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Autore: _ayachan_    19/11/2008    6 recensioni
Un'AU (breve) ambientata tra le colline dell'Oltrepò pavese, che vede entrare in scena la nobiltà e il popolino, intrighi e tradimenti, il tutto in un'atmosfera che, ora che ci penso, ricorda vagamente quella di Goldoni.
(liberissimi di insultarmi per l'audace paragone)
[Dedicata a sammy1987 per il suo compleanno]
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Naruto Uzumaki, Orochimaru, Rock Lee, Sakura Haruno, Sasuke Uchiha
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
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Deserving-8

Deserving


Le macerie riarse della villa di Orochimaru furono abbattute per fare posto a un nuovo edificio, più moderno e funzionale.
I suoi terreni furono venduti all’asta, numerosi estimatori piansero sulla biblioteca perduta per sempre, però molti, i più, tirarono un sospiro di sollievo. Presto qualcun altro avrebbe raccolto l’eredità di Orochimaru, ma per ora potevano dormire sonni tranquilli, pregando per la salute e non per svegliarsi vivi l’indomani.
Alla fine dell’anno Sakura diede alla luce il suo primogenito, un bambino pallido e magro, che destò non poche preoccupazioni. Sasuke chiese l’appoggio economico di Jiraya, che sbuffando glielo concesse, e si chiamarono i migliori medici, si fecero le migliori villeggiature.
Il bambino crebbe, acquistò la salute che gli mancava, e diventò degno erede di un casato in ricostruzione. A distanza di pochi anni la famiglia si ingrandì nuovamente, prima con una bambina, e poi un’altra ancora.
Il 1859, nel corso dei conflitti tra Francia e Austria, portò la guerra a Montebello, e costrinse gli Uchiha a fuggire a Milano.
Prima di andarsene, un Sasuke reso più solido e al contempo più fragile dal tempo, volle visitare per l’ultima volta il parco della villa e le stanze interne.

Era una giornata nuvolosa, e la luce si posava sugli oggetti con una morbidezza particolarmente vellutata, ammantandoli del telo della nostalgia.
Probabilmente non avrebbe più rivisto quelle mura, quegli alberi, quei divani. Non sarebbe più tornato a Montebello, prima di raggiungere i suoi antenati, e ogni fibra del suo corpo ne era più che consapevole.
Attraversò ogni camera con il passo lento che aveva acquisito negli anni, e si soffermò su ognuno dei mobili, sfiorandolo con affetto.
Lo scrittoio di sua madre, della quale ricordava così poco.
Il divano su cui Lee si era seduto, il giorno in cui doveva dirgli che non avrebbe sposato Sakura.
Il letto che aveva diviso con l’unica donna che avesse mai amato, e su cui i suoi figli si erano accalcati, nelle notti di tempesta, terrorizzati da tuoni e fulmini.
La carta da lettere con cui aveva scritto a Jiraya, il giorno della morte di Naruto.
Tutte cose a cui, vivendo in quella casa, non aveva mai prestato eccessiva attenzione. Ma ora che se ne andava, ora che era costretto ad abbandonarle, gli sembravano più care che mai.
L’ultima tappa fu la ‘stanza di Naruto’, come non avevano mai smesso di chiamarla. Era rimasta chiusa tanto a lungo da conservare ancora il suo odore, nonostante le domestiche fossero incaricate di pulirla ogni mese.
Sasuke vi entrò con una sorta di timore reverenziale, la mente e gli occhi pieni dell’immagine del Naruto ventenne, della sua voce squillante, della sua sciarpa turchese e del suo sorriso. Con gli anni il senso di colpa si era stemperato in una morbida accettazione, ma il ricordo, no. Quello si era ampliato e intensificato.
Attraversò il pavimento coperto di legno sentendo i tacchi risuonare piano. Passò lo sguardo sul letto, e quasi gli sembrò di vedere Naruto che si svegliava, i giorni in cui andavano a caccia, e lo fissava vacuo, chiedendogli perché diavolo era lì prima dell’alba. Scorse dal letto fino allo scrittoio, lo stesso scrittoio che Naruto aveva fatto portare con tanta cura fin dalla Francia, e che raccoglieva tutti i suoi segreti e i suoi pensieri, e lì si soffermò.
Non aveva mai letto i suoi diari, per pudore e per rispetto.
Li aveva chiusi nel primo cassetto, aveva dato due giri di chiave, e poi era scappato lontano dal suo senso di colpa.
Ora, in una fredda giornata di aprile, fermo nella sua stanza, un’antica domanda gli tornò alla memoria.
Perché Naruto era sulla strada di Retorbido, quel giorno?
Forse le malelingue avevano ragione a insinuare che visitasse la casa chiusa. Sasuke lo avrebbe anche capito, intrappolato in un matrimonio che non desiderava e costretto a vedere la donna amata tra le braccia di un altro.
Eppure no, era convinto che Naruto non fosse un tale disperato. Naruto voleva altro, la soddisfazione fisica dei piaceri non era fondamentale, né sufficiente, per lui.
Ma, se davvero esisteva una risposta a quella domanda, era morta la notte tra il quindici e il sedici giugno di quel lontano 1836.
E probabilmente, anche se Sasuke avesse potuto chiederglielo, Naruto si sarebbe limitato a tacere, come faceva sempre.
Forse nessuno era davvero degno di penetrare i segreti della sua mente.



* * *



Il giardino era cresciuto spontaneo ed incolto, conquistando sentieri e viali anno dopo anno.
Gli olmi e le querce si erano ingranditi a dismisura, assediati da edera e sterpaglie, e le loro radici nodose spuntavano dal terreno, per avvolgersi attorno a sassi e pavimentazione.
Era il regno incontrastato della natura, lasciata nella libertà più completa e riadattatasi alla vita prima dell’uomo. Solo la strada principale si era salvata, abbastanza larga da contrastare l’avanzata dell’erba, coperta di pietrisco aguzzo e chiusa al limitare da un cancello elaborato.
Quando lo aprirono, i cardini cigolarono penosamente, e l’intera struttura traballò, erosa dalla ruggine.
Il rombo dell’automobile fu assordante e terrificante per la piccola fauna che si era impossessata del parco. Scoiattoli e fringuelli si allontanarono spaventati a morte, correndo negli angoli più bui e sfidando l’egemonia dei gatti selvatici, e le ruote della Fiat lucente scricchiolarono, trasportando il peso di quintali di ferro e vetro sui ciottoli taglienti.
L’automobile si fermò nel grande cortile antistante l’ingresso, e la portiera davanti si aprì per lasciar uscire una donna avvolta in un severo completo di lana. Teneva i capelli raccolti in una crocchia rigida, grigia come i suoi abiti, e una minuscola borsetta nera tra le mani guantate. Attraverso le labbra sottili chiamò qualcuno all’interno dell’automobile, e mentre l’autista scendeva dall’altro lato, lei andò ad aprire la portiera posteriore.
A mostrarsi sul predellino lucente fu una bambina di una dozzina d’anni, avvolta in un vestitino giallo che le scendeva morbido fino alle ginocchia, forse un po’ troppo ossute. Non appena le sue scarpette di raso toccarono il pietrisco, fece una piccola smorfia e si calcò sulla testa il cappellino bianco, disposto su capelli di una bizzarra sfumatura di rosso, molto simile al rosa. Sia sul cappello che sugli abiti era ricamata una S elaborata.
«Avete freddo?» domandò la donna vestita di grigio, solerte.
«No tata, sto bene» rispose la bambina, stringendo la borsetta di pizzo al petto.
«Ottimo. Aspettate qui, devo scambiare qualche parola con vostra madre»
La donna si allontanò di buon passo, diretta verso la signora dai capelli scuri che parlava sorridendo con l’autista, e la bambina rimase sola. Si guardò attorno.
Schermandosi dal sole con la tesa del cappellino, scrutò il parco buio che si stendeva minaccioso attorno al viale principale. Sentì la madre parlare di giardinieri, oltre l’automobile, ma a dire il vero lei era molto più interessata alla gradinata giallastra che saliva verso il grande portone d’ingresso.
La villa era grande quasi quanto quella di Milano. Era rovinata, l’intonaco era scrostato e le persiane sfasciate, ma aveva un’aura di mistero che per una ragazzina di dodici anni era impossibile ignorare. Era come le case infestate di cui aveva letto tante volte nei libri, come quelle dei racconti di Poe, che tanto la spaventavano e intrigavano al contempo.
Quando sentì sua madre chiamarla, chiedendole di entrare con lei, si affrettò a seguirla senza nemmeno nascondere l’emozione.
Eppure l’interno, a dire il vero, fu deludente.
Un salone buio e mobili coperti da teli bianchi, polvere ovunque. Nessuna traccia di creature misteriose, folletti o mostri che fossero, nessuna botola, nessun passaggio segreto, nessun mistero, almeno a prima vista.
Sua madre e la bambinaia iniziarono subito a discorrere fittamente delle modifiche necessarie, delle pulizie, delle opere di falegnameria, della tinteggiatura, del restauro. La ragazzina le ascoltò per meno di due secondi, poi sbirciò sotto un telo, e scoprì soltanto un divano roso dalle tarme.
Sbuffando, si guardò attorno con evidente abbattimento.
Fu allora che vide ciò che le donò nuova speranza, e che fece fare un balzo al cuore nel suo petto: le scale che si inerpicavano nel buio fino ai piani superiori.
Si fece immediatamente circospetta. Mentre gli adulti erano distratti, la bambina percorse la sala fino a raggiungere le scale. L’autista stava ancora cercando di aprire il secondo tendone, per fare luce, e nessuno prestava attenzione a lei. Fu così che riuscì a sgattaiolare, inosservata, fino al piano superiore.
Da subito si trovò in una stanza molto più buia del previsto, tanto che impiegò quasi due minuti per abituarsi alla penombra. Procedette con le mani tese in avanti, cercando di non urtare i vecchi mobili troppo bassi, e poi incontrò la tappezzeria di una parete, con suo gran sollievo. Costeggiandola coscienziosamente, si fece avanti nella penombra fino a raggiungere una porta. Provò la maniglia, ma la scoprì chiusa.
Di nuovo sentì la delusione montare nel suo cuore avventuroso: possibile che quella casa fosse solo un ammasso di mattoni e intonaco scrostato? E la fiaba? I segreti? I misteri del luogo, dove si nascondevano?
Procedette ancora oltre, fino a incontrare un’altra porta. Questa volta, con sua grande sorpresa, si rese conto che non solo non era chiusa, ma nemmeno accostata troppo bene. Un sottilissimo raggio di luce sfuggiva dall’incontro tra legno e telaio, e andava a illuminare la polvere che danzava nell’aria, spegnendosi quasi subito.
La ragazzina sentì il cuore accelerare nel petto. Forse era arrivata a qualcosa.
Con trepidazione, dunque, sospinse la porta, e si trovò davanti a una stanza con un letto, uno scrittoio... E un bambino.
I loro sguardi si incontrarono per la frazione di un secondo. Lei era in piedi sulla soglia, lui davanti allo scrittoio, entrambi immobili e senza respiro.
«Chi sei tu?» scattò la ragazzina per prima, gettando sull’altro uno sguardo sprezzante. «Questa è la mia casa, potrei denunciarti ai carabinieri!»
Il bambino balzò giù dalla sedia e nascose qualcosa dietro la schiena, fissandola torvo.
«Non ho fatto nulla di male» borbottò, in dialetto.
«Eh?» fece la ragazzina, confusa.
Lui sembrò riflettere per qualche istante, e poi, in un italiano un po’ stentato, provò a ripetere la frase.
«Non sto fand’nient’ad mal»
La ragazzina impiegò qualche istante per tradurre quanto aveva sentito, e poi scosse la testa con forza.
«Questa è proprietà privata! Non puoi restare qui! Non puoi... Non puoi rubare i miei misteri, ecco!»
Il bambino la fissò sbattendo le palpebre, su occhi di un azzurro insolitamente intenso, in quella parte del mondo.
«Che misteri?» chiese perplesso.
La ragazzina arrossì violentemente, e si strinse alla sua borsetta. «I miei misteri. I segreti della casa, insomma. Non puoi scoprirli prima di me, è casa mia»
«Questa casa non è di nessuno» sbruffone, il bambino sollevò il mento con aria di sfida. «Mio padre e mio nonno sono sempre venuti qui a nascondersi, e non c’era mai nessuno»
«Perché viviamo a Milano» soffiò la ragazzina, stizzita. «Veniamo in campagna solo quest’estate, e solo da quest’anno, va bene? Ma tu che vuoi saperne? Con quei vestiti sarai sicuramente uno straccione»
«A dire il vero mio padre è il fabbro!» si indignò il bambino. «Ferra tutti i cavalli della zona, vengono fin da Varzi per rivolgersi a lui!»
La ragazzina fece una smorfia di disgusto. «Mio padre è il duca Uchiha» commentò tronfia. «E presto i cavalli non li vorrà più nessuno, perché tutti viaggeranno sulle Fiat, e mio padre possiede una parte della fabbrica»
Il bambino la fissò con astio. Aveva capito solo metà di quello che la ragazzina aveva detto, ma gli bastava sentire la sua vocina irritante e constatare che era più alta di lui, per farlo arrabbiare.
«Comunque sono arrivato prima mi» sibilò.
«Ma in casa mia» replicò la ragazzina.
«Chissene importa. Io ho già scoperto i segreti che c’erano da scoprire»
Negli occhi della ragazzina passò un lampo di rabbia. «Come sarebbe a dire? Non ci sono segreti! E’ una casa normale, banale e... e... stupida!»
Sembrò faticare per lasciarsi uscire l’ultima parola, abituata com’era a ingoiare sempre le imprecazioni, ma alla fine allungò verso il bambino un’occhiata profondamente soddisfatta per la propria audacia.
«Non è vero» ribatté lui, rabbioso. «Io li ho scoperti! E poi anche tu poco fa hai detto che li cercavi!»
La ragazzina arrossì. Nella stanzetta in penombra calò un silenzio denso di imbarazzo e tensione.
Il bambino si morse l’interno di una guancia, passandosi una mano tra i capelli biondi e scompigliati, e la ragazzina rimase immobile, abbracciata alla sua borsetta.
Che umiliazione. Ridotta al silenzio da un popolano, che per giunta sembrava più piccolo di lei.
Poi il bambino la guardò, improvvisamente incerto, e riaprì bocca.
«Senti... possiamo scoprirli insieme» borbottò, di malumore. «Se ci tieni tanto, possiamo scoprirli insieme i segreti»
La bambina alzò lo sguardo, indignata. Perché doveva scendere a patti nella sua stessa casa? Stava per fare una sfuriata degna della tata, con tanto di strepiti e imprecazioni, quando una vocina interiore la fermò.
Se questo bambino sa qualcosa, allontanandolo potresti perdere degli indizi. D’altronde c’è sempre un aiutante di infimo rango, nelle storie di avventura.
Sbuffò, sollevando il mento impettita, e, nonostante l’arrossamento del suo viso, annuì.
«Va bene. Te lo concedo» bofonchiò.
Il bambino le rivolse un mezzo sorriso, chiedendosi che diavolo volesse dire concedo, e all’improvviso le mostrò le mani che fino a quel momento aveva nascosto dietro la schiena.
«Guarda» sussurrò, mentre la ragazzina si avvicinava. Sui palmi sporchi era adagiato un piccolo mazzo di chiavi leggermente arrugginite.
«Dove le hai prese?» indagò lei, ormai avvolta nell’atmosfera delle imprese epiche, pronta a sussurrare con aria cospiratoria e a scordarsi di rimproverare il piccolo ladro.
«Le ho trovate nella stanza da letto, sul comodino» spiegò lui, senza nascondere la soddisfazione. «C’era una scatolina, e c’erano dentro queste. Ci ho messo una settimana a capire che aprivano quella porta» accennò con il capo la porta per cui erano entrati.
«E le altre?» mormorò la ragazzina, studiandole affascinata.
«Cercavo di capirlo. Secondo me c’entrano con lo scrittoio»
Insieme, i due bambini fissarono lo scrittoio di legno impolverato. All’improvviso aveva acquistato la consistenza di un baule del tesoro, davanti ai loro occhi.
Si scambiarono uno sguardo e si avvicinarono cauti.
«Penso che va qui» spiegò il bambino, additando il primo cassetto. «Perché gli altri sono tutti aperti. Però non riesco a farla girare»
La ragazzina gli chiese le chiavi, e le infilò nella toppa. La ruggine doveva aver intaccato la serratura, perché grattarono paurosamente, ma dopo un po’ di sforzi congiunti scattò.
Emozionati, i bambini si guardarono. E poi scoprirono che il cassetto era ancora chiuso, e che ci voleva un altro giro.
Allora, imprecando abbondantemente, si impegnarono di nuovo e riuscirono ancora una volta nell’impresa. Ma la chiave si spezzò all’interno della serratura mentre cercavano di tirarla fuori.
«Meno male che non è successo prima» commentò la ragazzina, mentre il bambino tirava il cassetto verso di sé.
All’interno trovarono un sacco di carta. La ragazzina inspirò a fondo l’odore della cellulosa ingiallita, riconoscendolo come l’odore del mistero, e con mani leggermente tremanti prese il primo pacchetto di lettere. L’indirizzo era scomparso, sbiadito dal tempo, o forse non c’era mai stato.
Il bambino che era con lei tirò fuori dalla tasca un coltellino a serramanico, e recise lo spago che le teneva insieme. La ragazzina prese allora la prima lettera, ed entrambi videro che sulla seconda il destinatario era ancora leggibile, in una calligrafia leggermente stentata ma comprensibile.

A Naruto.

Il bambino si accigliò.
«Io mi chiamo Naruto» sussurrò perplesso, e la ragazzina lo fissò stupita.
«Che nome strano» commentò. «E che coincidenza...»
Il bambino sbatté le palpebre, completamente smarrito di fronte all’incomprensibile termine coincidenza. Non sapendo come comportarsi, decise bene di scrollare le spalle e riportare l’attenzione sulla lettera.
«Aprila»
Senza crucciarsi troppo per la privacy e altre inezie simili, la ragazzina aprì la busta e sfilò il foglio che vi era chiuso dentro. Fece un po’ di fatica a decifrare le righe, tremanti e in uno stile troppo lontano nel tempo, ma alla fine ci riuscì, e lo lesse a voce alta, a beneficio del suo accompagnatore.

Mio amato Naruto,
spero che il profumo che mi avete donato si senta su questa carta dozzinale.
So che il denaro che mi concede non andrebbe sprecato in questa maniera, ma non posso fare a meno di lasciarvi ogni volta un messaggio.
Mi impegno molto per compilare queste poche righe, saval

«Saval?» ripeté la ragazzina, interrompendosi.
«E’ come sapere» spiegò il bambino, con una certa difficoltà. «Come se ti dico: guarda che ti faccio un favore, eh. Guarda che ti faccio un favore, saval»

Mi impegno molto per compilare queste poche righe, saval, ma ci tengo con tutto il mio cuore, perché quando se ne va io mi sento morire. Vi sono grata per la casetta che mi avete dato, e anche per avermi ins imparato a scrivere e un poco a leggere, ma quello che voglio davvero è lei, non i suoi insegnamenti.
So che è sposato, e la sua donna è la duchessa più a modo della pianura, mi creda. E so che me lo ha detto tante e tante volte, ma io non vivo se non vi ripeto quanto vi amo. Mi dispiace. Ai suoi occhi sarò ridicola, una cuntadinei prosuntuosa, ma sono sincera, mi creda, con tutto il cuore sincera.
Ogni volta che lei se ne va, io muoio. Il mio cuore fa male, davvero, e pesa nel petto.
Ora, poi, ci sono anche altre preoccuapazioni, ma non voglio annoiarla. Gliele dico quando ci vediamo, magari si sistema tutto.
A, voglio che è sia già venerdì, lo sapete?
Mi mancate, Naruto.
Vi amo con tutto il mio cuore.

10 giunio 1836”

«E finisce?» il bambino fece una smorfia di disappunto, contrariato.
«Oh, è così romantico!» sospirò la ragazzina, stringendosi la lettera al petto. «Non capici?Naruto e questa donna si amavano! Ma lui era sposato con un’altra, no? E quindi non potevano amarsi davvero»
Il bambino la fissò stranito. «Voi femmine siete proprio luc» mormorò scuotendo la testa.
«Ma come si chiamava questa donna?» sospirò la ragazzina, con gli occhi brillanti. «Quanto mi piacerebbe saperlo! E poi guarda la data: è di cento anni e sei giorni fa! Non è una grande coincidenza?»
«Oh, se lo dici tu...» borbottò il bambino, chiedendosi se sarebbe stato in grado di ripetere coincidenza.
«Aspetta, la lettera prima deve essere l’ultima. Quella senza indirizzo» Entusiasmata, la bambina afferrò la prima busta e la aprì febbrile.
All’interno, un foglio ingiallito con pochissime parole.

Devo vedervi urgentemente.
Vi prego.”

«E questo cos’è?» il bambino sbuffò, annoiato. «Non ci dice niente»
«Chissà cosa sarà successo...» mormorò invece la ragazzina, sognante. «Forse i loro genitori li hanno scoperti? Oh, sogno un amore proibito da sempre!»
«Sì, proprio strane» borbottò il bambino, considerando nuovamente le femmine, e frugò ancora nel cassetto. Le sue mani si posarono su una copertina di pelle morbida e impolverata, e con una certa fatica recuperò un quaderno chiuso da un laccio consumato. «Guarda cos’ho trovato» disse entusiasta, cercando di distrarre la ragazzina, rapita dalla corrispondenza.
«Lì forse risponde!» squittì lei, entusiasta, e quasi glielo strappò di mano.
Con impazienza sfogliò le prime pagine, e, ora che la scrittura era più comprensibile, lesse spedita.

25 Ottobre 1835

Ho una stanza, in casa di Sasuke e Sakura.
E’ incredibile pensare di essere qui, sereno, quando in realtà dovrei soffrire come un cane. Qualche celebre scrittore ha detto che il tempo guarisce ogni ferita, e forse ha ragione.
Spero che sarà così anche per Hinata.
Povera Hinata. Non posso dire di amarla, ma per lei provo solo un grande affetto, e molta compassione. Coinvolta nei piani del padre, avrebbe dovuto sposare anche Orochimaru, se glielo avessero ordinato.
Vorrei essere un marito migliore, per lei.
Vorrei non farla soffrire, e amarla come un uomo. Invece la amo come un fratello.
Ieri sono stato ancora a Retorbido, da lei. Non ricordavo quanto le somigliasse, come i suoi occhi fossero verdi... non lo ricordo mai. E’ sempre una sorpresa.
Temo che lei si stia innamorando di me, ma io non potrò mai renderla felice.
Sono il marito di Hinata, sarò per sempre il marito di Hinata, e nulla potrà mai accadere perché io cambi idea.
L’ho fatto per Sasuke e Sakura.
Continuerò a farlo per loro, e per Hinata stessa.”

«Risale a un anno prima della lettera...» mormorò la ragazzina, scorrendo le pagine più avanti. «Significa che per tutto quel tempo lui e lei si sono visti di nascosto. Giusto?» cercò l’approvazione del bambino, ma lui all’improvviso sembrava pensieroso, quasi a disagio.
«Che c’è?» chiese lei, accigliandosi.
«Mm... niente, vai avanti»
La ragazzina riprese a sfogliare il quaderno senza seguire alcun ordine. In alcuni punti lo scrittore esultava per una partita di caccia, o per un motto di spirito, in altri era sintetico e triste, altrove si dilungava in lunghe e appassionate disquisizioni sulla natura del dolore.
Tutte cose troppo noiose per due ragazzini come loro.
Così corsero fino alle ultime pagine, e allo scritto finale.

15 giugno 1836

Lei mi ha scritto.
Dice di volermi vedere con urgenza, e ho il fondato sospetto di sapere quale sia la cagion del suo malessere.
Non avrei mai voluto che accadesse.
Ora come dovrei comportarmi? Cosa dovrei fare come marito, come amante, come uomo? Qual è il mio compito in una situazione simile?
La donna con cui tradisco mia moglie aspetta un figlio da me. Un bastardo, che crescerà male in qualunque ambiente. Non avrà un padre, non potrà mai averlo, e se vorrò stare al suo fianco potrò farlo solo economicamente, e solo di nascosto.
Maledizione!
Proprio ora che anche Sakura sembra nello stesso stato...
Lei crede di nasconderlo a tutti, Sasuke forse non se ne è davvero accorto. Ma io non posso fare a meno di notare quanto le sue condizioni di salute siano simili a quelle di lei.
Doppia coltellata.
Certe volte mi chiedo perché Dio ami accanirsi così duramente su di me. Prima mi ha sottratto i genitori, poi mi ha sottratto la donna che amo, ora mi tortura, costringendomi a vedere la felicità di tutti, tranne la mia.
Cosa devo fare?
Dove ho sbagliato?
Me lo chiedo sempre più spesso, ultimamente...
Ma poi ricordo che la mia vita è stata piena anche di tante cose belle. Ho conosciuto Jiraya, Sasuke, anche Sakura, Hinata, e lei. Persone che a modo loro mi amano, pur facendomi soffrire, persone che, ne sono certo, non mi lasceranno mai solo.
Amo la mia natura ottimista, in questi momenti. E ringrazio Dio per avermela donata.
Ora devo andare. Lei mi aspetta, e credo che finirò per fare tutto quello che posso, in suo onore e per nostro figlio.
Ma non mi ritengo affatto uno sciocco.”

E lì il diario si concludeva, con una calligrafia nervosa eppure ancora elegante, di un uomo turbato ma profondamente coerente.
«Come sarebbe a dire?» sbottò la ragazzina, indignata. «Non posso sapere nient’altro? Ho per le mani la storia più tormentata dell’ultimo secolo, e si interrompe così? Insomma, lui la ama o no? E il bambino? Che ne è stato? E la moglie?»
Il bambino accanto a lei si mosse nervoso.
«Di’ qualcosa anche tu!» lo esortò la ragazzina, infuriata. «Cerca nel cassetto, magari c’è altro! Oh, se avessimo le sue lettere...»
«Io forse so dove sono» mormorò il bambino, accucciato sui talloni.
«Cosa? Le hai trovate?»
«No... Mi sa che sono a casa mia»
La ragazzina lo fissò per un lungo istante.
«Mi stai prendendo in giro» disse poi, secca.
«No. Sono tra le cose di mia nonna»
«Non è possibile! Sono le lettere di un nobiluomo! Perché dovrebbero essere nella casa di un fabbro?»
Il bambino scrollò le spalle, grattandosi un braccio.
«E’ che... boh, non lo so, magari mi sbaglio. Però, ecco, io non mi chiamo Naruto per caso. Il mio nome è il nome di tutti i primi figli maschi della famiglia. E’ una tradizione, ecco»
La ragazzina lo fissò stranita. «E quindi?» chiese, irritata. Detestava saperne meno del contadino.
«E quindi, mia nonna racconta una storia» bofonchiò il bambino, a disagio. «Dice che sua madre era figlia di un gentile. Cioè, che mia nonna era sposata con un gentile. Credo. Boh, non lo so bene, ma lei si vanta sempre di avere radici alte. Dice che sua nonna ha avuto una grande storia d’amore con un nobile che era sposato... Ah, quindi forse non si erano sposati. Va beh, comunque dice che aveva questo grande amore, e che poi è morto. E allora quando è nato suo figlio lo ha chiamato come lui. E poi il figlio di suo figlio lo ha chiamato come lui. Ma il figlio è morto giovane, e allora sua sorella, cioè mia nonna, ha avuto un figlio e lo ha chiamato Naruto. Che è mio papà. E poi sono nato io. E ci chiamiamo tutti Naruto. E diceva...» si interruppe, per raccogliere le idee. «Nonna diceva che suo nonno era un amico del duca che poi è andato a Milano. Quindi, non lo so, io poi pensavo che magari quel Naruto è quello che scrive qui... e le lettere sono della nonna di mia nonna»
La ragazzina sbatté le palpebre per un attimo, cercando di mettere in ordine le informazioni ricevute.
«Aspetta... Quindi tu potresti essere il discendente di questo Naruto?» chiese poi, sbalordita.
Il ragazzino scrollò le spalle per l’ennesima volta. «Boh. Non lo so, che ne capisco io? Dico solo che magari può essere... ma non lo so, non è che mi importa poi molto»
«E invece dovrebbe!» esclamò la ragazzina, entusiasta. «Hai sangue nobile delle vene! Magari un’eredità! Potresti avere tu dei cavalli da far ferrare!»
«Davvero?» il ragazzino la fissò, dubbioso. «Ma è passato tanto tempo... magari ci sono altri discendenti... e poi può essere che mi sbaglio»
«Oh. Hai ragione...» mormorò la ragazzina, demoralizzandosi. «Però sarebbe bello!» riprese dopo un attimo, con un sorriso. «Magari sei l’ultimo discendente, magari sei una specie di miracolo!»
Lo fissò, e lui fissò lei, rosso in faccia.
«Beh, non lo so... Sarebbe bello magari, sì... Ma anche se non lo è mi va bene lo stesso!» balbettò, imbarazzato. «Io non sono poi... cioè, non sono abituato ad essere speciale»
La ragazzina tacque, rendendosi conto di essersi lasciate prendere dall’entusiasmo.
«Scusa» mormorò, arrossendo a sua volta.
Immersi in un silenzio imbarazzato entrambi si fissarono le scarpe, finché non sentirono una voce allarmata dal piano di sotto.
«Signorina! Signorina Sofia!»
La ragazzina trasalì, e infilò precipitosamente il diario nel suo cassetto.
«Devo andare!» esclamò agitata. «Oh, quanto mi sgrideranno...»
«Ma torni?» la interruppe il bambino, fissandola intensamente.
Lei si sentì scaldare sotto quegli occhi azzurri, così strani e così belli. E poi fece un cenno che poteva essere sia sì che no.
«Per dove scappi?» si affrettò a chiedere preoccupata, guardandosi intorno.
Il bambino sorrise, furbo. «Questo è il mio segreto. Non sei degna di saperlo»




Quattro anni dopo l’Italia entrò in guerra al fianco della Germania.
Gli Uchiha, blandissimi sostenitori del regime, furono caldamente invitati a lasciare Milano e ritirarsi in provincia.
Laggiù, una ragazza ormai sedicenne, dai capelli di una sfumatura di rosso così insolita da sembrare rosa, si trovò a passare molto tempo e molte estati con un contadino dai capelli biondi come il grano, di qualche anno più giovane.
Un giorno, lui le svelò il passaggio segreto per il quale si era intrufolato nella villa di lei tutti gli anni, giorno dopo giorno. Sorridendo, le disse che finalmente ne era degna.
E poi le chiese di sposarlo, nonostante tutto e tutti, non appena avesse raggiunto la maggiore età.

La loro storia, come quella dei loro antenati, fu raccolta tra diari e lettere segrete.
Ma non ebbero bisogno di lasciare delle carte ai loro figli.
Insieme, finché il tempo glielo concesse, raccontarono parola dopo parola tutto quello che c’era da sapere.










Fine










E per chiudere in bellezza, un capitolo malinconico di vago retrogusto NaruSaku. Ma non fraintendete: questi due non sono Naruto e Sakura, né ci assomigliano! Questi sono un altro Naruto, e una certa Sofia, tutto qui.
Alla fine, questa fanfiction si è fatta quasi originale.
Cooomunque, spero vivamente che il dialetto non sia stato un gran problema per voi. Ho cercato di riprodurre il linguaggio semplice di un bambino che non è stato a scuola, e di renderlo comprensibile anche per chi non è delle mie parti (o, più genericamente, non è del nord). La misteriosa donna della casa chiusa (le case chiuse erano praticamente bordelli, ma immagino lo sappiate) è volutamente rimasta nell'anonimato, perché nella mia testa, ve l'ho detto, questa storia si è fatta originale, e non volevo inserire altri personaggi di Naruto.
Per tutto il resto... uhm, nella mia testa so esattamente com'è la storia di Naruto e Sofia, dettaglio per dettaglio. Ma, salvo eccezionali avvenimenti come terremoti, carestie o amnistie universitarie (trenta politico a tutti!), non credo ragionevole pensare che riuscirò mai a scriverla (e anche se dovessi, sarebbe un'originale).
In ogni caso, sappiate che questi due mi stanno molto a cuore, davvero.
Ora, finalmente, le risposte alle vostre recensioni...
Ma prima, un attimo di pazienza.
Avendo concluso questa longfic, e dal momento che Mala_Mela ha finalmente deciso di mettere la parola FINE (ma anche INIZIO) allo spinoff che mi doveva, credo che la prossima tappa sarà Hope, famigerato sequel di Redenzione! Avrei anche voluto metter mano alla longfic AU che ho sul pc, ma, davvero, quella non so se seriamente proseguirà...
In ogni caso, Hope arriverà. Che lo vogliate o no.

sammy1987: io l'ho detto che preferivo Sasuke nel finale, piuttosto che Naruto. Mi sembra decisamente più triste lui! Comunque ecco, fiction finita, regalo concluso, e ancora buon compleanno! (ormai è come dire "buongiorno")
Talpina pensierosa: un commento misteriosamente lungo e lusinghiero! Grazie Maria, uccidere Naruto è un hobby per me, ma a quanto dite mi riesce bene! E' bello quando le cose che amiamo sono anche quelle che facciamo meglio! <3
bambi88: non abbandonare il nero sentiero! Lascia perdere Kakashi che si allontana verso il tramonto, e concentrati su papà! A proposito di genitori e figli... visto? Sono riuscita a incasinare ancora di più!

Beh.
C'è da dire che rispondere a tre recensioni è quanto mai semplice! XD

Aya
  
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