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Autore: Lex    12/08/2003    8 recensioni
Una finestra su di un amore semplice e quotidiano
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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GIRASOLI

 

 

Pioveva.

Le squadre erano rientrate nei rispettivi spogliatoi. Nei desolati corridoi dello stadio rimbombavano le urla e gli schiamazzi dei padroni di casa.

Bussò alla porta e, non ottenuta risposta, socchiuse la porta per sbirciare l’interno dello spogliatoio. Josh si stava esibendo per i compagni in un’improbabile lambada sul lettino massaggi agitando vorticosamente in aria un paio di sospensori, mentre gli altri tutt’attorno battevano il tempo.

Non troppo sorpresa richiuse la porta e si appoggiò di spalle alla porta incrociando le braccia dietro la schiena. Volse gli occhi al soffitto, apparentemente incurante della bolla di chewingum rosa che le usciva dalle labbra.

Lui, comunque, non c’era.

Con la coda dell’occhio scorse attraverso il vetro frastagliato lo svolazzio delle casacche rosse e non riuscì a trattenere un sospiro di irritazione.

Si avviò lungo il corridoio verso il campo da gioco, gettando nell’immondizia la gomma ormai priva di sapore. Aprì la pericolante portoncina di legno laccata di smalto chiaro che portava al box della squadra di casa.

Quella porta era lì da quando Robert Brett, idolo di casa degli anni cinquanta, distrusse tutti gli arredi del box giocatori dopo una vergognosa sconfitta con gli Extremes di Seattle. Dopo quell’episodio i Lions non persero più una partita in quello che a Westside tutti considerano il campionato più memorabile della storia del liceo del paese. Tutti immaginavano che quella porta sarebbe rimasta sempre lì, almeno finché un nuovo Brett non l’avesse buttata giù a calci.

Non cigolò come suo solito.

Dalla sua posizione poté constatare che scendeva ancora una pioggerellina fine ed inesorabile che aveva ormai convinto anche i più fedeli tifosi a tornarsene a casa per cena. Dalla tettoia in lamiera, invece, cadevano gocce d’acqua grandi come quarti di dollaro, che avevano formato una pozza oblunga tra il muretto e quella sfumatura chiara che fino a poche ore prima era una gessata linea bianca.

Rimase un attimo in silenzio ad osservarlo. Era davanti a lei, in piedi sugli stretti scalini del box, con le spalle appoggiate all’estremità del muro appena riverniciato di un bianco troppo chiaro per poter resistere più di un’estate.

Il suo sguardo era sereno mentre fissava il campo dei Lions imbruttito dalle pesanti pozze di fango. Aveva la testa leggermente reclinata all’indietro e teneva il cappello per la tesa nella mano sinistra abbandonata lungo il fianco.

Come quella volta. Proprio come allora.

Fece un passo avanti, chiuse la porta dietro di sé appoggiandovisi con le spalle e le braccia intrecciate dietro la schiena.

Si voltò verso di lei sentendo scattare il meccanismo della porta.

Lo salutò con un semplice sorriso, ma non si impedì di guardarlo come guardava solamente lui.

Aveva una commovente aria stupita, le guance gli si colorarono appena e con sguardo sfuggente calzò il cappellino con la mano prima di metterselo in testa, quasi come un bambino sorpreso con le mani sporche di marmellata.

<< E’ già ora di andare? >>.

<< No. Sono solo stanca di far da balia al branco >>.

La guardò finalmente in viso con aria più sicura. << Tuo padre sarà infuriato >>.

Fece una buffa smorfia con la bocca, sorrise e gli rispose con gli occhi rivolti al cielo. << No, è abituato ormai, lo sai. Credo che insegnare nelle scuole superiori per così tanto tempo lo abbia reso insensibile alla comune vergogna >>.

Lo vide sorridere appena e voltarsi nuovamente verso il campo da gioco.

Il rumore delle gocce di pioggia sulla tettoia tornò a scandire il tempo lentamente.

Quel suo darle le spalle la faceva sentire stranamente ansiosa. Si passò la lingua sulle labbra e, nel pronunciare quelle parole, distolse inconsapevolmente lo sguardo verso lo strano alveare di legno in cui i giocatori ripongono le mazze.

<< Posso rimanere un po’ qui con te? >>.

Attese la risposta continuando ad osservare senza interesse la parete opposta del box giocatori.

<< Beh, se proprio devi >>.

Si voltò stupita e lo vide sorridere da sopra la spalla burlandosi di lei.

Si mosse veloce e salì gli scalini, uno più di lui. Lo spinse con fare minaccioso spalle alla parete e gli strinse la punta del naso con le dita.

<< Ah davvero? Sua altezza lo consente? >>.

Boffonchiò qualcosa con la voce nasale rotta dal riso, le prese il braccio cercando di divincolarsi, mentre il berretto gli si abbassò sul viso di contrasto alla parete retrostante.

Scese uno scalino, ristabilendo tra loro la consueta differenza di altezza. La mano le scivolò dalla parete alla sua spalla, mentre con l’altra, lasciandogli la punta del naso, gli tolse il cappello dal viso.

Non le lasciò il braccio. E fece scivolare l’altra mano sulla sua vita. Poteva sentire la pelle fresca appena sotto la spalla, dove terminava la manica corta della maglietta bianca e rossa dei Lions. E la curva della vita.

Pioveva.

Non più di qualche mese prima erano lì, proprio in quel punto. Era molto caldo anche per una cittadina vicino alla costa occidentale che gode di un clima estremamente mite per tutto l’anno. Pioveva anche allora, ma fino a venti minuti prima il sole aveva spietatamente martoriato la pelle dei giocatori e degli spettatori che si erano precipitati a vedere la partita più importante dell’anno. Quella pioggia, in fin dei conti, era quasi un sollievo.

Avevano perso.

Già. La partita dell’anno, contro il Victoria High di San Diego, che avrebbero poi battuto di quattro lunghezze i Fighters di Boston nella finale di campionato.

Era una squadra troppo forte per un liceo di provincia che poteva contare solo su pochi talenti. John Owen era sicuramente un ottimo lanciatore, specialmente considerato che era il suo primo campionato, ma per tenere a bada i giocatori di Boston per nove inning ci voleva ben altro.

Ciò nonostante i Lions di Westside si erano piegati solo per un banale errore all’ultima ripresa di Kennet Foster, dopo che nella prima metà del nono inning i futuri campioni si erano trovati con due corridori sulle basi ed un solo out.

Uno a zero.

Una sconfitta dignitosa, è innegabile, ma lui le aveva promesso un finale diverso.

Una vittoria sarebbe stato l’orgoglio della scuola, della città e dell’allenatore.

Il vecchio Rash era un brav’uomo. Vedovo, aveva girato ed allenato in quasi tutti i licei del Midwest e finalmente si era definitivamente accasato nella cittadina di Westside, dove aveva conosciuto e sposato la vedova dell’undicesimo preside del liceo locale, Gwendaline Owen.

Ma sopra ogni cosa l’aveva promesso a lei. La figlia del coach, nonché sua sorella acquisita, con cui divideva ormai da anni il primo piano dell’ala destra della residenza Owen.

Il coach e i compagni gli avevano battuto la mano sulla spalla e lui lo aveva fatto col povero Foster, che per anni tutti avrebbero ricordato mancare clamorosamente la palla della sconfitta.

Poi era rimasto lì, ipnotizzato dalla pioggia, mente i giocatori si rifugiavano nelle docce e gli spettatori abbandonavano delusi lo stadio.

Negli occhi aveva ancora la palla che volava altissima e scendeva dritta verso l’interbase. Il battitore avversario correva lento e rassegnato verso la seconda base, aspettando solo che l’avversario la raccogliesse al volo. Nell’attimo successivo Foster rincorreva la palla che sembrava proprio non volerne sapere di entrare nel suo guantone.

Fine della partita.

Anche quel giorno lei era entrata in silenzio dalla porticina laccata di smalto chiaro, che allora, però, aveva cigolato sia nell’aprirsi che nel chiudersi.

L’aveva vista con la coda dell’occhio ed aveva voltato lo sguardo verso la pioggia, ricordando come la sera precedente gli avesse inaspettatamente strappato quella promessa. Aveva intrecciato il mignolo al suo e tanto era bastato ad incastrarlo. La verità era che non riusciva mai a negarsi a lei. Bastava quello sguardo e non c’era nemmeno più bisogno di promettere.

E poi quella domanda. Lo colse di sorpresa. Una ricompensa se avesse mantenuto la promessa. Non si aspettava certo un premio. Quantomeno non da lei. Fu l’istinto a rispondere per lui. Non riuscì ad impedire al suo sguardo di indugiare per un istante sulle sue labbra.

La colse di sorpresa, ma capì forse prima di lui. E aveva già deciso prima che lui distogliesse fugacemente lo sguardo per sollevarlo al soffitto.

Lo ascoltò comunque tergiversare e lo osservò mentre cercava di far scomparire quel lieve rossore dal viso.

Era stato come se i suoi occhi non avessero mai visto la sua bocca prima d’allora.

Finalmente le sue labbra si piegarono in un piccolo, lieve, sorriso, poi si alzò, si girò e se ne andò dicendogli semplicemente << Allora è deciso. ’notte Johnny >>.

Johnny.

Lo chiamava così solo lei. Mai davanti agli altri, nemmeno in casa. Solo se soli.

Ed ora era lì, sugli scalini del box giocatori di casa, a fissare la pozza del box di battuta.

Tutto gli era passato per la mente in un lampo, ma in realtà non avrebbe saputo dire quanto fosse rimasto lì senza avere il coraggio di girarsi.

Si tolse il cappello dei Lions con due dita e allungò il braccio lungo il fianco. Piegò le labbra in un debole sorriso e fu capace di pronunciare solo quelle poche parole.

<< Mi spiace, ti ho delusa stavolta >>.

Invece sorrideva, ma lui non poteva vederla. Fece pochi lunghi passi e salì gli stretti scalini che portano al campo da gioco.

Giunta alla sua altezza la spiò con la coda dell’occhio. Guardava dritto avanti a sé. A pochi centimetri da lui. Le braccia intrecciate dietro la schiena.

Non riuscì più a distoglierne lo sguardo.

<< Non sono delusa, Johnny >>.

Sporgendo appena il labbro inferiore soffiò via i capelli della fronte, mandando la testa all’indietro. Poi, d’improvviso, si voltò verso di lui con fare irriverente.

Aveva uno splendido, inaspettato, sorriso.

Rimase in silenzio limitandosi a guardarla.

Lei socchiuse gli occhi per un brevissimo attimo, o forse semplicemente abbassò lo sguardo, non avrebbe saputo dire con certezza. Girò le spalle lentamente verso di lui e avanzò di un passo. Gli prese il cappello dalla mano sfiorando appena le sue dita e incurvò con forza la tesa tra le mani per renderla più arcuata.

<< Non ti avevo mai visto giocare così >>.

Si calzò il cappello in testa con la visiera all’indietro. Un ciuffo di capelli ribelle le uscì dall’apertura del cappello che si trovava sulla fronte invece che sulla nuca.

<< Così bene, voglio dire >>.

E d’improvviso si avvicinò. Sentì le sue labbra un attimo dopo.

Sentì la sua mano sfiorare il dorso di quella con cui fino a pochi istanti prima aveva tenuto il berretto, mentre con l’altra lo stringeva da dietro la spalla opposta. Le braccia sulle braccia. Non un filo d’aria tra di loro.

Le sue labbra. La sua bocca.

Sentiva il suo respiro, attraverso i lievi, ritmici movimenti del petto che si muoveva contro il suo.

Si perse in quel respiro. Nel suo calore.

Lasciò le sue labbra ma non lui. Rimase ancora un attimo lì, in quel tepore.

Poi si allontanò spingendosi appena, quasi con fatica, aprendo gli occhi lentamente. Aveva le guance arrossate e non riuscì ad incrociare il suo sguardo. Un lieve sorriso piegò le sue labbra. Si tolse il cappellino ma lo tenne con sé.

Finalmente alzò gli occhi e se ne andò in un istante.

La vide uscire dalla portoncina bianca lasciandola aperta.

Tenne il cappellino per tutta l’estate nel ripiano più alto dell’armadio nella sua stanza, insieme alle sue cose più care, alle vecchie fotografie della mamma. Tra gli oggetti preziosi.

E adesso era di nuovo su quegli scalini, vicino a lei, e la teneva per la vita.

Se anche stavolta fosse sgusciata via verso la pericolante portoncina bianca, l’avrebbe trattenuta.

Si.

Forse.

Lo stava guardando. E sorrideva, come solo lui poteva vederla.

Si, perché quel tipo di sorriso era dedicato a lui soltanto.

A nessun altro.

Non era stata lei a dirglielo, ma lo sapeva, come sapeva che nessun altro godeva delle sue attenzioni, delle confidenze e degli sguardi che poteva scorgere nelle notti d’estate, nelle lunghe passeggiate o nelle giornate di pioggia.

Sapeva, anzi sentiva, che con nessun altro condivideva quella complicità, come sapeva che non era sua sorella e che, per fortuna, non lo sarebbe mai stata. Sebbene, in realtà, i loro genitori parlassero ormai da tempo di adozione reciproca.

Abbassò il braccio con cui teneva il cappello e si allontanò leggermente. La mano di lui le scivolò lungo il braccio, accarezzandole la pelle, fino alle dita.

<< Non vorrai prendermi anche questo, vero? >>.

Il suo sorriso si fece malizioso ed irriverente. Se lo mise in testa con entrambe le mani calzandolo con decisione. Gli rivolse la schiena improvvisamente, costringendolo a lasciarle il fianco. Voltò indietro la testa sopra la spalla e gli si rivolse con fare risentito.

<< Credevo ne avessi già uno >>.

Da uno dei passanti di stoffa bianca della gonna pendeva il cappellino blu del precedente campionato con la L rossa cucita sulla visiera.

Rimase un attimo stupito e poi, senza guardarla, lo staccò dalla gonna, mentre lei si girava nuovamente. Lo prese in mano osservandolo quasi con riverenza.

<< Pensavo che potesse esserti utile… che potesse portarti fortuna per il prossimo campionato >>.

Aveva di nuovo le mani intrecciate dietro la schiena, si sporgeva in avanti col busto come una bambina timida che riesce a guardare solo il suo dono, senza poter incontrare lo sguardo di colui al quale regala il più prezioso dei suoi monili. Le sue guance si colorarono appena e assunse un’espressione buffa ed impacciata.

Alzò lo sguardo con titubanza e con le dita si sistemò dietro l’orecchio una ciocca di capelli ribelle. Per un attimo le era sembrato di aver sentito il sapore delle sue labbra. Sembrava ieri. Proprio lì. In una giornata di pioggia, lo aveva baciato. Era stato il suo primo bacio, lo aveva riservato a lui.

Lui soltanto.

Aveva conservato a lungo quel cappello e spesso si era sorpresa ad indossarlo, proprio come quel giorno, e a rimuginare su quanto aveva fatto.

Lui era quasi suo fratello ormai. I loro genitori, almeno, volevano che lo diventasse. Sarebbe stata una delusione terribile per loro se così non fosse stato. Forse non avrebbe dovuto farlo. Forse sarebbe stato meglio se si fosse trattenuta. E poi, dopo quel giorno, lui non aveva fatto parola di quanto successo.

Si voltò verso il campo cercando di scacciare quei pensieri. Stava ormai spiovendo ed era quasi sera. All’orizzonte le nuvole si diradavano lasciando intravedere qualche angolo di cielo ormai dorato.

Frugò nella sua mente alla ricerca di un nuovo argomento. Ma le sembrava di sentire ancora le sue dita scendere leggere accarezzandole il braccio.

La porticina bianca cigolò.

<< E’ ora di andare ragazzi. La prima partita dell’anno rimandata, una vera disdetta >>.

Istintivamente si allontanarono di un passo l’uno dall’altra. John indossò il cappellino, mentre lei, invece, si toglieva l’altro quasi di nascosto.

<< Non vorrai giocare con il cappellino dello scorso anno, vero? >>.

<< Hai indovinato allenatore! Tua figlia mi ha appena rubato quello nuovo >>.

Si voltò verso di lui con aria risentita. << Ehi, te lo restituisco subito, non c’è problema! >>. Gli fece una smorfia e si girò verso suo padre << Non preoccuparti papà, il tuo pupillo domani giocherà con una divisa nuova di zecca! >>.

E lui rideva, giocandosi di lei, cercando poi di schivare il cappello nuovo che turbinava in aria.

<< Mah! Fate voi… Tornate a piedi come al solito, vero? >>.

Nessuna risposta. Solo cappelli in aria. Uscì chiudendosi dietro la porta.

Dopo un’eroica battaglia si arrese, si scusò cerimoniosamente e finalmente lei si calmò. Scoppiò ancora in una fresca risata e lanciò il cappello nuovo sulla panchina di legno dei Lions fattasi scura per l’umidità.

Rimasero in silenzio per un lungo momento in cui ognuno inseguiva i propri pensieri.

La guardava. E quanti sentimenti sfioravano la sua mente.

La ricordò con i capelli sulle spalle, come li portava fino a pochi anni prima. La vide piangere sulla tomba della madre, come accadeva ogni anniversario, e poi seduta sulla staccionata del giardino, nel suo candito abito color mimosa il giorno del ringraziamento. Pensò a quando le teneva la mano mentre le toglievano il gesso alla gamba, rottasi cadendo dalle scale, e alle sottili dita che intrecciava con le sue, ogni sera, sulla strada di casa.

Un lungo e malinconico sorriso gli piegò le labbra.

<< Torniamo a casa? >>.

Gli sorrise e fissò ancora per un attimo il cielo di mille colori.

<< Sembra che non ci bagneremo, per fortuna >>.

<< Già. Mi cambierò in un attimo >>.

Lasciò cigolare la porta e corse nel corridoio portando via entrambi i cappelli.

Si alzò dalla panchina spolverando con la mano il retro della gonna e, prima di uscire ed entrare nel corridoio che penetra nell’interno delle gradinate, si voltò ancora una volta per guardare verso il campo da gioco.

Sprazzi isolati di un ormai basso sole di fine Luglio illuminavano le pozze d’acqua vicino al campo. Il riflesso illuminava il soffitto del box rendendo una strana sensazione di estraneità.

Non sembrava il posto in cui si trovava fino a pochi attimi prima.

Già. Soltanto perché lui se ne era andato.

Quanto amava quei momenti di complicità.

Oggi le aveva tenuto la mano. L’aveva quasi abbracciata, per la verità.

Ripensandoci si morse piano il labbro inferiore e sorrise. Le piaceva stargli vicino. Più vicino di quanto avrebbe dovuto.

Uscì chiudendosi la porta cigolante alle spalle, percorse i desolati corridoi dello stadio osservando con curiosità i misteriosi graffiti di qualche ragazzaccio dal notevole talento e indossò il cardigan rosso dei Lions.

Lo aspettò all’ingresso dello stadio e lo vide arrivare vestito di jeans blu scuri e di una semplice camicia bianca.

Era solo qualche miglio di strada fino a casa Owen, ma loro preferivano sempre tagliare attraverso i campi. In estate, in particolare, amavano costeggiare la staccionata che divide i due grandi campi coltivati a girasoli.

Tutto il terreno intorno a casa Owen era di proprietà della famiglia da generazioni, ma ormai, da più di dieci anni, o meglio da quando il signor Owen era morto lasciando moglie e figlio di soli otto anni, venivano coltivati dai Cardillo, numerosa famiglia argentina immigrata negli anni settanta, a cui non mancavano certamente braccia da impiegare nel lavoro dei campi.

Vicino le staccionate erano soliti lasciare sempre l’erba piuttosto alta, in ossequio alla tradizionale credenza di lasciare un luogo di riposo per i viandanti. In realtà, quel morbido giaciglio era servito solo a qualche sparuta coppietta e più spesso a qualche ragazzaccio che vi smaltiva la sbornia.

Camminavano lenti nello stretto viottolo in cui, prima dell’estate, passava a stento anche il ronzino del vecchio Cardillo, ma il grano non sarebbe stato di nuovo alto per ancora parecchi mesi ed il passaggio era agevole.

Le piaceva camminare lentamente in quel breve tratto che separava la strada dal viottolo, mentre aspettava con ansia di girare intorno alla staccionata. Di lì a pochi passi nessuno avrebbe più potuto scorgerli dalla strada e lui l’avrebbe presa per mano e non l’avrebbe lasciata fino a quando non sarebbero stati in vista di casa. Le piaceva sentire le dita tra le sue. Un gesto di intimità semplice e sensuale.

Come lui.

Ricordò divertita la prima volta che l’aveva fatto. Rivide il suo profilo tutto irrigidito mentre teneva lo sguardo dritto davanti a sé, con il viso tutto rosso e la mano sudata. Decise di far finta di niente, divertita dal suo imbarazzo e lusingata da quel gesto. Da allora avevano cominciato a rincasare sempre a piedi e ad odiare i giorni di pioggia.

Si sentiva bene così vicina a lui.

Alle volte deviavano lungo il fiumiciattolo e scendevano fino al piccolo mulino di Muto. Muto era un vecchietto solitario. Viveva solo. Lavorava solo. Morì anche da solo. Fino a qualche anno prima vendeva il pane a tutto il paese, morì e nessuno quasi sembrò accorgersene.

Ma in fin dei conti perché mai avrebbero dovuto? Quasi nessuno aveva sentito la sua voce, eccetto qualche grugnito riservato al malcapitato ragazzo di bottega che portava il pane al negozio di alimentari.

John lo conosceva bene e meglio di lui lo conosceva suo padre. Era venuto al suo funerale e aveva baciato la vedova. Pochi giorni dopo regalò al piccolo John un coltellino dal manico rosso con cui per tutta l’estate gli insegnò ad incidere il legno.

Conservava ancora quel coltello.

Il mulino in realtà rientrava nella proprietà degli Owen come la terra su cui giaceva, ma Muto era lì da sempre e il vecchio Owen non si sarebbe mai sognato di cacciarlo. Era buffo chiamarlo Muto per poi sentirlo rispondere. Sabrina non poteva non sorriderne ogni volta. E a John piaceva.

Gli piaceva vederla sorridere.

Ricordò come, nei giorni di festa, suo padre era solito portarlo sulle spalle a visitare il mulino mentre aspettavano che la crostata di more fosse in tavola per merenda.

Era così dolce ricordare suo padre. Le sue spalle, le sue mani grandi. Sarebbe stato felice di fargli conoscere Sabrina. Era sicuro che anche lui l’avrebbe amata.

Scrutò il cielo gonfio di nuvoloni ed arrivati al bivio preferì proseguire proprio nella direzione del mulino. Pochi minuti dopo cominciò nuovamente a piovere ma, fortunatamente, erano ormai a pochi metri dalla costruzione di pietre e legno di quercia. Entrarono dalla robusta porta di legno in un ampio locale che Muto usava per lavorare gli impasti.

Con cura incastrò nel gancio di ferro arrugginito l’asse che serviva da serratura e la seguì salendo al piano soprastante attraverso le anguste e scricchiolanti scalette rasenti la parete.

Entrato nel locale vide che aveva aperto l’ampia porta scorrevole che costituiva gran parte della parete da cui si accedeva alla parte superiore della ruota, che, al momento, era immersa di solo qualche centimetro nell’acqua del fiumiciattolo in secca.

Il locale era spoglio. Muto era solito accatastare i sacchi di farina sulla paglia stesa sul pavimento. Adesso erano rimaste solo le mensole degli attrezzi sulle pareti, una vecchia lampada e un bel mucchio di paglia nell’angolo vicino alla porta scorrevole.

Avevano tenuto in ordine il mulino per evitare che gli animali lo trasformassero in un luogo di cova. Una volta si erano quasi intossicati con il veleno per topi e finirono per passare tre giorni nell’ospedale della Contea. I loro genitori si infuriarono per quanto era successo, ma non riuscirono a dissuaderli dell’idea di prendersi cura del mulino di Muto.

Si mise seduta come sempre sul bordo del solaio, lasciando dondolare le gambe ed i piedi nudi sopra la ruota.

La tettoia si allungava di almeno un altro metro sopra di lei riparandola dalla pioggia che non accennava a perdere intensità.

Si avvicinò studiando la stanza semibuia. Si abbassò vicino a lei, poggiando la schiena alla porta scorrevole giunta a fine corsa. Rannicchiò una gamba al petto e fece scivolare l’altra a dondolare sopra la ruota.

Guardava il suo profilo.

Ormai quel posto era solo loro. L’avevano risistemato con un misto di malinconia ed affetto per il vecchio Muto, trascorrendovi interi pomeriggi e domeniche. Gli piaceva passarci a sera, tornando dagli allenamenti, tenendola per mano.

La sua mano. Ogni volta che la prendeva nella sua, dopo aver doppiato la staccionata del campo di girasoli, era un’emozione speciale.

La prima volta l’aveva fatto senza sapere dove trovarne il coraggio. L’aveva presa e basta. Era un gesto che forse avrebbe portato delle conseguenze, ma non era riuscito ad impedirsi di farlo. Non era nemmeno riuscito a voltarsi per guardare la sua reazione. Aveva atteso fino a quando non aveva sentito le sue dita stringersi leggermente alle sue. E solo in quel momento si era reso conto di aver trattenuto il respiro.

Era un giorno d’estate. Ricordò che indossava un morbido vestito arancio. Un piacevole vento tiepido le scompigliava i capelli che cercava di trattenere con una mano. Stava guardando in direzione di Mercy, il piccolo paesino che si intravede a nord nei giorni di buona visibilità. Vi andavano ogni estate in occasione della festa delle maschere ed poi in Settembre per quella dell’uva. Ne tornavano ogni volta un po’ brilli.

Ricordò che la sua mano era tiepida. La pelle del braccio, invece, quasi fresca. Lo aveva guardato. Aveva sentito il suo sguardo su di sé, ma in quel momento non sarebbe mai riuscito a ricambiarlo.

Era certo che fosse rimasta sorpresa di quel gesto, ma lo rassicurò il fatto che avesse continuato a camminare vicina a lui, come se niente di strano fosse accaduto.

E quel gesto di intimità era ormai diventato una promessa segreta, che si rinnovava con discrezione ogni sera. Lasciarle la mano in vista di casa lo amareggiava come solo le cose inevitabili possono fare.

Ora era lì, davanti a sé. Bella come poche altre volte l’aveva vista.

Lo era sempre in verità, ma quando si trovavano da soli la sua bellezza riusciva sempre a stupirlo. Era diversa con lui. Solo con lui. A nessun altro erano mai dedicate quelle parole e quel sorriso.

Si. Accanto a lui era ancora più bella. Quasi magica.

Osservava le gocce di pioggia che si perdevano nel fiumiciattolo creando ampi cerchi concentrici che si ostacolavano e rompevano a vicenda. La luce ormai troppo lieve del giorno le illuminava appena il viso.

Nonostante le nuvole poteva scorgersi una pallida luna che si ergeva già abbastanza alta. Notò che la punta del naso e le ginocchia argentee già ne riflettevano la luce.

La vide allungare una gamba in aria, fuori dal pavimento, facendo forza sull’altra e sulle braccia, per raggiungere con il piede le gocce d’acqua che scivolavano giù dalla tettoia. Quando vi riuscì emise un piccolo gemito di soddisfazione e sorrise come una bambina. Poi rannicchiò la gamba ed il piede bagnato al petto e lo guardò mordendosi il labbro inferiore con occhi buffi.

Piccoli brividi apparsero lungo la gamba su cui scivolava lenta qualche goccia di pioggia. Con quello strano movimento la corta gonna bianca e rossa era salita lasciando intravedere la dolce linea della coscia.

Si costrinse con fatica ed imbarazzo a volgere lo sguardo all’interno della stanza, verso la paglia su cui, quell’estate, lo aveva sorpreso a sonnecchiare innumerevoli volte.

Ma lei interruppe subito i suoi pensieri.

<< Ricordi l’anno scorso, la festa dell’uva a Mercy? >>.

Erano andati a piedi da soli ed erano tornati la mattina successiva con la macchina dello sceriffo Paley, amico d’infanzia del vecchio Owen. Avevano camminato attraverso i campi durante una tranquilla serata, accompagnati dal sole che tramontava. Avevano ballato tutta la notte nella piazza di Mercy insieme ai vecchietti del paese. Fino a che non si era ubriacato con l’unico bicchiere di vino della serata.

Quell’episodio era sempre motivo di scherno. Persino il vecchio Paley lo sfotteva con fragranti risate.

Si voltò, pronto ad incassare, ma il suo sguardo non era quello che si aspettava. Guardava la pioggia avanti a sé, ma senza vederla. Aveva incrociato le mani sotto le gambe, che oltre le ginocchia dondolavano nuovamente sopra la ruota. Un lieve, dolce sorriso sulle labbra.

Esitò un momento. Girò su sé stesso e fece scivolare le gambe accanto alle sue. Mandò indietro il busto sorreggendosi con le braccia stese dietro la schiena e le rispose fissando l’acqua che pioveva dalle curve della tettoia.

<< Mi ricordo il tuo vestito azzurro e il nastro che avevi tra i capelli. Ricordo di aver ballato con te tutta la notte >>.

Una piccola emozione le trasparì dal volto.

Ricordò le sue braccia intrecciate intorno alla schiena, le sue mani lungo la vita. Gli sguardi che si incrociavano continuamente. Il suo sorriso gentile. Il suo respiro. Adesso forse più di allora le provocavano un dolore dolce e intenso in mezzo al petto.

Abbassò istintivamente lo sguardo e si accorse con imbarazzo che la gonna le era salita più del lecito. La spostò con noncuranza, spiandolo con la coda dell’occhio.

La lunga tettoia teneva in ombra il suo viso. Quando le parlò la voce sembrò provenire dal fondo della stanza.

<< Vorrai tornarci quest’anno o ti vergognerai di me? >>.

Con una mano si spostò i capelli dietro la schiena lasciando scoperta parte del collo e gli rispose con un filo di sorriso.

<< Avevi il sorriso di un bambino mente dormivi nella macchina dello sceriffo >>. Rimase un attimo in silenzio a guardare la pioggia e ad ascoltare le rane che gracidavano nel fiumiciattolo. Riprese poi con fare malizioso.

<< Mi farai ballare tutta la notte? >>.

<< Tutto quello che vorrai >>.

<< Anche in cima al campanile di Mercy? >>.

Uscì dall’ombra e d’istinto le si avvicinò.

<< Anche nei campi e nel castagneto del vecchio Walsh, se vorrai. Ti prometto che torneremo con le nostre gambe stavolta >>.

Si strinse nelle spalle. << Oh si, certo. Se ti ricorderai di non ballare vicino alle botti del vino >>. Si voltò dall’altra parte e con un sorriso irriverente continuò << Alle volte anche solo l’odore del vino, sai … si, insomma, potrebbe farti uno strano effetto …. Forse il vin nuovo non è proprio cosa per te >>.

La sentì ridere sottecchi. Istintivamente le passò una mano intorno alle spalle, aspettò che si girasse di nuovo e avvicinò il viso al suo.

Avrebbe voluto replicare. Ma le parole gli si bloccarono in gola e si persero nell’odore della sua pelle. Il viso. Il collo. La spalla fresca sotto la sua mano. I capelli sotto il suo braccio. I suoi occhi. Quel suo sguardo prima stupito e subito dopo addolcito gli strappò un sospiro di parole dal pensiero << Non è solo il vino a farmi girare la testa. >>.

Si morse il labbro per l’idea di aver detto qualcosa di troppo, o forse per non aver voluto finire quella frase che gli era nata in gola da sola. Come si era avvicinato, d’istinto si allontanò. Rientrò nell’ombra, ma lei sembrava non volerne sapere di distogliere lo sguardo e si sentì costretto ad alzarsi.

Non aveva detto niente in realtà, ma quello che avrebbe voluto dirle lo aveva messo in agitazione comunque.

E sapeva che lei lo aveva capito.

Fece qualche passo verso l’interno della stanza.

Lei si voltò di nuovo verso la pioggia, lentamente.

Guardò le gocce gonfiarsi e cadere dalla tettoia. Si sorprese a pensare con tristezza e rassegnazione che forse quelle paure non se ne sarebbero mai andate. Che avrebbero sempre aleggiato tra loro.

Pronunciò quelle parole con un filo di speranza, con un sorriso appena accennato in occhi bui e stanchi.

<< Proprio come adesso? >>.

Sgranò gli occhi per un attimo e poi li riabbassò. Rimase girato verso la parete. Non parlò per paura di deluderla. Con l’ansia di sbagliare. Senza riuscire a pensare.

Ebbe per un attimo la tentazione di spiarlo con la coda dell’occhio. Ma poi tenne il suo sguardo fisso sulla pioggia. Rimase in silenzio, aspettando una risposta che temeva non sarebbe arrivata. Ma non sarebbe stata lei a mollare. Non stavolta. Si sentiva così stanca.

Strinse gli occhi ed alzò appena lo sguardo. Quando li riaprì vide il setaccio di Muto. Ricordò il giorno in cui le insegnò ad usarlo. Aveva il viso tutto bianco di farina e gli occhi lucenti. Fecero il bagno nel fiume e fu punta ad un piede da un insetto velenoso. La portò tenendola in braccio fino a casa, incurante delle parole di Muto che voleva accompagnarla con il furgoncino. Aveva corso come un pazzo lungo il viottolo sterrato, ricorrendo ad energie che non sospettava di possedere. Era rimasta a letto con la febbre per giorni, ma alla fine era andato tutto bene. Quella paura, però, non l’avrebbe mai scordata.

E adesso provava una sensazione molto simile. Aveva l’impressione che qualcosa di lei se ne stesse scivolando via piano piano.

Parlò con il cuore gonfio di paura, sgombrandolo con forza dalle paure che lo attanagliavano.

<< Si. Proprio come adesso >>.

Per un momento si sentì stranamente sollevato. Alzò gli occhi al soffitto e rise di sé. Le parole scivolarono da sole dal pensiero. << E come prima, nel box giocatori. E come ogni sera, quando entri in camera mia in camicia da notte. E come ogni giorno, quando prendo la tua mano lungo il sentiero dei girasoli >>.

Indugiò per un lungo attimo e lei rimase in silenzio. La paura lo colse nuovamente e lo costrinse a riabbassare lo sguardo. Sentiva rimbombare nella sua testa il rumore delle gocce di pioggia sulla tettoia. Strinse istintivamente i pugni e cercò di rimanere lucido.

Le parlò con un filo di voce. << Come tutte le volte che vedo il tuo sorriso. Quello che non ti vedo mai rivolgere ad altri. E che ho sempre sperato fosse solo per me >>.

Era rimasta assolutamente immobile, quasi senza respirare. Per quei pochi momenti non aveva sentito più la pioggia, né l’aria fresca sulla pelle umida delle gambe, né il contatto con il pavimento. Solo il suono della sua voce. Solo i suoi silenzi. Solo le sue parole.

E quelle ultime sciolsero i suoi pensieri. Finalmente sorrise. Distese in aria le gambe che pendevano nel vuoto e si guardò le punte dei piedi piegando leggermente la testa da un lato.

Le tirò su e si alzò girandosi su se stessa e fece un passo verso di lui che le dava le spalle. Allungò la mano verso la sua, che pendeva abbandonata lungo il fianco. Si fermò un attimo prima di raggiungerla, commossa da quanto più grandi si fossero fatte la sua schiena e le sue braccia, da quando, qualche anno prima, l’aveva portata in braccio fino a casa. Era passato del tempo, molto tempo, ma le cose tra loro non erano cambiate. Forse non avrebbero mai potuto essere diverse.

Sfiorò il dorso della sua mano con le dita e poi lo strinse al suo palmo.

Socchiuse gli occhi. Lo disse a voce bassa.

<< Si, solo per te. E’ sempre stato solo per te >>.

Le sentì fare un altro passo. Sentì il suo viso affondargli nella schiena. La sentì lasciargli il palmo della mano e un attimo dopo sentì solo le dita, che si fondevano con le sue. L’altro braccio che lo stringeva a sé. Sentì tutto il suo corpo contro di sé.

Si perse per un momento in quella strana sensazione di torpore che in breve diventò qualcos’altro. Si voltò lentamente con l’intenzione di guardare il suo viso e prenderlo tra le mani. Ma il suo corpo agì da solo e la strinse a sé.

Si trovò tra le sue braccia. La teneva stretta come non lo credeva capace. La colse un attimo di smarrimento e di stupore per quel gesto inaspettato. Poi si scoprì felice ed impaurita nel calore del suo corpo.

Lentamente, sulla punta dei piedi ancora nudi, appena sollevata da terra, spostò le braccia piegate contro il suo torace e le fece scivolare dietro le spalle. Gli si trovò ancora più vicina e non riuscì a trattenere un sospiro che le uscì come un gemito.

Intrecciò le braccia sempre più strette sulla sua schiena, fino ad avvolgerla completamente. Sentiva il suo respiro nel proprio petto. Sentiva il suo petto sul suo. Sentiva la sua vita, che le mani non potevano evitare di sfiorare. Il suo profumo. I suoi capelli. Li sentì tra le sue dita, lisci, sottili, delicati come seta.

Allentò un attimo il suo abbraccio, come per gestire un’emozione troppo forte.

I suoi piedi toccarono di nuovo terra, le mani gli scivolarono sul petto, ma il suo viso rimase lì. Vicino al suo. Vicino al collo. Lo sfiorò con la guancia e poi con le labbra. D’istinto. E si sentì stringere di nuovo, sollevata ancora da terra. Gli strinse le braccia intorno al collo e incontrò il suo sguardo.

Sapeva quanto la desiderasse. Certo, lo sapeva forse meglio di quanto lui stesso ne fosse consapevole, ma vederlo nei suoi occhi, sentirlo nel fremito delle sue braccia e di tutto il suo corpo era tutta un’altra emozione.

Gli sorrise. Gli accarezzò leggera la nuca. Gli passò la mano tra i ribelli capelli castani che le erano sempre tanto piaciuti e appoggiò per un attimo la fronte alla sua sfiorandogli la punta del naso con il proprio.

Le sorrise, la spinse piano contro la parete ormai nell’ombra e la baciò.

Tutto era fermo.

Non fu come la prima volta. Un turbine di emozioni violente li colse impreparati.

Il suo bacio era intenso, profondo. Le sue braccia le cingevano la schiena, le sue mani il costato. Sentì il bisogno di stringersi ancora di più al suo petto. Si staccò appena dalla ruvida parete di legno e si spinse contro di lui.

Fu costretto ad incurvarsi impercettibilmente e le mani gli scesero leggere disegnando la linea del suo corpo, facendola trasalire appena. Sentì quel brivido scenderle lungo la schiena distraendola dalle sue labbra per un attimo. Poi la vide aprire gli occhi per cercarle nuovamente e sentì ancora tutto il calore del suo corpo.

Pioveva.

L’odore della sua pelle si era mischiato a quello della pioggia.

Il cardigan rosso dei Lions li precedette sulla paglia un po’ umida. Scavò con la mano per trovare quella più asciutta e il resto fece loro da riparo.

Successe così, in poche ore di pioggia.

La notte corse via veloce, ma tornarono a casa che era ancora scuro. Presto tutti avrebbero saputo, ma per un altro po’ sarebbe rimasto un loro segreto, come del resto era sempre stato durante tutti quegli anni.

Camminarono piano, tenendosi per mano nella lieve, magica luce di una luna che andava sparendo all’orizzonte. L’erba ancora umida bagnava le loro caviglie nude e i ricordi della notte appena trascorsa aleggiavano intorno a loro, lievi come fantasmi.

 

 

Firenze, 16 - Maggio - 2003

 

 

Ehi ragazzi, fatemi saperecosa ne pensate, anzi, facciamo così: se non mi commenterà nessuno capirò l'antifona e cambierò sport, in caso contrario... beh, non sarà facilissimo liberarvi di me...

Ciao a tutti,

Lex

 

 

 

  
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