Libri > Hunger Games
Segui la storia  |       
Autore: Its Ellie    16/01/2015    3 recensioni
Il Tour della Vittoria è ormai finito e gli abitanti di Capitol City attendono con ansia la cinquantaduesima edizione degli Hunger Games.
Dal momento che l'edizione precedente è stata considerata noiosa, il nuovo Capo Stratega Menelaus Stark sa bene di non poter deludere il pubblico ed è deciso a rendere questi Hunger Games memorabili.
L'arena è particolare, diversa. I tributi dovranno lottare fino all'ultimo respiro per poter vincere e tornare a casa. E saranno i vostri tributi.
(STORIA INTERATTIVA)
***
Dal capitolo 3:
"Era tutto pronto.
L’arena, gli ibridi, le trappole e, naturalmente, le telecamere.
Menelaus Stark osservò compiaciuto i tributi di quell’edizione, pregustando già il sapore della vittoria. Quell’anno Capitol City avrebbe avuto gli eccitanti giochi della fame che si aspettava e lui avrebbe ottenuto la meritata gloria.
Sentiva dietro di lui lo sguardo di ghiaccio del presidente Snow scrutarlo a fondo. Ma anche lui aveva un cuore duro e freddo, lui era uno Stark e non avrebbe permesso a nessuno di portargli via la fama per cui aveva versato sangue e sudore. [...]
Rise, e fu una risata priva di allegria.
Gelida."
Genere: Avventura, Azione | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Caesar Flickerman, Haymitch Abernathy, Nuovo personaggio, Presidente Snow, Tributi di Fanfiction Interattive
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
- Questa storia fa parte della serie 'Let the Games begin.'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
“ In ogni addio c’è un’immagine della morte.
    George Eliot
 
Say goodbye (Pt. 2)
 
Distretto Quattro - Lioness
 
Lioness non si era mai sentita così bene in vita sua.
Era così eccitata ed ansiosa che non riusciva nemmeno a stare ferma, così camminava da un lato all’altro della sala pensando a Capitol City e all’arena. Ma quelli non erano di certo i suoi unici pensieri: continuava a chiedersi cosa le avrebbe detto il padre. Fosse stato per lei, avrebbe rimandato quel momento all’infinito, ma si ritrovò costretta ad affrontarlo quando la porta si aprì lasciando entrare la sua famiglia.
Quando vide l’espressione delusa di suo padre Pern, la ragazza dovette trattenersi dallo sbuffare.
Il pacifico pescatore aveva sempre disapprovato il comportamento ed i desideri della figlia, per cui Ness non aveva mai avuto un buon rapporto con lui. La ragazza detestava quando le persone si mostravano scettiche riguardo le sue abilità e non sopportava di venir sottovalutata.
Sua madre Selm, invece, da giovane aveva sempre desiderato offrirsi volontaria. Aveva un lavoretto secondario che le permetteva di guadagnare discrete somme di denaro in poco tempo: coltivava marijuana per poi venderla a Pacificatori e uomini benestanti, così era riuscita a mettere da parte abbastanza soldi da potersi iscrivere all’Accademia di Addestramento. Il gran giorno, però, i genitori avevano pagato una ragazza povera per offrirsi volontaria al suo posto. Lei allora era scappata di casa e, per assicurarsi un tetto, aveva sedotto e sposato Pern.
Ness, nonostante tutto, l’adorava e condivideva i suoi stessi sogni, perciò erano sempre andate d’accordo.
Infatti la donna la raggiunse e l’abbracciò, gli occhi che luccicavano di una sincera ammirazione. «La mia Lioness... finalmente il giorno è arrivato. Sono così fiera di te!»
Lo disse con un’intensità tale da far dimenticare a Ness tutte le paure per la reazione del padre.
Pensi pure quel che gli pare, si disse stizzita. Ormai è fatta.
Pern, però, si limitò a lasciarle una leggera carezza sulla guancia e a mormorare «Sei una ragazza forte, ce la farai di sicuro.»
Nel sentire quelle parole, la ragazza rimase a bocca aperta. E dire che aveva sempre pensato che il padre non credesse in lei...
«Grazie» borbottò. «Voglio dire... sono contenta che lo pensi.»
E, per una volta nella vita, provò sincero affetto per lui.
I suoi due fratelli, Isper e Cirs, sembravano contenti e addolorati allo stesso tempo ma, ben conoscendo Lioness, non fecero altro che incoraggiarla tutto il tempo per dimostrarle il loro appoggio.
Ness era felice e sorpresa da tutta quella positività così, quando arrivò il turno dei suoi amici, si sentiva più carica ed impaziente che mai.
Shark, probabilmente il ragazzo nel gruppo con cui aveva il miglior rapporto, esclamò «Già non vedo l’ora di vederti tornare da vincitrice! Così metterai a tacere i tuoi compagni di classe una volta per tutte!»
Ness sbuffò, l’entusiasmo smorzato tutto d’un tratto. Quella massa d’invidiosi! Continuavano a chiamarla “Capelli Verdi” nonostante lei avesse ribadito più volte – anche con le parole, sì, ma soprattutto con i fatti – che quel nomignolo non le andava per niente a genio.
Tigress, l’altra ragazza del gruppo, doveva aver notato la sua espressione accigliata, perché le rivolse un gran sorriso e ribatté «Dai, Ness, chi se ne importa di quelli là! Quando vincerai non avranno più nessun motivo per stuzzicarti.»
Hyena, il fratello minore di Gress, le sorrise pigramente a sua volta. «Mia sorella ha ragione, lasciali perdere.»
Ness stava per ribattere che lasciar perdere era forse l’attività preferita del ragazzo ma di sicuro non la sua, poi però ricacciò dentro le parole. Infondo stavano solo cercando di darle un po’ di supporto.
«Avete ragione» concordò, recuperando di nuovo il suo buonumore e il ghigno soddisfatto. «Chiuderanno quelle bocche una volta per tutte.»
Il tempo restante lo passarono a chiacchierare e ridacchiare come se quella fosse stata una giornata qualunque.
Quando gli Animali – così si erano soprannominati i suoi amici – se ne andarono, l’ultimo a lasciare la stanza fu Shark.
Prima di chiudere la porta, però, si girò un’ultima volta.
«Ness?» la chiamò con un’incertezza che non gli apparteneva.
«Sì?» rispose lei incuriosita e un po’ sorpresa dall’atteggiamento dell’amico.
Ma lui si riprese all’improvviso. «No, niente, solo... vinci, okay? Torna.»
Lioness lo fissò confusa. Che bisogno c’era di dirlo? Ma gli sorrise comunque. «Ma certo, tu sai meglio di tutti quanto voglio vincere, no?»
«Già. Allora a presto.» Shark le voltò le spalle e, con passo esitante, se ne andò.
La ragazza osservò richiudersi la porta alle sue spalle, ancora un po’ confusa da quella piccola conversazione. Ma alla fine si riscosse.
Ma certo, vincerò.
 

Distretto Quattro - Calum Arwed
 
Calum si riteneva una persona forte, in tutti i sensi.
Suo padre era uno degli istruttori all’Accademia di Addestramento e lo aveva allenato sin da piccolo, soprattutto nell’uso del tridente.
Il fisico robusto e scolpito rappresentava un vantaggio nelle lotte corpo a corpo e inoltre resisteva piuttosto bene al dolore.
Ma, soprattutto, aveva sempre superato tutti gli ostacoli che la vita gli aveva riservato.
Non si era lasciato abbattere da tutti gli scontri avuti col padre, che non avrebbe mai voluto avere un figlio appena dopo essersi sposato.
Non si era arreso durante le prime sessioni di addestramento, quando l’idea di maneggiare un’arma ancora non lo attirava per niente e suo padre lo riteneva incapace di farcela.
Aveva superato l’incidente con la barca. Era stato in coma per un mese ma, nonostante le gravi condizioni in cui si trovava all’inizio, alla fine si era ripreso.
Aveva sofferto di attacchi di panico e d’ansia, che gli impedivano di rimanere solo ma, soprattutto, di vedere il mare e nuotare.
Aveva sofferto molto per quel fatto, ma alla fine, con tutta la forza di volontà di cui disponeva, aveva preso la decisione di superare tutto. E ci era riuscito.
Passo dopo passo, con grande difficoltà, si era riabituato all’idea dell’acqua che gli lambiva i fianchi, della corrente che non rappresentava più un nemico ma qualcosa di famigliare, dei piedi che affondavano nella sabbia. E aveva ricominciato a nuotare. Per lui era stata una sensazione unica, come se fosse rinato. Finalmente si sentiva una cosa sola col mare e alla fine gli attacchi di panico col tempo si erano fatti sempre più radi fino a svanire del tutto.
Mentre la sua famiglia gli correva incontro, Calum ricordò tutte queste cose e decise che avrebbe lasciato da parte la paura ed i dubbi. Non c’era spazio per la debolezza.
La prima a gettarsi tra le sue braccia fu la sorellina Kayleen. Era molto più piccola di lui ma sapeva comunque cosa fossero gli Hunger Games e di conseguenza capiva anche che Calum avrebbe potuto non fare ritorno da Capitol City.
Il ragazzo la strinse forte. Era molto affezionato a lei e la sola idea di lasciarla sola lo faceva stare ancora più male.
«Calum» sussurrò lei con in viso premuto contro il petto del fratello. «Tu sei forte.»
«Sì, sì. Sono forte, lo sai» le rispose lui pregando che la voce non gli tremasse.
«Papà ti ha addestrato.»
«Già.»
«E sei bravo con le armi.»
«Sì, è vero.»
«Quindi vincerai» concluse lei e, quando si staccò da Calum, i suoi occhi grandi lo fissarono intensamente.
Infatti, avrebbe voluto rispondere lui, ma quella parola gli morì in gola. Non poteva mentirle, non poteva darle false speranze.
«Farò il possibile per tornare» le promise allora. «Va bene?»
Kayleen non sembrava per niente soddisfatta, ma alla fine annuì.
Poi fu il turno dei suoi genitori.
Sua madre era ancora giovane, bella e, soprattutto, felice. Calum non sopportava il pensiero di perderla, ma più di tutto il pensiero che lei perdesse lui. Aveva ancora tutta una vita davanti e non voleva che soffrisse, non voleva che cadesse nello stesso abisso oscuro in cui era finita dopo l’incidente.
Suo padre, i primi anni, non era stato gentile con lui. Non sapeva come comportarsi con il figlio, cercava di evitarlo il più possibile e lo trattava in modo distaccato, ma quando Calum era uscito dal coma si erano uniti di più. E, dopo la nascita di Kayleen, era riusciti ad aggiustare tutto.
«Promettetemi che sarete forti» disse loro con tono fermo. «Non voglio altro. Non voglio che versiate lacrime per me, voglio che, se non dovessi farcela, vi riprendiate e andiate avanti. Proprio come ho fatto io dopo l’incidente.»
Li guardò con un’espressione talmente determinata da sorprendere entrambi. «Promettetemi che sarete forti» ripeté. «E che starete accanto a Kayleen e vi assicurerete che non le manchi mai niente e che...»
Poi suo padre si avvicinò e lo abbracciò, e Calum si dimenticò cos’altro dovesse aggiungere.
«Sono fiero di te» disse piano l’uomo. «Sei un ragazzo forte, un combattente. Hai superato tutte le difficoltà meglio di quanto non sarei riuscito a fare io. Non ti sei piegato né spezzato, e io ti ammiro per questo. Mi dispiace solo di non aver capito prima il tuo valore. Ricorda che hai tutte le carte in regola per vincere.»
Calum si era ordinato più volte di non piangere, ma in quel momento dovette far ricorso a tutte le sue forze per trattenere le lacrime.
Annuì, e in quel momento capì che mai si sarebbe arreso.
Avrebbe vinto.

 
 Distretto Cinque - Ginger Watts
 
Quando Roger la strinse a sé e la baciò, Ginger riuscì quasi a dimenticare – anche se solo per un breve istante – che di lì a poco sarebbe finita nell’arena a combattere per la vita.
Tutto si ridusse alle labbra del ragazzo che amava, ai suoi occhi turbati, alla curva del suo collo, ai capelli morbidi e tutti quei dettagli che Ginger adorava di lui.
«Non mi sembra neanche vero» sussurrò lui con voce roca, staccandosi dalla ragazza. Aveva un’espressione talmente preoccupata che Ginger si trovò costretta a ritornare alla realtà, insieme a tutte le sue conseguenze.
Forse non l’avrebbe più rivisto. Non l’avrebbe più abbracciato, baciato, toccato o anche solo guardato. Come avrebbe fatto a lasciarlo lì, da solo, a combattere un dolore più forte di lui? Il ragazzo timido e riservato che era cresciuto e maturato insieme a lei, e che aveva sempre fatto parte della sua vita. Un segno indelebile che le era stato inciso sul cuore.
Come avrebbe fatto ad abbandonare la persona che amava?
Roger era stato uno dei pochi ad accettare subito il suo problema. L’aveva sempre sostenuta. Sempre. Le aveva sorriso imbarazzato quando all’improvviso, nel bel mezzo di un appuntamento, era diventata la vanitosa e sensuale Evelyn. L’aveva osservata attentamente quando Melanie aveva preso possesso di lei e aveva cominciato a condurre i suoi strambi esperimenti. L’aveva guardata sorpreso e divertito allo stesso tempo quando era spuntata Shiori ed aveva cominciato a parlare in versi.
La ragazza sentì un’amara tristezza serrarle la gola con un nodo stretto, che lei non riusciva a mandar giù. Roger c’era sempre stato per lei. Era impossibile dirgli addio.
Eppure si fece forza e recuperò il suo solito sorriso, quello di Ginger, la ragazza dalla risata squillante, dal carattere solare e spensierato, che contagiava tutti con la sua allegria e la voglia di vivere.
Cercò di ricordarselo, mentre si avvicinava per baciare Roger un’ultima volta. Lei era Ginger, e Ginger non si sarebbe arresa per nessun motivo al mondo. Avrebbe combattuto fino all’ultimo respiro.
Quando si fu allontanata dal ragazzo, gli rivolse un gran sorriso. «Ehi, Roger, promettimi una cosa.»
«Cosa?» le chiese lui, continuando a tenerla stretta, come se avesse avuto paura che qualcuno, da un momento all’altro, avesse potuto portargliela via senza preavviso.
«Promettimi che...»
«Che?»
«Che non guarderai le altre ragazze mentre sarò via! Se vengo a sapere che hai baciato un’altra mentre sono stata a Capitol City, quando torno ti faccio nero!» esclamò con un’espressione esageratamente seria.
I due rimasero in silenzio per un attimo, poi scoppiarono a ridere.
E, quando Roger lasciò la stanza per far entrare la sua famiglia, Ginger si sentiva già un po’ meno impaurita. Più forte, più decisa. Sì, poteva farcela.
Per primo si fece avanti suo padre. Aveva l’aria distrutta e la ragazza dovette sopportare l’ennesima stretta al cuore. Non ce la faceva a vederlo così. Non riusciva a vedere suo padre, un uomo divertente, per il quale le battute erano pane quotidiano, sempre di buonumore, in quelle condizioni. Era come se qualcuno gli avesse risucchiato via tutta l’energia, lasciando al posto di Cole Watts una persona irriconoscibile dallo sguardo stanco e pieno di dolore.
L’uomo la strinse e le sussurrò poche parole prive di convinzione, per poi allontanarsi, visibilmente abbattuto.
La madre invece, di parole, sembrava che dovesse dirgliene anche troppe. L’abbracciò, la osservò in silenzio, poi la strinse una seconda volta come se la prima non fosse stata abbastanza calorosa. Poi cominciò a riempirla di raccomandazioni, a ripetere che poteva farcela, riempiendo le frasi di “Ti voglio bene” e “Sei una ragazza forte”. Poi le rivelò qualcosa a cui Ginger non aveva mai fatto caso: «Quando sei nata ti abbiamo dato più nomi, facendo in modo che le iniziali componessero la parola “G.A.M.E.S.”. La W di Watts, invece, sta per “Winner”. Abbiamo pensato che avrebbero potuto portare un po’ di fortuna in caso di estrazione.»
Ginger sorrise commossa. Stava per replicare che la sua era in assoluto la miglior famiglia di sempre, quando qualcuno le tirò una manica.
Abbassò lo sguardo e vide i due piccoli gemelli, Tim e Jim, osservarla curiosi e un po’ preoccupati.
«Dove vai?» le chiesero insieme. Il sorriso di Ginger vacillò e minacciò di scomparire del tutto, ma la ragazza si affrettò a recuperarlo. Non poteva dirglielo.
«Vado a Capitol City, la città più bella di Panem!» esclamò cercando di infondere allegria al tono della voce. «Così bella che quasi sicuramente potrei decidere di rimanerci per sempre!»
I due gemelli annuirono e la abbracciarono senza aggiungere altro.
E Ginger decise che avrebbe combattuto per tutti loro.

Distretto Nove - Crème
 
Crème.
Seduta su una poltroncina di una delle lussuose stanze del Palazzo di Giustizia, la ragazzina, aspettando con ansia che il pesante portone di legno si aprisse, si portò la mano piccola alla spalla, lasciando scorrere le dita nel punto in cui si era tatuata il suo nome.
Crème.
Era una parola semplice, una parola qualunque, ma per lei era piena di significato.
Era il suo urlo di protesta. Era come se, su quel palco dannato, lei avesse annunciato a tutti di non essere solo una dei figli di Disraeli. Lei era qualcuno. Aveva visto la sua libertà, quella per cui aveva lottato per anni, venirle tolta bruscamente. Ma lei se l’era ripresa annunciandosi con quel nome.
Crème.
Non Sei. Non la ragazzina oppressa dai fratelli più grandi, costretta a vivere in una casa infestata dall’odio e dall’oppressione e a far finta di non esistere per essere lasciata in pace.
Con quel nome lei era rinata e si era data una nuova identità. Crème era una persona molto più forte e decisa, che avrebbe superato anche quello e si sarebbe più piegata alla volontà di nessuno.
«Crème.»
Quando alzò lo sguardo tutti i musicisti del teatro, che l’avevano accolta calorosamente nel gruppo e la consideravano una di loro, si stavano avvicinando a lei.
Jona si staccò dal gruppo e corse ad abbracciarla, poi le mise in mano un foglio di carta.
«Avremmo dovuto suonarla stasera ma visto che...» S’interruppe, poi scosse la testa e sospirò. «Suoniamo un po’, ti va?»
Crème, con la mente invasa da mille pensieri, non si era accorta che Jona aveva portato anche il sax. Il ragazzo lo tirò fuori dalla custodia e cominciò a suonare.
«Il testo è lì.» Nel frattempo anche Layla si era avvicinata e, con un cenno della testa, le aveva indicato il foglio che Jona le aveva dato prima. «Segui me.»
E così, prima con esitazione, poi sempre più convinta, Crème aveva cominciato a cantare insieme alla sua amica. La canzone parlava di loro, dei ragazzi del teatro. Nessuno di loro aveva avuto vita facile, quasi tutti provenivano dalla strada ed in precedenza erano delinquenti, e quel teatro, la musica, il palco, il pubblico, li avevano salvati. Quella canzone era un grosso e sincero “Grazie”.
Crème non pianse. Cantò con passione, sorrise ai suoi amici e li salutò, i loro incoraggiamenti che continuavano a risuonarle nelle orecchie. Poi loro se ne andarono.
Mancava solo Jordan.
E infatti, un attimo dopo, qualcuno aprì il portone. Ed eccolo lì, il responsabile del teatro, il suo salvatore, quello che per lei era stato come un padre e una guida. Jordan.
«Piccola Crème...» L’uomo, prima di abbracciarla, si fermò ad osservare la ragazzina. La squadrò dalla testa ai piedi, le mani strette in due pugni, con lo sguardo pieno di dolore e affetto.
«Piccola, dolce Crème... quando ci siamo conosciuti eri così piccina, una bambina bagnata come un pulcino. Te lo ricordi? Te ne stavi lì, ferma, ad osservare il palco. Non avevi il coraggio di andartene, e io non avevo il coraggio di mandarti via. E ti ho presentata ai musicisti. Sembra solo ieri... e invece eccoti qua. Sei forte, Crème. Ma immagino che tu lo sappia già. Qualsiasi cosa succeda, sappi che è stato un onore incontrarti e conoscerti. Ti voglio tanto di quel bene che...»
A quel punto era stata lei a correre incontro a lui e a stringerlo forte. Ma, di nuovo, i suoi occhi rimasero valorosamente asciutti.
«Oh, Crème. Vorrei che una cosa simile non fosse mai successa. È un’ingiustizia. Se potessi, ti porterei via. Scapperemmo. Non sarebbe fantastico? E verrebbero anche tutti gli altri. E suoneremmo camminando per i boschi. Lo sai che lì dentro ci vivono le Ghiandaie Imitatrici? Te lo immagini, Crème, camminare per i boschi suonando, mentre le Ghiandaie Imitatrici cantano insieme a te? Sarebbe davvero bello. Magari una volta possiamo farlo. Quando tornerai ti porterò nei boschi e suoneremo per le Ghiandaie, che ne dici?»
E con quell’immagine bella e dolce Jordan la lasciò. Crème si aggrappò a quella promessa come se fosse stata la sua ancora di salvezza.
Non si aspettava nessun’altra visita, ma ad un tratto il portone si spalancò per la terza volta.
E Crème, per un istante, ebbe l’impressione di essere tornata Sei.
Cedric Disraeli in persona era davanti a lei. Le andò in contro velocemente, mentre la ragazzina si faceva piccola piccola ma, quando fu giunto di fronte a lei, si lasciò cadere sulle ginocchia.
Crème indietreggiò di un passo, sorpresa.
Cedric la fissò, poi aprì la bocca, e la richiuse poco dopo. Di nuovo la guardò intensamente. E parlò.
«Sei una dei figli di Gabrielle, non è vero?» disse piano, quasi mormorando. Crème annuì lentamente.
«Sì, certo che lo sei. Sei bella come lei. Hai i suoi stessi occhi blu, sono quelli che mi hanno stregato, insieme ai capelli biondi. E hai la pelle chiara come la sua. Sei così piccola... sei la sesta, Sei, giusto?»
Crème scosse la testa. Avrebbe voluto replicare che lei non era più Sei, ma non ci riuscì.
«Ah, già. Ho sentito cosa hai detto. Tu ora sei Crème. È un bel nome, mi piace. Quando sarai tornata a casa, andremo a cambiarlo, che ne dici? Ti chiamerai Crème Disraeli. Suona bene. E potresti andare a vivere con i tuoi amici al teatro. So che ti piace lì.»
Crème non disse niente. Non riusciva nemmeno ad aprire la bocca. Lo fissava e basta.
«Scusami, Crème» sussurrò infine lui. «Sono un pessimo padre, non è vero? Scusami, mi dispiace tanto.»
Poi si alzò e l’abbracciò. E allora Crème non ce la fece più. Pianse, pianse tra le braccia del padre.
E si disse che, se per confermare una volta per tutte il fatto che lei era Crème ed era libera, avrebbe dovuto vincere, allora l’avrebbe fatto.
Sì, l’avrebbe fatto.

 
Distretto Dieci - Scarlett Stock
 
L’aria dentro il salottino era opprimente.
Scarlett sentiva il bisogno di prendere una grossa boccata d’aria fresca, così si alzò ignorando le parole della madre – tanto non la stava ascoltando neanche prima – e si diresse verso la finestra, aprendola.
Fa che tutto questo possa finire in fretta, si disse alzando gli occhi al cielo.
Dietro di lei sua madre, in preda ad una crisi isterica, continuava a sparare parole a raffica – quasi fossero state dei proiettili – con voce stridula.
«Io non riesco a capirti, Scarlett!» esclamò con gli occhi talmente spalancati che per un attimo la ragazza pensò che le sarebbero schizzati via dalle orbite. «Che bisogno c’era di essere così avventata? Hai una minima idea di ciò a cui stai andando incontro? Alla fine sarei comunque riuscita a trovarti un ragazzo da sposare. Saresti comunque stata ricca, avresti vissuto nel lusso senza correre tanti rischi, e invece...»
«Non m’interessa, mamma!» Scarlett non lo urlò, né si mostrò irritata come la madre. Era solo esasperata dal suo comportamento, dalla sua ossessione per l’apparire. Lei non era così, lei era qualcosa di più di un bel visetto e qualche curva. «Voglio far vedere a tutti che anche io sono brava in qualcosa, d’accordo? Qualcosa che non sia ancheggiare, o suonare il piano, o uscire con i ragazzi... e non m’importano neanche i soldi. Voglio solo essere ammirata per qualcosa di grande, di importante...»
«Come uccidere qualcuno?» disse la sorella maggiore, Kendall. Solo per un istante Scarlett pensò che Kendall fosse sconvolta per le regole brutali degli Hunger Games, ma l’illusione durò poco. «Non è per niente femminile, anzi, fa abbastanza schifo! Tutto quel sangue, e il dover dormire in mezzo a un bosco e sporcarsi... io ed Ann siamo state proprio fortunate a salvarci!»
Ann era d’accordo. Lanciò un’occhiata penetrante alla gemella, poi sospirò. «Non riesco proprio a capire perché tu l’abbia fatto, Scarlett. Non c’era davvero bisogno di...»
Ma la sorella la interruppe. «Non importa, non devi capire. Non mi aspetto che nessuno di voi capisca. Continuate pure a vivere le vostre vite. Io non voglio più avere niente a che fare con queste faccende.»
L’unico sinceramente dispiaciuto sembrava Devon, il fratello più grande.
I suoi genitori lo consideravano il figlio perfetto: biondo e dagli occhi azzurri, sorriso smagliante, intelligente – ai suoi tempi era stato il migliore della scuola, ottimo atleta, ricco, divertente... il sogno di ogni ragazza. Un principe azzurro. Nessun difetto...
... ma era comunque tutto terribilmente noioso. Scarlett non capiva come i suoi genitori e i suoi fratelli riuscissero a convivere con le loro ossessioni senza impazzire. O forse sono già pazzi, pensò sconfortata la ragazza.
«Lasciate che faccia ciò che voglia» disse piano Devon. Fissò Scarlett con pietà, il che la irritò. Non voleva la sua compassione. Solo un po’ di comprensione, forse. «Se si aspetta di farcela e vincere, tanto meglio. Altrimenti... be’, in ogni caso è troppo tardi per tornare indietro. Accettatelo e basta.»
Scarlett stava quasi per perdonargli l’occhiata compassionevole che le aveva lanciato, ma poi si rese conto che suo fratello stava semplicemente dicendo al resto della famiglia di perdonare la stupidità della ragazza. E lei non resse più.
«Andatevene» disse stanca. «Abbiamo parlato abbastanza, non voglio sentire altro. Andate via.»
Voleva solo rimanere sola. Non si era pentita per ciò che aveva fatto. Era ancora determinata a vincere.
Si era allentata per ben quattro anni, di nascosto, per potersi offrire volontaria nella sua ultima Mietitura. Era pronta, si sentiva forte come i Favoriti. Non aveva paura.
Gliela farò vedere io, si disse. Quando vincerò non mi criticheranno più e smetteranno di guardarmi come se fossi solo una stupida ragazzina. Vedranno.
Sì, ci avrebbe pensato lei.

 
Distretto Dieci - Andras Lennen
 
Vienna era furiosa. Andras non aveva mai visto la sua gemella in quello stato.
«Se solo quella ragazza, Stock o come si chiama, non si fosse offerta volontaria! Andras, stavo per farmi avanti, lo giuro, ma poi lei mi ha praticamente spinta via e io sono andata a sbattere contro un’altra ragazza. Quando mi sono ripresa era già troppo tardi! E ora io devo stare qua e guardarti mentre...»
Non riuscì ad aggiungere altro perché la voce si spezzò e sua sorella scoppiò a piangere. Andras corse subito ad abbracciarla. «Vienna, va bene così. Tu non dovevi offrirti volontaria. Se fossimo finiti nell’arena insieme io avrei fatto il possibile perché tu potessi tornare a casa. Invece così ho qualche possibilità...»
Ma Vienna non sembrava credere alle sue parole. Lo guardava turbata, forse anche un po’ irritata per un motivo che apparentemente non c’era. Andras non riusciva a capire perché. «Non ti fidi di me?» sussurrò ferito.
Ma sua sorella scosse la testa e gli prese il viso tra le mani. «Tu sei troppo buono, ho paura che...»
Di nuovo non sembrò trovare le parole. Era visibilmente sconvolta, e Andras non riusciva a sopportare quell’espressione scossa dipinta sul suo viso. Era troppo per lui. Si sentiva come se qualcosa dentro di lui si stesse spezzando nel vedere le sue sorelle che soffrivano così tanto. Non riusciva ad essere preoccupato per sé, per la sua sorte. Voleva solo che la sua famiglia stesse bene e fosse felice.
Vienna sembrò riprendersi per un attimo. «Senti, io ti conosco meglio di chiunque altro. So che, se vedessi una ragazza in difficoltà, magari una dodicenne del Distretto Undici, non esiteresti a... ecco, vorresti salvare lei. Ma io voglio vederti tornare a casa, Andras. Pensa anche a noi. Noi, la tua famiglia. Ti vogliamo bene e vogliamo che tu vinca. Perciò...»
«Vincerò» disse Andras in tono risoluto. «E’ una promessa.»
Vienna si morse un labbro e inchiodò il suo sguardo a quello del gemello, continuando a tenere le mani posate sulle sue guance. «Spero solo che tu stia dicendo sul serio. Senza di te io... io... non sono niente. Sono persa. Non riesco neanche ad immaginare una vita in cui tu non sia al mio fianco. Non ci riesco, capisci? Non posso perderti. Io ho bisogno di te. Noi abbiamo bisogno di te.»
Andras posò la sua fronte su quella della sorella. Sentiva il suo respiro sul collo. Chiuse gli occhi e ripensò alle sue parole. Era vero: la sua famiglia aveva bisogno di lui.
Suo padre era morto quando aveva dieci anni. Il toro che aveva accudito per anni con amore un giorno era impazzito senza una causa apparente e lo aveva colpito improvvisamente al petto con un corno, che si era conficcato nella gabbia toracica. 
Fin da subito era stato chiaro che suo padre non ce l’avrebbe fatta: alla ferita profonda era seguita un’infezione che non gli aveva lasciato scampo e che presto lo avrebbe portato alla morte. 
Prima di andarsene, però, l’uomo aveva voluto parlare con Andras, che era l’unico uomo di casa, nato dopo ben altre quattro figlie. Gli aveva parlato come se anche lui fosse stato un vero e proprio uomo, e gli aveva chiesto di occuparsi di tutte le donne della casa e di  assicurarsi che a nessuna mancasse mai niente. 
Andras era solo un bambino, ma aveva subito capito l’importanza del compito che suo padre gli aveva assegnato. Gli assicurò che sarebbe stato all’altezza. 
Così la sua infanzia era terminata bruscamente: il ragazzo aveva abbandonato subito la scuola ed era riuscito a convincere il capo di suo padre a trovargli un lavoro nel suo allevamento. Aveva cominciato ad occuparsi dei cavalli e aveva continuato a lavorare lì ogni giorno, fino a quel momento.
Era lui a mantenere la sua famiglia e si riteneva responsabile di sua madre e delle sue sorelle. Pensava sempre prima a loro. Erano tutto ciò che aveva, le amava tutte alla follia e il pensiero di lasciarle sole lo faceva star male. Era quasi un dolore fisico.
Eppure... qualcosa dentro di lui gli diceva che non era giusto dover uccidere altri ragazzini per poter riabbracciare la sua famiglia. Come si sarebbe sentito nello stringere sua sorella dopo aver privato delle vite ragazzi senza nessuna colpa? Era tutto talmente ingiusto...
E così, nonostante tutto, Andras dubitò di se stesso.
Avrebbe davvero ucciso per poter tornare a casa?








Ellie's Corner
Eccomi qua!
Stavolta sono stata piuttosto puntuale *si sente fiera di sé*
Nel capitolo precedente avevo detto che le scene nella seconda parte sarebbero state otto, ma di nuovo ho dovuto fare i conti con la mia prolissità (ogni volta mi pongo un limite di parole e puntualmente lo supero, non posso farci niente). E dire che non mi sembra neanche di aver scritto abbastanza in ogni scena. Avrei voluto dire molte più cose nei saluti, ma mi sono ritrovata ogni volta a dover tagliare frasi a destra e a manca. Non sono per niente soddisfatta, vi chiedo scusa.
Almeno spero di essere riuscita a far capire qualcosa di più sui caratteri dei tributi. Vorrei che mi faceste sapere se siete riusciti ad inquadrare meglio i ragazzi o se c'è bisogno di lavorare meglio sulla caratterizzazione. Dite pure senza esitazione! Non mi offendo mai, io.
Per il resto... non saprei darvi una data precisa per quanto riguarda la pubblicazione delle scene sul treno. Non credo che vci vorrà molto, ma come al solito non posso promettere niente.
Spero che nonostante i miei dubbi abbiate comunque gradito il capitolo. I vostri commenti sono molto importanti, dopotutto scrivo questa storia anche per voi, quindi ci tengo molto a sapere cosa ne pensate.
Detto questo posso anche smettere di annoiarvi!
Un abbraccio e alla prossima,
Ellie

 
   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Hunger Games / Vai alla pagina dell'autore: Its Ellie