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Autore: Johnlockistheway    12/01/2015    6 recensioni
[What if, Post Reichenbach, angst e Johnlock]
E se Sherlock si fosse buttato davvero dal tetto? E' caduto, sfracellandosi al suolo. Ed è miracolosamente sopravvissuto. Ma soltanto per metà: è in coma. E John resta al suo fianco, aspettando...

"Sono sospeso.
Sospeso in una situazione su cui non ho controllo, spettatore, ancora una volta, di ciò che accade a Sherlock senza poter intervenire, come quando lui era su quel tetto.
E finché non succederà qualcosa a lui, io rimarrò ad aspettare.
E' una quiete indefinita.
Qualcosa deve rompersi o aggiustarsi perché si spezzi.
Non ci sono vie di mezzo, non ci sono scuse.
Finché Sherlock è fermo a questo stato, è come se anche io lo fossi.
Siamo entrambi, ciascuno a modo nostro, costretti a respirare -lui perché gli è imposto io perché lo fa lui- , in attesa di un cambiamento.
E' come se noi avessimo premuto il tasto pausa, mentre il mondo continua ad andare avanti.
Finché a Sherlock non succederà Qualcosa, nemmeno a me succederà nulla.
Poi, dopo che questo Qualcosa sarà avvenuto, solo allora premerò di nuovo il tasto play, per scoprire se mi sfracellerò con lui o se se riuscirò ad aggrapparmi al bordo e a tirarlo su"
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Note iniziali: Beh, che dire. Ho scritto questa ff perché l'angst non è mai abbastanza. I piccolini di cui scrivo non mi appartengono, sono di Satana Moffat e del suo demoniaco braccio destro Gatiss.
Da questo non ricavo niente se non il mio divertimento e il piacere dei vostri commenti. Have fun!

 

Alla mia John. Perché sopporta i miei scleri. E perché senza di lei questa storia non sarebbe altro che una bozza.

 

Magari un giorno, magari domani, ma non oggi.

 

Sono in piedi davanti al medico, totalmente immobile.
Lo fisso senza nemmeno vederlo, senza sentire più nulla, il cervello che si rifiuta di elaborare le sue parole.
Fratture. Emorragia. Coma. Pochissime possibilità. Vicino alla morte celebrale.
Non ascolto più.
Non voglio sentire, non voglio capire.
Sono passate solo poche ore da quando Sherlock si è buttato da quel tetto.
L'ha fatto davanti a me: si è schiantato contro al suolo, costringendomi a guardarlo.
L'ho visto lanciarsi nel vuoto, l'ho guardato cadere mentre urlavo il suo nome.
Ho ancora il suono delle ossa che si rompono a scricchiolarmi nelle orecchie.
Mi riscuoto appena quando il medico mi posa una mano sulla spalla, chiedendomi se sto bene.
Non rispondo, non lo so nemmeno io come sto.
Non bene, credo.
Sinceramente, non me ne frega nulla.
Prima che possa fermarmi, sento la mia voce chiedere se posso vederlo.
Il mio tono suona disperato perfino a me.
Osservo l'uomo guardarmi: esita, tentenna, non è sicuro.
Come medico so che non potrei, che non avrei il diritto, ma dentro di me lo prego con quel briciolo di forza che mi rimane di lasciarmi entrare.
Il resto, l'ho consumata a pregare per Sherlock, per la sua vita, perché il suo cuore continuasse a battere.
Incredibilmente, mi dice di sì, ma solo per pochi minuti.
Ringrazio e mi sento quasi commosso: a volte dimentico che esiste una sorta di pietà, da qualche parte, nelle persone.
Ma forse questo è perché lavoro con un uomo che vede efferati omicidi e crimini ogni giorno.
Nella mia mente, non uso il passato.
Lavoro, non lavoravo.
Io lavoro ancora con lui.
Mi rifiuto di credere che ci sarà mai un tempo passato per noi.
Non è possibile, non è concepibile, per me.
Si scosta e mi fa cenno di entrare nella stanza.
Mi ci avvio con passi tremanti, ma mi fermo sulla soglia.
Non sono esitante, no: sono totalmente shockato.
Senza fiato, paralizzato.
La visione di Sherlock mi colpisce violentemente, come un pugno nello stomaco, mozzandomi il respiro, bloccandomi.
E' steso sul letto, ci sono tubi e flebo in un tale numero che a stento capisco cosa sia collegato a cosa.
Ci sono parecchie bende, gessi, lividi e graffi che decorano il suo corpo altrimenti immacolato-se non per i pochi nei-come schizzi di colore fatti su una tela da un pittore ubriaco.
Spiccano con violenza sulla pelle mortalmente pallida, macabre testimonianze di un volo finito male.
Quello che fa più male, forse, è il tubo che ha infilato in gola.
Sono un medico, so cosa è, so quale è il suo nome, come si usa, come applicarlo, ma in questo momento non mi importa.
L'unica cosa a cui riesco a pensare è il fatto che il suo respiro dipende da quello.
Che il lieve movimento che posso scorgere-l'alzarsi e l'abbassarsi ritmico del suo petto-dipende solo da quella macchina.
Improvvisamente, mi rendo conto che la sua intera vita dipende da quelle macchine e mi sento spezzato dal peso di questa cosa.
Sherlock non è più Sherlock.
Quello non è lui.
E' un ammasso di carne e ossa, tenuto insieme da bende e punti di sutura, fatto funzionare da macchinari che sono come parte di lui, data la loro importanza.
Mi vengono in mente i Cyborg di quei film di fantascienza che da bambino mi piacevano tanto e mi sento male.
Forse perché mi rendo conto che io stesso gli ho detto “sei una macchina” e ora, crudelmente, mi ritrovo ad avere di colpo ragione, o quasi.
Non riesco a credere che sia avvenuto solo poche ore prima.
Che poche ore fa ci fosse Sherlock, con i suoi ricci che nel loro disordine erano perfetti e i suoi completi eleganti e il cappotto; Sherlock con la mente che macchinava pensieri che non mi era dato sapere e guardava davanti a sé con aria concentrata, con quei suoi occhi impossibili, Sherlock che correva e parlava ed era vivo; e che ora ci sia... questo.
Cerco di convincermi che quella macchina stia pompando ossigeno anche nei miei polmoni e tento di riprendere a respirare, ma è una strana sensazione quella che provo ora.
Non mi sembra ossigeno quello che respiro.
Non mi sembra nemmeno di respirare.
Boccheggio, credo, l'aria sembra come rarefatta e la testa mi fa male.
Quando si annega, si tende a tener chiusa la bocca il più a lungo possibile.
La testa brucia, i polmoni bruciano, ma fino alla fine ci si sforza di non farlo, di non lasciar entrare l'acqua.
Ma poi, alla fine, succede.
La bocca si apre, è un riflesso fisiologico che non si può evitare, e il liquido entra nei polmoni.
Mi sento esattamente così: come se, per riflesso, alla fine, avessi riaperto la bocca cercando aria.
Solo che io non sono immerso nell'acqua.
E' come annegare, solo senza morire mai.
Perché davvero, non c'è acqua intorno a me, ma io boccheggio, e quella che respiro non è altro che la realtà.
Mi avvicino.
Lo faccio perché anche se non so se sto andando verso la riva o sempre più al largo, ho bisogno di vederlo.
Cammino, passo dopo passo, fermandomi accanto al letto.
In un agghiacciante flash, rivedo il rosso del suo sangue attorno a lui, sento il marciapiede sotto le scarpe e di riflesso devo sedermi di schianto per non cadere.
Senza pensarci, allungo una mano e gli sfioro la punta delle dita.
Questa volta, nessuno mi ferma e non riesco a trattenermi dal prendergli delicatamente la mano.
Le sue dita sono fredde, abbandonate contro il mio palmo, inerti.
Riesco a sentire i piccoli calli che ha sulla punta delle dita, che sono lì per colpa del violino.
Non che sia abituato a tenere la mano a Sherlock, per saperlo.
Gliele accarezzo con il pollice, così piano che a stento lo sfioro.
Mi ritrovo a chiedermi come sarebbe stato farlo con lui cosciente e mi rendo conto che ci sarebbe voluto così poco, nelle sere passate assieme sul divano, quando Sherlock era troppo stanco per obiettare sulla scelta dei programmi, per fare quel piccolo gesto e penso che forse lui avrebbe stretto appena le dita, piano, fino a far intrecciare le nostre mani.
O forse, semplicemente, si sarebbe scostato.
Non lo so.
Non ho mai definito con Sherlock questa cosa.
Ci sono stati momenti in cui lo sentivo distante come non mai e come nessun altro e altri in cui, pur non facendo nulla di particolare, non mi sono mai sentito così intimo con una persona.
Di occasioni per chiarire, forse, ora che guardo indietro, ne abbiamo avute fin troppe.
Solo che io sono etero e lui... lui chi lo sa, non ho mai creduto avesse interesse per queste cose, non ne ha mai dimostrato.
O forse no.
Non lo so più.
Non sto a domandarmi il perché di questi pensieri.
Non ho il tempo, adesso, di mettermi a chiarire questo punto, di guardarmi dentro e scendere a patti con questa cosa.
Quello che mi chiedo, è se mai lo potrò sapere.
Se mai quella mano potrà prendere una decisione, di nuovo.
Pagherei tutto ciò che ho per avere una risposta ora, per vederla muoversi, anche se è irrazionale e stupido pensare che lo possa fare.
Sperò che la avrò.
Magari un giorno.
Magari domani.
Ma non oggi.
Questo lo so.
Al futuro, tuttavia, fa male guardare.
Non dopo quello che mi hanno detto.
Sono un medico e conosco le statistiche.
Quante possibilità ci sono per un paziente ridotto come lui?
Poche.
Troppo poche.
Dannazione.
Non è giusto.
Voglio più possibilità.
Più ore.
Più giorni.
Più anni per lui.
Voglio più dannati numeri per Sherlock Holmes.
Mi schiarisco la voce.
Vorrei dirgli qualcosa: magari mi sente, magari no, ma la verità è che non lo posso sapere.
Quello che so, è che se io fossi al posto di Sherlock, se potessi sentire, vorrei delle parole da lui.
Prendo un profondo respiro.
“Hey” dico dopo un attimo, in un soffio.
Mi blocco di colpo per mezzo secondo.
“Ciao. Sono... sono John. Ecco io... io volevo solo...”
Non so cosa dirgli.
Non voglio riversargli addosso quello che sto provando, ma è come se quelle parole avessero sciolto un nodo.
“Senti, Sherlock, io ero così... così solo. E tu... tu hai fatto così tanto per me. Ti devo molto. Davvero. Ma c'è... c'è un'ultima cosa. Un ultimo miracolo, Sherlock. Per me. Non... essere...”
Esito un attimo per scegliere la parola.
Alla fine, opto per l'unica che, sebbene pesi di più, esprime meglio come mi sembra.
“...morto. Non così. Ti prego. Non tu”
Ho sempre pensato che la condanna peggiore per uno come lui fosse sviluppare una malattia che colpisse il cervello.
Non ho mai pensato alla possibilità che potesse praticamente morire restando in vita.
Conosco Sherlock, ormai meglio di me stesso.
In coma per sempre?
Lui?
Posso giurare di sentirlo dirmi “piuttosto la morte”.
Mi rendo conto che, se mai avessi affrontato il discorso con lui, posso quasi essere certo che se ne sarebbe uscito con una promessa da parte mia di ucciderlo.
Mi rendo anche conto che se mai non ci fossero più speranze, probabilmente esaudirei quel desiderio che non ha mai espresso.
Riesco a farmi paura da solo per questi pensieri.
Ma io conosco Sherlock, meglio di tutti, e non lo condannerei mai a questo.
Ma per ora, ho ancora speranza che mi basta per andare avanti.
No.
Non è vero.
Ma me la farò bastare.
“Ti prego” ripeto.
Supplico, più che altro.
“Ti prego, Sherlock. Torna. Torna da me”
Sulle ultime parole, mi si spezza la voce.
So che non mancherebbe solo a me.
C'è la signora Hudson, che lo ama come un figlio, e Greg, che lo considera un amico, e Molly, la cara, piccola Molly, innamorata di lui da anni.
Suo fratello Mycroft, perché in fondo so che gli vuole bene.
E i suoi genitori, ovviamente.
Ma, egoisticamente parlando, mi sento come se fossi io quello che soffrirebbe più di tutti.
Non so se sia vero.
Resta il fatto che io sono l'unico ad aver assistito a quello che è successo.
Questo mi fa già soffrire abbastanza.
Mi chiedo perché abbia scelto me.
Perché abbia voluto mettermi davanti a quella scena.
Magari è stato un caso.
Sherlock direbbe che raramente l'universo è così pigro.
Mi chiedo che cazzo di senso dell'umorismo abbia l'universo per aver ridotto proprio Sherlock in quella maniera.
Mi chiedo se si sia divertito a farmi arrivare giusto in tempo per lo spettacolo e se per caso io abbia fatto qualcosa di male per giustificare il fatto che sia così stronzo con me.
Valuto che no, non ho fatto nulla di davvero orribile.
Quindi, concludo, deve avercela con me.
Universo, cordialmente, vaffanculo.
Rimane sempre, comunque, il fatto che Sherlock mi abbia chiamato, che mi abbia chiesto di restare lì a guardare.
Ma non importa.
Non voglio fargliene una colpa.
Magari un giorno.
Magari domani.
Ma non oggi.
Avrò tempo per odiarlo quando potrò spaccagli la faccia appena rimette piede in casa.
Per ora, mi limito a scostare un ricciolo, uno dei pochi rimasti decenti in quell'ammasso di capelli, da un occhio.
Dietro di me, sento qualcuno richiamarmi.
Mi alzo dalla sedia come un automa.
Trattengo ancora un attimo la mano di Sherlock tra le mie, prima di lasciarla scivolare di nuovo sul materasso.
Gli lancio un'ultima occhiata e, fintanto che posso, continuo a fissarlo, camminando all'indietro.
Il medico chiude piano la porta.
Continuo a guardare fino a che davanti a me non c'è solo la sua superficie con stampato il numero 221.
Per una frazione di secondo, mi ritrovo a pensare se per caso quella diventerà la nuova casa di Sherlock.
Universo, seriamente, il tuo senso dell'umorismo fa schifo.
Rimango immobile per non so quanto.
Pensavo che vederlo mi avrebbe fatto stare meglio.
La verità è che sono uscito da quella stanza con le guance bagnate di lacrime -non so nemmeno quando ho iniziato a piangere o se mai ho smesso da quando l'ho visto in cima a quel tetto- ,il morale a terra e il cuore -già dilaniato- completamente distrutto.
E ancora non riesco a respirare.

*


I giorni passano.
Spendo la maggior parte del mio tempo in ospedale, seduto fuori dalla sua stanza.
I medici arrivano, entrano e se ne vanno.
Solo camici bianchi che non portano nulla, né notizie buone né cattive.
Le infermiere vanno e vengono, mi lanciano qualche sguardo.
Qualcuna ha pietà di me, mi porta un caffè.
Sorrido, per quanto mi sia possibile, ringrazio.
Ho imparato a dormire sulle sedie, sebbene siano scomode.
La mia schiena protesta, ogni giorno sempre di più, ma niente mi smuoverà da li.
Mi alzo solo per mangiare un boccone ogni tanto.
Torno a casa il minimo necessario.
Una doccia, cambio abiti, a volte qualche ora di sonno a letto.
A volte ho gli incubi e mi sveglio urlando il suo nome.
Gli altri giorni, sono troppo stanco perfino per quello.
E poi torno di nuovo in ospedale.
Ignoro i giornalisti che sono fuori dal 221B.
Lestrade ha la buona grazie di allontanarli almeno dall'ospedale.
Per gli altri, purtroppo, non può fare nulla.
Capisco finalmente cosa intendeva Sherlock quando aveva detto a quella donna “lei mi repelle”.
Lo capisco, perché mi rendo conto che è lo stesso che provo verso di loro.
Provo repulsione, disgusto e rabbia.
Perché il mio migliore amico potrebbe morire da un momento all'altro.
Perché io non lo posso vedere.
Perché loro credono che lui abbia mentito.
E perché del mio dolore a loro non importa nulla.
Vogliono solo ottenere lo scoop del giorno e devo trattenermi dall'urlargli che sono tutti dei bastardi e di lasciarmi in pace.
Già mi sento come se camminassi in mezzo all'inferno, non ho bisogno che qualcuno attizzi il fuoco.
Ma mantengo il contegno, li ignoro e passo avanti.
Per ora, che pensino quello che vogliono.
Avremo tempo per mettere a posto anche quello, se vorremo.
Magari un giorno.
Magari domani.
Ma non oggi.
Sarah fa finta di non notare le mie assenze, ma so che non potrà farlo per sempre.
A dire il vero, non me ne importa nulla.
Il mio lavoro non mi interessa, in questo momento.
Non mi avvicino a Sherlock da una settimana e due giorni.
Dopo quella volta, non mi hanno più fatto entrare nella sua stanza.
E come se non bastasse, nessuno mi informa.
Non un commento, un'opinione, niente.
So che a Mycroft basterebbe una parola per farmi passare e se non fossi meno preoccupato spenderei più tempo a maledirlo mentalmente.
La lontananza da Sherlock mi fa soffrire.
Pochi metri e una porta ci separano, ma non mi sono mai sentito così distante da lui.
Mi chiedo se sente qualcosa.
Se può udire i medici parlare o se prova dolore.
Mi domando se riesce a rendersi conto di dove si trova e delle sue condizioni.
Quello che mi tormenta maggiormente, tuttavia, è altro.
Ciò che mi fa male, è il chiedermi se Sherlock abbia paura.
Io non so quel che sente, nessuno lo sa.
Vorrei stare vicino a lui e stingergli la mano, parlargli.
Vedere come sta è una priorità.
Stargli accanto e portargli conforto è un'urgenza.
Mi fa male pensare che forse ora Sherlock prova paura o dolore e io non sono con lui.
Ogni tanto riesco a intravedere qualcosa, mentre i medici entrano ed escono.
Una mano, la macchia corvina dei capelli sul cuscino, coperte.
Un'infermiera piuttosto giovane, ieri, è uscita e ha lasciato la porta aperta per pochi secondi prima di chiuderla molto lentamente, per permettermi di vederlo.
Le sono grato per questo.
Sherlock è ancora mortalmente pallido, ma i lividi sono leggermente più chiari.
Le bende sono intonse e sarebbe perfino facile credere che sotto non ci siano ferite.
E' sempre intubato.
Mi sono ritrovato a pensare alle sue povere labbra, probabilmente secche e screpolate.
Poi la porta si è chiusa.
Lei mi ha sorriso.
Non so cosa pensi, ma dal suo modo di guardarmi me ne sono fatto un'idea che credo sia giusta: lei crede che siamo una coppia.
Molti lo credono.
Non mi interessa cosa pensano gli altri.
Non più.
Non ora, almeno.
E poi, nemmeno io so più cosa siamo.
Senza contare il fatto che, in un certo qual modo, hanno ragione.
A modo nostro, noi siamo una coppia.
Lui è il detective e io il blogger.
Lui è il genio e io la sua spalla.
Lui è quello che ha le idee brillanti e io... io sono il suo conduttore di luce.
Sherlock mi ha definito così.
Da quel che ho capito, io indirizzo il suo genio nella direzione giusta.
Pensare a questo mi fa sentire ancora più dispiaciuto di non essere con lui.
Conduttore di luce: è il mio compito e dovrei essere a svolgerlo accanto a lui.
Ma nessuno mi fa entrare, nessuno dice nulla.
Questo silenzio mi sta uccidendo.
Mycroft, ti odio.
Molly passa ogni tanto, saluta timidamente, si siede, guarda la porta.
Non dice mai niente.
Non cerco di consolarla perché non ho conforto nemmeno per me stesso, figuriamoci per gli altri.
Lestrade passa una volta e mi chiede se voglio uscire con lui la sera.
So che cerca solo di tirarmi fuori da lì, ma rifiuto cortesemente.
Il mio posto è dove c'è Sherlock.
La signora Hudson, quando mi vede passare a casa, mi chiede sue notizie.
Io scuoto il capo.
Lei mi abbraccia e io ricambio.
So che ha paura e ne ho anche io.
Mycroft non si vede.
Il mio odio verso di lui cresce sempre di più.
So che non dovrei, ma ho bisogno di una valvola di sfogo.
Non posso scaricare anche la rabbia addosso a Sherlock, no, per lui ho già troppe emozioni.
Alcune chiare e altre che preferisco ignorare per ora, ma comunque sono tante.
Troppe.
Non ho più spazio per provare altro verso di lui.
Ma ho comunque bisogno di dare la colpa a qualcuno, di scaricare la rabbia.
Quindi scelgo Mycroft.
Forse perché credo che lui sapesse.
Non poteva non avere almeno intuito quello che stava per succedere.
Forse perché so che è colpa sua, in parte, se quell'uomo è riuscito a spingere Sherlock a questo.
Forse perché mi lascia qui fuori, quando potrebbe almeno consentirmi di stare vicino al mio migliore amico, o quantomeno potrebbe dire ai medici di dirmi qualcosa.
E forse anche perché non lo viene a trovare.
I genitori di Sherlock passano una sera.
Mi salutano, scambiano due parole con me.
Sembrano così... ordinari.
Il signor Holmes mi sorride nervosamente.
E' incredibile quanto somigli a Sherlock.
Ha gli stessi zigomi e non mi serve sforzarmi per vedere il viso del mio amico nel suo.
Lei, invece, mi lancia uno sguardo a metà tra il curioso e l'intenerito.
E' una donna spigliata e capisco subito da dove Sherlock ha preso alcuni modi di fare.
Suppone quello che suppongono tutti.
Ancora una volta, non mi interessa.
Poi entrano nella stanza.
Io rimango fuori.
Sono consapevole che le cose vanno esattamente così, ma la sento come un'ingiustizia.
Annaspo ancora.
I miei polmoni non collaborano.
Ormai la mia condizione di annegato vivente mi è familiare.
E continuerà a esserlo, suppongo.
Non respirerò di nuovo molto presto.
Non finché non saprò qualcosa di più.
Ma la stanza 221 rimane chiusa.
Ormai quei numeri mi sono più familiari di quelli sul portone verde a Baker Street.
E se quella è la nuova casa di Sherlock, il posto fuori dalla stanza inizia a diventare casa mia.

*

Gli scorsi cinque giorni li ho passati nell'inferno più totale.
Nessuno ha voluto dirmi nulla, come al solito.
I giornalisti continuano a seguirmi e pubblicano orribili articoli su Sherlock.
Lo chiamano il “finto genio” e mi verrebbe voglia di farglieli ingoiare quei giornali.
Il mio soprannome varia.
Il più usato è “il fedele John Watson”.
Qualcuno di loro mi compatisce, qualcuno mi deride.
Cerco di passare sopra anche a quello.
La verità è che non mi importa nulla di quello che pensano di me.
Quello che fa male è ciò che pensano del detective.
Vorrei urlargli contro e chiedergli se non ne hanno abbastanza.
Se non hanno già fatto abbastanza danni.
Ma non lo faccio.
Non voglio rendere la situazione ancora più complicata.
Qualcuno di loro mi offre soldi per un'intervista.
Sono ormai al limite.
Stamattina, quando esco di casa, non ce la faccio a non dirlo.
Gli urlo che Sherlock non è un bugiardo, che non ha mai mentito.
E di lasciarmi in pace.
Dopodiché, me ne vado.
Arrivo in ospedale, entro, prendo l'ascensore.
Non le scale.
Le prendevo, fino a qualche giorno fa.
Ma più passano i giorni e più la gamba mi fa male.
Ha ricominciato dopo la prima visita a Sherlock, ed è andata peggiorando.
Ho iniziato a zoppicare di nuovo.
In due settimane, sono tornato indietro alla zoppia che avevo quando Sherlock mi ha conosciuto.
Mi sono ostinato a ignorarla, ma ormai non ce la faccio più.
Sono stanco.
Stamattina, per la prima volta dopo diciotto mesi, ho dovuto riprendere il mio vecchio bastone.
Le porte si aprono.
Zoppico fino alla camera 221, che come al solito è chiusa.
Mi accomodo sulla sedia, stendendo la gamba con una smorfia.
Ancora non ho notizie di Sherlock.
Ogni mattina, quando passano i medici, mi alzo.
Alcuni mi guardano, altri passano direttamente davanti a me.
Ma nessuno dice nulla.
La scena si ripete quando escono dalla stanza.
E poi per le successive visite.
Sempre.
A volte li tallono per tutto il corridoio, supplicandoli di dirmi qualcosa.
Ma inevitabilmente non lo fanno mai.
Mi sento disperato.
Ho bisogno di respirare, ne ho assolutamente bisogno, ed è come se loro mi rubassero l'aria.
Stamattina, la scena si ripete, immancabilmente.
Arriva.
Mi alzo.
Entra.
Mi risiedo.
Esce.
Mi alzo di nuovo.
Gli zoppico accanto per il corridoio.
“La prego. Mi dica qualcosa. Qualsiasi cosa. Anche solo due parole. Non voglio i dettagli, non necessariamente. Mi dica solo come sta. Per favore. La prego. Ho bisogno di saperlo. Per favore!”
Lui non dice nulla e scende le scale.
Torno indietro, tirando su con il naso.
Non ho bisogno di asciugarmi le lacrime: non piango dal giorno in cui sono entrato.
E' come se non avessi nemmeno le forze per fare quello.
Mi sento svuotato, completamente inutile.
Tiro un pugno al muro, urlando.
L'infermiera mi guarda.
Dice che se non mi calmo mi farà andare via.
Chiedo scusa.
La verità è che penso di avere il diritto di sentirmi così.
E che forse, quel pugno, se lo meritava qualcuno.
Dritto in faccia.
Ma sto zitto.
Mi risiedo e mi preparo alla mia veglia.
Sarah sale al mio piano e mi supplica di tornare al lavoro.
I primi giorni capiva.
Adesso non più.
E' incredibile come la gente, passate due settimane, riesca a pensare che puoi semplicemente smettere di soffrire e tornare alla tua vita.
Non funziona così.
Non c'è un interruttore da qualche parte da poter spegnere per smettere di colpo di sentire dolore.
Non c'è un limite di tempo.
Non puoi semplicemente pensare “oh, hey, sono passate due settimane. Adesso basta. Torno alla mia vita”
La verità è che il mio dolore non è cresciuto, né si è attenuato.
Da quando l'ho visto su quel tetto è come se una mano avesse artigliato le unghie nel mio petto, conficcandole dritte nel cuore, e da lì non si sia più mossa.
Non ha allentato o aumentato la presa.
E' rimasta lì, costante.
Vederlo non ha aumentato il dolore.
Ha solo fatto in modo che si palesasse completamente.
La verità è che ho smesso di respirare da quando ho risposto al telefono.
Solo che prima non me ne ero accorto.
“Vattene. Non tornerò al lavoro”
E' l'unica cosa che mi esce.
Lei mi guarda, scuote la testa.
Dice che non può permettersi un medico che non lavora per più di due settimane.
Capisco cosa vuole dire.
Non faccio nulla per fermarla.
Mi licenzia.
E se ne va.
Direi che la mattinata non può andare peggio se mi importasse qualcosa.
Solo che non sento nulla.
Le sue parole non mi hanno fatto né caldo né freddo.
Licenziato è come annegato vivente.
Una condizione che mi si appiccica addosso, ma che non significa nulla.
E' una cosa con cui devo convivere, ma non è la più importante.
Le uniche condizioni che contano sono quelle di Sherlock.
Qualche ora dopo, passa Lestrade.
Mi dice che vuole parlarmi e so immediatamente che non è una visita di cortesia.
Lo so perché, dopotutto, io sono l'unico testimone.
Lancio un'occhiata dubbiosa alla porta prima di seguirlo lungo il corridoio.
Evidentemente anche lui ritiene che due settimane siano a sufficienza perché io possa parlarne.
Quando esco dalla zona di terapia intensiva mi trovo davanti l'ultima persona che mi aspetterei di vedere.
Sally Donovan.
So che le cose sono partite da lei.
Lo so perché Anderson è venuto a parlarmi, mi ha raccontato tutto e si è scusato.
Piangeva, in ginocchio di fronte a me.
Non credo di averlo mai visto così sconvolto.
Mi ha detto che gli dispiace, me l'ha ripetuto almeno venti volte.
Avrei voluto urlare e spaccargli la faccia ma per qualche assurdo motivo non me la sono sentita.
Forse perché ho capito che era sincero nel suo pentimento.
Non l'ho perdonato.
Non del tutto almeno.
Non sono io quello che potrà dargli il perdono, non da solo.
Ma forse, insieme, lo faremo.
Magari un giorno.
Magari domani.
Ma non oggi.
Ogni tanto lo vedo, in fondo al corridoio.
Passa lì, indugia qualche minuto, e poi se ne va.
A volte fa qualche passo, ma poi torna indietro.
Non lo richiamo mai.
E' giusto che si senta così.
Sono stato un medico e un militare.
Per anni ho guardato in faccia alla sofferenza di altre persone, spesso ingiustificata, e ho imparato a distinguere tra ciò che ci si merita e ciò che è ingiusto.
Qualcuno dice che nessuno merita di soffrire.
La verità è che sebbene spesso siano gli innocenti a pagare -e Sherlock lo era, maledizione, era innocente, lo è tutt'ora- e a provare dolore, qualche volta anche chi se lo merita soffre.
E' una sorta di contrappasso naturale.
A volte funziona, la maggior parte delle volte no.
Ma Sherlock sta pagando per la loro diffidenza, io sto pagando per la loro diffidenza e quindi la verità è una sola: se lo merita.
Si merita tutto il tormento e il dolore che prova.
E poi, non saprei nemmeno cosa dire.
Non potrei portargli pace.
Perché la colpa è sua, in parte, e non potrei mai dirgli che non è così.
Quello che gli serve, è che Sherlock viva.
E' quello che serve anche a me.
Sally, invece, non è venuta a scusarsi e non sembra intenzionata a farlo.
Se ne sta lì, mi fissa, non dice nulla.
Improvvisamente, sento una rabbia cieca invadermi.
Rivedo il corpo di Sherlock in quel letto, circondato da macchine e tubi, e poi lo rivedo a terra, vedo il suo sangue, e la vista mi si appanna.
Vedo tutto rosso e non posso fare a meno di pensare che forse, senza di lei, Sherlock non si sarebbe buttato.
Se lei non avesse dubitato di lui, Moriarty non avrebbe completato il suo piano.
Lui voleva screditare Sherlock, ma è stato così furbo da fare in modo che fossimo noi stessi a distruggerlo.
Ma è lei che è stata la prima.
Ha dato inizio a tutto.
E forse, ora, le cose sarebbero diverse.
Sento le nocche impattare contro qualcosa e un dolore che mi attraversa la gamba.
Due braccia si chiudono attorno a me, trattenendomi.
Sbatto le palpebre, rapidamente.
Ciò che torno a vedere, non è altro che il risultato di un gesto che non ho nemmeno programmato.
La donna sta appoggiata al muro, di spalle, una mano sul naso sanguinante.
Lestrade mi tiene fermo, anche se io non faccio nulla per muovermi.
Mi rendo conto che le ho spaccato il naso.
Lei mi guarda.
“E' colpa tua...” mormoro, come se questo bastasse a giustificarmi.
Sally, incredibilmente, abbassa gli occhi.
China la testa e senza dire una parola raccoglie la giacca e se ne va.
So per certo che non sporgerà denuncia.
Greg mi lascia andare e devo appoggiarmi contro al muro mentre lui recupera il mio bastone.
Devo averlo lasciato andare quando mi sono buttato contro di lei.
Mi guarda ed esita, ma alla fine mi fa le sue domande.
Rispondo con tono piatto, senza emozioni: se mi lasciassi trascinare, so che non parlerei più.
Alla fine mi lascia andare e io torno al mio posto fisso, fuori dalla sua stanza.
A volte mi avvicino e sono quasi tentato di aprire la porta.
Mi ferma solo il pensiero che, se mi scoprissero, non potrei nemmeno stare più lì.
La sera arriva senza che nemmeno me ne accorga.
Sono esausto.
Mi capitava delle sere, dopo i nostri casi, di essere totalmente sfinito.
Ma questo è uno stanco diverso.
E' lo stanco non di chi ha vissuto una giornata troppo intensamente, ma di chi non riesce più a vivere.
Le ore passano, ma spesso non le sento.
A volte i secondi pesano come macigni, altre volte le giornate passano come un film mandato avanti veloce.
Mi perdo spesso a pensare a noi.
Con noi intendo la nostra vita, i casi, il resto.
Non mi permetto di pensare a noi nell'altro senso, nel senso che intendo tutti.
Ci penserò, forse.
Magari un giorno.
Magari domani.
Ma non oggi.
Non finché non so se Sherlock è una macchina, o un uomo.
In cuor mio, la verità tanto la so già.
Un conto, però, è saperla.
Un altro, è guardarla in faccia.
E anche se so che questa non cambierà mai, qualunque cosa sia Sherlock, decido per ora di non pensarci.
Questa sera passa un medico diverso dalle altre sere.
Lo riconosco lo stesso.
E' l'uomo gentile che mi ha lasciato vedere Sherlock.
Ci impiega di più degli altri, sta nella sua stanza così a lungo che inizio a preoccuparmi.
Quando la porta si apre, scatto in piedi.
Lui la richiude dietro di sé e mi guarda, immobile.
Sto per aprire la bocca e chiedere qualcosa, ma un cenno della sua mano mi ferma.
Capisco che è combattuto, ma sono memore del fatto che, due settimane prima, lui ha salvato Sherlock.
Che me l'ha lasciato vedere.
Mi sento finalmente in presenza di un altro essere umano e non posso fare a meno di guardarlo speranzoso.
Alla fine, dice solo una parola.
Una soltanto e poi se ne va.
Ma è tutto quello che mi serve.
Scoppio in lacrime, lasciandomi scivolare a terra.
Non è una cosa così buona, non del tutto almeno, ma è già qualcosa.
E' un piccolo passo, piccolissimo, ma mi ripeto che va bene, Sherlock, va bene.
Un passo alla volta.
E ce la possiamo fare.
Continuo a piangere, senza ritegno.
Non mi interessa se gli altri mi fissano.
Non mi importa se pensano che sono pazzo.
Quello che conta, è solo quella parola.
Solo quella.
“Stabile”

*


Passano altri due giorni prima che mi lascino vedere Sherlock.
Ripensandoci, però, sebbene il dolore non se ne sia andato, sono stati relativamente più facili.
Sapere che Sherlock, nonostante la sua condizione difficile, è stabile, mi ha reso più calmo.
Non sereno, calmo.
E' quel genere di calma diffidente che mi ricorda i giorni passati in Afghanistan.
Quel genere di calma che ti accoglie dopo un attacco nemico, ma ti lascia lì, in sospeso, sempre con un onnipresente dubbio: è finito o è solo una tregua momentanea?
In questo momento, non me la sento di dire che è finita.
Non è così.
E' una tregua, però.
Momentanea, ma pur sempre una tregua.
Momentanea, ma che potrebbe anche durare.
La gente è convinta che quando sei un medico, è più facile affrontare la malattia di un parente, di un amico, o la tua.
Perché sei un medico e quindi sai quel che i medici dicono.
Parli il loro linguaggio e non c'è bisogno di aspettare che qualcuno ti spieghi questo o quello, sei già perfettamente conscio di tutto e puoi occuparti meglio di chi sta male.
La gente non sa quanto si sbaglia.
Sono un medico e sebbene non abbia un quadro clinico specifico del mio migliore amico mi sono bastate semplici parole per delinearne uno nella mia testa generale ma abbastanza completo.
Sono un medico e so esattamente la gravità delle sue condizioni, le complicazioni che potrebbero insorgere, più o meno gravi che siano, nonostante la sua situazione di apparente stabilità, i vari stadi del risveglio che potrebbe passare o non passare o passare in parte, i problemi fisici che potrebbero insorgere dopo un risveglio e le possibilità che siano permanenti o meno con annesse tutte le possibili difficoltà che Sherlock potrebbe trovarsi davanti e ultimo ma non meno importante le statistiche.
Conosco ogni singola variabile, ogni singolo scenario che di minuto in minuto potrebbe prendere forma per lui e non è un sollievo, per niente.
E' terrificante.
Quando non sei un medico, e ti viene detto che il tuo caro è stabile, ti senti sollevato, pensi che il peggio sia passato e fino alla prossima notizia te la passi meglio.
Quando invece lo sei, ti senti a tua volta sollevato, ma è un sollievo inquieto e non riesci a concederti il pensiero che il peggio ormai sia alle spalle.
Perché nella tua testa, anche se cerchi di scacciarli, ogni tanto riaffiorano pensieri e ipotesi su quel che potrebbe succedere e, immancabilmente, il quadro clinico peggiore ti si fissa nel cervello, come un tarlo, impedendoti di stare meglio, almeno per un po'.
Molti penserebbero alla morte, come cosa peggiore.
Nel mio caso, non è così.
Nonostante abbia cercato di tenermi alla larga da quei pensieri, non ho potuto non ricollegare una delle poche immagini che ho di Sherlock ora alla terrificante idea che il suo cervello muoia.
Che di lui non resti altro che un contenitore vuoto, costretto a vivere senza poterlo davvero fare.
L'idea della morte stessa, invece, mi rincuora.
Sarebbe dura.
Ma sarebbe la cosa giusta.
E so che Mycorft la penserebbe come me.
Un'altra idea che invece mi lascia agghiacciato è la possibilità che Sherlock si svegli, ma che non possa riprendersi completamente a livello fisico.
E' la situazione opposta a prima, ma egualmente terribile.
La sua mente geniale e iperattiva intrappolata in un corpo non in grado di obbedirgli.
Sherlock è sempre stato, dal mio punto di vista, uno spirito libero.
Ha bisogno di muoversi, di toccare, di esplorare, di vedere.
Il suo cervello ha costantemente bisogno di nuovi stimoli, ma anche il suo corpo è messo allo stesso modo.
A volte Sherlock semplicemente crolla dopo giorni per la stanchezza, o non si muove per intere ore quando è sprofondato nel suo palazzo mentale, ma non è materialmente capace di stare fermo.
Se fossi in un romanzetto rosa, farei qualche paragone sdolcinato.
Direi che Sherlock è come il vento, che a volte ha i suoi momenti di calma ma poi deve sempre tornare a soffiare; direi che è come il fuoco che ha sempre bisogno di nuova legna per bruciare.
Ma non sono in un romanzetto rosa.
Sono un dannato medico e il suo dannato migliore amico.
E se ci penso, l'idea di lui immobile a Baker Street, senza poter fare i suoi esperimenti, suonare il violino o correre dietro ai criminali, mi scava dentro con le unghie, facendomi venire voglia di urlare.
Non mi permetto di pensare alle suppliche che potrei leggere nei suoi occhi in quel caso, perché fa male pensarci, fa male anche solo prendere in considerazione questa idea e anche perché fa male ripensare ai suoi occhi.
Mi mancano, gli occhi di Sherlock.
A dire il vero, mi manca tutto di lui.
Ad ogni modo, no, essere un medico non mi è stato di conforto in questo tempo.
Essere un medico non ti lascia un po' più di respiro ad una notizia non cattiva, al contrario.
Ti lascia solo con più dubbi e meno risposte.
E' per questo che in questi due giorni ho cercato di dimenticarmi di esserlo, anche se con scarsi risultati.
E' buffo, ma quello che siamo effettivamente ci rende... noi.
Non mi sono mai chiesto che cosa sarei senza essere questo.
Sono John Watson, ex medico militare, blogger di un consulente investigativo.
Se tornassi indietro nel tempo e cambiassi la mia scelta, potrei ancora dire di essere me?
La risposta non la so, non la conosco, nemmeno mi interessa.
Quel che conta, è che per quanti ci provi, non posso non essere un medico.
Quello che posso fare, invece, è cercare di far pendere la bilancia dal lato dell'amico.
Con quel pizzico di calma in più, sono tornato a casa.
Ho detto alla signora Hudson di quel che mi era stato riferito, ma un qualcosa mi ha impedito di mettere nella mia voce un'enfasi speranzosa.
Ho cercato di spiegarle che stabile è solo una condizione.
Come licenziato e annegato vivente, in effetti.
Ma è mutabile e, sopratutto, incerta.
Lei ha capito.
Tuttavia, ciò non le ha impedito di abbracciarmi come al solito, ma con più gioia.
“Si sistemerà tutto”, mi ha detto.
Ho sorriso, ma non ho risposto.
Ci spero.
Spero che torni tutto come prima.
E magari sarà così.
Magari un giorno.
Magari domani.
Ma non oggi.
Ho dormito qualche ora in più.
Me lo sono concesso, e anche se non avessi voluto concedermelo non ce l'avrei fatta a stare in piedi così un altro giorno.
Sono tornato in ospedale, questa volta il pomeriggio.
La sera, sono tornato a casa e ho dormito ancora.
Dormire fa bene.
Mi rimette in forze e mi impedisce di pensare.
Gli incubi, per una notte, mi hanno dato tregua.
Ho paura che anche questa sia solo una tregua silenziosa e che ritorneranno presto.
La gamba, invece, ha continuato e continua a fare male.
Quando sono tornato, questo pomeriggio, mi hanno finalmente detto che lo posso vedere.
Ed eccomi qui, fermo davanti alla porta 221.
Mi chiedo se vederlo mi porterà un po' d'aria, o se finirò per annegare ancora un po'.
Esito.
Ho desiderato tanto vederlo, eppure ora che posso ho quasi paura.
Finché quella porta era chiusa, io di là sentivo Sherlock.
Ma se andassi al suo fianco, esattamente, che cosa vedrei?
E se non capissi più dove finisce Sherlock e dove iniziano le macchine?
La prima volta che l'ho visto, non l'ho capito.
E se non potessi più capirlo?
Mai?
Un brivido mi attraversa.
Mi distolgo dai miei pensieri.
L'unica cosa che mi dà la forza è ricordarmi del mio ruolo.
Conduttore di luce.
Devo essere quello.
Conduttore di luce è come soldato.
E' un compito che non puoi rifiutarti di portare avanti, una volta che te lo sei scelto.
Non so dire esattamente se quel compito mi sia stato assegnato o se sia stato io a prendermelo, o se sono successe entrambe le cose.
Ma a fare il soldato ero bravo.
Adesso, devo essere bravo a fare questo.
Apro la porta.
Sherlock è ancora lì, con i suoi tubi e le flebo e le bende.
La sua carnagione non è migliorata, ma almeno ora i lividi sono molto meno visibili e alcuni sono già spariti.
Mi avvicino e mi siedo accanto a lui, osservandolo.
Non lo guardo, lo osservo.
Sherlock mi ha insegnato che c'è una sostanziale differenza.
Guardare è un atto passivo, osservare non lo è.
E Dio, se in questo momento non sto osservando Sherlock Holmes con ogni fibra del mio essere, non so che cosa sto facendo.
Lo osservo e mi rendo conto che non è cambiato nulla.
Non annego di più e non respiro meglio.
Non vedo una cosa sola: vedo sia l'uomo che la macchina, ma non posso tracciare un confine.
E mi rendo conto che è esattamente lo stesso che essere in quella tregua.
Sono sospeso.
Sospeso in una situazione su cui non ho controllo, spettatore, ancora una volta, di ciò che accade a Sherlock senza poter intervenire, come quando lui era su quel tetto.
Sono sospeso, bloccato, incastrato.
E finché non succederà qualcosa a lui, io rimarrò ad aspettare.
E' una quiete indefinita.
Qualcosa deve rompersi o aggiustarsi perché si spezzi.
Non ci sono vie di mezzo, non ci sono scuse.
Finché Sherlock è fermo a questo stato, è come se anche io lo fossi.
Siamo entrambi, ciascuno a modo nostro, costretti a respirare -lui perché gli è imposto io perché lo fa lui- , in attesa di un cambiamento.
E' come se noi avessimo premuto il tasto pausa, mentre il mondo continua ad andare avanti.
Finché a Sherlock non succederà Qualcosa, nemmeno a me succederà nulla.
Poi, dopo che questo Qualcosa sarà avvenuto, solo allora premerò di nuovo il tasto play, per scoprire se mi sfracellerò con lui o se riuscirò ad aggrapparmi al bordo e a tirarlo su.
Devo solo aspettare che Qualcosa avvenga.
Avverrà, mi dico.
Magari un giorno.
Magari domani.
Ma non oggi.
Purtroppo.
Intanto, allungo la mano tremante e stringo delicatamente le sue dita.
Ho bisogno di contatto fisico, ma non mi servono abbracci dalla signora Hudson o pacche da Lestrade.
Voglio lui.
Tenergli la mano mi dà l'illusione che lo stia tenendo con me e che non me lo lascerò sfuggire.
Mi schiarisco la gola.
Per la prima volta dopo due settimane posso parlargli.
Ho pensato molto a cosa dirgli, dopo il suo risveglio, ma non ho mai pensato a cosa dirgli durante la sua stasi.
Decido che non è importante.
Quel che conta, è che senta che sono qui, con lui, dove devo stare.
“Hey... ciao Sherl” mormoro, tirando appena su con il naso.
Lui odia quel soprannome.
Ma non importa.
“Sai... mi... mi dispiace di non essere arrivato prima. Mi hanno tenuto fuori. Mi dispiace tanto, Sherl, davvero. Ho cercato di dirgli che... che dovevo stare con te ma... ma non mi hanno dato retta. Loro... non capiscono. Credono tutti che siamo una coppia, sai? Che novità eh?”
Una risata amara lascia le mie labbra.
Non riconosco quel suono, non l'ho mai sentito da me.
“Sai ho... ho perso il lavoro. Ma a te non importa vero? Hai sempre detto che avrei dovuto lasciarlo per star dietro a te tutto il tempo. Beh, tu dicevi per star dietro ai casi, ma questo significa farti da balia perciò... Ad ogni modo, ecco. Accontentato. Adesso ho tutto il tempo che vuoi per... per i casi. E per te”
Mi rendo conto da solo che sembra maledettamente sdolcinato e romantico, ma so che se Sherlock sente capirà.
Da quando ci siamo conosciuti, separarci è sempre stata una tortura per noi.
Sherlock ha sempre rifiutato il contatto affettivo, eppure mi sono accorto, vivendo con lui, che ne ha bisogno in maniera viscerale.
Infatti, mi ha sempre camminato vicino, sfiorandomi il gomito o la mano con il proprio corrispettivo; ha sempre invaso il mio spazio personale e non ha mai disdegnato una volta di addormentarsi addosso a me sul divano.
Potrei dire che Sherlock sente profondamente la mia mancanza quando non ci sono, -al punto di continuare a parlare come se io fossi in casa per non sentirsi solo, al punto da non voler nemmeno notare la mia assenza-, perché è così.
Ma mentirei a me stesso se dicessi che per me la situazione è diversa.
Anche lui mi manca.
E anche io ho bisogno di lui in maniera viscerale, profonda, innegabile.
Io sono il conduttore di luce, ma senza qualcuno a cui condurla sono utile quanto una lampadina senza corrente.
Io ho bisogno di lui e lui ha bisogno di me.
Non siamo una coppia come la intendono loro, non siamo fidanzatini innamorati, eppure ci amiamo.
A modo nostro, ci amiamo.
Sherlock si è sempre definito un sociopatico ma io so che non è quello che è.
Sherlock era solo, ecco cosa era.
Non sapeva intrecciare rapporti sociali con persone nuove non perché gli fosse impedito, ma semplicemente perché nessuno gli aveva mai dato l'occasione di provare a farlo e di imparare.
Ho imparato, se non capito all'immediato, che Sherlock è diverso dagli altri.
Una volta, senza pensarci troppo, ho detto a Greg che il fatto di vederci soddisfaceva la sua Sindrome di Asperger. *
Solo quando l'ho detto ho seriamente preso in considerazione l'ipotesi che Sherlock potesse averla.
Ci ho pensato molto, durante la notte.
Alla fine, mi sono reso conto che non avevo mai pensato seriamente alla cosa perché non mi importava.
A che scopo cercare un nome per definire ciò che lo rende tale quando per me Sherlock è sempre stato ciò che è, ovvero se stesso?
La verità è che non ho mai avuto bisogno di giustificarmi il suo essere perché per me non ha mai avuto bisogno di giustificazioni.
Quelle servono per quando credi che qualcosa, in qualcuno, non vada.
E allora vuoi un qualcosa che lo spieghi.
Ma io non ho mai pensato che qualcosa in Sherlock fosse sbagliato e anche se ho biasimato alcuni suoi atteggiamenti, l'ho sempre trovato perfetto per come è.
Ovvero, umano.
“Io... sai, non va molto bene. Ho ripreso a zoppicare. E mi fa male la schiena, ma questo è perché non torno a casa spesso a dormire. Mi sembra... vuota, senza di te. E...e mi manchi. Mi manchi, Sherlock”
Non riesco a tener salda la voce, proprio non ce la faccio.
Tiro di nuovo su con il naso e mi prendo un attimo per ritrovare la calma, accarezzandogli il dorso della mano con il pollice, come la prima volta.
La sua pelle è fredda, ma morbida.
“E naturalmente manchi anche alla signora Hudson, a Lestrade e a Molly. E vorrei... vorremmo che tu tornassi presto con noi. Inoltre vorrei che tu sapessi che... che non devi aver paura. Non ti lascerò solo. Sono qui. Con te”
Ho bisogno di dirglielo.
Forse per convincere me stesso che a qualcosa servo: sentirmi inutile è una cosa che ho sempre odiato, ma sentirmi impotente proprio lo detesto.
Non dico più nulla, non ho altro da dirgli, non davvero.
O forse sì.
Beh, in realtà c'è una cosa che preme per uscire.
Una cosa che ho accolto come verità durante queste settimane, ma non realizzato, non davvero.
Mi mento pensando che glielo dirò quando si sveglia, almeno questo.
E' tutta una scusa, so di essere un codardo.
E lo sono non perché non lo accetti e stia cercando di scappare, ma perché dirlo lo renderebbe concreto.
E farebbe ancora più male.
Non mi sono permesso di pensarlo fino ad ora, non me lo permetterò nemmeno adesso.
Rimetto i pensieri di noi al loro posto.
Glielo dirò.
Magari un giorno.
Magari domani.
Ma non oggi.

*


Passo i restanti giorni delle due settimane successive accanto al suo letto.
Non lo lascio un attimo.
Praticamente ci dormo in quella stanza.
La mia routine è rimasta più o meno invariata, tranne per il fatto che posso stare accanto a Sherlock quanto voglio adesso.
Il che significa che metto casa in quella stanza.
Parlo spesso con lui, gli tengo la mano, gli scosto i capelli, nella speranza che si risvegli, o che dia almeno un segno.
Che però non arriva.
Questa mattina mi sono svegliato e mi sono reso conto che è passato esattamente un mese da quando Sherlock si è buttato.
Glielo dico.
Gli ripeto che mi manca.
Non mi permetto di perdere la speranza.
Sherlock è ancora stabile.
Non è vivo, ma non è nemmeno morto.
Ha solo bisogno di tempo.
Può farcela.
E ce la farà.
Magari un giorno.
Magari domani.
Ma non oggi.
Tempo.
Ha solo bisogno di tempo.
Non serve che sia il dottore a dirmi che le probabilità, già minime, caleranno drasticamente visto che è passato un mese.
Allo scoccare della mezzanotte, prendo l'orologio e lo frantumo per terra.
Vaffanculo.

*


Un'altra settimana è passata.
Non significa nulla.
Gli serve solo tempo.
Qualche minuto, qualche ora, qualche giorno.
Numeri, che non abbiamo.
Gli stessi che, insensibili, mi ricordano che il tempo passa.
E più esso passa, e più la possibilità cala.
Getto anche il mio orologio da polso.
Ho detto alle infermiere di non portarne uno nuovo per la camera, anche se ho provveduto a ripagarglielo.
Mi illudo che se io non sento il tempo, il tempo non sente noi.
E ci lascia in pace.
E così, passa un'altra settimana senza che io lo voglia davvero sapere.

*

La signora Hudson ha smesso di aspettare mie notizie e viene con Molly a trovarci, una volta a settimana.
Molly viene anche più spesso.
Quasi ogni giorno a dire il vero.
A volte nemmeno la vedo.
Mi sento tanto Sherlock e quando accade le chiedo scusa.
Lei mi sorride, passa sopra, non dice nulla.
Ogni tanto nemmeno entra in stanza: le basta fermarsi sulla soglia della stanza per pochi minuti.
Se va bene, riceve un cenno, sempre negativo purtroppo, da me.
Altrimenti, trae le sue conclusioni da sola e se ne va.
Lestrade passa una volta ogni tanto.
Anderson mi porta un caffè, quando riesce, ma se ne va subito.
O almeno così credo.
L'altro giorno, tornando dal bagno, l'ho trovato in camera a chiedere scusa a Sherlock.
Ho fatto finta di nulla e lui se n'è andato.
Mycroft non si vede.
Penso che se ci fosse lui, al posto di Sherlock, Sherlock verrebbe.
Mi verrebbe quasi la voglia di mandargli un biglietto.
“Mycroft, sei uno stronzo.
Firmato: un John incazzato e il tuo fratellino in coma”
Dio.

*


Altre due settimane.
Tutti si ostinano a chiedermi come sto.
Mi verrebbe voglia di rispondergli che non sono io quello in coma.
Ma stringo la mano di Sherlock, mi contengo e dico bene, grazie.
Cerco di sorridere, ogni tanto.
Rinuncio quando mi rendo conto che è come se i miei muscoli fossero intorpiditi e quello che mi compare in faccia più che un sorriso sembra probabilmente una smorfia orrenda.
Senza Sherlock a ricambiare, non ho voglia di sorridere.
I dottori iniziano a dire che sto occupando un po' troppo spazio.
Mi hanno dato un letto, qualche settimana fa, per pietà credo.
Dico che posso tornare a dormire sulla sedia, se vogliono.
Loro mi guardano, non dicono nulla, e se ne vanno.
Mi cacceranno presto, temo.
Magari un giorno.
Magari domani.
Ma non oggi.
Loro, la sera, lasciano l'ospedale e tornano dalle loro famiglie.
Io no.
Il mio posto è accanto a Sherlock.

*


Si può pregare Dio senza credere in Lui?
Oggi ho imparato di sì.
E' l'ultima settimana prima dello scadere dei due mesi e vogliono vedere se Sherlock regge da solo, almeno a respirare.
Mi fanno uscire, anche se protesto a tal punto che alla fine li convinco a lasciare la porta aperta e a lasciarmi guardare.
Appena il medico sta per spegnere la macchina che fa respirare Sherlock, inizio a pregare.
Quando ero soldato in Afghanistan, una delle prime cose che ho fatto è stata smettere di credere in Dio.
Qualcuno dei miei commilitoni diceva che solo Dio gli dava la forza di sopportare la guerra.
Io ho reagito nel modo opposto.
Mi sono chiesto come Dio potesse sopportare la guerra e sono arrivato in fretta alla conclusione che non può.
Che se la guerra esiste, allora non esiste Lui.
Ho imparato al volo che se volevo uscirne vivo dovevo lottare, non pregare.
Il giorno che sono stato ferito alla spalla, ricordo a malapena quel che successe.
So solo che ad un certo punto mi sono ritrovato a sentire un dolore così grande che quasi mi impediva di pensare, che mi impediva di capire, di mantenere il controllo.
Mi sono accorto che stavo urlando quando ho sentito la voce di un mio compagno chiedere di smetterla, chiedere di farmi smettere, farmi smettere di urlare, di soffrire.
E ricordo distintamente di averlo sentito pregare, dicendo “Dio, dagli la pace”.
Nel delirio della febbre e del dolore, mi sono ricordato di quando ero piccolo e ci credevo, in Lui, ci credevo intensamente.
E così, ho iniziato a pensare solo una cosa.
Solo una singola e unica cosa.
“Ti prego, Dio, lasciami vivere. Se davvero esisti, fammi smettere di soffrire e lasciami vivere”
Solo quello.
Volevo solo che il dolore smettesse.
Volevo solo restare vivo.
Ma lui non ha risposto e io ho dovuto lottare per ore e ore contro al dolore, aggrappandomi alla vita con tutte le mie forze, fino a quando non mi sono svegliato.
E quando è successo, mi sono reso conto che non era stato Lui a salvarmi, ma il mio comandante, il Maggiore Sholto, che mi aveva trascinato via dal campo di battaglia sotto il fuoco di copertura dei miei commilitoni; non era stato Lui a salvarmi, ma il medico che era riuscito a ricucirmi e a non fare infettare quella maledetta ferita; non era stato Lui a ridarmi la vita, ma ero io che avevo lottato per riprendermela.
E poi il dolore è andato avanti.
Per mesi e mesi.
Congedato, costretto a vivere in un buco, i miei soldi prosciugati da una donna che non sapeva aiutarmi, la zoppia psicosomatica a costringere anche parti di me sane a provare dolore.
In tutti quei mesi, Lui non è mai intervenuto.
Se c'era stata una minima possibilità che mi ricredessi, l'ho lasciata andare.
E poi è arrivato Sherlock.
Sherlock che, non si sa come, mi ha guarito.
E adesso che anche lui mi sta venendo portato via, incredibilmente, prego.
Penso che forse Dio non ha esaudito la mia preghiera, non mi ha fatto smettere di soffrire allora, per esaudirne una più grande, per farmi smettere di soffrire adesso.
Penso che forse se non sono egoista e la uso per qualcuno che non sia io, allora funzionerà.
O forse ho solo bisogno di credere che possa funzionare.
Il medico mi guarda un attimo.
Respiro al ritmo di Sherlock.
E quando la macchina si spegne, smetto di respirare anche io.
Aspetto.
Conto.
Prego.
10.
Ti prego, ti prego, ti prego.
9.
Dio ti prego, almeno lui.
8.
Respira, cazzo!
7.
Avanti Sherlock!
6.
Dio, ti prego, ti supplico, fallo respirare.
5.
Sherlock, giuro, mettiti a respirare, o.... o butterò i tuoi esperimenti.
4.
Non sto scherzando.
3.
No... no... dai...
2.
Dai... ti prego... ti imploro...
1.
Solo un miracolo, Dio, ti prego, solo questo.
Osservo impotente mentre i medici riaccendono la macchina, scuotendo il capo.
Con un singulto doloroso, l'aria ritorna anche nei miei polmoni.
Guardo in alto, come a volermela prendere proprio con Colui che non ha risposto alla mia chiamata.
Se esiste, a quanto pare deve essere in combutta con l'Universo.
Non vedo altra spiegazione.

*


Due mesi.
Oggi sono due mesi.
Per l'ennesima volta, mi trovo davanti al medico, impotente, senza voler sentire le sue parole.
Stringo la mano di Sherlock, un gesto ormai abitudinario.
Non voglio capire.
Scuoto il capo.
Lui mi guarda, comprensivo.
“Mi spiace, dottor Watson, lei non può più stare qui. Passi anche tutti i giorni a trovarlo, ma deve uscire da questa camera. Torni a casa”
Non mi disturbo a spiegargli che io, una casa, non ce l'ho più.
Che la mia casa, ora, è la stanza 221.
Casa è dove sta Sherlock.
E loro mi ci stanno cacciando da casa mia.
Aspetto fino all'ultimo turno di sera per salutarlo.
Alla fine, gli do un bacio sulla fronte e esco.

*


Il suono della sveglia mi fa scattare come una molla.
Apro gli occhi, disorientato.
Perché non sento odore di disinfettante e metallo?
Perché a svegliarmi non è stata Martah, l'infermiera gentile del turno delle sette?
Quando riesco a mettere a fuoco, capisco perché.
I ricordi mi riaffiorano alla mente: mi hanno praticamente cacciato dalla camera di Sherlock.
Sono tornato alla vecchia casa, al 221B.
Scendo dalla mia camera e vado in cucina a farmi un tea.
O almeno, l'intento era quello.
I tonfi del mio bastone si interrompono prima di varcare la porta.
Mi blocco sulla soglia, guardandomi attorno.
Casa.
La signora Hudson ha tenuto pulito.
Tutto è esattamente come lo avevamo lasciato il giorno che tutto si è bloccato.
E' come se anche casa nostra fosse bloccata.
Ferma, in pausa, anche lei stoppata in un istante della nostra vita, in attesa di essere nuovamente abitata o di venire svuotata e abbandonata.
Succederà, una di queste due cose, succederà prima o poi.
Magari un giorno.
Magari domani.
Ma non oggi.
Entro, sentendomi quasi a disagio.
Metto l'acqua a bollire, preparo il tea.
Lo appoggio sul tavolo, sedendomi sulla mia poltrona, aprendo il giornale.
Lo apro non per curiosità, ma solo per non vedere la poltrona vuota di fronte alla mia.
Allungo una mano per prendere la mia tazza e mi pietrifico con il braccio a mezz'aria, teso.
Solo ora mi rendo conto di aver preparato due tazze.

*

Passo da Sherlock tutti i giorni.
Senza accorgermene, scivolo in una routine ben precisa.
Mi sveglio, mi alzo, mi vesto.
Scendo di sotto.
Poltrona, giornale, tea.
Esco di casa, taxi, ospedale.
Entro, saluto, ascensore.
Arrivo in reparto, saluto l'infermiera che esce, entro in stanza.
Mi siedo accanto a lui, gli prendo la mano, parlo.
Tutti i giorni inizio allo stesso modo.
“Ciao Sherl”
Poi, gli chiedo come sta.
“Come te la passi?”
Proseguo leggendogli qualche caso dal giornale.
“Sai, qui dice che è stata la moglie. Tu che ne dici?”
E poi la mia voce, inevitabilmente, si spezza.
“Mi manchi, sai?”
Glielo dico tutti i giorni, sempre.
Voglio che lo sappia.
Poi, aggiungo sempre una frase riguardante le nostre avventure.
“Mi farei rapire da un circo cinese se volesse dire che tornerai a salvarmi, dico sul serio”.
Oggi dico questo.
Domani chissà.
Non ci penso.
E poi finisco sempre rimanendo in silenzio, stringendogli forte la mano, sperando che ricambi la stretta.
Magari un giorno.
Magari domani.
Ma non oggi.
Oggi non lo fa.
A volte gli carezzo il viso, sistemo il lenzuolo, metto a posto i tubi ingarbugliati.
Cerco di trattenere le lacrime.
A volte ci riesco, a volte no.
Poi, mi alzo.
Ho dovuto riprendere a lavorare, per forza di cose.
La signora Hudson si è offerta di tenermi gratis l'appartamento, ma qualcosa le devo pur dare.
Mi blocco sempre sulla porta prima di uscire.
C'è sempre quel qualcosa che preme per venire fuori.
Ma, sforzandomi, lo ricaccio al suo posto e me ne vado.
Non sono pronto per questo.
Non ancora.

*


Tre mesi.
Molly smette di venire così spesso.
Si fa vedere, ogni tanto, ma è più una muta rassegnazione quella che la accompagna.
Greg smette di chiedermi di uscire: ormai la conosce la risposta.
La signora Hudson, quando rientro dal lavoro, mi abbraccia ancora, ma non mi chiede più nulla.
Mycroft non si presenta ancora.
Non l'ha mai fatto e non sembra voler iniziare ora.
Non so se sia perché vedere Sherlock così gli farebbe male o se ha già deciso che per lui Sherlock rimarrà per sempre così.
Spero solo che si senta in colpa.
Almeno un poco.
I suoi, dopo quella sera, non sono più venuti.
Credo che sia troppo per loro.
Dopotutto, sono sempre i suoi genitori.
L'hanno cresciuto, l'hanno messo al mondo e forse posso capire che non possano reggere di vedere loro figlio in quello stato.
Li comprendo, in fondo, e non gliene faccio una colpa.
Sto soffrendo anche io e non li considero dei codardi, solo degli umani.
Tuttavia, non accetto il comportamento degli altri.
Rassegnato.
Senza speranza.
Non lo capisco.
Quello che capisco, però, è che io non ho lasciato la presa su di lui.
Rivoglio Sherlock.
E ci spererò.
Fino alla fine.
Poi smetterò, quando finirà.
Magari un giorno.
Magari domani.
Ma non oggi.

*


Tre mesi, due settimane e cinque giorni.
Stanotte, mi sono svegliato urlando il suo nome.
Non è anormale, succede praticamente sempre.
Solo che questa volta sono sconvolto.
Il sogno non era lo stesso di sempre.
Niente chiamata, niente strada, niente vista in prima fila.
Stavolta, avevo la platea d'onore.
Ero sul tetto, assieme a lui.
Sherlock mi guardava e stava per buttarsi.
Io ho corso e sono riuscito a prendergli la mano.
Ma lui era pesante.
Pesante come non mai.
Mi tirava giù, con lui.
Non riuscivo a tirarlo su, non riuscivo a salvarlo.
Poi la presa è scivolata.
E lui è caduto.
E io non sono riuscito a salvarlo.
Mi passo una mano sul viso, madido di sudore.
Non ce la faccio a stare qui.
Scendo di sotto, stando attento a non far rumore.
Mi accoccolo sulla mia poltrona, guardando quella di Sherlock.
Non riesco a fermare le lacrime.
Chiamo il suo nome, tra i singhiozzi.
Mi manca così tanto che non so più cosa fare.
Alla fine, dopo essermi calmato, mi alzo e faccio per andarmene, quando la porta socchiusa che dà sul corridoio attira la mia attenzione.
Camera di Sherlock.
Mi guardo un attimo attorno, indeciso, prima di avviarmi e varcare la soglia.
Guardo tutto con estrema attenzione.
Anche qui, il tempo sembra essersi fermato.
Il letto è mezzo sfatto, c'è una delle sue camice per terra, lo stupido cappello da detective, il suo armadio, tutto al suo posto.
Come in trance, mi avvicino al letto, passandovi una mano.
E' strano.
E' freddo eppure giurerei di sentirlo tiepido, come se si fosse appena alzato.
Anche se non lo è.
Non davvero.
Esito un attimo prima di infilarmi sotto le coperte e vengo avvolto da un profumo non mio.
Bagnoschiuma all'aloe, tea, sudore e un leggero sentore chimico.
Il suo profumo.
Respiro profondamente.
Ricordo di aver sempre pensato che Sherlock avesse un buon profumo ma ora è coperto dall'odore dell'ospedale.
Mi riempo la narici di quell'odore familiare ma ormai estraneo.
Stringo il cuscino e mi addormento poco dopo, sfinito.
Starò qui solo una notte, mi dico.
Sherlock tornerà a prendersi il suo letto.
Magari un giorno.
Magari domani.
Ma non oggi.
La mattina mi alzo e preparo il tea.
Continuo a sbagliare.
Ne preparo ancora due tazze.

*


Sono passati sei mesi dal giorno del quasi suicidio del mio migliore amico.
E' incredibile come questa routine mi si sia appiccata addosso.
Non distinguo più i giorni.
Sono passati sei mesi, ma io nemmeno li sento.
Ancora non è successo nulla.
Sherlock se la sta prendendo comoda, come al suo solito.
Intanto, la mia vita in stand-by continua.
Detto così sembra quasi ironico.
La zoppia non se ne è andata, così come gli incubi, anche se sono diminuiti da quando dormo nella stanza di Sherlock.
Ormai anche quella ha perso il suo profumo.
Qualche volta, ho la sensazione di non ricordarmi troppe cose di lui.
La sua voce.
I suoi occhi.
Il suo profumo.
Tuttavia, se poi mi concentro, riesco ancora a riportarmi tutto alla mente.
Cerco di farlo ogni sera.
Non voglio dimenticare.
Non lui.
Esco dalla sua stanza sereno, oggi non ho pianto.
Ma ancora non riesco a dirlo.

*

Quando suona la sveglia, mi tiro su a sedere, assonnato, ma mi riprendo subito.
Oggi è un giorno diverso.
E' uguale agli altri, come routine, ma è diverso perché oggi è passato esattamente un anno dal giorno in cui Sherlock si è buttato.
Proseguo come al solito.
Mi sveglio, mi alzo, mi vesto.
Scendo di sotto.
Poltrona, giornale, tea.
Due tazze.
Ancora.
Smetterò di farlo prima o poi questo dannato errore.
Magari un giorno.
Magari domani.
Ma non oggi.
Esco di casa, taxi, ospedale.
Entro, saluto, ascensore.
Dannata gamba.
Ormai mi ci sono abituato.
Forse andrà via, quando la situazione si sbloccherà.
Magari un giorno.
Magari domani.
Ma non oggi.
Arrivo in reparto, saluto l'infermiera che esce, entro in stanza.
Mi siedo accanto a lui, gli prendo la mano, parlo.
Come tutti i giorni inizio allo stesso modo.
“Ciao Sherl”
Poi, come al solito, gli chiedo come sta.
“Come te la passi?”
Proseguo leggendogli qualche caso.
Di solito dal giornale.
Ma oggi ho recuperato un vecchio caso a Scotland Yard.
Lestrade non mi ha fatto domande e me l'ha passato.
“E quindi loro sono arrivati alla conclusione che è stata la donna delle pulizie, ma poi l'hanno scagionata e il caso è irrisolto. Che ne pensi?”
E poi la mia voce, inevitabilmente, come al solito, si spezza.
“Mi manchi, sai?”
Glielo dico tutti i giorni, sempre.
Voglio che lo sappia.
Sopratutto oggi.
Poi, solitamente aggiungo sempre una frase riguardante le nostre avventure.
Tuttavia, oggi gli dico un'altra cosa.
“Sai, Sherlock, ormai è passato un anno da quando tu ti sei... messo a riposo. Ma... ma voglio che tu sappia che... che io non ti ho dimenticato, ok? E... e farei di tutto se servisse a farti tornare. Farmi puntare una pistola alla tempia. Morire quasi di paura per colpa di un allucinogeno. Anche buttarmi io stesso da un tetto. ”
Oggi dico questo.
Domani chissà.
Non ci penso, nemmeno oggi.
Anche se ieri ci ho pensato, a cosa dire in questo giorno.
E poi, come al solito, finisco rimanendo in silenzio, stringendogli forte la mano, sperando che ricambi la stretta.
Magari un giorno.
Magari domani.
Ma non oggi.
Oggi non lo fa.
Gli carezzo il viso e gli sistemo anche il lenzuolo.
Cerco di trattenere le lacrime.
A volte ci riesco, a volte no.
Oggi no.
Poi, mi alzo.
E come al solito, mi avvio e mi blocco sulla porta.
Mi volto a guardarlo, sorridendo appena.
E' passato un anno.
Le sue condizioni non sono cambiate.
Non è successo nulla.
Ma deve succedere.
Succederà.
La situazione dovrà sbloccarsi prima o poi.
E' passato un anno ma per me è come se non fosse passato nemmeno un giorno.
Sono ancora lì, sotto quella strada, con il telefono in mano, ad aspettare che Sherlock cada o si salvi, mentre lui rimane sospeso, cristallizzato, nel vuoto.
Ma prima o poi qualcosa deve accadere.
Accadrà.
Magari un giorno.
Magari domani.
Ma non oggi.
Non a lui.
Ma oggi, sono io che voglio far succedere qualcosa.
Sono pronto.
Mi ci è voluto un salto nel vuoto, un anno e parecchio tempo, ma ora sono finalmente pronto.
Prendo un respiro.
Ormai non faccio più caso al fatto che per me l'aria non esista, che non respiri più.
“Ti amo”
Ecco, l'ho detto.
Sorrido, soddisfatto.
Il mio primo sorriso da mesi.
Anzi, no, da un anno.
Esco dalla stanza, con la consapevolezza di amare Sherlock.
E' una consapevolezza grandissima, quasi quanto quella del fatto che lui ha il telecomando della mia vita e che ha messo pausa.
Ora, non mi resta altro che aspettare che lui risponda.
Che metta play.
Magari un giorno.
Magari domani.
Ma non oggi.


Hey Sherl”
Tutte le volte con quello stupido nomignolo.
Lo sai che lo odio.
Cosa pensi, che se mi chiami così mi sveglio per protestare?

Magari sì.
Magari un giorno.
Magari domani.
Ma non oggi.

Come te la passi?”
Speri che ti risponda, vero?

Beh, sai, non molto bene.
Sono un pochino in coma al momento.

Magari un giorno andrà meglio.
Magari domani.
Ma non oggi.

Cos'hai per me oggi?
Oh, un caso irrisolto.

Parla, parla dai.
Cosa?
La donna delle pulizie?

Dio, quanto sono stupidi.
Magari un giorno glielo dirò che è stata la moglie.
Magari domani.
Ma non oggi.

Oh, John...
Mi manchi anche tu.
Tantissimo.
Ma non essere ridicolo.
Mi sono buttato per te, non ti permetterei mai di farti del male.
E magari un giorno te lo spiegherò.
Magari domani.
Ma non oggi.

Sento la tua mano.
Quanto vorrei stringertela.
Magari un giorno lo farò.
Magari domani.
Ma non oggi.


John?
Piangi?
No... non piangere... mi fa sentire triste se piangi...

Vorrei tanto svegliarmi... solo che non so come...cosa...
Ma magari un giorno lo saprò.
Magari domani.
Ma non oggi.

Te ne vai, eh?
Come al solito.

Sei un tipo abitudinario tu.
Ecco che ti fermi sulla porta, come sempre.
Pensi sempre di dire qualcosa e invece... oh.
No.
Mi sbagliavo.
Oggi l'hai detto.
Sono felice adesso.
Ma non c'era bisogno, sai?
Lo so.

L'ho sempre saputo.
E ti amo anche io.
E magari ti risponderò.

Magari un giorno.
Magari domani.

Ma non oggi.

Scusa, Jhon.


 

*The Johnlockistheway's Cave*

Hola!

Se siete arrivati fin qua spero che la storia vi sia piaciuta.

In tal caso, mi ritengo soddisfatta.

Non esitate a farmi sapere che ne pensate, mi farebbe taaaanto piacere.

Alla prossima storia!

Nel frattempo, se volete, potete trovare altra roba Johnlockosa nel mio account.

Baci

Johnlockistheway

P.s. Per chi segue la mia altra fic, no, non è sospesa. Ho avuto solo molto da fare. Spero di aggiornare presto. Scusate tanto.

 

   
 
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