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Autore: _Renesmee Cullen_    11/01/2015    6 recensioni
210 a.C., Aurora, principessa Greca, dopo che la sua città è stata saccheggiata dai Romani, viene rapita da questi e scambiata per una ancella. Tra i romani c'è Fabrizio, un generale che mostra da subito un certo interesse per Aurora. La ragazza decide di non rivelare la sua vera identità a nessuno, ma dopo essere arrivata a Roma scopre che non è facile, soprattutto con gli occhi di Fabrizio, che sospetta qualcosa, sempre addosso. Nella Roma Repubblicana, dove la divisione tra classi sociali rappresenta una delle credenze più importanti di tutte, cosa potrebbe succedere se i due si innamorassero?
Dal primo capitolo:
Fabrizio alzò un sopracciglio, ma non disse nulla. Si spogliò invece dell’armatura e rimase a petto nudo. Nel fisico allenato risaltavano le braccia muscolose, le spalle larghe e i pettorali. Dopo poco venne verso di me, e si chinò alla mia altezza.
-Senti… facciamo così... io non prendo in giro te e tu non prendi in giro me, d’accordo? Mi sembra un patto vantaggioso per entrambi.- disse, a un soffio dalle mie labbra, nella sua lingua natale. Iniziai a sudare, ma mi obbligai a rispondere, in un perfetto latino.
-D’accordo.- conclusi.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
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EPILOGO
 

1 mese dopo


Mi guardai allo specchio, titubante. Avevo paura che quel giorno non sarei stata bella sufficientemente per prendere Fabrizio in sposo, o che all’ultimo momento ci sarebbe stato qualche impedimento. Sapevo che le mie paure erano tutte dettate dall’ansia ma in quel momento non potevo fare altro che preoccuparmi. Volevo che tutti gli occhi fossero puntati su di me, quel giorno e non sul fatto che, sebbene fossi una principessa, non avessi la dote e nient’altro da offrire che un titolo prestigioso, un palazzo e una città lontani, già in mano romana. Temevo anche che le rotondità che piano piano si stavano evidenziando sul mio corpo, si vedessero. In tutta Roma nemmeno una decina di persone sapevano del mio stato: Fabrizio, Tiberio e sua zia, da cui spesso andavo per chiedere consigli, Iginia e il Senatore Cornelio, felici, nonostante tutto, della creatura che stava per arrivare.
Come di consuetudine, io,  la fidanzata, la sera precedente avevo raccolto i capelli in una reticella rossa e in quel momento indossavo una tunica senza orli, la tunica recta, fissata con una cintura di lana con un nodo triplo sotto il seno e un mantello color zafferano. Ai piedi sandali dello stesso colore, al collo una collana di metallo e sulla testa un'acconciatura, come quella delle Vestali, formata da sei cercini: ovvero panni attorcigliati in modo da formare un'imbottitura a forma di ciambella, separati da piccole fasce. Ero avvolta in un velo color arancio fiammeggiante che copriva il viso, adornato con una corona intrecciata di maggiorana e verbena. Vedermi vestita in quel modo così diverso dalle tradizioni Greche mi metteva ansia. Volevo guardare in faccia il mio sposo in ogni momento, per trovare sicurezza nel suo sguardo. Attilia, che mi aveva aiutata nella preparazione, disse:

-Sei bellissima, lo sai vero?- domandò dolcemente. Io sorrisi senza parlare, troppo emozionata, senza sapere nemmeno se si fosse accorta del mio sorriso. Capendo il mio stato non fece altre domande e trepidante, attendevo l’arrivo di Fabrizio, della sua famiglia e dei testimoni, con i quali, secondo la tradizione, mi sarei dovuta recare nel tempio più vicino alla Villa per compiere i dovuti riti. Erano tre notti consecutive che non riuscivo a chiudere occhio per l’emozione e a nulla erano servite le lettere che Fabrizio mi mandava per tranquillizzarmi. Come di costume, il marito non poteva vedere la moglie per due notti prima del matrimonio e la sola presenza di Attilia ed Iginia nella mie stanze di certo non mi erano affatto di aiuto. Quasi che la madre di Fabrizio fosse più emozionata di me per l’evento. Così Fabrizio, contravvenendo alle regole, mi mandava spesso delle lettere per tranquillizzarmi: come mi conosceva bene. Quella mattina Attilia aveva dovuto utilizzare tutte le erbe che conosceva per togliermi dal viso due occhiaie nere e orribili che occupavano il mio viso. Nonostante i bagni caldi nel latte di capra e nei Sali da bagno, mi sentivo stanca ed appesantita come non mai. Mi toccai la pancia: da quando Fabrizio aveva raccontato tutto a suo padre era passato circa un mese. Un po’ perché dopo tutto ciò che era accaduto non riuscivamo più ad aspettare, un po’ per evitare che il mio pancione si vedesse e non creare scandalo, che il matrimonio si era celebrato così presto. Sarebbe stato un matrimonio singolare: la mia famiglia non sarebbe stata presente e la consuetudine di condurre la ragazza a casa del marito prima della cerimonia non sarebbe stata attuata: dopo aver saputo la verità il senatore Galba, con più dolcezza e buon senso di quelle che mi sarei mai aspettata, mi aveva assegnato delle stanze sontuosissime in cui alloggiare, senza fare domande. Aveva creduto a tutto ciò che gli aveva raccontato il figlio, nascondendo una felicità non comune per quello che era accaduto. Sotto al cuore di pietra di quell’uomo si nascondevano dolcezza e amorevolezza, come mi aveva raccontato Iginia una volta.
Sentii dei passi provenire dal corridoio e il cuore iniziò a battere all’impazzata. Le nausee che da quasi due mesi mi tormentavano tornarono a farsi sentire, chiudendomi lo stomaco. Sapevo che era il bambino dentro di me a provocare tutto ciò, ma quel giorno era solamente l’emozione che mi faceva stare così.
La porta della camera si aprì ed entrarono Fabrizio, il padre la madre e i dieci testimoni, tra cui l’ex Dittatore Quinto Fabio Massimo e alcuni Senatori, amici di Fabrizio. In quel momento meno che mai mi sentii a mio agio. Attilia, che era diventata una delle mie ancelle personali, mi prese il velo che arrivava fino a terra, Fabrizio mi porse il suo braccio e dopo giorni che non lo vedevo mi strinsi a lui come a un’ancora di salvezza. Era più bello che mai, con gli occhi neri che brillavano e, essendo un generale, una tenuta da combattimento addosso. Noi a capo, seguiti dai genitori dello sposo e subito dopo dai testimoni, in fila per due, ci avviammo verso il tempio, formando un corteo silenzioso.

-Sei bellissima- sussurrò Fabrizio piano, mentre ci avvicinavamo al Foro. Io sorrisi e gli strinsi forte il braccio, non potendo abbracciarlo, cercando di fargli capire quanto quel complimento, per me che quel giorno ero così insicura, mi avesse fatto felice. Con una lentezza stancante arrivammo al tempio della dea Concordia, protettrice dei buoni rapporti tra gli esseri umani. Avevamo scelto di celebrare li il matrimonio  affinché fosse, oltre che felice e pieno di figli, anche pieno di concordia e di pochi litigi.
Il Pontefice Massimo, presente alle cerimonie delle personalità più importanti di Roma, ci attendeva davanti all’altare sacrificale, davanti al tempio, circondato da amici e parenti di Fabrizio. Nessuno che mi fosse caro c’era, visto che il mio unico parente ancora in vita era Filippo V di Macedonia e non correva buon sangue né tra me e lui né tra i Romani e i Macedoni.
Attilia mi abbandonò per posizionarsi accanto agli altri invitati insieme ai genitori di Fabrizio, mentre i testimoni si posizionavano cinque a destra e cinque a sinistra dell’altare. Tiberio, uno dei dieci, mi sorrise incoraggiante: anche lui era li a festeggiare con noi e ad augurarci uno splendido futuro. Il bue era pronto per il sacrificio e dopo esserci inginocchiati davanti all’altare e al Pontefice Massimo ed aver pronunciato le parole di rito, ci preparammo per compiere il sacrificio.
Il tutto si svolgeva in un religiosissimo silenzio, soltanto le parole mie e di Fabrizio risuonavano nelle orecchie di tutti.
Compiuto il sacrificio, l’aruspice presente, il Pontefice Massimo e i dieci testimoni posero il loro sigillo sull’atto del matrimonio. Tirai un sospiro di sollievo: il primo passo era fatto, ora arrivava la parte peggiore.
Di nuovo in ginocchio davanti all’altare, aspettammo che l’aruspice esaminasse le interiora del bue: doveva controllare se agli dei fosse stato gradito tutto ciò che avevamo fatto. Se così non fosse stato, il matrimonio sarebbe stato annullato. Chiusi gli occhi per l’ansia dell’attesa, pregando che andasse tutto bene e in un gesto anticonvenzionale strinsi forte la mano di Fabrizio, che mi diede coraggio.
L’aruspice alzò la testa dalle viscere dell’animale e annuì convinto:

-Gli dei sono favorevoli all’unione. Viva gli sposi.- disse alzando i palmi al cielo e tutti fecero lo stesso ripetendo “Viva gli sposi”.
Tirai un sospiro di sollievo e quasi volli piangere per la commozione: era fatta, gli dei erano favorevoli, Fabrizio era ufficialmente diventato mio marito. Trattenni le lacrime: non dovevo lasciarmi andare.
Ci alzammo in piedi ed insieme consegnammo al Pontefice Massimo e ai Sacerdoti di Giove una focaccia di farro, rituale caratteristico della Conferratio(*1) e Iginia, scelta come nostra madrina, che si impegnava a controllarci e a fare di tutto affinché il matrimonio fosse felice, si staccò dalla folla per avvicinarsi a noi e ci congiunse le mani, in segno di reciproca fedeltà. A quel punto, Fabrizio alzò il velo arancione buttandolo dietro le mie spalle e così guardandoci sorridenti negli occhi, pieni di amore e sogni, dicemmo all’unisono la formula conclusiva del rituale:

-Ubi tu, Gaio, ego Gaia(2*)- e sorridemmo insieme sinceramente e gioiosamente. Dopo esserci inchinati davanti all’altare, al Pontefice e ai Sacerdoti, scendemmo in mezzo agli invitati che gridavano parole di buon auspicio e felicitazioni.
Le flautiste iniziarono a muoversi, suonando, seguite da cinque tedofori che portavano le fiaccole e innalzando canti gioiosi. Tre amici dello sposo, uno dei quali innalzava una torcia ornata con il biancospino, ci precedevano. Dietro di noi tutti gli invitati ci seguivano verso casa formando il corteo che ci avrebbe condotti al pranzo nuziale. Nel tragitto, mentre Fabrizio mi sorrideva amorevolmente, lanciavo delle noci ai bambini che incontravamo per strada, come quelle con cui giocavo da bambina. Arrivati davanti al portone della Villa che era spalancato e adornato con fiori, Fabrizio mi prese in braccio e oltrepassammo insieme il portone, questa volta come marito e moglie.
Sebbene il Senatore avesse offerto a Fabrizio la possibilità di ritirarsi con me nella loro Villa dall’altra parte di Roma, io e Fabrizio avevamo preferito restare lì, insieme a tutte le persone che ci volevano bene e che facevano parte della nostra vita, al centro della vita politica romana. 
Il salone più spazioso dell’abitazione era stato adornato con triclini e tavoli sontuosi. Il letto più grande, riservato per gli sposi, si trovava al centro della stanza. Dopo che tutti si furono accomodati, io e Fabrizio, che dovevamo essere gli ultimi a stenderci, alzammo i calici, io con succo di mele(3*) e lui con vino rosso, che erano già stati versati nei nostri bicchieri, come di rito.
Inaspettatamente Fabrizio, invece che brindare al matrimonio e agli invitati presenti, disse, con voce sicura e nitida:

-Brindo alla mia stupenda moglie. La più bella, dolce e amorevole che si possa desiderare. Che la nostra unione possa essere la più felice di Roma- mi sorrise e  in quel momento una lacrima scese dalle mie guance. Fabrizio mi appoggiò una mano sulla guancia e grida di giubilo e felicità si alzarono per tutta la stanza.

 
Il pranzo si protrasse fino al tramonto, tra balli, canti, grida e qualche simpaticone un po’ troppo brillo, tra risate e sorrisi. Tutti ci fecero in complimenti per la cerimonia e Fabrizio ne ricevette ancora di più per sua moglie, per me. Sorrise a tutti, nascondendo per una volta quell’aria seria da Generale, comportandosi con naturalezza e scherzando e rispondendo a tutti in maniera gioviale ed allegra. Non potevo che essere più che felice di mio marito, l’uomo che sognavo, che fino a quel momento mi aveva regalato i momenti più belli della mia vita.
Quel giorno io e Fabrizio non avevamo avuto il tempo per stare un po’ da soli né per parlare cinque minuti, nemmeno durante il pranzo che ci aveva impegnati totalmente.
Era quasi scomparso il sole e non ci sembrò vero di dover adempiere ad un altro rituale, quello che aspettavamo da tanto. Ci alzammo dai triclini e tutti gli invitati ci seguirono verso le stanze che, da quel momento in poi, io e Fabrizio avremmo condiviso, dove si trovava il letto nuziale. Fabrizio entrò prima di tutti e due ancelle lo seguirono, portando una conocchia(4*) ed un fuso, simboli di quella che sarebbe dovuta essere la vita della moglie, si intende solo in teoria, per quanto mi riguardava. Attilia mi prese per mano e, con un po’ di imbarazzo perchè sotto gli occhi di tutti, mi condusse nel letto nuziale, dove Fabrizio mi aspettava, serio, seduto ai piedi del letto. Gli invitati cominciarono ad andarsene mentre mio marito mi scioglieva il triplice nodo delle cintura. Mi sorrise e mi attirò a sé, baciandomi dolcemente. Quella notte sarebbe stata solo nostra.

4 anni dopo

Il palazzo non aveva perso nulla del suo splendore e della grandezza di un tempo e la città era rimasta la stessa: le mura abbattute erano state ricostruite, le strade pulite. Il passaggio dei romani quasi cinque anni prima non aveva arrecato troppi danni alla città, solo ai cuori dei cittadini. Madri e mogli avevano perso figli e mariti che avevano tentato, inutilmente, di proteggere Anticyra dai romani. Un altro segno erano le nuove strutture costruite, come le case per i pretori, i questori e i loro sottoposti, o altre strutture che accogliessero i militari. Le tasse che i cittadini dovevano pagare, in quanto provincia romana facente parte della Repubblica, non erano tutto sommato esose ma gravavano comunque sulle famiglie meno abbienti.
Mi trovavo nella strada principale che conduceva alla scalinata verso la porta principale del palazzo. Il cuore batteva forte mentre tenevo per mano mia figlia Emilia, la primogenita che aveva appena quattro anni. Fabrizio mi stava a fianco senza parlare, rispettando il mio silenzio, tenendo in braccio Massimo, troppo piccolo per intraprendere quel lungo tragitto tutto a piedi, avendo solo due anni. Stava in braccio al papà appoggiando la testolina sulla sua spalla. Tutti e due i bimbi avevano gli occhi verdi e i capelli scuri, miscela perfetta tra me e Fabrizio. Al nostro seguito, ancelle, servi e cavalli si fermarono con me.

-Madre, madre un palazzo, un palazzo grandissimo!- urlò Emilia entusiasta indicando davanti a sé e tirandomi il braccio, da bambina intelligente e curiosa quale era.

-Lo so tesoro, è nostro…- risposi, più a me stessa che a lei. Mi feci coraggio e misi avanti un piede, poi un altro: non potevo esitare e sembrare impaurita davanti a tutte quelle persone. Dopo l’assedio, mi aveva giurato Fabrizio, nessuno era entrato li dentro, ero la prima a farlo dopo anni.
 Molti cittadini mi guardavano, quasi nessuno mi aveva riconosciuta come la principessa della città dato che in quei quattro anni il mio aspetto era cambiato: ero diventata una donna. Non potevo che esserne felice, tuttavia…
Spinsi l’enorme portone con forza ed entrai nella grande sala che fungeva da atrio, decisamente molto differente da quello romano. Fabrizio mi strinse con forza una mano per ricordarmi che era li con me: nulla era cambiato da quando me ne ero andata, solo la polvere riempiva pavimenti e mobilio. Il cuore batteva veloce e una forte nostalgia mi attanagliò lo stomaco. Ci sarebbe stato molto lavoro per i servi: pulire, far prendere aria all’ambiente: avremo dovuto renderlo più vivo, caldo, ospitale, per poterci vivere serenamente.
Fabrizio era tornato appena un mese prima da una battaglia terribilmente sanguinosa, a causa della quale molti soldati erano stati distrutti e molti villaggi rasi al suolo, Proprio lui un giorno dopo mesi di lotta era tornato a Roma con una gamba infortunata e una spalla ferita gravemente. Avevamo temuto il peggio per molti giorni ma con la competenza del dottore Tiberio, eravamo riusciti a salvarlo e ora, miracolosamente, era riuscito a riprendersi. Ringraziavo ogni giorno gli dei per aver fatto in modo che si salvasse, non sarei riuscita a vivere senza di lui.
Dopo quell’episodio Fabrizio era riuscito a farsi concedere una licenza a tempo indeterminato, purchè promettesse che, in qualsiasi momento Roma avesse avuto bisogno di lui, sarebbe tornato. Era stanco di vedere sangue, morti e persone disperate, nella sua vita ne aveva visti molti e ora che mancavano solo due anni per raggiungere i trenta, voleva dedicarsi ad una vita serena ed allegra, almeno per un po’. Avevo proposto io di tornare ad Anticyra e lui non aveva esitato un attimo: giusto il tempo di preparare i bagagli, ed eravamo partiti. Anticyra era lontana dagli affari spesso sporchi di Roma, era il luogo ideale per stare fiori da tutto ed occuparsi di tante attività meravigliose ed insegnare ai nostri figlio molto più di quanto avremmo potuto fare a Roma. Finalmente ero a casa e mentre mi avviavo verso quelle che erano state le mie stanze, indicando ad ancelle e servitori quali fossero le proprie, sentivo un senso di pace dentro di me. A Roma, tuttavia, avevamo lasciato tutti i nostri cari. Il Senatore Galba, ormai troppo stanco per intraprendere un viaggio così lungo, aveva preferito restare in Senato, poiché Roma stava andando incontro ad un periodo molto difficile. Iginia non avrebbe mai abbandonato il Senatore e chi sa se, prima o poi, con il tempo, tra di loro sarebbe sbocciato qualcosa di più, se entrambi avessero messo da parte l’orgoglio. Attilia aveva trovato la felicità giusto qualche mese prima sposandosi con Paolo, il ragazzo di cui dai tempi della mia servitù era fidanzata, coraggioso, sincero e rispettoso. Ero stata loro testimone e ne andavo fiera. Attilia non poteva abbandonare la sua famiglia di punto in bianco e, in occasione del suo matrimonio aveva ricevuto una lauta somma di denaro: le avevamo dato la possibilità di andarsene dalla Villa e vivere con suo marito in serenità.
Tiberio aveva conosciuto una ragazza di Roma, per caso parente lontana di Fabrizio e se ne era innamorato perdutamente, il loro matrimonio era stato celebrato un anno dopo il nostro ed io e Fabrizio eravamo stati ospiti d’onore. Tutto quello che era successo era passato in secondo piano: avevamo condiviso molti bei momenti con i dottore e la sua sposa ed erano stati spesso nostri ospiti, insieme alla famiglia di lui, che mi era molto cara.
Mi mancavano le affollate vie di Roma e le molteplici attività del Foro, ma in Grecia il mio animo irrequieto era in pace.
Dopo aver constatato che le mie stanze erano troppo piccole per ospitare noi e i nostri figli, ci trasferimmo in quelle dei miei genitori, adatte per questo. Tuttavia la camera era spenta e polverosa come il resto della casa. Mentre i bambini scorrazzavano per le stanze, mi sedetti sul letto che era stato di mia madre e accarezzai le coperte, un po’ triste. Fabrizio mi mise una mano sulla spalla e mi attirò a se, circondandomi la vita con le sue braccia forti. Nulla tra noi due era cambiato o scemato: Fabrizio mi sorprendeva sempre come le prime volte e la passione che provavamo l’uno per l’altra non era cambiata, nemmeno ora che ci appartenevamo da tempo.

-Lo so cosa stai pensando. È tutto polveroso e spento e grigio… ma sai che ti dico? Abbi fiducia e ti prometto che farò di tutto per riportare questo palazzo all’allegria e alla bellezza di un tempo, dovessi mettermi a pulire insieme ai servi- iniziò ridendo ed io sorrisi stringendolo forte. –Ti amo Aurora, moglie mia meravigliosa e farò sempre di tutto per vederti felice, perché ho visto morte e disperazione ma tu sei il raggio di sole che può portarmi fuori da tutto quel dolore: non permetterò che tu sia triste.- Le sue parole mi fecero scendere una lacrima di commozione, ancora una volta grata alla Sorte di averlo trovato. Fabrizio mi prese la testa tra le mani e mi baciò teneramente, dicendomi silenziosamente quanto mi amava e io rispondevo. Ci aspettava ancora una vita lunga e ricca di allegrie, soddisfazioni e sogni realizzati.
 
 
FINE
 


(1*) Rito di carattere religioso secondo il quale, dopo alcuni riti e in presenza di dieci testimoni, gli sposi consegnavano una focaccia di farro  al Pontefice Massimo.
(2*)Formula rituale che esprime il significato del matrimonio: Ovunque andrai, io andrò.
(3*)Dopo il matrimonio, le donne romane non poteva bere vino rosso: nei tempi più antichi, chi contravveniva a questa legge poteva essere condannato a morte.
(4*)La conocchia o rocca è uno strumento che in coppia col fuso serve a filare.


Note dell'autrice

Buongiorno a tutti, innanzi tutto buon anno! Da tempo immemore che non mi faccio sentire e ci ho messo veramente troppo per scrivere questo capitolo, lo so... spero che mi perdonerete ma un po' per l'estate, un po' perchè solo ora ho un computer MIO e che FUNZIONA con cui scrivere, un po' per gli impegni, sono riuscita a mettere questo ultimo capitolo solo ora. Le mie storie finiscono sempre bene e spero che il finale non vi abbia deluso. Forse tra poco pubblicherò una nuova storia e se vorrete leggere anche quella, ne sarò davvero felice!
GRAZIE A TUTTI COLORO CHE HANNO SEGUITO, RECENSENDO O SILENZIOSAMENTE, QUESTA STORIA. SIETE STATI IMPORTANTISSIMI PER ME ED IL VOSTRO SOSTEGNO E' STATO FONDAMENTALE. GRAZIE A TUTTI, UN ABBRIACCIO

_Renesmee Cullen_
  
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