontario proveniente da Jersey City non avevo più il naso ed avrei dovuto indossare una specie di protesi per sempre.
Nessuno di quelli che non ci sono passati può realmente capire. Non era il dolore, ormai era passato. Era l'orrore. Se io stesso faticavo a guardare il mio riflesso, come avrebbero reagito le persone? Come avrei fatto a camminare in mezzo alla gente come al solito, a condurre una vita normale dopo che il mio volto era stato così brutalmente disfatto?
Faticavo a respirare, soprattutto all'inizio, e mal tolleravo gli sguardi impietriti del medico che mi stava curando. Che ne sarebbe stato dei miei sogni? Volevo una moglie, dei figli, amici fidati. Con un viso come quello, però, non avrei avuto niente.
Mi dissero che ero fortunato. Che altri messi meglio di me erano morti e che ero un eroe. Io però non mi sentivo affatto così, anzi, avevo una paura dannata di tornare a casa con il volto sfigurato a quel modo. Perfino quando mi dissero che la guerra era finita non mi importò, anzi in realtà nemmeno ci credetti, all'inizio. Poi Jack venne a trovarmi ed io mi vergognai così tanto da seppellirmi nelle lenzuola come uno scolaro, pur di nascondere l'orrendo foro che mi decorava.
«Thomas», mi salutò, sedendosi su una sedia in modo sospettosamente rigido. «Ti sei perso la fine delle ostilità».
«Mi sono anche perso un pezzo di faccia», mi sforzai di fare dell'ironia, con scarso successo.
Non parve impressionato. «Sì, me lo hanno detto», rispose. «A me è arrivata una pallottola nella gamba, ma sono a posto».
Mi decisi a riemergere dalla mia tomba di tela bianca e mi mostrai in tutta la mia bruttezza. Sollevai la mano a sfiorare la benda che mi solcava il viso. Passai i polpastrelli dove fino a poco tempo prima avrei sentito il rigonfiamento delle narici, ma ciò che incontrai fu il nulla. «Mi dispiace, Jack».
«Ah, io sto bene. Sei tu che sei messo peggio».
«Che farò, adesso?», sospirai.
«Andrai avanti», impose Jack. Aveva sempre avuto un modo di fare autoritario, ma notai qualcosa di diverso nella sua voce. «Non mi risulta che il naso sia un organo senza il quale si muore, o sbaglio?».
«Guardami, Jack. Sono orribile, un mostro. Tornato a casa, nessuno mi guarderà più negli occhi. Quando andrò a ballare le ragazze si volteranno inorridite. Camminando per strada la gente mi additerà e poi abbasserà lo sguardo. I bambini piangeranno davanti a me. Non posso andare avanti».
«Invece lo farai, cazzo», sbottò lui. «Lo farai perché tu sei ancora vivo, mentre migliaia di altri sono morti e avrebbero dato ben altro che il loro naso per essere al tuo posto».
«Jack-».
Mi interruppe. «Tu sei un eroe, Tom. Nessuno ti può dire il contrario. Se ti venisse in mente di dire ancora una volta che sei un mostro, ricordati che quella granata l'hai presa per aiutare Antoine a rimettersi in piedi. Hai perso il naso per salvare la vita ad un ragazzino che non avrebbe mai dovuto venirci, in guerra, che avrebbe dovuto stare a casa con sua madre. Per lui sarai sempre un eroe».
Antoine. Mi ero dimenticato di lui, avevo pensato a qualsiasi cosa meno che a lui. «Dov'è?», domandai. «È tornato a casa?».
Scosse il capo. «Gli hanno sparato, ha un foro sulla pancia spesso quattro dita», mi confidò gesticolando. «Lo hanno ricoverato ed è ancora vivo, ma non penso tornerà a casa. Gli hanno detto che la madre e la sorella sono morte».
Per un attimo attinsi ai problemi di Antoine come ad un balsamo. Me ne vergogno, perché solo per un breve istante preferii utilizzare le sue disgrazie come distrazione per non pensare alle mie. «Dio. Me ne aveva parlato, diceva che lui e la sorella erano gemelli».
«Dice che non ha nessuno», commentò Jack. «Voglio portarlo con me a Detroit. Dice che verrà».
Annuii. «Abbi cura di lui».
«Speravo saresti venuto con me anche tu. Conosco gente che lo assumerebbe volentieri, un ex cecchino senza naso».


Il naso finto non era brutto come mi aspettavo. Era di legno e comunque respiravo malissimo, ma avevo pagato molto più di quanto potessi realmente permettermi ed il lavoro alla fine sembrava quasi naturale, ad una certa distanza, come se non ci fosse alcuna protesi.
Certo che la barba non cresceva più, non sul labbro superiore, e sarebbe stato ridicolo portarla senza baffi: così iniziai a radermi, una cosa che non facevo da anni. Jack mi imitò, dicendo che lo faceva per comodità, ma sospetto che il suo fosse un tentativo di farmi sentire meglio, meno isolato.
Iniziai a leggere. Non che prima non lo facessi, ma l'avevo sempre considerato solo un passatempo per i momenti di noia. Invece scoprii che divorare romanzi mi veniva facile. I libri non ti giudicano. Non devono sforzarsi per sostenere il tuo sguardo, per loro sei sempre il benvenuto, bello o brutto.
Alla fine non ero troppo orrendo da guardare. A meno di non toccare la protesi quasi non si notava quanto fossi malmesso. Ma io lo sapevo, che avevo qualcosa di distorto, e questo bastava a mandarmi in depressione. Ogni volta che qualcuno mi guardava in modo strano temevo sempre che mi stesse giudicando. Ecco perché i libri.
Divorai tutti i romanzi che trovai, tutti in francese. Io, Jack ed Antoine eravamo stipati in una pensioncina a Calais, in attesa di poter salpare per la Gran Bretagna e da lì per gli Stati Uniti.
Antoine era come sfilacciato, stropicciato. Perfino la sua pelle sembrava ingrigita e non ero affatto convinto che si trattasse della ferita riportata in guerra. Si rigirava tra le mani un libricino, all'inizio credevo fosse un Vangelo o qualcosa di simile, ma scoprii che si trattava di una raccolta di poesie di Rimbaud. Tra le pagine c'erano delle cose, un fiore, un foglietto pieno di scritte, una fotografia e altre inezie. Mi disse che era appartenuto alla sorella; non permetteva a nessuno di toccarlo.
Il ragazzo non sembrava eccessivamente turbato dal mio viso. Certo si sentiva in colpa: lo vedevo dal modo in cui si rivolgeva a me, dallo sguardo che aveva ogni volta che incrociava il mio naso posticcio. Si accusava di avermi procurato un danno irreparabile. Continuò a guardarmi in quel modo per tutto il tempo che passammo a Calais.
Ero un po' preoccupato per lui: beveva parecchio, per la sua età. La guerra lo aveva devastato, anche se sospetto che, più del conflitto, a buttarlo a terra fosse la morte della sorella. Un paio di volte lo pizzicai a vomitare in un vicolo per il troppo alcool ingerito. Jack disse che, finché non si metteva a farsi di eroina, non c'era da preoccuparsi.
Salpammo ad agosto del '19.


«Quali sono i tuoi sogni, Tom?», mi domandò Antoine sulla nave per Staten Island, con quel suo buffo accento francese.
Gli avrei riso in faccia, non fosse stato per la sua espressione ingenua. “Io non ho più sogni”, avrei voluto rispondere, ma non lo feci. «Una famiglia», preferii replicare. «Dei figli».
Si passò una mano sul ventre, dove sapevo c'era la ferita che lo aveva quasi mandato al Creatore. «Mi inviterete a casa vostra per Natale?», chiese con quella sua voce sottile.
«Certo», affermai dando un colpo gentile sulla visiera della sua coppola. «Tutti gli anni. Tu porta il vino, al resto penserò io».


Jack mi trovò davvero un lavoro. Era ciò di cui avevo bisogno, un po' di distrazione. A furia di starmene sempre in compagnia di Antoine avevo quasi dimenticato come fosse difficile interagire con gli altri. Ciò che mi occorreva era un bagno di realtà, una doccia fredda. Non appena misi piede negli Stati Uniti mi resi conto che la mia vita non sarebbe mai più stata come prima.
L'uomo che mi presentò si chiamava Jonas Anderson, era venuto a stare a Detroit all'inizio della guerra ed aveva messo in piedi un giro di scommesse clandestine sulle World Series. Anderson aveva perso il suo socio in una sparatoria e non gli rimaneva più nessuno che recuperasse il denaro degli scommettitori.
Mi disse che ero perfetto: il mio volto faceva abbastanza paura ed avrei dovuto essere rapido con i pugni, soprattutto dopo che a New York un tizio di nome Arnold Rothstein si era fatto beccare a truccare le scommesse sui Chicago White Sox. Da allora nessuno voleva più dare nulla a Anderson e la cosa non gli dava affatto piacere.
Non era il miglior impiego del mondo, ma era un impiego. Jack e sua moglie Karen ci ospitavano volentieri, ma non potevo stare a casa loro per sempre.
Abitavano in una bella casa, fuori città, lungo il fiume. Una costruzione a due piani, con un piccolo giardino. La famiglia di Karen aveva ereditato una certa cifra durante la Secessione e quella casa era rimasta una specie di angolo di paradiso in mezzo ad una nascente zona industriale.
Diedero una camera ad Antoine e a me, un armadio, due letti ed uno scrittoio, uno specchio e una finestra che dava sul fiume. La stanza era luminosa, molto più luminosa di una trincea. La luce del sole la inondava tutto il giorno, dall'alba al tramonto, e proiettava l'ombra dei rami del pino in giardino sulla parete in fondo.
Jack riprese il suo vecchio lavoro alla fabbrica di automobili di Ford. In quanto soldato volontario, i suoi capi erano stati costretti a tenergli libero il posto e lui non aveva esitato a insediarsi di nuovo nella catena di montaggio.
Antoine, invece, continuava a bere.
Forse fu per questo che, con le leggi sugli alcolici, finì nella compagnia sbagliata. Quando nel '19 venne approvato il Volstead Act e l'alcool fu vietato, in molti si misero nel contrabbando di liquori ed Antoine divenne solo uno dei tantissimi ragazzi che portavano messaggi e facevano commissioni per varie bande criminali in cambio di una bottiglia o due.
Non mi preoccupai, all'inizio, perché anche io non facevo certo un mestiere onorevole. Poi venne a casa tutto tremante una sera, si sdraiò nel suo letto ancora vestito e si mise a piangere. Disse che avevano sparato al suo compare, un altro teppistello da strada come lui.


«Ti farai ammazzare», gli dissi un giorno.
«Ma figurati», fece lui sorridendo. «Non mi succederà niente di male».
Gli indicai il mio naso. «Mi è partita mezza faccia per salvarti la vita, non rendere vano il mio sacrificio, per favore».
Non mi rispose, limitandosi a distogliere lo sguardo e a calarsi di più la coppola sui capelli a spazzola, nascondendo le sue lentiggini in un'espressione infelice. Dopo qualche momento mi rivolse uno sguardo languido, gli occhi lucidi, e sollevò una mano pallida a sfiorare le mie nari posticce.
«Secondo me resti sempre un bell'uomo», mormorò.


Ero ormai abituato ad entrare in camera senza bussare. Eravamo due maschi, dopotutto, e non c'era molto di cui vergognarsi.
Una mattina di fine settembre del '22 scoprii che, invece, c'erano segreti nella vita di un uomo che non andrebbero mai svelati, per nessun motivo al mondo.
Antoine mi dava le spalle, guardava lo specchio e aveva davanti a sé una bacinella d'acqua. Pensai che si stesse rasando il volto, ma non c'era nessun rasoio. Allora mi accorsi dell'espressione di puro terrore con cui mi stava fissando, attraverso il riflesso, come se lo avessi beccato a fare qualcosa di tremendo.
Abbassai lo sguardo e la vidi: una fasciatura spessa, bianca, proprio all'altezza del...
...del seno.
Le mie labbra si spalancarono in un'espressione di muta sorpresa mentre mi rendevo conto che quello che avevo scambiato per un giovane dalla magrezza impressionante era in realtà una ragazza nella media, dalla pancia piatta e la vita stretta. Quelli che mi erano parsi come lineamenti delicati erano a tutti gli effetti femminili. E quella voce dalla tonalità strana, come quella di un bambino in crescita, era la voce di una donna.
Lo sguardo sgomento, atterrito, Antoine si voltò verso di me, le mani ancora sollevate a tenere stretta la fasciatura. Mentre si voltava lo sguardo mi cadde sulla grossa cicatrice irregolare che si era procurata nella guerra, spessa e biancastra.
«Tom», mormorò.
Mi affrettai a chiudere la porta prima che qualcun altro la vedesse. «Tu sei-».
«Sì», mi interruppe. Si aggiustò rapidamente la benda sul seno, stingendola così tanto che mi chiesi come potesse non spezzarsi lo sterno. Infilò dalla testa una camicia e si passò le mani sul viso – il suo viso da donna – ansimando, le labbra tremolanti per la paura.
«Ti prego», pigolò dopo un momento. «Ti prego, non dirlo a Jack».
Io ero troppo incredulo per parlare. Troppo sorpreso, troppo stranito. Mi lasciai cadere sul letto, il materasso ondeggiò cigolando sotto il mio peso. Avevo le spalle curve ed un'espressione di puro sconvolgimento.
Sollevai lo sguardo su di lei, ancora in piedi, rigida come un pezzo di legno, gli occhi verdi lucidi e grandi.
«Non lo dirò a Jack», udii emergere dalla mia gola.
La vidi annuire e chiudere gli occhi, sollevando le mani giunte fino alle labbra. Si sedette sul suo letto, quasi imitando la mia posa, e si passò le dita su una guancia. Stava piangendo?
«Perché?», domandai. Era l'unica cosa che mi venne in mente, chiedere una spiegazione. Pensandoci a posteriori avrei potuto dire migliaia di altre cose molto più intelligenti, ma in quel momento avevo la testa chiusa.
«Perché cosa?», chiese. «Perché mi sono finta un maschio o perché continuo a farlo anche se la guerra è finita?».
«Entrambe le cose, immagino».
Si rimise in piedi e mosse qualche passo, avanti e indietro, nello spazio tra i letti e la porta. Si passò una mano fra i capelli corti – così improvvisamente corti, troppo per sembrare naturali – ed esitò per qualche minuto. Io non dissi niente, perché non mi veniva in mente nulla da dire.
«Quello che sai sulla mia famiglia è vero», disse infine. «Mia madre ebbe due gemelli. Antoine ed io».
«Come ti chiami?».
«Anne Marie», disse quasi in un sussurro. «Io e lui eravamo una cosa sola, mio fratello era il mio eroe. Abitavamo in una casa padronale, maman era cuoca. Lui rubava dolci dalla cucina per me, mi raccontava storie, mi prometteva che saremmo venuti a vivere in America».
Aggrottai la fronte, perché nulla in tutto ciò aveva senso. «Perché hai preso il suo nome?».
«Era malato. A volte aveva degli attacchi, si irrigidiva e iniziava a tremare. Ogni tanto perdeva conoscenza e rischiava di mozzarsi la lingua con i denti».
Non riuscii a trattenermi. «Epilessia», indovinai.
Lei annuì. «Lo ha detto anche il dottore. Non poteva andare in guerra, sarebbe morto. Quando arrivò la lettera di convocazione maman era disperata, disse che preferiva morire piuttosto che vedere suo figlio al fronte». Fece una breve pausa, poi aggiunse: «Lo preferivo anche io».
«Ti sei arruolata al posto suo?».
Si strinse nelle spalle, come l'intera situazione fosse normale. «Certo. Rubai la sua lettera e i suoi documenti di identità, mi tagliai i capelli e mi presentai al posto suo».
«E ti hanno creduto?».
«A Lione quel giorno c'erano quattrocentonovantadue ragazzini da arruolare, centonove reduci da dimettere e milleduecento soldati da coordinare», sibilò. «Credi che mi abbiano rivolto più di un'occhiata veloce? E poi Antoine ed io ci somigliavamo così tanto che nessuno avrebbe notato la differenza».
All'improvviso mi illuminai. Ecco perché, in trincea, nessuno aveva mai visto il piccolo Antoine pisciare. Credevamo fosse perché era timido. Jack aveva perfino avanzato l'ipotesi che temesse avances indesiderate dai soldati più vogliosi: capitava, a volte, e lui era giovane.
Invece lo aveva fatto perché non scoprissimo il suo segreto.
«E il medico che ti ha curata?», domandai. «Lui deve essersene accorto».
«Monsieur Pareil è stato molto gentile», mormorò appoggiandosi al muro, le braccia conserte. «Quando lo ha scoperto ha aspettato che mi svegliassi e mi ha chiesto spiegazioni. Disse che la Francia era orgogliosa delle sue donne, che la Rivoluzione non si sarebbe fatta senza di noi. Mi disse che avevamo rovesciato il re. Protesse il mio segreto».
Dovetti prendere un bel respiro. Può non sembrare una gran cosa, ma scoprire che il ragazzo con cui hai condiviso gli ultimi cinque anni della tua vita non è affatto un ragazzo mette ansia. Quante volte mi aveva visto completamente nudo? Troppe. Avevo parlato di cose che non si dicono ad una signora, avevo fumato cannabis e fatto battute sconce. Le avevo perfino prestato la mia copia di una rivista per soli uomini, piena di belle ragazze in pose provocanti. Era imbarazzante.
«Perché hai continuato?», chiesi infine. «Avresti potuto smettere, una volta conclusa la guerra».
Scosse il capo. «Hanno distrutto la mia famiglia. I corpi erano così irriconoscibili, una volta crivellati dalle mitraglie, che hanno dato per scontato ci fossi io al posto di Antoine. Anne Marie è ufficialmente morta».
«Ma-».
«No», mi interruppe lei. «Va bene così. Io amavo mio fratello. È come se in qualche modo potesse ancora vivere attraverso me».
«E ormai sei entrata negli Stati Uniti con la carta di identità di un uomo», conclusi al posto suo.
Abbozzò un sorriso che di lieto non aveva niente. «Già. Mi rimanderebbero indietro, se dicessi la verità, ed io non voglio. Non c'è più nulla per me laggiù. E poi essere un uomo è più facile, ho votato anche io per il presidente».
«Ora anche le donne possono votare», protestai pensando alle ultime elezioni, per le quali il diritto di voto era stato esteso a tutti i sessi.
Mi guardò come se fossi pazzo. «Scherzi, vero?», ironizzò. «Potranno anche votare, ma quante di loro lo hanno fatto? Senza contare che mi sono abituata a comportarmi come un maschio. Ci sono meno problemi, meno “fai questo” e “non fare quello”».
Aggrottai la fronte. Mi risultava strano pensare al mio compagno di stanza come ad una donna, avrei dovuto cambiare molte abitudini. «Anne Marie-».
Mi interruppe di nuovo. «Antoine», affermò. «Mi chiamo Antoine».


Un affare andò molto male e mi accoltellarono. Niente di grave, il coglione mi prese di striscio e comunque non sapeva nemmeno usarlo, il coltello, ma mi mandò in ospedale. Dopo la Francia avevo deciso che non ci avrei mai più rimesso piede. E tuttavia quella notte, dopo aver steso il mio assalitore con un pugno e aver preso i soldi di Anderson – non un penny di più – mi trascinai fino all'ospedale più vicino.
C'erano le suore: io odio le suore, mi mettono una paura folle in corpo, forse perché da piccolo andavo a scuola presso le salesiane e mi sono preso parecchi colpi di righello sulle nocche e sulle ginocchia. Mi imbottirono di narcotici e mi sistemarono la ferita al fianco.
Non era nulla, a confronto del naso, ecco perché me ne interessai poco. Mi limitai a restarmene nel mio letto e a sprofondare nell'oblio del sonnifero.
Mi risvegliai nel pomeriggio, il giorno dopo, la luce del sole che filtrava attraverso le imposte accostate. C'era una sedia, accanto al mio letto, ed appollaiata lì sopra c'era Antoine.
Istintivamente risi. Una posizione come quella sarebbe stata più che normale per un ragazzo, ma per una donna di ormai ventun'anni non lo era affatto. Le ginocchia al petto, i piedi appoggiati al bordo della seggiola e il berretto in testa, mi fissava mordendosi le unghie con i suoi profondi occhi verdi, tamburellando con le dita di una mano sul materasso.
«Heylà», chiocciò quando mi vide aprire gli occhi.
Mi passai la mano sulla fronte. Una fitta al fianco mi fece capire che non era stata una buona mossa. «Che ore sono?».
«Le sei e un quarto», mormorò. «Lo sai che le suore hanno un Victor?».
Quella conversazione aveva poco senso. «Che cos'è un Victor?».
Lei fece un sorriso sognante, increspando le labbra. Fino a una settimana prima avrei detto che era un ragazzino infantile, ma non potevo più pensarla così. «Un grammofono», rispose a bassa voce. «La signora per cui lavorava maman ne aveva uno, ma era vecchio e c'era solo musica noiosa. A volte permetteva a noi bambini di ascoltare».
«Musica noiosa?», domandai. Mi resi conto per la prima volta che non avevamo mai avuto una discussione come quella, sui nostri gusti personali, e mi chiesi il perché. «Che musica ti piace?».
«Uhm», rifletté sbattendo le palpebre. «Quando avevo dodici anni mio fratello ed io siamo scappati a Parigi perché c'era Jelly Roll Morton, da New Orleans. Dio, maman si arrabbiò così tanto che credevo le sarebbe venuta un'ulcera».
Aggrottai la fronte. «Jazz, quindi», conclusi. «Non ti facevo una da jazz».
«Tu mi sembri uno che ascolta musica come quella che metteva la signora», commentò, come se non mi avesse nemmeno ascoltato. «Musica noiosa».
«Oh, andiamo», la ripresi. Mi sentivo quasi offeso. «Io ascoltavo Nick La Rocca prima che diventasse di moda, ragazzina».
La vidi sgranare gli occhi. «Hai visto suonare Nick?». Lo chiamava perfino per nome, era qualcosa che in quel momento mi spinse a sorridere. «Deve essere stato fantastico».
«Beh, immagino sia stato bello quanto Jelly Roll Morton a Parigi», risposi. «Come avete fatto ad arrivarci?».
«Ci nascondemmo nella carrozza bagagli di un treno», rispose. «Era la prima volta che ne prendevo uno, è stato molto eccitante. Siamo scesi alla Gare du Nord». Notai come sembrava estraniarsi, capitava ogni volta che parlava di suo fratello, come se isolasse il cervello. «C'era la Tour Eiffel, il Moulin Rouge e tutto il resto. I lampioni erano accesi, non li avevo mai visti, e le ragazze erano bellissime e fumavano come i maschi. Lui si esibiva a Pigalle».
Si interruppe ed infilò la mano nell'interno della sua giacca. Da una tasca interna estrasse il suo libro di poesie – libro che, a questo punto, immaginai appartenesse non alla sorella come mi aveva detto, ma al fratello – e lo aprì. Fu un gesto così preciso da spingermi a credere che fosse la pagina che leggeva di più. Ne estrasse una foto.
Me la passò con delicatezza, come fosse un cimelio. Mi indicò una delle due figure, un ragazzo sui quindici anni. Aveva i capelli chiari, nella fotografia, forse rossi come quelli di lei, ed era bello. Non sono mai stato un estimatore della bellezza maschile, ma non c'era altro modo per definirlo. Il suo volto era perfetto ed il sorriso era lo stesso di Anne. Quello che mi aveva detto era vero, erano identici, indistinguibili.
Lei era lì accanto e rideva. Immaginai che lui avesse detto qualcosa di simpatico all'ultimo momento, per distrarla e farla ridere rovinando la posa che con ogni probabilità la madre aveva orchestrato con tanta precisione. Una bravata che aveva in realtà creato un bel ricordo.
«Deve mancarti molto», mormorai. Non sapevo che altro dire.
«Continuamente».
«Avevi i capelli lunghi».
Non lunghi, lunghissimi: erano lasciati sciolti, il che mi parve strano visto il tipo di fotografia. Poi notai che il nastro era in mano al ragazzo. Ecco il motivo di tanta ilarità, lui doveva averglielo rubato appena prima che il fotografo scattasse.
Stavo per aggiungere qualcosa, qualsiasi cosa, perché improvvisamente sapevo di più sul piccolo commilitone che sedeva davanti a me e volevo continuare a conoscerlo.
Tuttavia una delle dannate suore sopraggiunse e annunciò la fine dell'orario di visita. Rapida com'era arrivata, Anne Marie se ne andò.


Una mattina, era domenica, stavo camminando con Jack per strada. Non era una cosa che mi piaceva fare, evitavo le zone affollate durante il giorno, ma avevo accompagnato il mio ospite e sua moglie a comprare certe nuove medicazioni, perché Karen era incinta.
Era umido, fuori, il che significava che le mie narici finte mi davano fastidio e la pelle pizzicava. Feci per grattarmi il viso quando una bambina, sul marciapiede, notò che quello che avrebbe dovuto essere un naso – e in quanto tale restare al suo posto – era in realtà semovibile.
Scoppiò a piangere, gridando che c'era un uomo cattivo pronto a ucciderla. Impiegai qualche momento per rendermi conto che parlava di me.
Sua madre la prese in braccio, consolandola. Le disse che non ero affatto cattivo, che era stata la guerra a farmi questo e che ero in realtà un uomo coraggioso. Tuttavia, se anche la figlia ci credette, io non lo feci: lo sguardo di quella donna era più eloquente del pianto di qualsiasi bambino.
Finsi cortesia, mi sollevai il cappello in un cenno di saluto e rivolsi alla piccola un sorriso. Dentro di me, però, ero umiliato e stanco. Avrei dato qualsiasi cosa per una faccia normale, anche brutta, ma normale.
Jack mi trascinò in un bar per distrarmi, ma a causa della legge Volstead bevemmo solo caffè.


Anche Jack aveva un Victor, o meglio lo acquistò quando ottenne una promozione ed un conseguente aumento di stipendio. Era un gran lavoratore, Jack, si spaccava la schiena in catena di montaggio per permettere a sua moglie una vita agiata e, pur non facendo parte della classe alta, lui e Karen se la passavano molto bene. Perfino la gamba lesa non pareva creargli problemi. Era il 1923 quando lo promossero a capoturno e per festeggiare Jack regalò alla sua sposa un giradischi che lei vedeva ogni giorno nella vetrina di un negozio di musica mentre tornava dalla sala da the, dove passava il pomeriggio con le sue amiche.
A volte capitava che vedessi Antoine in piedi sullo stipite della porta del salotto, in religioso silenzio, le orecchie dritte ad ascoltare Cole Porter. Karen la prendeva in giro bonariamente, definendola un “ragazzo dagli ottimi gusti”. Lei rispondeva sorridendo e sollevava la sua bottiglia di gin allungato che le procuravano i suoi capi.
Una sera la colsi di sorpresa, spuntando alle sue spalle quasi dal niente. «È vero che adesso spedisci messaggi a Lucky Luciano?», domandai a bruciapelo.
Lei non parve turbata, come se fosse normale fare affari con i mafiosi di New York. «Come lo sai?», domandò con la sua vocina.
«Anderson», risposi. Il mio capo si era buttato sulle case da gioco quando era apparso chiaro che le World Series non pagavano abbastanza, introducendosi nel giro di Charlie “Lucky” Luciano e del suo compare, un tale Meyer.
«Non è niente di serio, devo prendere i biglietti dal signor Zerilli e spedirli a un indirizzo di New York, dove un galoppino di Lucky Luciano li ritira e li consegna».
«Dovresti stare attenta», mormorai.
«Attento», mi corresse lei, ammiccando verso Karen che, seduta sul divano, sfogliava Vogue. «Io sono Antoine, non dimenticarlo».
Inarcai le sopracciglia. «Ok», concessi. «Ma non cambia, devi fare attenzione. Luciano è pericoloso, molto più di Joseph Zerilli».
Mi rivolse un bel sorriso. «Tranquillo, amico, so badare a me stesso. Dopotutto non sono io quello che è finito accoltellato in un vicolo, o sbaglio?».
Qualche giorno dopo entrò in camera ridacchiando, un po' alticcia. Disse che Zerilli era così soddisfatto di lei che le aveva detto di scegliersi una puttana dal suo bordello, per quella sera sarebbe stata gratis. Lei rise così tanto mentre me lo diceva che le cedettero le gambe e crollò sul suo letto. Posai il mio Oliver Twist sul cuscino, mi alzai e le spinsi i piedi sul materasso, coprendola con la trapunta. Non avevo ancora ripreso il libro che stava già russando.


A volte camminavamo sulla nona, dove potevamo stare senza attirare l'attenzione di quelli vestiti meglio pur godendoci comunque un po' di scintillio. Mi scoprii a studiarne i movimenti, perché se fino ad allora mi erano parsi naturali, adesso volevo vedere fino a che punto erano studiati.
Sembrava davvero un maschio: mani in tasca, sguardo insolente, una sigaretta tra le labbra. Se non fosse stato per il viso delicato e la risata cristallina, io stesso mi sarei ingannato pur sapendo la verità, convinto di camminare con un giovinastro che si atteggiava a fare l'adulto. E invece era una ragazza, quella che nascondeva i suoi capelli sotto quella coppola infeltrita, che celava il seno non sotto un corsetto ma sotto una fascia stretta. Erano i fianchi, le ossa e la pelle di una donna quelli che stavano sotto i pantaloni denim e quella vecchia e brutta palandrana.
C'erano momenti in cui me ne dimenticavo. Alle volte, alla sera, quando entrambi ci sdraiavamo nei rispettivi materassi e chiacchieravamo fino ad addormentarci, il buio mi aiutava a scordare che era una ragazza quella che viveva nella mia stanza e parlavamo di qualsiasi cosa.
Alla mattina, però, sentivo nell'aria il suo profumo. Ora che non doveva più nascondersi, a volte si preparava davanti a me credendomi ancora addormentato. Allora capitava che la spiassi da sotto al lenzuolo, coprendomi il viso per non mostrarle il mio volto deturpato, privo di protesi nelle ore notturne. La osservavo e ciò che vedevo aveva un che di perturbante. Le sue scapole ossute e i suoi fianchi delineati, insieme al seno riflesso nello specchio, mi provocavano reazioni contrastanti nella mente e nel corpo. Non sapeva che la fissavo, almeno credo.
Quelli erano i momenti in cui mi era più difficile conciliare l'immagine di Antoine, con cui avevo condiviso i momenti peggiori della mia vita, con quella della giovane e coraggiosa Anne Marie, che sotto gli strati di abiti maschili aveva l'odore di una femmina.
Potevo esserle amico ed al contempo esserne turbato? Non ero sicuro che si potesse essere davvero amici di una donna. Eppure con lei era facile, forse perché ero abituato. I discorsi tra noi erano discorsi da uomo, ma l'erezione nei miei pantaloni parlava chiaro.
Quella mattina, sulla nona, si fermò a guardare la vetrina di un sarto. Certo, era piantata a gambe larghe davanti al manichino maschile ed aveva tutta l'aria di ammirare il taglio del completo gessato esposto, ma quando mi avvicinai non poté più darmela a bere: con la coda dell'occhio studiava l'abito scollato e pieno di paillettes sulla destra.
«Sei una bella contraddizione», commentai.
Arricciò il naso in quella che avrebbe dovuto essere un'espressione stizzita. «Fatti gli affari tuoi».
«Antoine, se per una volta vuoi un vestito da ragazza, compralo».
Scosse il capo. «No, non ci riesco».
«In che senso?».
Si strinse nelle spalle. «Non riesco più. Io...», esalò. «Beh, non me lo posso permettere e comunque non mi starebbe bene. Ora scusami, ho da sbrigare roba per Zerilli».


Aveva bisogno di sentirsi bella, ecco perché le comprai un vestito. D'accordo, non era quello azzurro in seta e paillettes che avevamo visto insieme, ma era comunque scollato e lo avevo visto sulla copertina di uno dei Vogue di Karen.
Non so bene perché lo feci. Dissi a me stesso che era perché stavo guadagnando parecchio da quando Anderson aveva cambiato giro, quindi perché non fare qualcosa per un amico? O un'amica, che dir si voglia. In realtà non sono sicuro che il motivo fosse quello.
«Un regalo?», domandò quando le porsi la scatola. Sembrava più sorpresa che lusingata.
«Cambiati», le risposi. «Andiamo a ballare. Non ci sarà Cole Porter, ma ti piacerà».
Antoine tentò di rifiutare. «Oddio, Tom, ti ringrazio, ma i miei capelli-».
«Non lo noterà nessuno», risposi.
Dovette vestirsi nel garage di Jack, perché se i nostri ospiti l'avessero vista uscire vestita da donna avrebbero potuto insospettirsi. Insieme al vestito avevo preso un paio di scarpe dopo aver fatto uno sforzo di memoria per ricordare il suo numero dall'ultima volta che aveva comprato un paio di stivali. Non aveva gioielli, a parte un ciondolo d'oro che non aveva mai messo, ed effettivamente aveva i capelli molto corti. Però nessuno li avrebbe notati, perché era bellissima.
Disse di aver ballato con una delle ragazze di Zerilli, una sera, perciò conosceva i passi. Non era una gran ballerina, questo devo riconoscerlo, ed era così a disagio da essere rigida come il manico di una scopa. Continuava a guardarsi intorno, all'inizio, e a sbattere le palpebre in maniera nervosa. Ogni tanto, quando credeva di essere osservata, le orecchie diventavano bordeaux.
Ad un certo punto commentò: «Credo di avere troppe lentiggini».
Mentre le stringevo le mani in un jig walk le rivolsi un'espressione eloquente. «Ti ascolti quando apri la bocca?».
Fece spallucce saltellando sul posto. L'abito giallo ondeggiò al suo movimento. «Sì, certo, è solo che non ho mai fatto niente del genere e le altre ragazze... Non lo so, non mi sento adeguata».
Le presi la punta delle dita tra le mie e le feci compiere una giravolta. Quando la ripresi la avvicinai di più a me, portandole una mano tra le scapole nude, e le sorrisi. «Sei perfetta, smettila di preoccuparti e rilassati».
Era una strana versione di Antoine, molto diversa da quella che conoscevo. Era sempre così sicura di sé, così piena di energia e di ottimismo che quel suo modo di fare guardingo e timido mi sorprese. Ne sorrisi, forse perché per una volta mostrava il suo vero volto.
Cercò di divertirsi e ad un certo punto ci riuscì. Non ricordo cosa dissi, ma doveva essere qualcosa di buffo perché scoppiò a ridere. Quel locale serviva alcolici sottobanco e bevemmo champagne: costoso, ma si trattava di una volta sola e volevo che Antoine si sentisse felice.
Ballammo per ore. Non sono mai stato un amante di questo genere di cose, ma a lei piaceva la musica ed io mi sentivo euforico, quasi estatico all'idea che potesse divertirsi con me. Con me, che non avevo più l'aspetto di un tempo e respiravo facendo rumore.
Non fu una mossa premeditata, in realtà non avevo deciso niente finché non avevo visto il vestito da un sarto. Da lì in poi fu tutto un inseguire l'istinto, non ragionai, non ero nemmeno certo che lei mi piacesse veramente. Però aveva bisogno di questo e volevo esserci io, con lei, quando avrebbe imparato ad essere una donna.
Credo che per lei fosse la stessa cosa. Non sono sicuro che, quando appoggiò per la prima volta le labbra sulle mie, fosse consapevole di quello che stava facendo. Nessuno di noi due lo era. Eppure sembrava normale, quasi naturalmente fisiologico baciarci e ballare, ridere e baciarci di nuovo. Era giusto così e a nessuno venne in mente che potesse essere un errore.


Quando rientrammo erano le tre del mattino e nessuno ci vide salire. In camera da letto si respirava un'aria differente, c'era più del suo profumo, più del solito. Le slacciai il bottone alla base della schiena alla luce della lampada sullo scrittoio, mentre lei guardava in basso, improvvisamente insicura. Le baciai la curva del collo, dolcemente, e guidai le sue mani sul mio petto.
Con dita tremanti mi sbottonò la camicia e toccò la pelle al di sotto, silenziosa, delicata. Non c'era un suono nella stanza, a parte le nostre labbra. All'improvviso spalancò gli occhi, investendomi con il verde profondo delle sue iridi. Non so cosa temesse: mi aveva visto nudo altre volte ed aveva certo imparato parecchio dai discorsi camerateschi fatti in trincea. Io stesso l'avevo vista, anche se lei non lo sapeva.
Le passai una mano lungo la coscia, sentendo la pelle d'oca al mio tocco. Le posi una mano alla base del collo e la trassi a me, baciandola ancora, con la lingua, le labbra e i sospiri, il fiato e la paura che qualcosa potesse non andare per il verso giusto.
Non portava la sottoveste, perché con quell'abito non si poteva, ma le mutandine di pizzo erano lì, invitanti e così da donna. Quando il vestito scivolò per terra e lei rimase nuda davanti a me, per un attimo indugiai a guardarla, appena per un secondo, e la trovai meravigliosa. Mi piegai a baciarle il seno e scesi più giù, sulla cicatrice che, invece di imbruttirla, la rendeva più sensuale ancora.
Facemmo l'amore con dolcezza, delicatezza. Lei non lo aveva mai fatto ed era così piccola sotto di me, così minuta che quasi temetti di ferirla, di spezzare quelle ossa di porcellana. Le mie mani mi parevano così grandi, così enormi sulla sua pelle, ma Antoine ogni tanto sorrideva tra i gemiti.
Credevo si sarebbe agitata quando venni, invece rimase tranquilla, incurante del sangue che più tardi macchiò le lenzuola e le labbra piantate sulle mie, gli occhi chiusi, le sue ciglia rosse calate sulle guance bianche.
Eravamo una coppia strana, lei si vestiva da uomo ed io non avevo più il naso.


Iniziarono a chiamarci finocchi. Per strada, nei locali, una volta perfino uno degli uomini di Anderson usò quella parola. Noi stavamo attenti, non ci scambiavamo certo effusioni appassionate in pubblico – conoscendola, non lo avrebbe fatto nemmeno in condizioni normali – ma a volte non era facile, lei era bellissima e il suo profumo inebriante.
Bastava poco: una risata innocente, due dita a sfiorare quelle dell'altro. Lei sembrava un folletto ed io ero diventato “quello a cui piacciono giovani”. Non mi importava. Credo nemmeno a lei interessasse più di tanto, ne rideva perfino.
Un pomeriggio, entrando in un bar, il padrone ci si avvicinò guardingo e disse a mezza voce: «Non voglio fare scenate, ma non ci piacciono molto i froci. Vorrei che usciste».
Antoine aveva riso forte. «Perché non lo chiedi a tua moglie, se sono frocio?».
Certo, in quell'occasione si prese un pugno in faccia ed io mi azzuffai con il proprietario mentre lei cercava di rimettersi in piedi, ma non ci chiesero più di andare via.
Ciò che mi impensieriva era Jack, che non era stupido. Se avesse iniziato a pensarla in quel modo anche lui, non sapevo dove saremmo andati a finire.


Karen iniziò a chiedersi come mai, nonostante fossimo lì ormai da ormai cinque anni – era il '25 – Antoine non invecchiasse. Si domandava perché non gli crescesse la barba, come mai continuasse ad atteggiarsi a ragazzino quando era in verità un uomo fatto. Jack le disse di non preoccuparsi, che aveva un bambino a cui badare e che Antoine era sempre stato un tipo un po' etereo e femmineo.
Io, dal canto mio, avevo trentaquattro anni. Iniziavo a pensare che mi sarebbe piaciuto avere un figlio, con lei. Avremmo potuto trasferirci altrove, avrei potuto procurarmi documenti falsi e Antoine avrebbe potuto tornare ad essere Anne Marie.
Lei dovette fiutare il mio stato d'animo.
Una sera, mentre me ne stavo avvinghiato a lei dopo aver fatto sesso, mi rivolse uno sguardo profondo, con quelle grandi pozze verdi. «Tom».
«Dimmi».
«Lo so cosa vorresti», mormorò. Abbassò la mano e si toccò la cicatrice, liscia, in rilievo sulla carne. Picchiettò su di essa come per enfatizzare il concetto. «Ma io non posso avere figli».
Mi sentii in colpa, in quel momento, perché forse lei si colpevolizzava per non potermi dare un bambino. «Non importa», affermai. Lo avevo detto perché era la cosa migliore da dire, ma subito dopo averlo fatto mi resi conto che lo pensavo davvero. Volevo un figlio, certo, ma se non potevo averlo con lei, che senso avrebbe avuto?
«Non me la prenderò, se mi lasci per questo», rispose. «Capisco quanto possa essere importante».
Le accarezzai i capelli a spazzola, guardandola con un sorriso. «Non ti lascerei mai».
Non era esattamente come dire che l'amavo, ma vi si avvicinava.


«Andremo a Parigi, un giorno?», mi domandò durante un picnic domenicale insieme a Jack e alla sua famiglia. Eravamo da soli, sdraiati nell'erba, e in lontananza sentivamo Karen ed il piccolo Tobias strillare mentre Jack fingeva di inseguirli. «Mi ci porterai, Tom?».
«Per viverci?», indagai.
«No, in viaggio», rispose. «Potremmo andare a ballare a Parigi».
Sorrisi, crogiolandomi all'idea. «E salire sulla Tour Eiffel».
La sua mano salì timidamente alla mia guancia, sfiorandomela con le dita. «E cenare sulle barche che solcano la Senna».
Mi voltai su un fianco, guardandola con quello che, a dirla tutta, probabilmente era amore. Le strinsi la mano minuta nella mia. «Io ci sto».
Ridacchiando, affondò il volto nel mio cappotto. «Andiamo a Parigi».

Una mattina, prima dell'alba, mi svegliai trovandomela nel letto. Non disse una parola, si spogliò e mi si sdraiò accanto.
C'era una specie di tacito accordo tra noi che voleva mi mettessi la protesi prima di ogni bacio. Cercai di prenderla dal comodino, approfittando della stanza ancora buia, ma lei me lo impedì, afferrandomi la mano.
«No, Tom», mormorò, le sue labbra sulle mie.
«Non voglio che tu mi veda».
La sentii sorridere mentre mi baciava, soffiando aria dalla bocca. «Io ti trovo così bello, Tom».
Era davvero possibile? Davvero mi trovava bello? Era così improbabile che mi spaventai. Scossi il capo e feci per ritrarmi, ma mi ritrovai a cozzare contro il muro e lei mi si premeva contro, le mani sul mio collo, baciandomi con voracità.
Chiusi gli occhi e sorrisi.


Nel '27 non avevamo ancora abbastanza soldi per andare a Parigi, ma la portai al cinema a vedere The Jazz Singer. Era la prima volta che veniva proiettato un film con il sonoro e Antoine era così eccitata che sembrava sul punto di schizzare fuori dai vestiti.
Sedemmo in dodicesima fila, perché le prime costavano troppo e quelle in fondo troppo poco. Togliemmo i cappelli, mangiammo popcorn e guardammo Al Jonson strepitare contro il padre che voleva costringerlo a cantare in sinagoga. Ma lui voleva fare jazz e Antoine, rannicchiata sulla poltroncina del cinema, mormorò: «Secondo te è una storia vera, Tom?».
Mi strinsi nelle spalle. «Non lo so».
In realtà non era esattamente un film sonoro, perché c'erano ancora le didascalie, ma ad un certo punto gli attori parlarono tra loro e nella sala scoppiò il finimondo, quasi tutti restammo a bocca aperta e si sentì un coro di “Oh!” in tutti i sedili.
Dopo ottantotto minuti, le luci si riaccesero e la gente iniziò ad alzarsi. Io mi rimisi in piedi e sentii Antoine rovistare sul pavimento in cerca del suo cappello, quando qualcuno alle nostre spalle disse con astio: «Hey, da quando i succhiacazzi sono ammessi in luoghi pubblici?».
Avevo ormai imparato da tempo che non era il caso di discutere con gente del genere, era meglio lasciar perdere per non fare il loro gioco. Volevo evitare una scazzottata. Antoine, però, non era della stessa idea.
«Hai problemi, stronzo?», la udii commentare. «Non posso venire al cinema?».
«No», rispose l'altro, «non se ti piace succhiarlo».
Antoine lo spintonò, ma era una donna esile e lui la spinse indietro. Franò contro di me e stringendole i polsi cercai di trattenerla, di impedirle di divincolarsi e scagliarsi su di lui.
«Dai, Antoine, lascia perdere».
«Antoine!», ripeté quel deficiente quasi urlando. Ormai nella sala ci guardavano tutti. «Un francese del cazzo. È vero che siete tutti finocchi, laggiù in Francia?».
La sentivo fremere sotto le mie mani, temevo si sarebbe messa a gridare e a scalciare. Invece inveì: «Tu devi essere un crucco, invece, eh, faccia di merda?».
Un uomo in divisa arrivò di corsa, facendosi strada tra la gente ammutolita. «Basta!», impose ad alta voce, agitando un manganello sopra la testa. «Fatela finita o vi sbatto dentro finché non chiederete pietà».
La trascinai fuori e da lì lungo la via di ritorno a casa, in fretta, prima che il tizio che ci aveva insultati ci seguisse e decidesse che era il caso di risolvere alzando le mani.
«Dobbiamo stare più attenti», le dissi più tardi, nel mio letto, mentre sentivo il peso del suo corpo schiacciato contro il mio. «Diamo troppo nell'occhio, dobbiamo moderare le parole».
«Nemmeno morta», affermò con stizza. «Io faccio quello che mi pare».
«Non è che lavorare per Zerilli ti sta dando alla testa?».
Scelse di non rispondere, fingendo di dormire. Pensai che era proprio il caso di togliersi di lì per un po' e di andarci davvero, a Parigi.


Nello stesso anno arrivò un gruppo di ebrei, a Detroit, che iniziarono a farsi strada nel mondo dei malavitosi spadroneggiando e minacciando morte. Perfino Anderson, il mio capo, pagava loro il pizzo e così il mio stipendio già irregolare era stato ridotto.
Antoine però stava avendo molti più problemi. Zerilli era nel pieno di una guerra tra bande, la sua famiglia contro quella degli ebrei. Si diceva venissero dalla Russia. Alcuni iniziarono a chiamarli Purple Gang. C'era ben poco lavoro per lei e quando faceva commissioni per Zerilli veniva spesso minacciata, doveva guardarsi le spalle e più di una volta tornava a casa tremante.
Non me ne parlava mai, diceva che non erano affari miei e che sapeva badare a se stessa.
Mi era impossibile levarmi dalla testa l'idea che la Purple Gang potesse davvero toglierla di mezzo, perché era così che lavoravano. Erano violenti, invece di esautorare i loro nemici preferivano ucciderli e Antoine era dalla parte sbagliata. Ci pensai anche mentre si muoveva su di me, ansimando, le mani strette intorno ai miei polsi, e anche quando mi misi seduto, le avvolsi le braccia intorno al corpo e la baciai con trasporto, rotolando e spostandola sotto di me.
Anche durante l'orgasmo non riuscii a smettere di pensarci ed ero infuriato con lei che sembrava non prendere quel problema sul serio, che era così serena e tranquilla nonostante tutto, come se dentro di sé quasi desiderasse morire.


«Ti amo».
Me lo disse un'unica volta, all'improvviso e con un sorriso dolce. Stavamo passeggiando lungo il fiume, fuori città, era mattina molto presto e dall'acqua saliva una nebbia grigia, il cielo cupo e carico di pioggia. Non c'era nessuno lì intorno, nemmeno gli uccelli cantavano sugli alberi. Così mi azzardai a stringerle le dita fra le mie.
Camminammo così, mano nella mano, in silenzio. Cercò di prendere un fiore da un albero, ma era troppo bassa e lo feci io per lei. Forse fu questo che le fece aprire la bocca e quasi sputare quelle due parole, con dolcezza e ilarità.
Mi guardò per un momento, il fiore tra le mani, e si mordicchiò il labbro inferiore in un'espressione divertita, ironica.
«Ti amo», disse in un soffio.
Fu in quel momento che le spararono. Il proiettile partì da qualche parte tra gli alberi, nel folto, ed io non ho mai saputo il nome di chi premette il grilletto del fucile da cecchino.
Ciò che so, invece, fu che il colpo le fece inarcare la schiena e levare le braccia, il fiore cadde a terra. So che il suo sangue macchiò la mia camicia, la giacca lasciata aperta e perfino il mio volto sfregiato. So che cadde in avanti per il contraccolpo e che l'unica cosa che riuscii a fare fu afferrarla prima che cadesse e stringerla quando appoggiò la testa sul mio petto. So che chi aveva sparato doveva essere un ottimo tiratore perché colpì dritto al cuore, attraverso la stoffa, la spalla, la carne.
Antoine era già morta quando crollai a sedere sul sentiero freddo, il suo corpo leggero contro il mio. Aveva gli occhi spalancati, le labbra dischiuse come se stesse per dare un bacio. E c'era sangue ovunque, che usciva dal foro sul petto come acqua da un rubinetto.
Non riuscii a muovermi o a parlare. Gridai il suo nome, cullandola, sperando che il cecchino uccidesse anche me perché non aveva più senso continuare a vivere. Il mio cervello era così annebbiato che non riuscivo a riflettere, mentre lacrime copiose mi sgorgavano dagli occhi. L'unico pensiero lucido che riuscii a mettere insieme era che dovevamo andare a Parigi.


A volte penso a lei. Ora, che sono prossimo alla dipartita, ritorno con la mente ad Antoine. Ad Anne Marie. Non importa quanto Katherine e i miei figli siano una presenza importante nella mia vita. Io non mi potrò mai dimenticare del suo viso, del modo in cui mi guardava quando le dicevo che era bella, della sensazione della sua pelle sotto le mani quando facevamo l'amore, di tutte le cose non dette, delle parole non pronunciate, degli sguardi rubati e delle bugie che ci siamo raccontati. Sono un vecchio pieno di rimpianti.
Ascolto ancora vecchia musica jazz e da qualche parte, nascosta in soffitta, ho ancora la sua camicia. Quella macchiata di sangue, con un buco all'altezza del cuore. È di sopra, in una scatola insieme a tutte sue cose, il libro di Rimbaud, il vestito giallo e un disco in vinile. Posso quasi sentirla, quella scatola, posso avvertirne la presenza mentre guardo il soffitto nella nostra camera al secondo piano, in una bella casa nei dintorni di Boston. Una casa con la staccionata bianca e la porta rossa, le siepi ben tosate e la cuccia del cane in giardino.
Sono quasi sicuro che Antoine riderebbe, se mi vedesse così: il tipico americano di fine anni '70, che passa le sue giornate da pensionato innaffiando il prato e costruendo orologi nella rimessa sul retro mentre ascolta Cab Calloway alla radio. Katherine dice che questa mia mania per i ruggenti anni '20 è divertente. Non vuole essere divertente, è solo malinconia.
Impiegarono un po' a trovarci e, quando a notte fonda Jack mi recuperò sul lungo fiume, ero mezzo assiderato. Eppure stringevo convulsamente il suo corpo senza vita a me, così mi dissero. Certo che così facendo scoprirono la verità, scoprirono che Antoine era in verità Anne Marie e i sospetti di Jack sul fatto che potessi essere omosessuale svanirono. Nessuno osò mai più chiamarmi frocio.
Non ho pensato a lei per un lungo ventennio, da quando mi sono sposato a quando i miei ragazzi sono andati al college. Il lavoro mi teneva impegnato, dopo essermene andato da Detroit ho fatto fortuna aprendo una piccola ditta di trasporti, ma si sa, gli anni '50 hanno dato una spintarella all'economia. Mi sono quasi dimenticato della terribile crisi nel '29.
Però, con la pensione e i miei figli fuori di casa, Antoine è tornata a tormentarmi, come un fantasma. A volte mi domando dove sarei ora, se lei fosse viva. Non avrei una casa come questa, è probabile che avremmo scelto un appartamento a New York. Ultimamente va così di moda e lì fanno buona musica. Non ci sarebbero stati bambini, né cani, né cene parrocchiali al sabato sera e le visite ai vicini sarebbero state feste piene di fumo, invece che the pomeridiani e partite di baseball alla televisione.
Ecco, la televisione le sarebbe piaciuta. Anche certi film le sarebbero piaciuti, sono certo che sarebbe impazzita per Jesus Christ Superstar. Per non parlare dei fumetti di Flash Gordon, li avrebbe adorati. Non so se le sarebbe andata a genio la moda da pin up, che metteva in risalto curve che non aveva, ma è probabile che si sarebbe divertita ora che ci avviamo verso il futuro e i vestiti stanno diventando strani.
Ora molte donne mettono i pantaloni. Entrando in certi negozi – nascono come funghi i grandi magazzini, roba da matti – quasi non si distinguono i manichini da uomo e quelli da donna. Le sarebbe piaciuto tanto, ne sono convinto.
Sento come se avessi vissuto la vita di un altro uomo. Quello che porta la moglie e gli amici in gita in campagna nel week end su una familiare non sono io. È come se, un giorno, mi fossi svegliato nel corpo di qualcun altro, come se Thomas Daniel Scott, di Jersey City, fosse morto quel giorno di ottobre del 1928, insieme a lei.
Forse è così che sarebbe dovuta andare.
Non che non sia grato per quello che ho avuto, sia chiaro. Katherine è riuscita ad andare oltre la mia deformità e adesso quasi nessuno ci fa più caso. Dopotutto c'è stata un'altra guerra, ancora più sanguinosa della prima, e non capita di rado che si vedano veterani mutilati in giro. Con il tempo spariremo, tutti, e con noi anche il nostro aspetto grottesco. Ho avuto due bravi figlioli, Richard e Jack, uno dei due mi ha anche dato una nipotina. Ho ottimi amici con cui giocare a bowling il venerdì e con cui fare barbecue la domenica dopo la messa – altra cosa di cui Antoine, atea, riderebbe.
Eppure mi sento slegato da questa vita, da questa coscienza. Mi chiedo dove sia finito il vecchio Tom, perché non riesca a ritrovarlo quando mi guardo allo specchio.
Ma adesso ho finito, me ne lavo le mani. Ho ottantotto anni e direi che il mio contributo l'ho dato. Ho fatto ciò che dovevo, ho vissuto e ho amato e ora sono pronto a morire.
Sto arrivando, Antoine.



NdA: Premetto che ho cercato di essere più precisa possibile riguardo i nomi dei personaggi realmente esistiti, come Lucky Luciano, Zerilli e gli altri mafiosi. Anche per quel che riguarda le date mi sono sforzata di non fare casini, spero che chi di voi è più esperto di me possa perdonare eventuali errori.
Le donne soldato non sono una cosa impossibile, nemmeno in trincea. Al di là dei battaglioni femminili messi in campo dall'esercito russo nella Prima Guerra Mondiale, ci sono casi di donne che si sono finte uomini al solo scopo di partecipare ai combattimenti.
Il caso più eclatante è quello di Viktoria Savs, austriaca, che si arruolò in segreto per stare accanto al padre Peter. Solo un piccolo gruppo di commilitoni sapeva del vero sesso di Viktoria, lei rischiò di morire e, per quanto io sia personalmente in disaccordo con l'ideologia tedesca di quel periodo, non posso come studiosa non ammirare il coraggio con cui lottò contro la morte.

Ritengo probabile che molti di voi conoscano storie del genere, non volevo peccare di pedanteria ma solo farlo sapere a chi, invece, non ne era a conoscenza.

Vi ringrazio per essere arrivati a leggere fino a questo punto, vi abbraccerei se potessi!
WhiteWitch

   
 
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