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Autore: Katekat    09/01/2015    4 recensioni
Ogni sera Rabastan va in quella stanza chiusa a chiave, che i suoi Elfi hanno ordine di non aprire mai.
Va lì e ci rimane ore intere. Nessuno sa cosa fa – nessuno lo vede.
Genere: Angst, Dark, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellatrix Lestrange, Rabastan Lestrange, Rodolphus Lestrange | Coppie: Rodolphus/Bellatrix
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Da Epilogo alternativo
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All I’ve ever wanted
 
 
 
Hell is empty
All the devils are here
 
Shakespeare, La Tempesta
 
 
A volte Rabastan viene a trovarlo.
Siede con lui sotto lo sconfinato portico sul davanti dell’ormai vetusta dimora di famiglia. Sceglie sempre la stessa poltrona scomoda – come per non rischiare di trattenersi troppo a lungo – e ogni volta finisce per rimanere delle ore.
A Rodolphus tocca la sedia a dondolo, un tempo la preferita di sua madre. Cigola il legno umido, levigato dalle intemperie; entrambi rimangono voltati verso la vista mozzafiato dell’oceano grigio-ferro che spumeggia e rantola in lontananza. Quando il tramonto gocciola rosso sangue all’orizzonte e le ombre salgono a rivestire il cielo di scuro velluto, entrambi sentono, come per un tacito accordo che attraversa l’etere, che è il momento di congedarsi.
Non parlano molto; per lo più stanno zitti, ascoltano il vento parlare per loro – riempire quei silenzi che scorrono invisibili dall’uno all’altro, come biglie su un filo, in una inafferrabile partita contro il Tempo.
Ogni tanto Rodolphus avverte lo sguardo di Rabastan su di sé – soffermarsi sul suo volto, scrutarlo con la cupa intensità ostinata che aveva anche da bambino. Si chiede se suo fratello possa contare le rughe su di esso, proprio come fa lui ogni volta che si guarda allo specchio; se si accorga di quanto, ogni giorno che passa, vada assomigliando sempre più al loro padre.
Questa è una partita che non puoi vincere, dice quello sguardo. Il Tempo sprecato non torna indietro.   
Rodolphus ricorda la prima volta, anni e anni fa, in cui si accorse dei fili grigi nella chioma scura di Monsieur Lestrange – da quando i capelli di suo padre erano diventati grigi?! – di come il suo cuore si strinse, dicendogli qualcosa che non era ancora pronto a sentire, ieri, ma che oggi assaggia sulla propria pelle.
Sapore di ferro, e di rimpianti.
Rabastan non gli fa domande, e Rodolphus non dice niente. Possono trascorrere intere giornate così, tacendo e basta, mentre le ombre della sera si allungano lentamente verso di loro, strisciando caute a ricoprirne le figure solitarie assorte davanti alla sconfinatezza dell’oceano fremente. Come se entrambi stessero aspettando qualcosa, e ingannando il Tempo nell’attesa.
Ma il Tempo non è qualcosa che si possa beffare così facilmente, e sempre torna a riscuotere il suo prezzo.
Prima o poi.
 
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– Perché vieni, Rabastan?  
Non è curioso, solo stanco – la sua voce un filo che si tende, si stiracchia, e poi si spezza di scatto affondando greve nel buio.
– Non lo so.
Rabastan scrolla appena le spalle; torna immobile e silenzioso per lunghi istanti. Si china in avanti verso il tavolino, allunga la mano ad appoggiare la tazza di tè il più piano possibile sul piattino perché non tintinni – insolitamente premuroso, da parte sua.
Gli sbuffi di vento fanno tremolare la pellicola sottile sulla superficie del liquido ormai freddo, rimestano riflessi e ombre al suo interno. Le stesse ombre fugaci si muovono intorno agli occhi di Rabastan, nell’incavo tra gli angoli interni e la radice del naso, seguendo i movimenti della sua testa.
Quando si riappoggia indietro contro lo schienale e inclina la nuca di lato, gettando una rapida occhiata indecifrabile in direzione di Rodolphus, il suo sguardo è acuto come un ago.  
– Come sta tua moglie? – dice.
Buffo, un tempo la chiamava sempre e solo col suo nome proprio – come ogni altra cosa, del resto, e accusava Rodolphus di essere un vigliacco per non osar fare altrettanto.  Oggi, invece, lei è solo sua moglie.
– Come sempre – risponde Rodolphus. E aggiunge: – Me lo chiedi ogni volta.
È vero. La salute di Bellatrix sembra quasi essere il pensiero fisso di Rabastan.
– E tu come stai? – incalza questi.
Uno spettatore estraneo potrebbe commuoversi dell’interessamento fraterno di Rabastan. Qualcuno che li conosca, invece, potrebbe pensare che lo stia facendo di proposito – affondare il coltello nella piaga e girarcelo sfrigolante.
– Mi vedi sciupato? – Un’ombra dell’antica ironia riaffiora nella voce cupa di Rodolphus; un lampo nei suoi occhi neri, svuotati di energia e di compassione. – È solo stanchezza.
È difficile ammettere la debolezza e il fallimento. Soprattutto davanti a chi non ha atteso altro che vederti cadere – per danzare sulla tua tomba.
– Non dev’essere facile occuparsi di lei.
– Non lo è.
Nel silenzio che segue le sente vibrare distintamente, quasi come se Rabastan le avesse pronunciate davvero, ad alta voce, quelle parole: “Vorresti che ti chiedessi se hai bisogno di aiuto?”
– … ma ce la faccio da solo, grazie.
Torna a guardare l’orizzonte. Non ha bisogno di fissare Rabastan per indovinare il lampo di oltraggioso sollievo che gli attraversa gli occhi scuri.
Non ringraziarmi per essermi accollato tutto il fardello, fratellino. Era giusto che fossi io.
Era giusto che fosse lui, toccava a lui – a chi altri?
– Sembra felice, oggi – osserva noncurante Rabastan.
Il volto di Rodolphus si accartoccia sempre più a ogni minuto che si indugia nel parlare di lei. Entrambi seguono con lo sguardo Bellatrix che vagabonda nel giardino su cui si affaccia il portico, metri e metri proprio sotto di loro. Come un randagio senza casa, contornando il bordo del laghetto. Non segue nessun percorso preciso; i suoi passi vagolano in tondo. Ogni tanto si china a raccogliere un sassolino e lo getta nell’acqua. Laggiù dove si trova lei qualche barbaglio di sole resiste ancora, riflette oro a scaglie sui suoi capelli – sembra un’arcana creatura marina, emersa dagli abissi per il breve sprazzo di una vita umana.
Rodolphus è il primo a distogliere lo sguardo, quando diventa troppo per lui. I suoi occhi scivolano in quelli identici di Rabastan. Che lo stanno guardando.
Non guardano Bellatrix; guardano lui mentre la guarda.
Non distoglie lo sguardo quando Rodolphus lo inchioda col suo; non finge, non bara. Non Rabastan, non ora. Il Tempo dei Giochi è finito. Sono diventati vecchi senza essere mai stati veramente adulti. E la loro infanzia è solo un coltello piantato nella memoria che ogni tanto si fa sentire, sordo.
– Ti piace vedermi soffrire, non è vero? – sussurra Rodolphus. Il suo sguardo è fermo, pacatamente sofferente. – Pensi che me lo meriti. E’ per questo che continui a venire.
Rabastan lo guarda con inespressività tenace. Lentamente un sorriso gli incurva le labbra, i suoi occhi si socchiudono tra sottili grinze di pelle che prima non c’erano. La sua espressione diventa morbida e precaria, argilla sul punto di sgretolarsi – l’abbozzo di un ritratto sulla tela di un incauto pittore.
– Hai voluto il dolce, ora assaggi l’amaro. Si dice così, vero?
L’hai voluta tu. Avrebbe potuto essere mia. E ora non ti invidio, Rodolphus.
Rodolphus lo fissa ancora per qualche istante. Respinge il gelo del coltello che gli è appena stato calato nel cuore. Distoglie lo sguardo, cerca qualcosa su cui possa fermarlo senza che gli faccia male – ma tutto, di questi tempi, sembra infiammargli dolorosamente i nervi, come se non avesse più pelle a separarlo dal mondo esterno.
– Ti capisco, sai, Rod. – La voce di Rabastan arriva da lontano, flottando verso di lui come dalla deriva di acque remote. – Non è facile. Ti capisco benissimo. Avrebbe potuto essere mia moglie, avrei potuto esserci io al tuo posto, adesso.
Rodolphus chiude le palpebre, si passa una mano sul viso. Avverte questo tremito, nelle ossa, che è come una corrente elettrica – sottile, ma continuo. Lo fa sentire precario. Vacillante. Non ha più molto cui appigliarsi, da quando anche il suo corpo ha preso a tradirlo.
– Avrebbe potuto essere mia.
Stavolta l’ha detto ad alta voce. Ora a entrambi è chiaro che non possono più permettersi di perdere ancora tempo – quel tempo che non hanno – a mentire e tacere. Ora è diventato tutto più facile – lasciarsi andare e dire ciò che si pensa. Non che renda le cose più dolci, anzi. Ma sono quasi obbligati a questa dolorosa sincerità dalla loro natura mortale, la cui consapevolezza, da qualche mese, ha preso a irrompere da ogni poro, colando inarrestabile e inarginabile.
Rodolphus contorce il viso in una smorfia. Inizia a sentire quel coltello, non più solo metaforicamente, affondare dietro il bulbo oculare sinistro, spaccargli a metà la testa. La sua emicrania che a intervalli regolari, con scadenza fissa e puntualità stupefacente, torna a reclamare il dominio su di lui.
Sei solo un essere umano, Rodolphus, gli rammenta. Lascia andare tutto; niente vale la pena.
Alza una mano verso Rabastan – come chi cerchi di fermare la marea con un dito – come a tenerlo lontano da sé, lui e le sue parole che consumano.
– Smettila, Rabastan, ti prego. Sono già stato punito abbastanza.
Rabastan tace. I suoi occhi continuano a fissarlo – avidi, con compassionevole disgusto.
No, dicono chiaramente quegli occhi.  Non abbastanza. Meriti di soffrire di più.
Rodolphus si preme pollice e indice sugli angoli interni degli occhi – il dolore ora gli si irradia all’interno della scatola cranica come una lenta vibrazione sotterranea che, all’improvviso, esplode in un pulsare infernale. Per un attimo lo sciaguattare della risacca gli rimbomba all’interno della testa, un’eco frastornante che sommerge e annega ogni pensiero razionale. Lampi di luce attraversano il nero dietro le palpebre e ringrazia il cielo di essere seduto, altrimenti sarebbe crollato a terra.
– La soluzione a tutti i tuoi problemi c’è – dice all’improvviso Rabastan.  
Rodolphus ha la certezza che abbia continuato a fissarlo per tutto questo tempo. Assistito immobile ai suoi sforzi di combattere il proprio corpo e i segni sempre più evidenti che gli lancia, che non vuole afferrare. Se aprisse gli occhi lo vedrebbe seduto tale e quale a prima, nella stessa posizione, le mani che stringono l’estremità dei braccioli e la testa inclinata di lato, con quello sguardo con cui lo ha sempre guardato. Una delle poche cose che non è cambiata, nel corso degli anni.
Rabastan vuota la tazza mentre lo osserva. Si asciuga le labbra col tovagliolo. Il fondo del tè si rapprende nella tazza, una cosa marroncina fradicia, rattrappita – che nessuno dei due maghi si dà la pena di indagare. Il Futuro non è più così importante. Sparisce, impallidisce, si ritrae come un cane bastonato di fronte alla mole colossale, schiacciante, claustrofobica, del Passato. A chi interessa più interrogare i fondi di tè? Non è più Tempo per loro.
Rabastan abbassa lentamente gli occhi, sembra riflettere. Col pollice accarezza ripetutamente l’ansa liscia del manico, avanti e indietro, seguendone il contorno curvilineo. Rodolphus sa cosa sta per dirgli suo fratello – suo fratello che lo odia – e non è sicuro che voglia sentirselo dire. È per questo che sceglie quell’ultima, patetica via di fuga – non guardarlo in faccia, non vedere la sua espressione, mentre glielo dice. Come ha sempre fatto.
– Sai cosa devi fare, se vuoi liberarti della tua miseria – sussurra Rabastan.
Sfiora un’ultima volta con la punta dell’indice il filo dorato che corre tutt’intorno al bordo della tazza. Si alza in piedi, afferra con una mano il mantello dallo schienale della poltrona. La sua figura si staglia alta e vagamente minacciosa contro il livido della tempesta che si approssima alle sue spalle. Alza istintivamente la testa verso il cielo, una smorfia gli arriccia il naso. Tra le palpebre socchiuse adocchia le nubi nere e viola che ricambiano il suo sguardo dall’alto. Poi i suoi occhi scivolano lentamente verso il basso – risucchiati dalla vista mozzafiato che si apre ai suoi piedi. La scogliera bianca si china ad accogliere il mare sulle proprie ginocchia, cullandolo come un cucciolo violento. E il mare sembra nero e freddo contro il pallore violento del cielo.  
Il vento gli riempie le orecchie di un fischio lamentoso, incessante; fa sbattere i suoi capelli scuri, glieli spinge negli occhi. Suo padre li giudicherebbe troppo lunghi, per il suo rango e la sua età.
Ora Rabastan ha esattamente l’età di suo padre quando morì. Anche lui si ricorda i fili grigi tra le sue ciocche nere. Era solo un bambino, ma gli hanno insegnato presto l’ineluttabilità del Tempo, quando passa rombando e non rallenta. È una cosa che tormenta lui come Rodolphus, questa del tempo, anche se in modi diversi.
Si volta a gettare a suo fratello un’ultima occhiata. Qualcuno che non lo conosca penserebbe che sia di affettuosa compassione.
– O forse la ami così tanto perché è l’unica cosa che dà un senso alla tua vita?
Un attimo dopo se n’è andato, senza aspettare risposta – non il suo scopo, ottenerne una.
Discende verso il cancello. Il vento gli fa sbattere le falde nere del mantello intorno alle cosce, i primi schizzi di pioggia tamburellano come proiettili sul cuoio del gilet. Il viale d’ingresso, alla fine del quale lo attende la lugubre carrozza trainata da nervosi Thestral, contorna il limitare del giardino e del laghetto cosparso di foglie secche, strascichi dell’autunno invecchiato. All’improvviso devia dalla sua traiettoria in linea retta, porta i suoi passi dinoccolati a collidere con quelli smarriti di sua cognata.
Bellatrix, quella creatura nera e nervosa che ha in sé lo strazio di un cucciolo abbandonato. Di qualcosa di bello e perverso che la natura ha ripagato con la sua stessa moneta: la crudeltà.
Lei non si volta, non l’ha visto. Nemmeno lo riconoscerebbe.
Rodolphus non sta guardando, Rabastan lo sa. Gli viene in mente la prima volta che incontrò questa donna – e la prima cosa che ricorda è la sensazione degli occhi di Rodolphus che lo perforavano da dietro, mentre le sedeva accanto, al piano. Ma già da un po’ Rodolphus ha smesso di guardare.
Rabastan si ferma alle sue spalle – esattamente tre passi lo separano da lei. Bellatrix si volta – forse per quell’istinto del pericolo che è l’unica cosa che le rimane. Rabastan non la guarda a lungo. Le fa un inchino sorridendole a bocca chiusa e le sue palpebre scivolano verso il basso. Le prende la mano inerte – lei non la ritrae come avrebbe fatto una volta – la bacia con perfetta galanteria. Poi si volta e sale a bordo.
Urla un ordine nel vento che imperversa ormai fortissimo, premendosi il cappello in testa per non farselo strappare via. Le cavalcature si sollevano in aria quasi in linea retta. La carrozza col suo occupante sparisce sulle ali del vento, nel ruggito della tempesta, fendendo l’aria col rumore di uno strappo.  
Rodolphus ha ancora la radice del naso stretta tra le dita; sta cedendo a poco a poco al dolore quando scoppia a piovere per davvero. Si alza stancamente, per un attimo vacilla.
Stai diventando vecchio, Rodolphus, gli dicono le sue ossa, scricchiolio sordo alle giunture – soprattutto in giornate come questa, quando il tempo cambia improvvisamente.
Si avvia a recuperare Bellatrix, che non si è mossa neppure all’esplodere del primo, assordante tuono. Tiene gli occhi vacui sollevati verso il cielo; sbatte le palpebre solo quando le gocce le appannano la vista. Rodolphus affretta il passo, ha paura che la colpisca un fulmine. La immagina, torcia umana, fumante, mentre la pioggia evapora dalle sue membra carbonizzate.
Smettila di torturarti. Smettila di…
… sperare.  
I vestiti di Rodolphus diventano zuppi in un secondo, correndo verso di lei nella pioggia che lo frusta da ogni parte. Si scosta le ciocche fradice dagli occhi con tutte e due le mani per non inciampare. È contento, e benedice quella furia perché nasconde e confonde le lacrime sul suo volto; le diluisce in un sapore meno amaro, meno solo.
Sai cosa fare, ha detto Rabastan. Quelle parole hanno iniziato a martellargli nel cervello, innescando un ticchettio infernale. È diventato un contenitore vuoto in cui rimbombano parole e voci non sue. La morsa lenta e vischiosa dell’agonia ha iniziato a stringerglisi intorno.
– Bellatrix! – urla.
Le è ormai a pochi metri di distanza, ma lei non si volta finchè non le è proprio accanto. La prende per un braccio, costringendola a girarsi verso di lui. Il suo viso, lavato dall’acqua, è di un pallore così etereo da sembrare immortale. Puro alabastro.
La prende per mano come si fa con un bambino piccolo. Deve trascinarla, proprio come un bambino capriccioso, o un mulo stupido, per costringerla a seguirlo. Lei sembra muoversi per inerzia – come se la massa del suo corpo fosse un carico troppo gravoso per la sua volontà spezzata. Difficile da convincere, ma una volta messa in moto lo segue con assente docilità. Anche la stretta della sua mano è inerte. Se Rodolphus la lasciasse, le dita scivolerebbero via dalle sue, e lei sarebbe persa. In un altro tempo, in un altro spazio. Risucchiata in quella dimensione alla quale ormai appartiene.
Se Rodolphus la lasciasse andare, Bellatrix sarebbe andata – (sai cosa fare) – per sempre.
Quando sono ormai al riparo del salone – penombra fredda e tintinnio di cristalli – Bellatrix rimane ferma a guardare la pioggia avventarsi furente contro le vetrate. È quasi buio dentro; gli Elfi non hanno ancora acceso le candele. Con un rapido gesto Rodolphus fa evaporare l’acqua dai suoi e dai vestiti di lei.
La chiama, lei non lo sente – fa un passo in avanti, invece, accollandosi al vetro. Solleva le pallide dita e le appoggia contro di esso, poi la fronte. Rodolphus osserva muto il suo riflesso e la pioggia attraverso di esso. I fantasmi degli alberi arruffati dal vento che si sbracciano forsennati verso il cielo. Poi si volta e se ne va.
O forse la ami così tanto perché è l’unica cosa che dà un senso alla tua vita?
Rodolphus pensa di odiarlo, a volte, ma è suo fratello. Hanno lo stesso sangue nelle vene, gli stessi scheletri nell’armadio, gli stessi mostri – zanne digrignanti e occhi iniettati di sangue – in fondo all’animo. Suo fratello vede attraverso di lui, come lui vede attraverso il riflesso di Bellatrix nel vetro.
La soluzione ai suoi problemi c’è. Deve solo avere il coraggio di prenderla.
 
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Solo che non è facile.
Questa – la cosa meno facile in assoluto che abbia mai dovuto fare.
 
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I giorni passano. Rodolphus cerca di difendersi come può dalla terribile tentazione.
Finchè c’è il sole e i suoi occhi sono aperti sul mondo se la cava discretamente. Sono le notti il suo problema. È al buio che è più debole – nudo – come la pancia di un drago.
La notte Rodolphus si risveglia più volte, nella tenebra fonda, ingoiando aria e paura e nient’altro – sempre lo stesso incubo, quello in cui rifiuta di fermarsi ogni volta. Sa già come va a finire, perché l’ha fatto centinaia di volte: una culla insanguinata e un’enorme medusa nera e molle che affonda nelle acque.
È solo il riflesso onirico della sua peggiore paura, o è piuttosto la premonizione dell’inevitabile?
(C’è veramente una culla, al piano di sopra. Chiusa in una stanza che nessuno apre mai. E’ una culla bianca, e Rodolphus sogna quasi ogni notte di sporcarla – di sangue, sangue di Bellatrix – pur di non vederla più vuota.)
Giace sulla schiena; trema di sudore gelido e sente di non poter muovere un solo muscolo nel corpo. Si riempie gli occhi di soffitto buio drappeggiato di ombre luminescenti, gli torna in mente l’ultima immagine di lei prima che scomparisse.
Ed è qui che inizia il suo incubo ad occhi aperti.
È un incubo.
Inizia con la luce fioca di candele sospese sopra teste tutte uguali chine verso il basso.
Sopra toghe color porpora violento che si confondono l’una con l’altra come un mare frusciante.
Sopra una marea montante di scranni spigolosi che s’inerpicano verso l’alto, in una piramide al contrario.
Guardano dall’alto; si accigliano e disapprovano. Qualcuno scuote il capo. Alcuni si allungano a bisbigliare all’orecchio del proprio vicino. Le teste si avvicinano, si fondono brevemente, si separano subito dopo; le loro ombre le imitano dalle pareti su cui le proietta la luce delle candele.
È un incubo. Inizia col freddo morso delle catene attorno a polsi e caviglie. Sente il gelo penetrare la pelle attraverso livide escoriazioni incrostate di sangue secco. La divisa di Azkaban non è mai stata così sottile.
Vorrebbe battere i piedi a terra per riscaldarsi un po’; si limita a strusciarli, piano, sul pavimento.
Qualcuno lo nota e interpreta il gesto come nervosismo, o terrore. Niente di più lontano dalla verità, ma chi può indovinarlo, a parte lui.
Il mormorio dell’aula ondeggia come una risacca monotona, poi si spegne.
È un incubo. Inizia con i loro sguardi fissi e giudicanti, gli indici accusatori e le lingue malvagie. Lo guardano come se fosse merda e nient’altro. Rodolphus sorride: non sanno quanto hanno ragione.
Sorride perché ha così poco da perdere, ormai, che non gli va più di elemosinare nemmeno un sorriso di compassione. Ultimi, tormentosi spasmi di una vita che gli sta dicendo addio.
Bellatrix ride mentre viene letta la sua sentenza. Rodolphus chiude gli occhi e si concentra su quel suono – roco, graffiante, a tratti stridulo; si chiede se sia una risata che sfida la paura o che tenti di nasconderla. Una volta, non avrebbe avuto dubbi sulla risposta.
Agitarsi furtivo, silenzioso, nelle ombre in fondo alla sala. Rodolphus vi fissa gli occhi stanchi e arrossati e sente il suo cuore rilasciare un battito convulso, uno solo, come un rintocco contro lo sterno. Un Dissennatore veleggia lentamente verso di loro; gli orli sfilacciati del mantello gli si muovono intorno come al rallentatore, senza emettere suono. Si ferma accanto a Bellatrix.
Il freddo diventa gelo. Tutti trattengono il respiro.
Rivede il cappuccio nero del Dissennatore abbassarsi lentamente, stranamente liscio dove dovrebbero esserci la nuca e la sommità del cranio. Risente le urla – feroci, disumane – le minacce – vuote, assassine – e il respiro rantolante della creatura che non riescono a coprire.
Il resto dell’aula è in silenzio; nessuno respira mentre Giustizia si compie. Nemmeno Rodolphus – ecco perché ricorda così bene, fino all’ultimo dettaglio. È impresso nei suoi sensi e nella memoria di quell’istante in cui avrebbe dovuto urlare o morire.
(Non era morto)  
Sente i ringhi di Bellatrix liquefarsi in suppliche tremanti, i suoi sputi assatanati spegnersi in guaiti disperati – quando le mani putrefatte della creatura salgono ad abbassare il cappuccio.
Non avrebbe mai pianto o supplicato davanti alla morte, Bellatrix. Mai.
Ma lo fa adesso, perché sa che il destino cui l’hanno condannata è peggiore della morte.
Le sue grida non impietosiscono nessuno. Quando le mani viscide le si stringono intorno al collo – lei rabbrividisce, smette improvvisamente di lottare e di agitarsi sullo scranno cui l’hanno incatenata – è il nome di Rodolphus che le erompe dalle labbra.
Aiutami!, lo supplica. Aiutami, Rodolphus! Aiutami!
Gli chiede aiuto l’unica volta in cui ne ha davvero bisogno e Rodolphus non può darglielo. Sta ancora gridando, a pieni polmoni, con tutte le sue forze, quando la cavità deforme e frastagliata del Dissennatore cattura la sua bocca schiumante. Le urla si spengono all’improvviso in mugolii strozzati.
Poi c’è solo l’orrendo silenzio; poi il risucchio.
Una lunga, lenta, profondissima inalazione fatta con qualcosa che non si può definire naso e nemmeno bocca – è solo un buco, spalancato sull’inferno strisciante di secrezioni che sono le viscere ripugnanti della creatura. Il modo in cui il Dissennatore è chino su di lei – la testa inclinata di lato, le mani a circondarle la mascella – sembra quasi affettuoso.
2 minuti e 44 secondi.
Questo è il tempo che impiega il Tutto per avvenire. Perché Bellatrix non sia più Bellatrix.
Qualche diligente funzionario del Wizengamot non ha esitato a trascriverlo. La burocrazia prima di tutto.
Per Rodolphus passa e se ne va una vita intera.
Bellatrix ha smesso di divincolarsi già da un po’ quando le dita avide finalmente lasciano la presa su di lei – livide impronte sulla sua pelle, un filo di bava dall’angolo della sua bocca socchiusa. La creatura si solleva lenta come si è chinata – scivola via, incorporea, tornando alle ombre da cui la giustizia dei maghi l’ha temporaneamente richiamata.
Rodolphus non guarda cos’è rimasto sulla sedia con le catene ai braccioli.
Rodolphus si fissa le mani e cerca di fermarne il tremito, così violento da spaventarlo.
Sente qualcuno ordinare, come da una distanza siderale: – Scioglietela! –, e il tintinnio del ferro che cade a terra.
Non la sente muoversi, alzarsi in piedi, tentare di fuggire. Per lunghi istanti è solo il silenzio, gli occhi di tutti – tranne quelli di Rodolphus – puntati sul centro depresso dell’aula.
Poi la stessa voce, neutra, soddisfatta: – Portatela via.
La vita di Rodolphus ha smesso di avere un senso in quel momento.
Da quel giorno, ha dato la mano ai suoi incubi.
 
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– Mio Dio…  
Erano state le prime parole di Rabastan quando l’aveva vista. Dopo.
Non era mai stato delicato con le parole – con lui non si era mai nemmeno sforzato di fingere di esserlo. Niente sconti per un fratello; l’onestà più brutale un privilegio solo a lui concesso.
– Cosa vuoi farne ora di lei?
Ne parlava già più come se non avesse anima. Rodolphus aveva stretto i pugni e ricacciato indietro la rabbia dolente e disperata che pulsava in quella verità – anche sussurrata sottovoce gli avrebbe fatto lo stesso male.
Ma questo non gli avrebbe impedito di odiarlo comunque. Con il cuore, e le viscere che gli erano rimaste.   
– Voglio tornare in Provenza. Voglio portarla con me.
– A casa nostra?
La chiamava ancora così.
Entrambi avevano vacillato a quello scomodo richiamo – promemoria di un passato in comune che avevano cercato di seppellire con gli anni e col sangue.
Quando mai è esistito qualcosa di nostro, fratellino? Abbiamo gettato via tutto.
E quello che era rimasto ce l’hanno portato via loro.
Rabastan sembrava aver indovinato i suoi pensieri, dalla piega amara che aveva preso la sua bocca.
– Posso venire a trovarti, qualche volta?
– Se non hai di meglio da fare.
– Non mi è rimasto più niente da fare, Rodolphus. Lo sai.
Lo sapeva. Il Marchio Nero aveva iniziato a sbiadire sugli avambracci di entrambi; presto non ne sarebbe rimasto più nulla là fuori, sulla pelle.  
Ma marchiati, dentro – non lo sarebbero forse rimasti per sempre?
Uno di mille interrogativi, nessuna risposta.
Si può dimenticare così facilmente? I segni dell’animo svaniscono rapidamente come quelli del corpo? Si può tornare a essere qualcun altro?
– Sarà come rinascere – aveva detto Rabastan. I loro dialoghi emergevano di tanto in tanto dai sotterranei del taciuto per srotolarsi alla luce; rattoppi a coprire lacune incolmabili.
– Mi sento troppo vecchio per ricominciare daccapo. Non voglio vivere un’altra vita.
Non gli aveva detto: “Ma tu non sei vecchio!”. Aveva chiesto:  
– Nemmeno per lei lo faresti?
Con lei intendeva Bellatrix. Non la chiamava più per nome.
– Lei non c’è più.
 
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Sono passati sedici mesi da quando sono tornato in Francia; due anni dalla caduta del Signore Oscuro.
Ancora non sono riuscito a lasciarmi tutto alle spalle (come se potessi davvero fingere che sia stato un brutto sogno!).  Volevo scoprire se fosse davvero possibile ricominciare una nuova vita, nonostante quello che ho detto a Rabastan, una volta – mentivo, come sempre. Con lui non ho mai avuto il coraggio di dire la verità, su molte cose.
Volevo dimostrare a mio fratello che non sono – non siamo – nati malvagi.
Questo è solo l’ultimo di una lunga fila di fallimenti.
Quando ci penso, mi sembra di risentire, proprio qui al mio orecchio, chino sopra la mia spalla, il risolino sarcastico con cui amava smentirmi.
“Ti sbagli, Rodolphus.”
E allora diciamo pure che volevo allontanarmi dal ricordo del corpo di lei, abbandonato su quello scranno come senza vita, di quell’urlo che mi ha lacerato, dentro – eppure non sono morto.  
Non so cosa, con precisione, mi abbia spinto a cercare rifugio proprio qui. Pur continuando a interrogare me stesso non ne sono venuto a capo. Forse non mi sono impegnato abbastanza, direbbe mio fratello, che mi conosce meglio di quanto voglia ammettere.
Forse volevo tornare alle mie origini.
Mai termine meno appropriato – me ne sono accorto appena messo piede al di qua della Manica.
Non ho sentito mia questa terra in passato, non la sento certo ora; non c’è nulla che mi tenga legato qui – qualche cugino, tutt’al più, ma, come lei, non sono mai stato fortunato con i legami di sangue.
Mentre attraversavo l’oceano, ripensavo a quel primo viaggio che mi portò nel Paese che poi è diventato mio, a conoscere la donna che sarebbe diventata mia moglie.
Quella volta tutto era diverso: c’erano i miei genitori con me, c’era mio fratello.
Stavolta, al ritorno in patria, c’eravamo solo io e i fantasmi che mi porto dietro – un uomo piegato da un fardello invisibile, troppo pesante per le sue sole forze.
E il fantasma in carne ed ossa di una donna che una volta era una creatura di vita e di ardore. 
Quella prima volta ce ne andammo senza che nessuno sapesse perché; oggi ritorno senza che nessuno sappia perché me ne sono andato, e va bene così.
Sono tornato nella vecchia dimora di famiglia, in Bretagna. È ancora una splendida villa, benchè rosa dal tempo e dalle tarme, soffocata dalla polvere e dai ricordi.
Domina una scogliera a picco sul mare. Adoro svegliarmi la mattina e assistere alla nascita del sole da qui; è l’unica cosa che mi strappa ancora un brivido di vita. L’attimo in cui, fresco e terso, una pallida rosa dai petali rugiadosi, sorge roseo dalle acque e spunta sul mondo. In quel momento il mio cuore batte un po’ più forte, ma è solo un momento. Un attimo dopo la vita ripiomba nell’oblio, tutto smette di valere qualcosa.
È una non-vita, la mia; un sogno ad occhi aperti.
Sono un morto che cammina. Respiro, parlo, penso, mangio, ma dentro sento che sto morendo.
L’unica cosa che mi rimane da fare è aspettare che qualcuno decreti la fine dei miei giorni, per poter finalmente abbandonare il suolo che ho calpestato indegnamente per quarantasette anni della mia vita, cui ho arrecato più danno e disonore che altro.
Non oso farlo da solo, con le mie mani.
Eppure so che dovrei farlo. So cosa mi aspetta, d’altronde.
So che finirò all’inferno, perché non merito altro, proprio come lei – e questo basta a consolarmi.
Dall’ultima visita di Rabastan, ogni mattina siedo sotto il portico, sulla sedia a dondolo con vista sulle acque. Mi lascio bagnare dalla luce rosa dell’alba che fiorisce. Ascolto il vento sussurrarmi storie misteriose tra i capelli e respiro l’aria salmastra che viene da lontano, da quella terra dove è nata lei, penso, e su cui non rimetteremo più piede.
Mi dico che è qui che voglio morire, in Francia – qui dove sono nato e mai cresciuto, qui dove non appartengo. Era lei l’unico luogo cui abbia mai sentito di appartenere, ma lei non c’è più.
Potrei abbreviarmi la sofferenza –  puntarmi la bacchetta al cuore e finire tutto in un istante.
Ogni tanto ci penso.
Se fossi onesto con me stesso, direi che sempre più spesso ci penso.
Ma quella bacchetta non la uso più. L’ho nascosta in fondo a un cassetto, nella scrivania del vecchio studio di mio padre. Non l’ho più presa da quando sono arrivato qui. Non ne avrò più bisogno, qui non c’è nessun pericolo a minacciarmi, mi dico.
In realtà, spero che ci sia.
Spero che qualche Auror mi trovi e mi uccida.
Non ho intenzione di difendermi, di combattere.
Non toccherò mai più quella bacchetta.
 
Agli occhi del mondo sono un Babbano qualsiasi.
Continuo a indossare le vesti di mago, però; l’orlo si agita e sbatacchia al vento che viene dal mare. Ha un profumo intenso e vivo, il vento del mare: sa di terre lontane, e racconta storie, storie che mi avrebbero allietato, da bambino, ma che ora sono troppo vecchio e troppo stanco per prestarvi attenzione.
Parla una lingua che non comprendo più.
Cosa direi al vento, se mi chiedesse chi sono e qual è la mia storia?
Direi questo: che ero un Mangiamorte, una volta, poi ho perso lei, e il mio mondo è andato in pezzi.
E ora sono qui con lei, e allo stesso tempo non sono qui: siamo volati via insieme, da qualche parte lontano, nell’imperscrutabile, nell’indefinibile.
 
Mi sento molto più vecchio di quello che sono.
Come un vecchio siedo su una sedia a dondolo, con una tazza di tè tra le mani: porcellana finissima, bianca come latte, bianca come la pelle di Bellatrix. ecco, l’ho chiamata col suo nome, so già che me ne pentirò.
Roselline viola sbocciano tutt’intorno all’orlo, soffuse di filo d’oro. Viola come le lenzuola del nostro letto – ricordi, Bellatrix? Tu le avresti preferite rosse, rosse come il sangue.
Avrebbe voluto tutto rosso, avrebbe desiderato dipingere la sua vita di quel colore. Anche a me piaceva il rosso, ma non avrei sopportato averlo sotto gli occhi ogni istante. L’avrei trovato eccessivo, nauseante, troppo carnale troppo violento troppo denso. Invece il viola mi piaceva: sapeva di mistero di fosco di irraggiungibile. Mi piaceva il suo contrasto con la pelle di lei così candida, la bocca così rossa: rossa come il sole, quando tramonta sulla Manica, sul lungo braccio di mare che ha separato per breve tempo le nostre vite di una volta. Quando muore, tutto il cielo si tinge di rosso: resto a guardare e penso a una fiammata violenta, schizzare di sangue su una tavolozza intonsa, l’arrossire di una fanciulla timida – prima che su tutto scenda, silenziosa e pesante, la notte di velluto.
 
La notte qui è stupenda: cristallina e chiara come non l’ho mai vista in Inghilterra.
Luminosa e netta, posso contare tutte le stelle, una per una, e i loro riflessi capovolti nel mare. Il rumore delle onde mi culla: una melodia dolce e struggente che suona incessante al mio orecchio, consolando i miei pensieri smorti. L’oceano non si ferma mai, l’ho scoperto vivendo su di esso: è un continuo andare e venire, un ritrarsi ed un avanzare, un sorgere e un morire. è la vitalità della natura, il suo non arrendersi mai, il suo vincere contro tutto e nonostante tutto, il suo perdurare per l’eternità.
Per la prima volta, non invidio niente di tutto ciò.
Ho smesso di voler perdurare; non voglio protrarre i miei giorni, non senza di lei.
 
Il profumo delle rose che crescono nel giardino è talmente intenso – lo sento impregnarmi le vesti, depositarsi sulla pelle come un guanto spesso, seguirmi ovunque vada.
Non mi curo delle rose, ma quelle continuano a crescere da sole, selvatiche e invincibili. Giorno dopo giorno, continuano ad offrire i loro petali voluttuosi ai raggi del sole, ai baci del vento salato e tiepido. Sono banali rose rosa, con una impalpabile sfumatura aranciata, incredibilmente morbide al tatto, come seta. E seta era anche lei, sotto le mie dita. Ed è la mia eterna dannazione: anche ora non riesco a liberarmene, anche ora che è tutto finito.
Il suo ricordo è ovunque, dentro di me, parte di me.
E’ sempre qui.
 
 
Sono stanco.
Ogni giorno siedo qui davanti al mare e guardo l’orizzonte, aspettando che Lei venga a prendermi sulle ali del vento. Spero che sia indolore – non perché sia vigliacco, ma perché penso di aver avuto la mia giusta dose di sofferenza, nel corso della vita.
Le ore passano lente, ma non sono impaziente, né infastidito.
Sono calmo: la serenità del cielo e del mare si riflette dentro di me.
Non ho fretta; siedo in silenzio e aspetto.
Inganno l’attesa parlando con lei, anche se lei non può sentirmi; tesso col suo ricordo lunghe conversazioni pacate che non abbiamo mai avuto occasione di condividere da sposati.
E intanto vedo il sangue scorrere sulle mie mani.
Bevo il tè e lascio correre lo sguardo sulle rose, così rigogliose, così superbe, così fragili. Anche loro mi ricordano lei. Il tè è dolce sulla lingua, con una punta di aspro; nel suo fondo ambrato si specchia qualche nuvola eterea del cielo senza tempo.
Da quando ho fatto quel che dovevo, il tempo improvvisamente sembra non passare mai.
È strano.
È come essere in un angolo di Paradiso, lasciato indietro dai problemi e dalle turbolenze del mondo.
Mi sarebbe piaciuto venire qui con lei prima – magari in viaggio di nozze – e abitare qui, per sempre.
Nelle lunghe ore senza impegno mi piace immaginare che saremmo stati felici qui, nella terra dei miei avi; nella casa della mia famiglia, a picco sull’oceano, alle porte dell’alba e del tramonto.
Il fantasma di lei sorride alle mie palme imbrattate di sangue.
 
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Rodolphus cammina lentamente tra i vialetti ghiaiosi che si snodano lungo le aiuole del giardino. Ogni tanto raccoglie un ciottolo, se lo passa distrattamente da una mano all’altra, chiude il palmo intorno alla superficie liscia e calda. Alza il volto verso il cielo e socchiude gli occhi contro il sole che abbaglia – il suo riverbero sull’oceano è insostenibile. Li riabbassa, ristà qualche istante a sbattere le palpebre per scacciare il fastidio – ora può di nuovo mettere a fuoco la sgargiante, vistosa bellezza multicolore dei fiori del suo giardino.
Ai tempi di sua madre c’erano solo rose – di tutti i colori, dimensioni, tipi. Raffinate e fredde tee pallide che sembravano intessute di luna e di ghiaccio; sanguigne, carnose, tumide rose rosse quasi nere, come intinte di sangue, grondanti erotico terrore.
Poi sua madre è morta. Ma le rose le sono sopravvissute, ironia della vita.
Rodolphus sfiora con la punta delle dita i petali di una rosa che ciondola il capo sopra la sua testa. Alza lo sguardo, quasi per caso – una figura lo guarda, premuta contro i vetri della finestra est del primo piano.
O forse non lo sta guardando, forse è lui che si illude che lo stia guardando, ma lei al massimo lo sta vedendo, come vede tutto il resto che la circonda: le rose, il giardino, l’acqua, la terra, le mura di casa…
Rodolphus riabbassa il capo e continua la sua passeggiata solitaria. Ma ogni tanto non resiste all’impulso di sollevare il capo – lei è sempre lì, e stranamente il suo sguardo non l’ha abbandonato un attimo.
Rodolphus si acciglia, si ferma. Le sue dita giocherellano con il sassolino che ha preso poco prima; lo stringe forte nel palmo, e quando lo riapre minuscole seghettature sporche di terriccio incrinano la sua cute.
Da lontano, lo sguardo di Bellatrix e quello di Rodolphus si cercano, si trovano, cozzano nell’aria, si intrecciano. Una muta intesa passa in quel momento dall’una all’altro. Rodolphus trattiene il respiro.
È in quel momento che la decisione è stata presa. E non è stato lui a prenderla.
Almeno questo gli è stato risparmiato.
 
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Ogni tanto se lo chiede.
La guarda e si chiede perché è rimasto con lei, dopo tutto questo tempo.
Come ogni volta, non trova veramente una risposta dentro di sé; così alza la testa, lascia che il vento salato dell’oceano spazzi via le sue lacrime e le sue domande vuote.
 
Non può essere amore. Perché di lei, della donna che ha tanto amato, non resta più nulla. Solo il suo corpo – e il suo corpo, se ne è reso conto con orrore da sé, è qualcosa che ha perso qualsiasi attrattiva, per lui, da quando non è più abitato dalla sua anima.
Potrebbe essere il corpo di chiunque, adesso; appartenere a chiunque.
 
Non è più lei, semplicemente.
Bellatrix se n’è andata tanto tempo fa, e non tornerà più indietro.
Rodolphus finge rassegnazione – soffoca con disperata ferocia la scintilla di pallida speranza che ancora oggi, talvolta, lo sfiora.
Quando la vede sorridere, per esempio – ma sa che è solo un automatismo, come lo chiama gente più esperta di lui. Come i bimbi piccoli appena nati, i cui commossi genitori si ostinano a prendere per segni di riconoscimento e affetto quello che è solo uno stiramento di muscoli mimici, un semplice esercizio di ginnastica alla vita.
 
Proprio come un neonato, già.
Bellatrix lo è di nuovo – è tornata ad essere la bimba che ha tradito troppo in fretta, che rimane nel cuore di Rodolphus come una pallida memoria al termine dell’immaginazione.
 
La osserva da lontano, da dietro i vetri della finestra – e stenta a conciliare la Bellatrix del suo ricordo con quella che gli occhi gli mostrano. Non sa a chi preferirebbe credere – alla sua mente o ai suoi sensi; la scelta non è molto allettante.
 
Bellatrix è una creatura di riflessi, ormai. Se le punti una luce negli occhi, sbatte le palpebre e le sue pupille si ritraggono, impaurite, nell’iride. Se le pungi un dito, facendone stillare sangue, corruga la fronte pallida e le sue labbra disegnano una O di dolore stupito; il suo respiro diventa un piccolo ansito. Se la spogliasse e la mettesse nuda all’aperto in pieno dicembre, tremerebbe e illividirebbe tutta di freddo.
 
Freddo, caldo, dolore, prurito, vibrazioni… queste cose le sente.
È quello che non sente – tutto il resto – che fa venire a Rodolphus voglia di morire.
 
È quando le mette le mani sui fianchi, per esempio, e lei non ha la minima reazione.
È quando le parla con la sua voce più sicura e più dolce, e lei non volta nemmeno la testa verso di lui.
È quando le cerca lo sguardo col suo, e lei guarda attraverso di lui – ma non lui, mai lui.
 
È in questi momenti che Rodolphus, un po’, avrebbe voglia di morire. E si chiede cosa lo trattenga al suo fianco, ancora adesso.
E, frugando dentro di sé, ancora non è riuscito a darsi una risposta.
 
Rodolphus è solo nella vecchia villa a picco sulla scogliera, dove prima sua madre, poi suo padre hanno consumato gli ultimi anni. Solo con Bellatrix e i loro Elfi domestici; gli fanno comodo – non chiedono niente, non dicono niente.
È così disperatamente solo e fuori dal mondo; caduto fuori dal tempo, in un’altra galassia. A volte crede che sia solo un altro dei suoi innumerevoli incubi.
Ancora aspetta di svegliarsi.  
 
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L’ha visto negli occhi di lei. Loro gliel’hanno detto, in silenzio. Non c’è stato bisogno di parole.
Non può essersi sbagliato; Rodolphus lo sa, ne è certo. Non può aver frainteso il messaggio.
Quello che ha visto negli occhi di Bellatrix quando solo per un attimo, dopo così tanto tempo, sono tornati quelli di una volta. Quasi lucidi – e selvaggi, aperti, senza scampo.
Gli hanno chiesto aiuto, gli hanno implorato una via di fuga.
Dopo la sorpresa iniziale – come può Rodolphus rifiutarle questo? Le ha mai negato qualcosa? – le ha accarezzato una tempia, la fragile pelle incavata e cerea, e ha annuito impercettibilmente davanti alle sue pupille spiritate.
A quel gesto, gli è parso che uno sprazzo di sollievo, rapido come un sospiro, passasse nelle iridi di Bellatrix.
Poi lei ha battuto le palpebre.
L’attimo dopo era di nuovo scomparsa.
 
Sai cosa fare, dicono gli occhi di Bellatrix, prima che tornino a svuotarsi.
Sai cosa fare, dice Rabastan nella sua testa.
Nella sua mente, la voce della donna che amava e la voce di suo fratello diventano tutt’uno.
La soluzione c’è, il tempo è agli sgoccioli.
 
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Ci ha pensato la notte – intere notti – a come fare.
Come deve accadere. Scena per scena – visioni a colori sgargianti nella sua mente, occhi sbarrati verso il soffitto.
Rosso che dilaga ovunque, rosso liquido.
E poi acqua.
Questo è tutto ciò che riecheggia dal suo inconscio. Questo è tutto ciò che riesce a visualizzare, quando osa pensare a come fare.
Non vuole che sia una cosa improvvisata, rischierebbe di mandare tutto in fumo.
Alla fine si è risolto a farlo nel modo in cui ha sempre voluto – sempre, almeno, sognato di farlo.  
Che poi è strano che lui abbia ucciso sua moglie in sogno tante volte, e ora che debba farlo sul serio qualcosa lo blocchi.
Non soffrirai, ha pensato, guardandola.
Non soffrirai come ho sofferto io, per tutto questo tempo.
 
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L’ultima cosa che riesce a ricordare, prima che lo shock e la follia lavino via completamente la sua mente, sono le proprie dita intorno alla sua gola.
Sottile, pallida come cristallo, già senza più vita.
E quella corona di lividi neri che la ornavano come la collana più bella sul letto di morte…
Mia Bellatrix, sei meravigliosa.
 
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Tira un vento gelido. Fa troppo freddo per togliersi i vestiti.
Rodolphus spalanca le braccia, in piedi di fronte al mare sconfinato. Si sente piccolo, sta per diventare libero come non è mai stato prima nella sua vita. Sta per lasciarsi alle spalle anche l’ultima zavorra – quella del suo corpo.
Ha portato tra le braccia il corpo di lei al largo, l’ha affidato alle acque. Ora tocca a lui.
Ripensa a quando ha sparso le ceneri di Rabastan. Nella sua mente selvaggia, quel falso ricordo pulsa come uno squarcio vivo che ributta sangue. Nel suo inconscio turbato suo fratello è morto. Forse è questo l’unico modo in cui il suo cervello cerca di compensare il fatto che non l’abbia più visto né sentito da quando è partito – compensarlo con un buco a forma di Rabastan nell’universo.
Anche le ceneri dei suoi genitori furono sparse in acqua.
Quest’oceano, fra non molto, custodirà gli ultimi resti dell’intera famiglia Lestrange.
Quale privilegio.
Rodolphus respira, i vestiti bagnati incollati alla pelle; inala profondamente quell’odore che è una delle poche cose che gli è mancato di questo paese, di questo passato, che gli mancherà di questa vita.
Chiude gli occhi. Il sole al tramonto tinge di pallido rosa l’interno delle sue palpebre buie.
Inspira profondamente – pensa a Bellatrix – espira.
Pensa a Bellatrix nel vestito avorio delle loro nozze – quello che si è strappata di dosso il prima possibile, dopo, col disgusto sulle labbra color sangue.
Pensa a lei nel suo nero funebre di adesso, uguale a quello di cui ha paludato tutta la sua vita – come se fosse sempre stata a lutto per qualcosa, o espiando qualcos’altro.
La colpa di essere nata.
Pensa a quell’ultimo sguardo di sollievo mentre le prendeva la vita.
O, almeno, gli è parso sollievo; forse i suoi occhi già non vedevano più.
Rodolphus non ha pensato a come fare questo. Come occuparsi di se stesso.
Insomma, ha un’idea di come debbano svolgersi le cose, ma… ecco, ora che ci è, sembra impossibile. Basta chiudere gli occhi e lasciarsi sprofondare? Non ne ha idea. Non sa se, a un certo punto, il suo istinto di sopravvivenza sarà così forte da trarlo fuori dalle acque, o se davvero andrà fino in fondo, fino alla fine.
L’acqua si raffredda rapidamente intorno a lui, un’ultima lama di sole ammicca all’orizzonte. Sembra non se ne voglia andare senza di lui.
E Rodolphus si lascia andare. Il suo corpo viene risucchiato, pancia in giù, nelle acque molli e sussurranti.
Si impone di non lottare, di arrendersi subito.
Ed è così che accade.
È oscenamente facile morire.
 
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Lascio libera di galoppare la fantasia – condita di struggente rimpianto e dolce malinconia.
Immagino il vento danzare tra i capelli di lei, sfiorarle rapido come il tocco di un amante le labbra, gonfiarle le vesti e premerle malizioso contro il suo corpo.
Il suo corpo che – ora me ne accorgo – non è quello che ricordavo. È… diverso, è mutato.
La vedo passeggiare sulla spiaggia, affondando nel chiarore rosa dell’aurora, non riesco a staccare gli occhi da quel ventre arrotondato. Per Salazar, quanto sa essere crudele la mente ferita, quando si mescola al rimpianto!
È qualcosa che mi colpisce diritto al cuore,  me lo fa sentire nudo e palpitante, un grumo di carne che si contorce in battiti, non più coperta da pelle e muscoli e ossa, ma esposta all’aria aperta.
Quando lei si volta… no! non voglio vedere lo scherno sul suo volto, a mandare in frantumi questo mio sogno così bello. No, vorrei chiudere gli occhi e impedirle di rovinare come sempre questo momento di beatitudine, per potermi crogiolare in un’estasi irreale ancora per un po’, dove è lei la protagonista indiscussa.
Ma ecco che lei si gira, non faccio in tempo a distogliere lo sguardo. Affondo nei suoi occhi e – meraviglia! – in essi non c’è disprezzo né odio né rabbia né derisione. Mi accolgono e mi avvolgono in un calore odoroso cui non oso dare un nome; caldo come il sole sulla bianca scogliera abbagliante, ha il profumo delle rose e del mare fusi insieme in un’essenza che mi fa venire le lacrime agli occhi – parla direttamente al mio cuore, tocca i tasti della mia anima.
 
È la prima volta che lo vedo nei suoi occhi, mentre mi guarda – mi guarda e mi tende la mano.
 
È la prima volta che lo vedo nella sua mano – l’altra, che si sostiene il ventre gonfio.
 
È la prima volta che riesco a concepire lei, Bellatrix, e amore nella stessa frase.
 
 
So che sto morendo – sto perdendo la ragione, il contatto con la realtà.
Niente è più dolce e più tormentoso che naufragare in questo sogno a occhi aperti, dove c’è lei e il nostro bambino e la vita che avremmo potuto avere, che avremmo dovuto avere.
Ma questo diritto ci è stato strappato.
 
So che sta morendo – la morte non è mai sembrata così bella.
Forse, alla fine, ha avuto pietà di me: non ha voluto punirmi per quello che sono stato, ma mi ha perdonato per quello che sono diventato.
Non rimarrà nulla di me qui, neppure il mio ricordo, ma per la prima volta non m’importa.
Sto tornando da lei, e anche se non mi accoglierà a braccia aperte come nella mia visione, sarò comunque tristemente felice di esserle di nuovo accanto.
Se un giorno dovessimo reincarnarci e tornare alla vita, spero che saremo più fortunati. Spero che avremo il coraggio di fare le scelte giuste.
Spero che saremo gli stessi e allo stesso tempo diversi.
Spero che ci saremo ancora, io e te.
 
Sto tornando da te, ma chèrie.
Aspettami.
 

Rabastan accartoccia nel pugno la sottile pergamena – l’ultima lettera scritta da Rodolphus, appena prima di morire. Di annegarsi.
Guarda l’oceano fuori dalla finestra; è quasi sera, la stessa ora scelta da Rodolphus per congedarsi dalla vita.
Rabastan sente ciò che sentiva lui – per un attimo.
Capisce perché ha scelto così.
Il tramonto è il momento della giornata più dolce per morire.
 
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Rabastan ascolta il suono dei propri passi sul parquet scricchiolante. Gli sembra che appartengano a un altro – uno degli innumerevoli fantasmi che si aggirano tra quelle mura.
Non ricordava fosse così lungo il corridoio della sua vecchia casa. Così buio, i soffitti così alti. Molte cose ha rimosso della sua infanzia, e tra queste i dettagli della sua abitazione.
Respira l’odore di polvere sottile, avverte distintamente il peso degli abiti grattare sul proprio corpo. Il suo completo nero è impeccabilmente e insolitamente lustro in quella casa dove tutto è opaco di polvere e ha il sapore della cenere.
Si ferma in fondo al corridoio. Su di esso si affacciano due porte. Poggia una mano contro la porta socchiusa dell’ultima stanza in fondo a sinistra. Basta una lievissima pressione perché ceda, con un gemito ruoti sui cardini, spalancandosi come una bocca in uno sbadiglio stanco e straziato. Come se aspettasse solo che qualcuno venisse a fare capolino nelle sue viscere.
La stanza è vuota. Completamente vuota. Buia, a eccezione del rettangolo giallino spento che la luce disegna sul pavimento, filtrando attraverso i vetri doppi della finestra senza tende. È una luce spenta, come un riflesso, una brutta copia della luce solare.
Rabastan rimane sulla soglia. Le punte lucide delle sue scarpe sfiorano il limite, tenendosi diligentemente dietro di esso come un profano di fronte all’orrore sacro.
I suoi occhi scivolano dalla finestra alle assi di legno del pavimento, dove un rettangolo più chiaro è ancora visibile. Come se fosse stato portato via di recente qualcosa che vi è rimasto a lungo custodito. Fissa quelle linee nere di sporcizia accumulatasi che rimarcano in modo così netto il dentro e il fuori quel rettangolo chiaro. Come una stigmata sul corpo della stanza.
Le fissa così a lungo che non riesce quasi a vedere altro. La sua mente vi si attacca con forza sovrumana, mette radici profonde, inestirpabili, gli impedisce di distogliere lo sguardo un solo attimo.
Immagina – vede – Rodolphus chino sulla culla che non ha potuto riempire. Le sue lunghe notti vuote e sterili, le sue suppliche desolate, sempre più sorde, fino a perdere la voce.
Le sue urla, tra quelle pareti.
Se vi affondasse un coltello, stillerebbero odio e dolore fino a inondarne la casa.
Si chiede come debba essersi sentito suo fratello a vegliare inutilmente una culla vuota. In bilico. Cercando di non impazzire. Di tirare avanti. Giorno per giorno.
E gli sembra davvero di vederlo, adesso – lui o il suo fantasma, o il suo ricordo – premersi i palmi sugli occhi, tirare su col naso e chiudersi poi la porta alle spalle, continuare a vivere.
E si chiede come sia possibile chiudere la porta sull’aborto di un sogno e – nonostante tutto – sopravvivere. 
È esattamente quello che fa anche lui, adesso. Finalmente gira su se stesso ed entra nella stanza nella quale sarebbe dovuto entrare fin dall’inizio. Quella in fondo a destra.  
I suoi occhi non corrono subito al grande letto a baldacchino in un angolo – si fermano sulla finestra incendiata dal tramonto arancione, angoli neri di ombre. Attraversa la stanza a grandi passi, si avvicina alla vetrata e si ferma, le mani nelle tasche. Si morde distrattamente l’interno delle guance, mentre i suoi occhi vagano sul giardino laggiù in fondo, socchiudendoli appena tra le ciglia. 
Si sente il pizzicorino alla nuca come se qualcuno lo stesse osservando. Ma sa che i morti non possono vederlo, e che i loro occhi dietro le palpebre chiuse sono ciechi.
Eppure, la sensazione è lì.
Se non si volta è perché ha paura.
È una strana forma di paura. Paura non di qualcosa di esterno, ma di una minaccia molto più profonda e al tempo stesso sfuggente, elusiva, pericolosa – perché viene da dentro di lui.
Paura di non provare nulla, di fronte a suo fratello morto.
Perché questo significherebbe essere diventato davvero e irrimediabilmente un mostro.
Ha paura di se stesso. Di quello che oggi è, che forse è sempre stato. 
Si volta, si avvicina con le mani dietro la schiena al bordo del letto, quello opposto alla testiera. I suoi occhi si soffermano sulle scarpe lucidissime da uomo, così lucide che vi vede il proprio riflesso, rimpicciolito e capovolto, due volte.
Risalgono lungo i pantaloni di stoffa perfettamente stirati, inquadrano un paio di mani adagiate l’una sull’altra, come due comari immerse in pettegolezzi, sul ventre. Sono pallide; bluastre intorno alle unghie.
Con una certa soddisfazione, si rende conto di non riconoscere quella mani.
Non sono di Rodolphus.
Non gli dicono niente.
Continua la sua esplorazione, su per la camicia bianca immacolata – e arriva al volto. E si ferma.
E trattiene il respiro.
Rodolphus somiglia al loro padre molto più di lui. Non ricordava quei solchi sul suo volto. È gonfio, e livido. E ci sono fili bianchi tra i suoi capelli neri, gli stessi che ha scoperto nello specchio nelle ultime settimane.
Rabastan fa il giro del letto, appoggia una mano alla testiera e si china. Esamina da vicino ogni centimetro quadro del volto di suo fratello. Così da vicino che potrebbe sentire il suo respiro, se fosse ancora vivo.
Perverso sottile godimento misto a disgusto.
Trionfo di non provare nulla, assolutamente nulla.
Come un estraneo, come il primo venuto. Come se non si fossero mai conosciuti.
Non riesce a dimenticare, non riesce a perdonare.
Neppure dopo la morte.
Rabastan… mi odi ancora?
Sempre, Rodolphus. Sempre. Non credere che solo perché sei freddo e senza vita io debba accoglierti di nuovo.
I fantasmi non rimangono qui. Solo i mostri.
E lui lo è diventato, ora ne ha avuto la conferma.
 
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Si succhia senza pensarci l’interno delle guance. In piedi di fronte al letto, si dondola distrattamente sui talloni, e non riesce a staccare lo sguardo dal corpo abbellito per Signora Morte.
Anche da morta, Bellatrix è bella. Anche da morta, lui continua a desiderarla.
Dovrebbe sentirsi sporco per questo – per volere la moglie di suo fratello anche sul letto funebre, o forse soprattutto su di esso, perché ora che non può più difendersi o respingerlo, il suo corpo è a sua disposizione. Suo.
Potrebbe, sì. Potrebbe prenderselo, adesso. Ci ha pensato; non lo nega. Ma non lo fa.
Non per qualche stupido rispetto fraterno o etico o superstizioso.
Solo perché si sente stanco, e con disgusto incuriosito.
I suoi occhi affamati frugano ogni centimetro di pelle ancora d’alabastro che la morta espone inconsapevole al suo sguardo empio. Sembra essere diventata ancora più sottile, quasi diafana. È come osservare una luce in una boccia di vetro, solo che in Bellatrix non risplende alcuna luce, né da morta né da viva. Un alone fosco le si sparge intorno. Forse sono i suoi capelli – nella penombra, sul cuscino bianco, sono segreti d’inchiostro.
Rabastan pensa che Bellatrix, da morta, sia ancora bella. Forse addirittura più di prima.
Sembra che la morte sia la sua condizione ideale e naturale.
La sua pelle è avorio, con quella sfumatura appena livida che si può benissimo fingere di non notare. Gli elfi domestici sono stati così pietosi da nascondere la cianosi delle labbra sotto un velo di rossetto porpora violento. Con la stessa non richiesta gentilezza hanno rivestito entrambi i morti dei loro abiti migliori. Come se si potesse celare la vergogna della morte sotto l’apparenza di una frivolezza che tiene ancora appigliati alla vita.
Bellatrix indossa un vestito viola, dal colletto alto.  
Rabastan allunga una mano – nemmeno la sacralità della morte potrebbe fermarlo, ora – e glielo tira verso il basso. Quel tanto che gli consente di vedere quel viola, diverso da quello dell’abito ma non poi così tanto, appena sopra le clavicole. Lo contempla in silenzio, ripugnato – ammirato?
Sa che se mettesse le dita sulle impronte livide di Rodolphus, quelle mani fantasma combacerebbero perfettamente con le sue.
Avrebbe potuto esserci lui. Avrebbe potuto farlo lui.
Forse, l’ha fatto davvero lui – l’hanno fatto le sue parole, instillate come veleno denso, goccia a goccia, nella mente febbricitante di Rodolphus, quel giorno di tanti anni fa.
(Sai cosa fare.)
Lascia scorrere lo sguardo sulle labbra dipinte di Bellatrix, sulle sue palpebre chiuse. Sono anch’esse viola, ma come appiattite, come se non avessero più nulla da coprire, nascondere, proteggere. Tutt’intorno ad esse si dipanano ecchimosi malsane, che nulla hanno a che fare con l’annegamento.
Rabastan non si sofferma a controllare.
Dunque, l’hai fatto davvero, fratellino?
Non si sofferma a verificare se ciò che gli elfi, terrorizzati, bisbigliano sia accaduto davvero. Ciò di cui tutti parlano on orrore.
Davvero hai fatto questo alla donna che amavi? Per la quale hai rinunciato a tutto? A me?
Davvero hai cavato gli occhi a tua moglie, Rodolphus, l’hai strangolata e l’hai gettata in mare?
Davvero sono stato io a mostrarti la strada per risolvere i tuoi problemi?
Non c’è colpa in Rabastan. Il suo animo vibra piano di soddisfazione e trionfo – se ne sente disgustato l’attimo dopo.
E per lavare quel disgusto che sale da dentro, che ha per se stesso, cerca un altro tipo di disgusto; un peccato ancora più grande.
Abbassa la bocca e la preme su quella di Bellatrix, così forte che le labbra di lei si schiudono impercettibilmente. Lavare il peccato col peccato.
Rabastan si sofferma sul sapore che ha sempre sognato. È tutta la vita che ha voluto farlo. E se non ha potuto averla da viva, ebbene, l’avrà da morta.
Rodolphus, disteso accanto su quello stesso letto, è solo un fantasma. Come lo è stato per tutta la vita.
Se avesse voluto, avrebbe potuto averla.
Quando Rabastan si ritrae, i suoi occhi bruciano di febbre. Non lo sa, ma la sua espressione di adesso è la stessa che ha avuto Rodolphus, poco prima di togliersi la vita.
Tira fuori dalla tasca il suo fazzoletto dalle iniziali ricamate, si pulisce la bocca dal rossetto che gli è rimasto, impronta infamante. Ha baciato la Morte, e la Morte ha lasciato il suo marchio su di lui.
Gli sembra quasi di poter sentire la risata di scherno di Bellatrix, provenire dall’interno delle sue ossa pallide e malvagie.
Cosa credevi di fare, Rabastan?
Niente, Bellatrix. Niente... come sempre.
Anche stavolta si conclude così. Nessun vincitore. È una vendetta che sa di vuoto. E di sale. Di quelle lacrime che, nonostante tutto, Rabastan non riesce a versare.
Ne è valso la pena, ostinarsi a desiderare la sua donna, perché non poteva essere – avere – suo fratello?
La risposta gli sussurra sibillina alle orecchie, echeggia nel silenzio di quella casa di morti.
Fra non molto, anche lui andrà a far loro compagnia, dice la risata silenziosa.
 
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E’ in piedi davanti alla larga finestra; la luce del tramonto fende in lame arancioni vivide la penombra che va accumulandosi strisciando dagli angoli di quello che è stato per più di vent’anni lo studio di suo padre.
Lingue d’ombra, del nero più fondo, lambiscono i piedi intagliati ad artiglio di leone della vetusta scrivania di mogano; un impalpabile respiro di polvere appanna la superficie un tempo lucida come uno specchio lacustre.
Le sue gambe disegnano un triangolo isoscele, piuttosto lungo e sbilenco, sulla moquette rosso mattone che si svolge silenziosa sul pavimento, soffocando il rumore disturbante dei passi, assorbendo sussurri, voci, rumori, tutto. I suoi capelli, più lunghi sulla nuca, si arricciano appena sfiorando l’orlo del colletto bianco della camicia bianca immacolata. Una giacca di panno nero ne copre l’abbagliante candore. Dietro la schiena, le sue mani intrecciate riposano l’una nell’altra: con la destra si afferra il polso della sinistra – e le sue dita giocherellano intorno al pesante anello all’anulare. Il simbolo della casata inciso su di esso, a ricordargli i suoi doveri e le sue responsabilità.
È per questo che è qui. Richiamato dai doveri e dalle responsabilità da cui è riuscito a tenersi lontano fortunosamente a lungo. Ma, alla fine, come tutte le cose sgradevoli e indesiderate, l’hanno raggiunto; si è trovato le loro fauci d’acciaio strette intorno in una morsa quando ormai era troppo tardi per fuggire.
(Non che non l’avesse fatto abbastanza – gli ultimi dieci anni erano stati una libertà latitante, la prima che avesse mai provato nella sua vita.)
È dovuto tornare. Lì dove aveva giurato a se stesso non avrebbe mai più rimesso piede. Famiglia e passato erano parole dense d’oscuri significati, di ricordi e di emozioni ancor più soffocanti – come cose morte perverse che si agitano nel buio, urlando senza voce il loro diritto di venire alla luce.
Rabastan fissa a occhi socchiusi il sole che languisce a pelo dell’orizzonte, come indeciso se lasciarsi affondare nella nullità tetra dell’altra parte del mondo o indugiare ancora un poco al di qua. Fosse stato per lui, non avrebbe esitato neppure un minuto a scegliere. È una luce debole, quella crepuscolare, spogliata della violenza accecante del pieno mattino – ma lo ferisce lo stesso; gli procura un dolore dietro le palpebre che non va via, nemmeno se le chiude.
Dovrebbe scrutare il viale d’ingresso, in attesa della lunga carrozza nera tirata da Thestral che verrà caracollando su per la strada a ciottoli, come una promessa funesta, a compiere il suo dovere. Invece i suoi occhi guardano il sole morire, la notte che prende possesso del cielo a rapide falcate. Dentro la stanza, nei riquadri rettangolari della grande finestra, diventa sempre più buio, e i contorni della sua sagoma sempre più sfocati, fin quasi a confondersi in quell’unico grigio-blu che lo circonda.
Aspetta. Gli sembra di non aver fatto altro in tutta la sua vita.
Dopo qualche minuto di completa immobilità, a eccezione delle dita che continuano a muoversi irrequiete intorno all’anello, sconosciute al suo peso ed esso a loro, volta le spalle alla finestra, muove qualche passo sulla moquette spessa che inghiotte lo scricchiolio delle lucide scarpe. Si sente all’improvviso un fantasma senza peso e senza corpo, che non lascia tracce in una casa che non è la sua. Eppure, la pergamena sulla scrivania dice esattamente il contrario.
L’ultimo erede rimasto è lui.
Bellatrix e Rodolphus non hanno avuto figli.
A Rabastan Lestrange, ultimo rampollo di casa Lestrange, va la dimora di famiglia e tutto quel che c’è dentro.
Qualcuno avrebbe potuto malignamente pensare che avesse architettato tutto lui per mettere le mani sull’ingente patrimonio – qualcuno che non conosca Rabastan e la sua profonda avversione per quella casa, quella storia, quella vita.
Aggira lentamente la scrivania. Le punte delle sue dita veleggiano appena sulla superficie, disegnano strie curvilinee nello strato esile di polvere, disturbando il passato.
È arrivato da poche ore, ma ha già capito che, in questo posto, la polvere si accumula presto. Impossibile resuscitare i morti. Impossibile vincere una battaglia persa in partenza.
Siede sulla poltrona dall’alto schienale rigido, quella cui non aveva mai osato avvicinarsi quando era bambino. Ricorda suo padre, lì, in quella sedia, una gamba sull’altra, le dita intrecciate in grembo e la nuca appoggiata allo schienale; osservava lui e Rodolphus, in piedi dall’altro lato della scrivania, con lo sguardo sottile dei suoi occhi obliqui e minacciosi sotto le sopracciglia corrugate e sporgenti. La tempesta era in arrivo, diceva il grigio fondo dei suoi occhi quando, da liquidi stagni, si rapprendevano in blocchi di solido cemento armato. In genere, era per qualcosa di cui lui e Rodolphus si accusavano a vicenda, ma che nessuno dei due aveva commesso. Allora il loro padre li puniva entrambi.
C’è una inspiegabile, amara soddisfazione che brucia come fuoco e gli rode dentro le viscere con un sapore di bile, nello starsene ora lì dove un tempo sedeva il loro aguzzino, nello spazio occupato dal suo corpo greve, dalla sua voce stentorea, dalla calma glaciale degli impassibili sguardi di disapprovazione. Disobbedienza. Disonore. Dispiacere. Una litania di incessanti parole che iniziavano per “dis” vomitata dalle sue labbra sottili. Rabastan se le ricorda muoversi a scatti, le vede aprirsi e chiudersi e non emettere un suono, ma sa che stanno parlando di lui, con lui, contro di lui.
Forse era quella poltrona a dargli quel senso di potere che trasudava dalla sua figura. A renderlo così grande, davanti a loro ancora così piccoli. Forse.
Eppure, ora che è in quella stessa poltrona, che ha le mani dove lui aveva le mani, e la schiena dove lui aveva la schiena, e le gambe, e la testa, e le anche, Rabastan si sente ancora Rabastan. Nessun potere gli fluisce nelle vene, nessun senso di dominio e superiorità. Sente solo l’odore della polvere che gli si gonfia nel naso, lo fa starnutire.
Appoggia le mani sui braccioli, chiude le dita intorno alle estremità di legno, anche quelle intagliate, saggia la solidità del materiale nella sua stretta. Se chiude gli occhi il passato gli viene incontro dalla soglia della porta, lasciata spalancata come un occhio triste su un vuoto di paura.
– Vieni avanti, Rabastan. Quante volte ti ho detto che è villano starsene a origliare dietro l’uscio? 
E lui andava avanti, timoroso, combattuto. Costretto.
– Dov’è tuo fratello? – Così si concludeva sempre ogni discorso – monologo – di suo padre in sua presenza.
Dov’è Rodolphus?
Sono forse io il custode di mio fratello? Rabastan era stato tentato di dirlo, più volte. Era sempre riuscito a trattenersi, mordendosi la lingua. Non era neanche colpa di Rodolphus, in fin dei conti.
Rabastan si piega in avanti col braccio teso. Tira fuori un cassetto da sotto la scrivania. Ce ne sono molti, tutti uguali, alcuni chiusi a chiave – ma non c’è segreto che tenga di fronte a una bacchetta. Rabastan ha una vaga idea di cosa aspettarsi, di cosa troverà. Cerca di prepararsi, ma sa che le persone non si smettono mai di conoscere, tantomeno dopo morte. Anzi, forse solo allora le si inizia a conoscere veramente. Perciò non rimane poi molto stupito quando un fascio di carta da lettere ormai gialla e sgualcita attira la sua attenzione. È un pacchetto di parecchie decine di fogli di pergamena, tenuti insieme da un nastro che il tempo e la muffa hanno derubato del suo colore originario.
Lo slaccia con restia reverenza. Gli dà un certo senso di golosa soddisfazione mettere il naso tra le carte di Rodolphus, ora che lui non è più in questo mondo a impedirglielo, o ad andare in collera per quello. Se lo immagina ancora, chiaro come il sole, l’arcigno fantasma di Rodolphus, in piedi sulla porta, che lo fulmina con lo sguardo mentre rovista nella sua privacy.
Non hai rispetto nemmeno per un morto, fratellino?
– Ho aspettato fin troppo.
Rabastan ha preso questa strana abitudine di parlare da solo a mezza voce. Forse è una cosa di famiglia; gli Elfi gli hanno detto che anche Rodolphus lo faceva, borbottare e riflettere andando avanti e indietro, o bevendo whisky davanti al camino, quando nessun altro era in stanza con lui. Forse entrambi sono sempre stati così avvezzi alla solitudine da aver imparato il trucco di sdoppiare se stessi per renderla meno acre.
Parlare con i fantasmi è qualcosa che Rabastan non stenta a immaginare di poter fare, o che suo fratello potesse fare. Rodolphus è quasi lì con lui, quasi più corporeo e tangibile di quando il sangue scorreva ancora nelle sue vene. A volte i ricordi delle persone sono più reali delle persone vive.
Quando il primo foglio appassito gli si dispiega in grembo, e la grafia spigolosa e obliqua di Rodolphus – zampe di ragno non prive di una certa direzionalità – gli salta all’occhio, Rabastan si trova a stringere la bocca in un sorriso tirato e convulso. I suoi occhi scorrono cupamente le brevi frasi spezzate, i periodi tortuosi che si interrompono improvvisamente, come se Rodolphus trovasse e perdesse continuamente il filo dei suoi pensieri. Tutte le lettere, anche quelle appresso che gli riposano in grembo, sono così. Pensieri sconnessi e macchie d’inchiostro sbavato disseminate un po’ dappertutto.
Alcune di quelle lettere gli sono familiari. Buffo, non avrebbe mai immaginato che Rodolphus fosse il tipo di persona che ama ricopiare le lettere in bella prima di spedirle.
Non si finisce mai di conoscere il proprio sangue.
Rabastan non ha mai risposto, a nessuna di quelle lettere. Gli arrivavano con una puntualità quasi maniacale, raggelante nella loro esattezza, come scadenze irrinunciabili, ogni due mesi all’incirca. Un mattino si svegliava con un pugno chiuso dentro il petto – la sensazione che preannunciava l’arrivo della missiva. Puntualmente, quando scendeva a colazione, si trovava davanti, sotto il piatto delle uova, la busta bianca con sopra, vergato nella sottile grafia a zampe di ragno, il nome del destinatario: Rabastan Lestrange.
Alcune di quelle buste le aveva aperte, alcune lettere lette tutte, fino alla fine, magari quando era abbastanza sbronzo da ritenersi sicuro di dimenticarle in fretta – ma si era sbagliato, perché ricordava una per una le parole che ora aveva davanti. Altre non le aveva nemmeno aperte, ma gettate direttamente nella bocca del fuoco ingordo, attizzando i ceppi borbottanti con gli alari.
A nessuna aveva mai risposto.
Si era accorto da molto tempo che qualcosa non andava. Aveva assistito, spettatore nauseato ma incapace di abbandonare il suo posto, allo spettacolo della follia di Rodolphus che ascendeva rapidamente al suo acme tragico. Non aveva fatto nulla per fermarlo. E cos’avrebbe potuto fare, a miglia e miglia di distanza, un oceano in mezzo a separarlo dal destino del suo sfortunato fratello?
Semplice. Avrebbe potuto rispondere.
Sollevare la penna dal calamaio e tracciare una sola parola.
Resisti.
Sono con te.
Vieni via.
Lasciala.
Chiedi aiuto.
Ma era appunto quello che Rodolphus stava facendo. Implicitamente gli chiedeva aiuto nelle sue lettere fredde e puntuali, lo sollecitavano a non distogliere mai il pensiero da lui, dai suoi guai. Anche se non rispondeva, Rodolphus era sicuro che ricevesse e leggesse parte delle sue lettere, altrimenti non avrebbe continuato a spedirle con tale ossessiva determinazione. O forse sì, avrebbe continuato a farlo – perché non aveva più nulla cui aggrapparsi.
Le date riportate in cima ai fogli volanti testimoniano quanto rapidamente la pazzia si sia portato via il lume della ragione, quanto in fretta la violenza abbia distrutto in un rogo intere esistenze.
 
Trentasei lettere.
Quelle che Rodolphus gli ha scritto, due per ognuno dei diciotto mesi della sua pazzia.
 
Quelli non sono i suoi occhi; non è Bellatrix che mi guarda dietro di essi. Non è lei.
Rivoglio lei. Voglio indietro mia moglie. Ma lei non è più qui. C’è solo il suo corpo.
Dov’è finita Bellatrix, Rabastan?
 
Mi sta facendo impazzire. Non riesco più a tenerla a bada. Non so dove sbattere la testa, alla sera. Non chiudo occhio da settimane. Le notti sono un incubo. Anche quando dorme non oso dormire anch’io per paura che si svegli e che mi ammazzi nel sonno.
 
Non è mia moglie, questa. Qualcosa dev’essersi rotto nella sua testa. Qualcosa si sta rompendo anche nella mia.
Non ho più voglia di lottare. Ho voglia di lasciarlo andare, qualunque cosa sia. Che cos’è, Rabastan?
 
Sono stanco, Rabastan. Perché non vieni mai a trovarci? Ti sei dimenticato di tuo fratello? Questa era anche casa tua, una volta. Non sta bene andarsene così. Metto sempre due tazze di tè, quando siedo sotto il portico. Ce ne sarà sempre una anche per te.

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Chiedeva aiuto, sempre più disperato ogni volta.
Rabastan leggeva ognuna di quelle lettere seduto alla sua scrivania, miglia e miglia lontano dalla casa sull’oceano. Si portava il tè alle labbra e scorreva le frasi sconnesse socchiudendo gli occhi nel vapore tiepido.
Le gambe accavallate, batteva una suola a terra, dando ritmo ai suoi pensieri.
Perfettamente calmo. Perfettamente soddisfatto.
Ognuna delle trentasei lettere che ha ricevuto da Rodolphus ha fatto la stessa fine delle altre.
Alcune Rabastan le ha lette, tutte le ha accartocciate lentamente nel pugno.
Non ha mai risposto a nessuna.
Ha finito di bere il suo tè, si è adagiato tranquillamente contro lo schienale della sedia guardando fuori dalla finestra del suo studio.
Non pensava a Rodolphus in quei momenti. Non pensava a Bellatrix.
Pensava alle rose nel giardino di sua madre.
Che motivo c’era di affannarsi? Era così che le cose dovevano compiersi.
Tutto stava andando come doveva.
 
Non ha mai risposto a nessuna.
 
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Gli aveva negato il suo aiuto apposta.
Credevo te lo meritassi, Rodolphus.
L’aveva lasciato a se stesso, alla follia che si era impadronita di lui.
Non una semplice omissione. Aveva partecipato attivamente, l’aveva aizzato sottilmente, indotto a fare quel che aveva fatto. Con Bellatrix, almeno.
Il resto era venuto da sé.

Proprio quello che sperava.
 
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– Dov’è tuo fratello? Dov’è Rodolphus? – gli chiedeva suo padre ogni volta, quando finiva di fargli la ramanzina nel suo studio. O di metterlo in castigo.
 
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L’ho lasciato morire, padre. Perché lui mi aveva portato via tutto ciò che ho sempre voluto nella vita.
E mi dispiace.
L’ho lasciato morire. E ora non posso più prendermi nemmeno ciò che era suo.
Mi dispiace.
Mi senti, Rodolphus? Mi dispiace.  
 
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Il corpo di Bellatrix giace nella stanza con il letto a baldacchino. Lì, proprio lì accanto, c’è la culla vuota.
Rabastan ha iniziato a manifestare gli stessi sintomi di pazzia di suo fratello. Dicono sia una cosa ereditaria, ormai. Che Bellatrix c’entrasse poco o nulla. Che i Lestrange fossero destinati comunque alla fine che fecero, anche senza incontrare la fiera figlia dei Black. Che anche loro fossero come tarati dentro – ma, d’altronde, chi può saperlo dove finisce la genetica e dove inizia il destino che ci si costruisce da sé.
 
Ogni sera Rabastan va in quella stanza chiusa a chiave, che i suoi Elfi hanno ordine di non aprire mai.
Va lì e ci rimane ore intere. Nessuno sa cosa fa – nessuno lo vede.
 
Va lì e gioca alla famiglia che non ha mai avuto.
Una moglie.
Un bambino in culla.
 
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Finalmente si è preso ciò che aveva Rodolphus.
Ed è quasi come avere lui – essere lui.
E non importa che la culla sia fredda e vuota, e insanguinata negli incubi che ormai gli fanno visita sempre più spesso.
(Comincia a vedervi certe analogie con quelli che suo fratello gli descriveva con inchiostro sbavato.)
E non importa che la pelle della donna che ha sempre desiderato – mai amato – sia fredda come marmo, e il sangue non batta più nelle sue vene, e i suoi occhi non ci siano – gli occhi, ciò che di più bello Bellatrix ha sempre avuto, mio Dio Rodolphus perché l’hai fatto – e i suoi capelli siano quasi come sterpaglia annerita, fil di ferro attorcigliato. Che le sue labbra non abbiano più sapore, e la sua pelle cada a pezzi nonostante la Magia che la preserva.
Non importa.
 
Perché è tutto ciò che ha sempre desiderato.
 
 

 
 
Allora il Signore disse a Caino: «Dov’è Abele, tuo fratello?»
Egli rispose: «Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?»
 
 
Genesi 4, 9
 
 
 
 
Fine
 
 
  
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