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Autore: rekichan    20/11/2008    6 recensioni
Prima classificata a parimerito al Contest Alphabet di Ski Eventide
Erano felici. O così credevano.
Perché il Fato ha un curioso senso dell’umorismo che segue le leggi del parabolismo storico.
Quando un evento, una società, un sentimento raggiunge l’apice della sua realizzazione, allora comincia un declino tanto più veloce quanto è stata rapida la salita.
La loro amicizia avrebbe dovuto attraversare una dura e lenta agonia.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Naruto Uzumaki, Sakura Haruno, Sasuke Uchiha
Note: Alternate Universe (AU), What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
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«Oggi ci sono i funerali, vero

Personaggi/Pairing: SakuSasuNaru

Lettera scelta&key words(+ seconda lettera): T (Tradimento). Seconda lettera: W (wana)
Credits:

Personaggi © Masashi Kishimoto

Canzone “Se tornerai” © Max Pezzali

Note dell'Autore: La storia è ambientata in America nello spazio temporale tra gli anni ’60 e il 2010. So che una migrazione giapponese negli Stati Uniti negli anni ’60 è molto improbabile, ma l’atmosfera del Giappone del dopoguerra non avrebbe avuto lo stesso impatto.

Chiedo scusa per l’anacronismo storico e per la piccola “licenza poetica”.

Ah, l’inglese sgrammaticato, dove presente, è voluto.

Ah, gli spezzoni della canzone sono in ordine sparso. E l’inglese sgrammaticato è voluto XD!

Giustifico qui la scelta delle lettere: T, come Tradimento, perché in questa storia tradiscono l’uno la fiducia dell’altro, mentre come seconda lettera ho scelto Wana, perché fondamentalmente quella in cui cadono Naruto e Sasuke è una vera e propria trappola che li conduce alla distruzione. Penso sia tutto.

Ringrazio vivamente Sky, che ha penato per dare i risultati a noi concorrenti impazzite, e faccio i complimenti alle altre podiste: Tone, Mimi18 e Princess21ssj, e a tutte le altre concorrenti.
Dediche:
Alle ragazze che hanno agonizzato con me nell’attesa dei risultati, ovvero alle “Sopravvissute al contest Alphabet” e a Kei_saiyu, Ainsel e Kodamy, che hanno seguito la nascita di questa fan fiction e mi hanno incoraggiata a terminarla.

 

 

23/07/2010

 

 

Ti ho rivisto stamattina
sul giornale la tua foto
steso su quella panchina
non sembravi neanche tu
forse te la sei cercata
forse non sei stato forte
non m'importa ma non so
se eri pronto per la morte.

 

 

Un velo di nebbia aveva ricoperto la città dalle prime luci dell’alba, respingendo gli esigui raggi di un sole invernale che, invano, tentavano di penetrarvi attraverso.

Il rumore dei passi spezzava il silenzio ovattato del mattino.

Camminata pesante; simbolo di una stanchezza congenita, impossibile da scrollare via.

Come il freddo della aguzza pioggerella invernale - che, una volta preso, entra dentro le ossa e non si schioda più se non dopo molto tempo -, la stanchezza era penetrata sotto la pelle, insediandosi nel cuore appesantito da una vita ricca di affanni e di ben poche soddisfazioni.

Se avesse dovuto fare il bilancio della propria esistenza, avrebbe avuto ben poco da dire.

Nato e morto ancor prima di poter affermare, con la soddisfazione propria di chi si ritiene compiaciuto e realizzato dai propri traguardi: «Ho vissuto.»

E pensare che sulle spalle segnate da troppe cicatrici portava il peso di soli quarantatre anni.

Schiena su cui gravavano mille frustrazioni; aspirazioni fallite e sogni infranti.

La classica vita sprecata, insomma.

Proseguì per la strada disossata che aveva intrapreso una volta abbandonata la macchina.

La vegetazione, per quel tratto, si faceva più fitta, tanto che era difficile inoltrarsi per il sentiero fangoso.

Non sapeva neppure perché fosse lì, ormai.

Quella mattina, aveva lasciato la propria ragazza – mai preso moglie. Troppo impegnativo. O semplicemente troppo irresponsabile per potersi dedicare ad una vita normale. Lavoro, moglie, figli… no. Decisamente troppo per lui. –, salutandola con uno schietto: «Esco.».

Lei si era rigirata nelle coperte per un attimo, aveva mugugnato qualcosa che suonava come uno: «Ciao.» stiracchiato ed era tornata a dormire.

Era salito in macchina, come sempre.

Era andato al lavoro; quel tranquillo lavoro di segretario che era riuscito a trovare quasi per miracolo.

Molto, per uno che ha frequentato la scuola serale ed usciva da una clinica di disintossicazione.

Davvero molto. La sua ragazza gli ripeteva spesso che era un miracolo; che avrebbe dovuto sentirsi soddisfatto di come erano andate le cose e che – odiava quando arrivava a quel punto – adesso che aveva un lavoro stabile avrebbe dovuto, magari, pensare a sposarla e a metter su famiglia.

«Dettagli.», rispondeva lui. E usciva.

Anche quel giorno, come tutti gli altri, sarebbe tornato a casa presto; l’avrebbe abbracciata, baciata e sarebbero finiti a fare sesso nella loro camera o, se proprio avevano voglia di una trasgressione che aveva assunto l’amaro sapore della monotonia, sul divano del soggiorno.

Poi aveva visto quel giornale spiegazzato sulla propria scrivania e, diretto come un pugno in pieno volto, gli era tornato in mente.

La macchina aveva deviato lungo quella strada di campagna; lontano dalla città e da tutto ciò che essa rappresentava – vita, compagna e lavoro assurdamente stabili -, alla ricerca di un passato troppo crudo da ricordare e, per questo, sempre vivo e lucido nella memoria.

Sorpassò gli ultimi arbusti che lo separavano dalla radura, meta della sua apparentemente interminabile passeggiata.

Lei era là.

Era quasi certo di trovarla lì, proprio come l’aveva lasciata venti anni or sono: schiena dritta; i capelli rosa che le sfioravano delicatamente il collo, ricadendo in morbide ciocche rosate lungo la schiena…

«Immaginavo che saresti arrivato, Sasuke.»

«Immaginavo di trovarti qui, Sakura.»

La scrutò: era cambiata. Molto, rispetto all’ultima volta in cui l’aveva vista.

Il corpo non era più snello e flessuoso, ma leggermente appesantito sui fianchi, sottolineati dalla linea del tailleur grigio. I capelli erano più corti. O forse era solo il severo chignon che li costringeva sulla nuca a conferire alla donna l’austerità della sua persona.

Però era bella. Lo era sempre stata, anche se non glielo aveva mai detto.

Ed era buona. Anche se non c’era più bontà in quegli occhi verdi, ormai spenti ed intenti a scrutare un passato che non era mai stato – né poteva essere – loro, riflesso in quella fredda lapide che portava inciso il nome che aveva segnato la loro vita.

 

NARUTO UZUMAKI

 

10/10/1967

 

23/07/1990

 

Sakura lo fissò per un attimo; ne studiò il volto dai lineamenti ormai ruvidi – non aveva mai perso la sua aria sciupata. Mai. -; indugiò sulla camicia slacciata e rivide in quel quarantatreenne il diciassettenne di buona famiglia che si tirava canne e correva in moto, assieme a lei e al suo migliore amico.

Questo prima che la situazione precipitasse.

Una volta per tutte.

 

 

 

 

Ti ricordi quell'estate
in moto anche se pioveva
tentavamo un po' con tutte
cosa non si raccontava
ci divertivamo anche
con delle cose senza senso
questo piccolo quartiere
ci sembrava quasi immenso

 

 

Sasuke Uchiha e Naruto Uzumaki si erano conosciuti a dieci anni, quando il piccolo Uchiha si era trasferito dal Giappone nella loro cittadina di provincia.

Silenzioso e burbero, il bambino sembrava non conoscere una sola parola d’americano.

In classe stava sempre zitto; svolgeva diligentemente i compiti di matematica, per cui sembrava molto portato, e ignorava le lezioni di lettere, consegnando in bianco e causando l’irritazione dell’insegnante.

A ricreazione non giocava mai con i compagni, ma si ritirava in un angolo solitario del cortile a raccogliere pietruzze dal selciato.

Naruto – bambino biondo e scavezzacollo; vero incubo di ogni insegnante della scuola che si faceva perdonare tutte le marachelle semplicemente sgranando gli enormi occhi azzurri – non ricordò mai quando fu il giorno in cui decise di diventare suo amico ma, in compenso, fu sempre consapevole del perché.

Non era molto amato dai compagni: troppo vivace, troppo allegro, troppo… un po’ troppo tutto. In più, il suo tutore Iruka non era il padre naturale e non veniva da una buona famiglia.

Sasuke, invece, nonostante il suo carattere scontroso, esercitava un’attrattiva assai maggiore.

Di famiglia prestigiosa e altolocata; i suoi lineamenti tipicamente orientali esercitavano sui bambini un’attrazione quasi magnetica, generata principalmente dalla curiosità.

Molti avrebbero desiderato stringere amicizia con lui, ma non parlava la lingua e il suo sguardo gelido e supponente scoraggiava qualsiasi tentativo di amicizia.

Sasuke non si faceva avvicinare da nessuno, sebbene avesse potuto; Naruto permetteva a tutti di diventare suoi amici, ma nessuno voleva.

Alla fine, il bambino biondo aveva deciso che lui e Sasuke sarebbero dovuti essere amici, proprio per un meccanismo di compensazione.

Due persone sole sono meglio di una, in fondo. No?

 

 

Naruto prese l’abitudine – malsana, per Sasuke. – di sedersi accanto a lui, mentre raccoglieva sassi durante la ricreazione.

Dapprima, il bambino lo aveva scrutato, un po’ perplesso e un po’ incuriosito, con i suoi occhi a mandorla; poi si era voltato e aveva ripreso la propria attività.

«What’s your name? It’s Sasuke, it isn’t? Are you japanese? How is Japan? Why do you…»

Ogni giorno la storia si ripeteva.

Naruto si sedeva sul muricciolo e cominciava a parlare.

Alla fine, Sasuke si era abituato ad averlo sempre lì vicino, a farfugliare in quell’americano dialettale tipico delle borgate e un po’ infantile.

Ma, se la pazienza dei bambini non è infinita, quella di Naruto Uzumaki, lo era ancor meno e, dopo qualche mese di domande senza risposta, aveva deciso di passare ai fatti.

Studiando Sasuke raccogliere i sassi, aveva scoperto la predilezione del bambino per quelli tondi, lisci e piatti.

L’Uchiha raccoglieva solo quelli, accumulandoli con cura nell’angolo in una piccola piramide.

Quando finiva la ricreazione, li infilava nella tasca del grembiule e li portava a casa.

Naruto gli aveva chiesto più volte il motivo di quella accurata selezione senza – ovviamente – ottenere risposta.

Un giorno, un po’ per noia, un po’ per dispetto, un po’ per desiderio di stabilire un contatto all’infuori di un soliloquio continuo, afferrò un mucchio di sassi raccolti a casaccio e li mischiò alla piramide ordinata di Sasuke, mandando all’aria il lavoro meticoloso del bambino.

Al suono dei sassi che si rovesciavano, l’Uchiha si era voltato di scatto. Vedendo la costruzione distrutta, aveva stretto le piccole mani a pugno, fino a far sbiancare le nocche. Sembrava sul punto di lanciarsi contro Naruto, ma dopo essersi torturato per un attimo il labbro inferiore, pareva aver soppresso la rabbia e aveva cominciato a rimediare al danno.

All’ennesimo tentativo fallito di attirare la sua attenzione, il biondino non ci vide più.

«Hanno ragione gli altri bambini! Non sai far altro che raccogliere sassi! Sei inutile! Sarebbe stato meglio che tu non fossi mai venuto qui!»

Fu la fine.

Le parole apparentemente incomprensibili di Naruto avevano fatto scattare qualcosa nel bambino che, balzato in piedi, gli aveva tirato un pugno.

Dopo un attimo di smarrimento, Naruto aveva reagito ed era scoppiata la rissa.

La maestra ci aveva messo parecchio ad intervenire, bloccata dalla folla di bambini che li aveva accerchiati.

Di sicuro, non arrivò in tempo per impedire ad una bambina dai capelli rosa e un fiocco in testa di mettersi in mezzo.

Sakura Haruno – malignamente soprannominata “big brow” dai compagni, a causa della sua fronte alta. – si era fatta largo tra i compagni e aveva raggiunto i due litiganti.

Furiosa, aveva tirato un pugno in testa a Naruto e un altro in testa a Sasuke – ma a lui più piano. – e, arrossendo, aveva urlato:

«Smettetela! Vi state comportando come due idioti!»

Naruto aveva chinato il capo, di fronte agli occhi verdi carichi di rimprovero; Sasuke aveva fissato con aria di sufficienza quella bambina rompiscatole e aveva sbuffato.

«Ma Sakura … ha cominciato lui! Mi ha dato…»

«Sono sicura che gli hai dato noia! – aveva esclamato Sakura, fulminando Naruto con lo sguardo, per poi rivolgersi, addolcita, a Sasuke. – Non è vero, Sasuke?»

Il bambino si era morso nervosamente il labbro inferiore, alzando lo sguardo sulla maestra appena arrivata.

«Naruto’s right. – aveva farfugliato a voce incredibilmente bassa, ma comunque udibile nel silenzio incredulo dei presenti. – I… I’m first hurt him.»

 

 

Sasuke maledì e benedì allo stesso tempo quello sciagurato giorno in cui, di fronte all’intera scolaresca, aveva dimostrato, non solo di saper parlare bene l’americano, ma anche di avere una qualsivoglia personalità.

Maledì, perché non riuscì più a trovare una scusa valida per evitare le assillanti domande di Naruto, né la presenza di quella bambina dagli occhi verdi che sembrava essersi insinuata a forza nella sua vita.

Benedì, perché la deprecata presenza di quelle due gomme da masticare alleviava un poco quel peso che gravava sul suo cuore di bambino.

L’anno successivo, in prima media, Sasuke trovò il coraggio di invitare Sakura e Naruto a casa propria.

O meglio, Sakura e Naruto costrinsero Sasuke a fargli vedere la propria casa, seguendolo di nascosto e sbucando fuori proprio nel momento esatto in cui Mikoto Uchiha – giovane donna dai capelli neri che, probabilmente, aveva passato da poco la trentina - apriva la porta di casa al figlio.

Mai come quel giorno, Sasuke desiderò compiere un atto di scortesia tale come cacciare i propri ospiti, ma la madre, incurante dei lampi omicidi negli occhi del bambino, li accolse con un sorriso.

Trascorsero il pomeriggio giocando e godendo della squisita ospitalità di Mikoto.

Pomeriggio, quello, che servì a rafforzare la loro amicizia e che segnò la loro vita.

 

 

Forse è stato il tempo
forse quella solitudine
che ci portiamo dentro
troppo grande per noi

 

Anche successivamente, non seppero mai di chi fosse la colpa: se di Naruto, nell’aver avvicinato Sasuke la prima volta; se di Sakura, che spezzò il cuore di Naruto, preferendo Sasuke a lui; se di Sasuke, che preferì gettarsi nell’oblio, invece che tra le braccia dei suoi amici, rovinando la propria e la loro felicità.

Probabilmente, la colpa fu di tutti e tre e di nessuno di loro.

Erano inseparabili e l’affetto che nutrivano l’uno per l’altro acquistò, col tempo, tinte sempre più morbose, aiutato anche dalle sciocchezze giovanili che non esitavano a commettere.

Gli anni d’oro, quelli del ’68, erano ormai trascorsi, ma nell’aria aleggiava ancora il profumo del cambiamento e della rivoluzione.

I sogni si vendevano facilmente nel piccolo quartiere giapponese della città. E di sogni, loro, ne avevano tanti.

Nel cassetto – tenuti segreti -; palesati, cantati alla luce dei falò.

Era il 1983, di lì a poco, la guerra fredda avrebbe avuto termine con la caduta del muro di Berlino, ma loro ancora non lo sapevano.

Loro, semplicemente, come tanti ragazzi, vivevano lungo l’onda del momento, senza pensare ad un futuro (remoto, per loro) di cui non vedevano la fine.

Sasuke e Naruto erano ormai due sedicenni con la testa persa in ogni mondo, eccetto che in quello terreno.

Correvano in moto, fumavano e si divertivano a fare i cascamorti con le ragazze, chi più, chi meno palesemente.

Sakura era cresciuta. Big brow era scomparsa e, al suo posto, vi era una giovane donna con i capelli lunghi e ben curati e il fisico snello che si fletteva morbido sotto i jeans; le t-shirt aderenti e i chiodo di pelle.

Erano felici. O così credevano.

Perché il Fato ha un curioso senso dell’umorismo che segue le leggi del parabolismo storico.

Quando un evento, una società, un sentimento raggiunge l’apice della sua realizzazione, allora comincia un declino tanto più veloce quanto è stata rapida la salita.

La loro amicizia avrebbe dovuto attraversare una dura e lenta agonia.

 

 

Poi le strade piano piano
ci hanno fatto allontanare
e il motivo sembra strano
non lo saprei neanche dire
solo ti vedevo qualche volta
in giro con quegli altri
tu che mi dicevi
qualche sera passerò a trovarti

 

Sakura non seppe mai il giorno preciso in cui smise di essere la migliore amica di Sasuke, a favore di un’avvenente signorina vestita di bianco.

Solo con gli anni riuscì ad individuare l’anno; quel 1983 che rimase sempre vivo nel ricordo, come il momento peggiore della sua esistenza.

Aveva visto più volte la foto della famiglia Uchiha troneggiare sul camino del soggiorno.

Quattro Uchiha. Il capofamiglia, Fugaku, seduto su un divanetto con la moglie Mikoto alla propria destra; i due figli in piedi. Uno da una parte ed uno dall’altra.

Rigidi; seri e dannatamente…

…gelidi.

Se, secondo una fantascientifica teoria, vi fosse stato amore in quella famiglia, Sakura non lo avrebbe mai capito dalla foto.

Le poche frasi strappate a forza a Sasuke quando era di cattivo umore, andavano solo a confermare i sospetti del marcio dietro una facciata perfetta.

Quella era una famiglia distrutta. Padre autoritario, madre troppo debole per imporsi e i figli – uno troppo impegnato ad arrancare sulle orme del fratello e l’altro troppo preso dall’atto di ignorarlo – in perenne conflitto tra di loro.

Dopo molte risposte a spizzichi e bocconi, Sakura e Naruto avevano appreso che Sasuke non amava parlare del fratello. Ogni volta che si nominava Itachi, piccole rughe si disegnavano sulla sua fronte; le sopracciglia si corrugavano e gli occhi si riempivano di rabbia malcelata.

Alla fine, i due ragazzi avevano imparato ad evitare l’argomento. Però, ogni qualvolta arrivava notizia dei successi universitari di Itachi, Sasuke spariva per diversi giorni; marinava la scuola, dormiva durante le lezioni, oppure passava le nottate in giro, senza informarli né del luogo dove si recava, né con chi.

A poco, a poco, avevano cominciato a vederlo sempre più di rado; il ragazzo non li cercava e non si faceva trovare a casa. I loro rari incontri erano brevi e fugaci, tanto che l’Uchiha appariva, ormai, come un ricordo lontano.

Ogni  tanto si incrociavano per caso, solo per poi vederlo allontanarsi con quei suoi nuovi amici che lo richiamavano prontamente, ogni qual volta si fermava a scambiare qualche parola in più del necessario.

Quando udiva il suo nome echeggiare con tono di rimprovero, Sasuke indossava una maschera che non piaceva né a Sakura, né a Naruto.

Beffarda e scanzonata; le labbra pallide sempre piegate in un ghigno; gli occhi vuoti o – peggio – brillanti di una certa perversa malignità che non era mai appartenuta all’amico.

«Devo andare. Prima o poi passo a trovarvi a scuola. Magari andiamo a bere qualcosa. Promesso.»

Sakura e Naruto annuivano, intimamente consci che quel giuramento non sarebbe mai stato mantenuto.

Lo lasciavano andare, fingendo di non notare il bisogno riflesso nelle pupille dilatate; gli spasmi dei muscoli e le occhiaie sempre più pesanti che gli cerchiavano gli occhi scuri…

La verità – Sakura lo comprese solo molti anni dopo – era che avevano paura di ammettere che Sasuke stava male, perché accettare la sofferenza di un solo membro del gruppo, significava espanderla anche agli altri componenti.

E a quell’età si ha sempre paura di condividere il dolore altrui per paura che diventi il proprio; che ti si insinui nelle viscere; che scombussoli le membra e che distrugga il fragile paradiso artificiale che ti sei creato in tanti anni.

Così, fingevano. E lasciavano che Sasuke precipitasse in quello stesso eden di LSD, coca ed eroina che, elevandolo – paradossalmente – verso i cieli più sublimi, lo trascinava negli abissi più cupi dell’inferno.

Ma Lucifero, nella sua Caduta, non vuole andare da solo.

Chiunque ha paura della solitudine, anche il Diavolo.

Per questo, porta con sé gli angeli che non hanno voluto abbandonarlo. Per questo…

 

 

Ad un anno di distanza, Naruto seguì Sasuke.

Sakura passò anni – e tante ore di terapia, come molti membri della sua generazione – a tentare di superare il trauma causato dall’abbandono di Naruto.

Il giorno in cui l’Uzumaki decise di andare a riprendersi Sasuke era vivo e nitido nella sua memoria.

C’era la nebbia. Erano chiusi nel garage dove trascorrevano la maggior parte delle loro giornate.

A volte suonando; a volte ridendo, a volte semplicemente fumandosi una canna e fare all’amore, cercando di imitare gli atteggiamenti rivoluzionari di un mondo che, ormai, stava lentamente tramontando nel mare del materialismo.

Ma la musica aveva perso armonia; le risate rimbombavano vuote; il fumo non accendeva i sensi e l’amore era ormai mero sesso, svuotato di ogni significato.

In quel clima di finta allegrezza, Naruto si era alzato. Aveva indossato il giubbotto da motociclista e, preso con sé solo un pacchetto di sigarette, era uscito informando Sakura che andava a riprendersi ciò che era suo.

Lei aveva semplicemente annuito. Niente di più, niente di meno.

Sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe visto Naruto, prima del 1990.

 

 

Sasuke, in giorno in cui si trovò Naruto davanti, non ne rimase particolarmente stupito o, se lo era, fu abbastanza bravo a non darlo a vedere..

In qualche modo, sapeva che l’amico lo avrebbe rintracciato.

In fondo, la gomma da masticare è difficile da staccare.

Si limitò a sorridere di fronte alla sua espressione disgustata. Un sorriso stanco, inebetito dalla droga che aveva da poco cominciato a scorrere nelle sue vene.

Notò che lo sguardo di Naruto era fisso sulla siringa.

L’ago ancora infilato nel braccio, appena sotto al laccio legato sopra il gomito.

Era troppo stanco per toglierla da lì. Poi gli avrebbe fatto male, ma non importava.

Il sonno era così gradevole in quei momenti. Di solito arrivava ad abbracciarti proprio nello stesso istante in cui giungeva la botta.

Ed era dolce… dolcissimo lasciarsi andare; appoggiarsi alle larghe e comode spalle di Morfeo e dormire… dormire…

«Svegliati, idiota.»

Avvertì dei leggeri colpetti sulla guancia. Fastidiosi, continuavano ad impedirgli di chiudere le palpebre.

«Lasciami in pace, dobe. – Gemette, cercando di rintracciare la sensazione paradisiaca dell’oblio totale. – Ho sonno…»

Fu un pugno a distoglierlo totalmente dalla sonnolenza. Un pugno forte, dritto alla mascella.

«Chipatama [Testa di cazzo NdA]…»

Ringhiò, asciugandosi il sangue che colava dal labbro spaccato.

Altro pugno.

Reagì; l’aggressività intensificata dall’effetto dell’eroina; i sensi annebbiati e il desiderio crescente di causare più dolore possibile al disturbatore molesto.

Ma i riflessi erano lenti. Qualche pugno ben assestato nello stomaco; il fiato mozzato per qualche secondo e i problemi al fegato che si facevano risentire.

Vomitò, sporcandosi. Il mondo ovattato della droga sparì, lasciando il posto alla realtà. Un po’ annebbiata, ma realtà.

«Cazzo…»

Naruto respirò a fondo, cercando di non inalare l’aria malsana che regnava nella latrina pubblica dove aveva rintracciato l’amico.

Cercò di non far caso al suo aspetto sciupato, alle braccia segnate dai buchi; al viso scarno, più simile ad uno scheletro che all’essere umano che era stato un tempo. Finse. Come prima aveva finto di non vedere altri ragazzi come Sasuke che battevano agli angoli delle strade per pagarsi una dose; come…

«Damned… - sibilò, sollevando il ragazzo di peso. Si fece passare un braccio di Sasuke sopra le spalle, cingendogli la vita. – Mi hai fatto girare mezza America per trovarti.»

«Usuratonkachi… - Sasuke sorrise, alzando lo sguardo per osservarlo. Fu come se lo avesse visto solo in quel momento. – Sei qui usuratonkachi… come stai? E Sakura? Sakura come sta? È tanto che non ci si vede…»

«Mi fa piacere che ti ricordi ancora di lei.»

Naruto tirò un calcio alla porta del cesso, aprendola.

Lentamente, trascinò Sasuke all’aperto. Più per fargli respirare un po’ d’aria fresca che altro.

«Ricordare? Sì, la ricordo…»

«Bene. Vuol dire che quella roba non ti ha fritto ancora del tutto il cervello.»

«Eh? Ah, l’ero… è una merda, sai? Una volta che ti ha preso… però ti fa stare tanto bene… risparmia la fatica di pensare. E questo è bello… perché sei qui, usuratonkachi?»

«Per portarti a casa.»

Naruto deglutì, cercando di trattenersi dal prendere a schiaffi l’amico.

«Stai calmo – si ripeteva. – Stai calmo. Poi lo massacrerai di botte, ma ora stai calmo…»

«Non voglio tornare a casa, usuratonkachi… se Sakura mi vede così… è tanto arrabbiata, vero? E tu? Anche tu sei arrabbiato, usuratonkachi?»

«Stai zitto Sasuke.»

Il tragitto proseguì in silenzio. Ogni tanto, Sasuke pronunciava qualche frase in un Giapponese incomprensibile; in altri momenti aveva degli scatti d’ira improvvisi. Poi, così come arrivava, la rabbia di Sasuke svaniva e allora cominciava a ridere. A ridere, senza più smettere.

Ed era così strano, così innaturale che Naruto lo avrebbe preso a pugni assai più volentieri allora che quando tentava di aggredirlo.

Lo trascinò fino al bed&breakfast dove alloggiava. Niente di particolare: una camera piena di scarafaggi in un ostello malandato, ma di più non poteva permettersi.

Lo gettò sul letto, sedendosi lì accanto.

«Ora puoi dormire.»

«Non ho sonno.»

«Uchiha, dormi. Non ho voglia di parlare.»

Sospirò, passandosi una mano tra i ciuffi biondi e sudati, ormai esasperato.

Avrebbe tanto voluto che Sakura fosse lì. Lei avrebbe saputo cosa fare. Lei…

Notò che aveva ancora gli abiti sporchi di vomito. Glieli tolse, gettandoli in un angolo.

Con premura, prese un asciugamano e, inumiditolo, cominciò a ripulirlo.

«Ti faccio schifo, Naruto?»

«Sì.»

«Anche a me.»

«Meriteresti che ti lasciassi qui a marcire.»

«Non ci riusciresti.»

«Ti porto a casa, Sasuke. Ti riporto indietro.»

«Non lo farai.»

«Cosa te lo fa pensare?»

«Non lo farai. E che farai allora?»

«Resterò con te, finché non riuscirò a tirarti fuori da questo schifo. A costo di seguirti nella tomba.»

«Non ci riuscirai, ma grazie usuratonkachi.»

E si addormentò.

Le parole di quella sera furono profetiche.

Naruto non riuscì ad abbandonarlo, né a riportarlo indietro.

Gli restò accanto, costringendosi ogni giorno a sopportare la vista dell’amico che cadeva sempre più in basso nella spirale della degradazione. Prese l’abitudine di accompagnarlo in bagno quando si bucava; di assisterlo mentre con la mano tremante preparava la siringa; di riportarlo a casa.

Facevano l’amore quando, entrambi in preda allo sconforto, necessitavano di un calore umano differente da quello che può procurare il sesso occasionale.

E in quegli attimi sembrava tornare tutto un po’ com’era prima, quando erano felici.

Ma Naruto non poteva salvarlo, perché nel momento in cui ti fai coinvolgere dal dolore altrui e lo fai proprio devi avere la forza necessaria per tirarne fuori entrambi.

E Naruto, quella forza, non l’aveva neanche per se stesso.

Così, finì per diventare, invece che salvatore, complice di Sasuke in un destino che avrebbe inghiottito entrambi.

 

 

Il ventitrè luglio del 1990, Sakura ricevette una visita inaspettata.

Erano le cinque di mattina, quando qualche idiota suonò alla porta, svegliandola.

Chissà perché, non fu sorpresa nel trovarsi di fronte Sasuke, il giorno del suo ventitreesimo compleanno.

Ebbe un conato, nel vederlo. Istintivamente, si chiese dove fosse finito il bel ragazzo con cui divideva i giorni, i sogni e l’adolescenza.

Adesso, di fronte a lei, c’era solo un fantasma del passato; uno spettro troppo magro, troppo pallido e troppo smunto per essere ancora vivo.

Eppure, quel relitto umano che stava in piedi sulla porta – la maglietta gli stava larga, tanto era dimagrito; la pelle aveva assunto il colorito giallognolo tipico di chi soffre di fegato e pesanti occhiaie sfiguravano il viso – era Sasuke.

Non ebbe bisogno di chiedergli nulla: i buchi sulle braccia che il ragazzo non premuniva di coprire, parlavano da soli. Così come da soli parlavano i suoi occhi scuri.

Iridi non lucide solo a causa della droga. Sakura si domandò quando Sasuke avesse imparato a piangere.

Comprese. In fondo, era sempre stato quello il suo compito: capire senza che lui e Naruto avessero bisogno di spiegare. Con un’occhiata; interpretare ogni singola espressione del volto; ogni aggrottarsi di ciglia. Capire, niente di più.

Eppure, nonostante ci fosse già arrivata, nonostante il suo cuore le dicesse che, il giorno in cui sarebbero tornati lo avrebbero fatto assieme, o non ce l’avrebbero fatta; chiese.

«Dov’è Naruto?»

«Dove dovrei essere io.»

 

 

I giornali riportarono la morte di quel giovane come l’ennesima vittima della droga.

La causa, ovvia.

Una parola che avrebbe infestato l’atmosfera già cupa del funerale.

 

O v e r d o s e.

 

 

 

Se tornerai

magari poi
noi riconquisteremo tutto
come tanti anni fa
quando per noi
forse la vita era più facile

 

Sakura continuava ad osservare la lapide di fronte a sé. Venti anni erano trascorsi, lasciandosi alle spalle giorni di solitudine e quotidiana monotonia; gli stessi spettri che, da giovani, avevano tentato di distruggere.

Non guardò più verso Sasuke. Lui, d’altro canto, non fece nulla per farsi notare. Restò semplicemente in piedi, come in attesa di qualcosa: una parola, un gesto, un rimprovero… o forse – magari – un bacio.

Ma sarebbe stato incompleto senza di lui. Dovevano essere tre, le lingue che si intrecciavano; dovevano essere sei le mani che si cercavano; tre le risate che riempivano l’aria; tre corpi, un solo spirito che, adesso mutilato, continuava ad ergersi in quel triangolo eterno.

Tre, perché senza gli altri, ognuno di loro era niente.

Lui e Sakura, infatti, non riuscivano più a toccarsi.

«Lui era venuto a cercarti.»

Parole perse nell’aria umida della giornata estiva; c’era un qualcosa di stantio in quel luogo, così come nel mormorio sommesso di Sakura.

«Era venuto a cercarti… e tu lo hai trascinato nel tuo Inferno.»

«Lui mi ha voluto seguire.»

«Ti è sempre piaciuto farti rincorrere, vero Sasuke? Quando fingevi di non sapere l’Inglese; in moto… sempre un passo avanti a tutti, solo per il gusto di avere qualcuno a coprirti le spalle; per sapere che, in qualunque guaio ti saresti potuto cacciare, i tuoi amici si sarebbero accorti della tua sparizione.»

Sasuke si accese una sigaretta, senza replicare.

«Non gliel’ho chiesto io.»

Commentò, spegnendo la cicca appena accesa.

La brace sfrigolò sul terreno umido, prima di spegnersi.

Sakura alzò il capo. Gli occhi verdi incrociarono le iridi scure di Sasuke. Per un attimo, ebbe la tentazione di tirargli quello schiaffo che non gli aveva dato venti anni prima.

Ma non poteva. Colpirlo, avrebbe significato sfogare decenni di rancore; di rabbia. Di solitudine.

Un contatto fisico, di qualsiasi genere, sarebbe stato un perdono; un invito a ricominciare; a tentare di ricostruire una vita assieme.

E non potevano. Non ora. Non più.

Tre corpi, un solo spirito.

Mutilato.

«Saresti dovuto esserci tu in quella fossa.»

 

 

Se tornerai

magari poi
noi riconquisteremo tutto
come tanti anni fa
quando per noi
forse la vita era più facile…

 

   
 
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