"Nessun
matrimonio si compirà:
i vivi e i morti si congiungono
solo nell'aldilà."
Cantava, Pilar, come gli antichi oracoli ispirati dagli dei, mentre
scopriva a
una a una le carte senza degnare di uno sguardo chi le stava di fronte.
"Se qui entrerai, il tuo destino troverai," diceva la giovane gitana
a chiunque la avvicinasse per conoscere il proprio futuro, con quel suo
modo
sfrontato e allegro, lo stesso che usava per raccontarti di un amore
travolgente o di una morte tanto atroce quanto vicina.
E questa volta stava predicendo entrambe le cose a quella ragazza
bionda che si
era intrufolata nell'accampamento con un lungo mantello nero e il
cappuccio
calato sul viso, come avesse avuto paura che qualcuno la scoprisse a
intrattenere rapporti con quei senza Dio. Aveva chiesto di un'indovina,
Esther,
qualcuno che le potesse dire se sarebbe stata felice. Perché
doveva sposarsi
con un uomo che i suoi genitori avevano scelto per lei, un bell'uomo a
dire il
vero, un buon partito. Ma nessuno le assicurava che questi l'avrebbe
resa sposa
e madre appagata.
La famiglia de Los Aguileros era stata ricca, un tempo. Ora era solo
nobile.
E un matrimonio ben costruito avrebbe potuto rendere felice due
famiglie: nuova
ricchezza ai Los Aguileros e un titolo nobiliare ai mercanti de la
Sierra
Ombrosa.
Aveva letto tanti libri, Esther, spesso presi di nascosto nella grande
biblioteca del padre, abbastanza liberale da pretendere che la figlia
imparasse
a leggere e scrivere, ma abbastanza bigotto da volerle vedere tra le
mani solo
la Bibbia, i Sermoni o le vite dei Santi.
Ma Esther, dalla natura sensibile e fantasiosa, si sentiva molto
più attratta
da altre storie. Che prendeva di soppiatto e leggeva di notte al lume
di
candela: aveva seguito Cesare in Gallia e poi combattuto la guerra
civile a
Roma, aveva attraversato le Alpi con Annibale e solcato i mari con
Francis
Drake, aveva compreso le delizie dell'amore con Giulietta e sofferto le
sue
pene con Ofelia. Peccato che dell'astuta Portia non avesse mai sentito
parlare,
perché l'intelletto avrebbe potuto salvarla dal guaio in cui
la sua romantica
impulsività la stava cacciando.
E quando le era stato annunciato il suo matrimonio aveva preteso di
conoscere
il suo futuro, di avere qualche punto fermo una volta abbandonata la
sicura casa
paterna: tutti quei grandi personaggi di cui aveva letto e condiviso
successi e
sconfitte avevano avuto aruspici e indovini che avevano tracciato per
loro una
strada, che li avevano messi nella condizione di essere eroi.
Proprio questo aveva detto: "ho bisogno di certezze." E la bambina a
cui si era avvicinata le aveva indicato una ragazza della sua
età, dalla pelle
dorata e due occhi così neri che iride e pupilla si
confondevano in una cosa
sola. Aveva avuto paura di guardarli, quegli occhi, una paura
istintiva, ma
l'aveva seguita dentro la sua tenda e aveva sottoposto la sua vita alle
carte.
Neppure adesso Esther osava guardare l'indovina che le parlava di due
cose che
avevano solo sfiorato la sua vita, senza mai lasciarne traccia: l'amore
e la
morte.
Tormentava con le mani sottili un fazzoletto, Esther, perché
quello che le
diceva l'indovina era foriero di sventura e lei temeva di sentire il
resto. E
nello stesso tempo non poteva fare a meno di ascoltare, rapita da
quella voce
melodiosa che rendeva reale ciò che ancora non lo era.
Intanto la zingara continuava a scoprire le sue carte, una per una, e a
cantilenare quei versi ipnotici. Cos'è che aveva detto
all'inizio?
Pura è la luna che
risplende di sua beltà,
ma neppure al sole
sopravviverà.
Inutile è opporsi al
patrio arbitrio:
è già
scritto che lui è il promesso marito.
Ma nessun matrimonio si
compirà:
i vivi e i morti si congiungono
solo nell'aldilà.
"Ed io la promessa vedova," pensò Esther, con un sussulto.
"Oppure sarò io a morire. Perché ho chiesto,
perché?" Una lacrima
scese dai suoi occhi, lacrima che subito asciugò col
fazzoletto spiegazzato.
"Se qui entrerai, il tuo destino troverai". Questo aveva detto la
gitana. Aveva torto. Doveva avere torto. Sarebbe andata in chiesa a
farsi
benedire, si sarebbe confessata di essersi rivolta a un'indovina - una
strega!
- e avrebbe pregato. Avrebbe anche indossato il cilicio se necessario,
pensò
impallidendo al pensiero di fili di ferro che laceravano le sue carni
abituate
a soffici sottovesti e vestiti pregiati.
E improvvisamente ricordò
che tutti gli eroi
ed eroine a
cui era stato predetto il futuro avevano in comune solo una cosa: una
tragica
fine.
Esther si alzò facendo cadere lo sgabello su cui era stata
seduta fino a un
momento prima, cercando di lasciarsi alle spalle la zingara, le carte e
quelle
parole cantilenate come una maledizione.
E che, come una maledizione la raggiunsero:
Le strade del Signore sono
infinite
perché ognuno trovi
la sua via:
Non poteva averle letto nella
mente! Esther si voltò di scatto, tremante
e incapace di guardare la gitana negli occhi.
Hai venduto la scelta alla
conoscenza:
scappare non servirà!
È una dura lotta
quella che ti appresti a fare:
ti auguro di averne il cuore
perché ormai
non puoi più
scappare.
E li vide, quegli occhi, Esther, occhi
così
neri che parevano risplendere anche al buio, come i gorghi
dell'Inferno, come
il fuoco di cui arde.
Vide quegli occhi, Esther, e ne fu terrorizzata ancora più
che delle parole che
quella ragazza dalla pelle dorata e dagli orecchini tintinnanti aveva
pronunciato.
Quegli occhi promettevano vita e calore e passione e lo facevano anche
quando
sentenziavano la morte.
Esther non aveva ancora compreso che occhi innocenti non sempre
nascondevano
innocenza.
Molte volte Pilar si era svegliata da quello stato onirico in cui la
divinazione la sprofondava senza trovarsi nessuno di fronte.
Era proprio come in quello stato tra il sonno e la veglia in cui uno
sogna
credendo di essere sveglio, che lei sentiva i rumori, percepiva
emozioni e sentimenti,
guardava e leggeva l'anima di chi aveva davanti, con gli occhi della
sua stessa
anima che erano come quelli del suo corpo: tanto neri che iride e
pupilla
sembravano una cosa sola. Perché il nero assorbe la luce, la
mischia e la
confonde.
E lei vedeva nell'anima allo stesso modo:
ciò che era stato, ciò
che era e ciò che sarebbe accaduto.
Avrebbe mischiato e l'avrebbe confuso.
Pilar non era solo un'indovina.
Aveva un dono particolare che i gitani temevano e gli sciocchi
sfidavano: lei
non prevedeva il futuro, lo creava.
Aveva promesso a Ma Elvira, la zingara che l'aveva iniziata all'arte
divinatoria, che mai avrebbe offerto agli ignari il loro destino. Non
sarebbe
andata incontro ai passanti prendendo loro la mano in cambio di qualche
moneta,
né avrebbe divinato agli sciocchi che volevano solo
consolazione.
Per loro bastavano le altre che nelle carte vedevano solo figure e
nelle mani
linee dalle strane curve, bastavano le zingare dall'occhio sagace che
vedevano
nella persona il suo presente, che nelle carte leggevano il passato e
indovinavano un futuro plausibile.
Un futuro che non era scritto da nessuna parte se non nella mente di
chi
ascoltava una voce tremula quanto la luce di una candela, una voce che
gettava
penombra su quello che sarebbe potuto succedere, che delineava un
insieme di
strade che avrebbero portato a una conclusione.
Quale essa fosse, era tutta da scoprire.
Ma Pilar no. Pilar non parlava: cantava. Come gli antichi oracoli
ispirati
dagli dei, lei rispondeva a qualsiasi domanda, anche a quelle di cui
non
avresti voluto sapere una risposta. E ti raccontava che saresti morto
fra
atroci tormenti col sorriso sulle labbra.
Le figure dei suoi tarocchi - arabeschi disegnati con filosofica
minuzia - non
lasciavano nulla al caso: lo sapeva bene, Pilar, quando scompigliava le
carte
sul tavolo e chiedeva allo sciocco di turno di raccogliere sei carte.
Tre con
la mano destra - ciò che era già stato - e tre
con la mano sinistra - ciò che
era ancora da fare.
La settima carta era di Pilar: la più importante, l'ago
della bilancia.
Ricomponeva il mazzo e disponeva le carte che il temerario di turno
aveva
scelto.
Tre per il passato e tre per il futuro. Tre da una parte e tre
dall'altra, che
stendeva sul tavolo accarezzandole come la schiena di un gatto che si
inarca,
compiaciuto di un tocco deciso e delicato. E la stessa espressione
compiaciuta
si disegnava sul volto di Pilar che già sentiva - e
pregustava - tutte le
storie che avrebbero potuto essere raccontate da quelle sole sei carte.
Tutte storie che avrebbero potuto essere il futuro di chiunque e di
nessuno.
Si prendeva un momento, Pilar, un momento in cui respirava
profondamente e
fissava i suoi occhi neri in quelli del suo cliente. Perché
era dagli occhi che
si catturava l'anima ed era dell'anima di una persona che aveva bisogno
quando
cercava la settima carta.
Ne aveva visti molti di occhi nella sua breve vita: felici e tristi,
verdi o
marroni, azzurri a volte, e sempre vi aveva trovato un'anima da rubare.
E da
restituire, certo, ma non da trattare con cura.
Solo allora usciva dal mazzo la settima carta, come dotata di vita
propria, e
si andava a mettere in mezzo, spartiacque tra presente e futuro.
Perché Pilar rubava l'anima con gli occhi e la restituiva
con le sue parole,
marchiandone a fuoco il suo destino.
Era per questo che molti tentavano di scappare prima di aver sentito
tutto:
pensavano che nelle parole fosse la magia e che non sentirle
equivalesse a
cancellarle. Sciocchi!
Quel che Pilar diceva - che lo dicesse a un uomo, a una donna o anche
solo al
vento - accadeva.
Perché le parole potevano svanire prima di essere ascoltate,
potevano essere
dimenticate, ma nessuno poteva lasciarsi dietro la propria anima.
Rafael de la Sierra Ombrosa non aveva una goccia di sangue blu nelle
vene. Il
nonno di suo nonno era stato un pirata della peggior specie, di quelli
la cui
morte diventava leggenda e alla fine nessuno ricordava se fosse
avvenuta per un
colpo apoplettico, per un fegato crepato dal troppo alcol o da una
corda
stretta attorno al collo. I discendenti di questo famigerato e non
compianto
terrore dei mari si erano invece dimostrati individui lungimiranti che
avevano
investito gli averi del corsaro in una redditizia attività
mercantile. Non
redditizia quanto la pirateria, antica arte che continuavano a
coltivare con la
stessa cura di una partita a scacchi, ma sicuramente più
onesta e per nulla
foriera di cappi al collo. Anche se, in famiglia, non mancavano le
morti per
colpo apoplettico o per fegato crepato dal troppo alcol.
Rafael aveva avuto tutto ciò che il denaro può
comprare: i migliori maestri, le
migliori spade, superbi cavalli e un'ottima istruzione. Sua era stata
la
furbizia di sfruttare tutto quello che la vita o il denaro gli avevano
offerto.
E insieme al successo c'era anche qualche vizio. Niente di spaventoso:
niente
che il denaro non potesse comprare. Gioco, alcol, donne. E un duello di
tanto
in tanto, giusto per mantenere l'allenamento.
Solo una cosa guastava il sangue a Rafael, un tarlo che aveva ereditato
dal
padre: la mancanza di un titolo nobiliare che gli avrebbe aperto le
porte della
politica del tempo.
Rafael de la Sierra Ombrosa - dal punto di vista economico - era un
ottimo
partito. Ed era anche un bell'uomo, piacente e gradevole quanto
pericoloso.
Iniziò a frequentare casa de Los Aguileros con l'intento di
chiedere in sposa
Esther. Cosa che rese molto felice il padre di lei, dato che la loro
situazione
economica non miserabile, ma neppure rosea non le avrebbe permesso di
contrarre
un buon matrimonio
all'interno dell'aristocrazia.
"Peccato per la sua fama di donnaiolo e giocatore d'azzardo," pensava
Caterina, madre di Esther, ben sapendo che il matrimonio non era una
medicina
per certe deprecabili abitudini.
La sorpresa colse tutta la famiglia quando fu la stessa Esther, che
fino ad
allora aveva mostrato un discreto interesse alla corte di Rafael, a
farsi
trovare indisposta ogni volta che il pretendente si presentava a casa
loro. Fu
solo dopo molte insistenze da parte del padre e della madre che Esther
accettò
di nuovo di vedere Rafael e fu solo grazie al fascino di lui che Esther
raccontò della sua avventura all'accampamento degli zingari.
Il padre la rimproverò e la madre la accompagnò
dal confessore perché la figlia
scontasse la meritata penitenza. E tutti si sentirono sollevati,
perché nessuno
credeva che le sei carte di una gitana potessero scompigliare le loro
vite.
Non
avevano fatto i conti con la settima.
Rafael de la Sierra Ombrosa avrebbe voluto ridere di gusto di gusto di
fronte
ai timori di Esther. Balbettando e arrossendo, gli raccontò
della visita fatta
alla gitana e del suo destino di un matrimonio segnato dalla morte.
Faticò a
non ridere, Rafael, ma non lo fece capendo che avrebbe potuto
infrangere il
cuore della duchessina. Probabilmente, se quelle parole gliele avesse
dette
Pilar dagli occhi neri e dalla voce suadente, non ne avrebbe avuto
neppure
voglia.
Ma una
voglia gli venne: volle sapere a sua volta il
proprio futuro.
E si diresse a spron battuto all'accampamento degli zingari, bello e
sfrontato
sul suo cavallo nero. Pareva il Diavolo in persona.
Fu così che Pilar la bella guardò negli occhi un
uomo che non aveva un'anima da
rubare. E dovette cedergli la propria.
Era il tramonto quando Rafael arrivò all'accampamento.
Avvicinò una delle gitane che danzavano a piedi nudi, al
suono di nacchere e
tamburelli, e le chiese se qualcuna di loro fosse in grado di leggere
il
futuro. La ragazza gli prese la mano a e cominciò a
delineare col dito le linee
che la solcavano, ma lui la ritrasse.
"In città si parla di una cartomante che sa il fatto suo,"
disse don
Rafael e la ragazza iniziò a chiamare a gran voce: "Pilar!
Pilar!"
E Pilar dalla pelle dorata e dagli occhi neri smise di ballare e si
avvicinò
alla sua compagna. Studiò l'uomo per un attimo, poi gli fece
cenno di seguirla
verso la sua tenda, l'unico luogo in cui le era permesso leggere le
carte.
"Gli occhi ti diventano bianchi come il burro quando predici il futuro,
bambina mia," le aveva detto Ma Elvira. "Se lo fai in pubblico
penseranno che tu sia posseduta dal demonio e quando non riusciranno a
esorcizzarti ti bruceranno viva."
E così Pilar aveva una piccola tenda illuminata fiocamente
dai mozziconi di tre
candele, un tavolo coperto da una tovaglia colorata e due sgabelli.
Scostò un
lembo della tenda, si voltò e mormorò a Rafael:
"Se qui entrerete, il
vostro destino troverete."
Sorrise, Rafael, sfrontato quanto la bella zingara e incurante di
quelle parole
che sapevano di promessa. Pilar rispose al sorriso ed entrò
subito seguita da
Rafael.
Il rituale cominciò, come le volte precedenti: Pilar prese
il mazzo e lo
sparpagliò sul tavolo. Chiese a
Rafael di raccogliere sei carte: tre con
la mano destra e tre con la mano sinistra. Le accarezzò,
Pilar, stendendole sul
tavolo a una a una, tre da una parte e tre dall'altra. E si
apprestò a
scegliere la settima.
I trionfi che stringeva in mano erano confusi, quasi
eccitati: era come se tutti volessero essere scelti per andare a
colmare quel
vuoto sul tavolo. Ma quel posto apparteneva a un solo arcano.
Alzò gli occhi, Pilar, occhi così neri che iride
e pupilla erano una cosa sola
e li affondò in quelli altrettanto scuri di Rafael.
Ma nulla trovò Pilar dentro quegli occhi: aveva bisogno di
un'anima da fare a
pezzi e da ricucire, ma nel cercarla dentro quegli occhi profondi come
la notte
si perse.
Fu così che Pilar diede la propria anima a Rafael e la
riprese indietro col
destino già scritto.
E quando scelse la settima carta e cominciò a cantilenare
come gli antichi
oracoli ispirati dagli dei neppure lei sapeva se fosse di Rafael o di
Pilar il
destino di amore e morte che raccontava col sorriso sulle labbra.
Pilar era nata in una notte di luna piena: una piccola neonata che non
aveva
urlato dopo il primo respiro, ma si era guardata attorno, curiosa, con
i suoi
occhi neri e i capelli già folti in testa. Era il settimo
venerdì dell'anno e
cadeva di tredici.
Ma Elvira, che l'aveva aiutata a nascere e aveva chiuso gli occhi alla
puerpera
appena madre e appena morta, l'aveva detto subito: "Sei nata in un
giorno
sfortunato, bambina. Sei nata in silenzio e hai rubato la vita a chi te
l'ha
data." E, quando tentò di leggere il suo futuro, si rese
conto di non
poterlo fare: le linee sulle piccole manine grinze si intrecciavano,
confondendosi le une nelle altre. E già quello era un segno
sicuro, perché
nessuno può predire il futuro ai veri indovini.
Rafael rimontò a cavallo per dirigersi in città,
alla propria dimora. Dentro di
sé aveva riso alle parole di Esther, ma non era stato in
grado di farlo a
quelle di Pilar. Non le ricordava neppure: si ricordava di una
cantilena,
cadenzata e melodiosa, ma non avrebbe saputo ripetere quello che gli
aveva
detto. Si sentiva strano però, come se improvvisamente
percepisse un vuoto.
Qualcosa che già c'era, ma di cui solo ora si rendeva conto.
"Se qui entrerete il vostro destino troverete," aveva detto la bella
zingara.
E il ricordo di quelle parole ebbe il potere di farlo infuriare tanto
da
spingere il cavallo a spron battuto, come se avesse avuto il Diavolo
stesso
alle calcagna.
Non riuscì a trovare conforto in nulla: non in un bagno
caldo, non nella solita
partita a carte e neppure fra le braccia di una donna. Sentiva addosso
degli
occhi che spiavano ogni sua mossa, che lo controllavano, che non gli
permettevano più di essere se stesso.
E questo lo faceva infuriare sempre di più. E lo faceva
continuare a bere. Ma
quando si addormentò quegli stessi occhi vennero a trovarlo
nei suoi sogni.
Esther si sentì meglio dopo aver parlato della sua bravata e
aver detto tre
rosari per penitenza.
E, finalmente, era felice e serena. E innamorata. Le parole di Pilar
erano solo
un brutto ricordo al quale preferiva non pensare. Parole a cui si era
frapposta
la propria buona fede e le preghiere alla Santa Vergine.
Iniziò a ritenersi fortunata e a non sentire il bisogno di
certezze che nessuno
avrebbe potuto darle: il suo era un matrimonio combinato, ma aveva
avuto la
fortuna di aver un uomo bello, ricco e premuroso. Che l'avrebbe resa
sposa e
madre felice.
Si dimenticò dei vizi di Rafael, vizi che - a detta della
madre - potevano
guastare anche il migliore degli uomini e che - a detta del padre - non
si
sarebbero mai intromessi fra le loro mura domestiche. Si
dimenticò anche che il
nonno del nonno di Rafael era stato un pirata della peggior specie e
che
nessuno ricordava come fosse morto.
Tutto il contrario di Rafael de la Sierra Ombrosa, del quale nessuno
comprese
la morte ma nessuno la dimenticò mai.
Anche Pilar era turbata. Sapeva di aver fissato per troppo tempo
quell'uomo
negli occhi e sapeva bene quello che dicevano gli zingari a riguardo:
ci si fa
portar via l'anima a fissare troppo a lungo le persone.
Non ricordava cosa gli aveva predetto, raramente ricordava le proprie
divinazioni. Solo che questa volta sapeva di aver detto qualcosa anche
su di
sé: lo aveva fissato troppo negli occhi per trovargli
un'anima e si era persa.
Ma nessuno può predire il futuro agli indovini.
Perché si rischiava di fare come quello che si
costruì le ali con la cera e
volò tanto vicino al sole che precipitò.
Fu così che Pilar si confidò con Ma Elvira. Le
raccontò tutto, di come si era
persa e di come non si sentisse più se stessa. E Ma Elvira
la studiò a lungo,
senza rispondere. Si limitò a scuotere la testa e mormorare
a bassa voce alcune
parole in una lingua che neppure Pilar conosceva, che sembravano una
preghiera
ma suonavano come una maledizione.
"Prega, bambina," le disse infine. "Prega."
La data fissata per le nozze si stava avvicinando, ma il promesso sposo
si
mostrava sempre meno fedele e devoto alla sua promessa. Le sue visite
erano sempre
più brevi e i suoi viaggi - per mare o per terra - sempre
più frequenti. Brevi
tragitti che ormai avevano perso ogni efficacia nel rinfrancare il suo
spirito
libero. Aveva sempre degli occhi che lo seguivano, occhi neri dallo
sguardo
beffardo. No, gli occhi della strega non lo abbandonavano mai.
Così come non lo
abbandonava la sensazione che quello che aveva
detto fosse importante... se solo avesse potuto
ricordarlo!
Era fermo sul molo ora, a guardare il mare, unico fedele compagno della
sua
inquietudine. E quegli occhi sempre davanti ai suoi - nei suoi! -
sempre
impressi nella mente.
Tanto che decise di tornare a vederli per davvero.
Pilar sapeva che sarebbe tornato, sapeva che se lei aveva perso
qualcosa allora
qualcuno lo aveva ritrovato. E sapeva benissimo chi era stato: a
fissare troppo
a lungo le persone si perde l'anima. Eppure lei un'anima la restituiva
sempre.
Fu Rafael a stupirsi quando la incontrò in mezzo alla via. E
tirò un sospiro di
sollievo: quegli occhi avevano ritrovato un viso su cui stare e
apparivano ora
meno inquietanti. Più umani. Forse era proprio a questo che
pensava stringendo
la spada nel pugno: non si può uccidere uno sguardo, ma la
persona a cui
appartiene sì.
Scese da cavallo e si
avvicinò alla fanciulla, che sorrideva, spavalda
come suo solito.
Aveva scritto
il futuro di troppe persone per non
sapere che un giorno la stessa cosa sarebbe potuta accadere anche a
lei. Le
dava solo fastidio non ricordare, non sapere cosa l'attendeva.
Sì, questa era
l'unica parte che riteneva ingiusta: coloro che uscivano dalla sua
tenda
avevano delle parole che potevano anche essere confuse, ma che pian
piano si
dipanavano come una matassa, come il futuro. Ma lei non aveva neppure
quella
consolazione. O condanna. No, si corresse subito, consolazione.
Perché un
futuro già scritto era una condanna più che
sufficiente.
Si avvicinò a lei, Rafael, si avvicinò piano,
circospetto, nello stesso modo
con cui avrebbe cominciato un duello alla spada: lentamente, studiando
le mosse
del nemico, studiando i punti deboli, studiando dove colpire. Ma Pilar
non si
muoveva: continuava a fissarlo coi suoi occhi così neri che
iride e pupilla
erano la stessa cosa, occhi che non avevano più smesso di
seguirlo neppure nei
suoi sogni.
"Cosa mi hai fatto, strega?" domandò Rafael.
"Ti ho fissato troppo a lungo," rispose Pilar, con la sua voce
melodiosa.
"E cosa succede quando le zingare guardano qualcuno troppo a lungo?"
volle sapere Rafael.
"Questo qualcuno ci ruba l'anima" cantilenò Pilar, seria,
immobile e
concentrata come un gatto che attendeva la preda.
"E allora riprenditela: una è già abbastanza da
portare all'Inferno"
disse Rafael a denti stretti, mentre la rabbia gli cresceva dentro,
rabbia che
ormai non riusciva a contenere.
"Bisogna avercela un'anima, Rafael de la Sierra Ombrosa. Un nome
altisonante per un figlio di pirati che sta per diventare Duca" lo
prese
in giro Pilar, sempre sorridente davanti ad Amore e Morte.
"Anche questo hai letto nelle tue maledette carte?" chiese lui
stizzito.
"No, questo l'ho letto nelle carte della vostra futura sposa. O futura
vedova. Anche se non credo che ci sarà un matrimonio,"
rispose pensierosa
la gitana dalla pelle dorata.
"Perché, maledetta? Perché?" domandò
con veemenza, prendendole la
gola sottile con una mano, senza stringere, senza lasciarla.
"Io vi ho avvertito prima di entrare nella tenda. Non date a me la
colpa
di ciò che voi stesso avete deciso. Non sono stata io ad
invitarvi." Un
lampo brillò per un attimo negli occhi neri di Pilar, come
se un temporale si
stesse preparando nella sua anima.
"Disfa ciò che hai fatto," le intimò Rafael.
"Non mi è possibile disfare il futuro così come a
nessuno è possibile
disfare il passato," rispose Pilar, sorridendo, perché
così aveva sempre
fatto: Amore e Morte andavano presi col sorriso perché ti
sorridessero a loro
volta.
"Sei una strega, lo devi poter fare," le ordinò Rafael,
senza
rendersi conto che la stava supplicando.
"Ho un potere, Rafael de la Sierra Ombrosa. Io lo so usare, ma non lo
posso controllare. E adesso rispondete a me: cosa vi ho detto?" Volle
sapere a sua volta Pilar, liberandosi da quella stretta che si stava
facendo
sempre più lasca sul suo collo.
"Perché volete saperlo?" chiese a sua volta Rafael: se
questo era un
gioco d'azzardo allora doveva trovare il modo che le carte giocassero a
suo
favore.
Aveva dimenticato che c'era solo una mano ed era già stata
giocata.
"Perché quello che vi ho detto potrebbe essere il mio futuro
oltre al
vostro," sentenziò la gitana muovendo lentamente il capo e
facendo
tintinnare i suoi orecchini d'argento
"Ve lo dirò," rispose Rafael. "Ve lo dirò a una
sola condizione:
toglietemi i vostri occhi di dosso. Lasciatemi in pace."
"Voi non sapete quanto mi piacerebbe riprendermeli. Quanto mi
piacerebbe
tornare a vedere il sole invece di sentirne il solo calore, quanto
vorrei
vedere i colori, i volti delle mie compagne invece di dover attingere
al mio
potere per percepirne l'anima," cantilenò Pilar la bella con
gli occhi
neri persi nelle ombre del crepuscolo.
"Siete rimasta cieca?" chiese Rafael, passandole lentamente una mano
sugli occhi. Mano che Pilar bloccò al volo.
"Voi non capite neppure di cosa io stia parlando," mormorò
Pilar
avvicinando il viso a quello di lui.
"Come osate, maledetta strega! Toglietemi i vostri maledetti occhi di
dosso. Subito!" supplicò cercando di suonare minaccioso.
E Pilar lo baciò, a fior di labbra, con la stessa
delicatezza e decisione con
cui stendeva le carte sul tavolo. Rubò un bacio a quelle
labbra, un brevissimo
bacio perché Rafael sguainò la spada e gliela
appoggiò alla gola, infuriato e
impotente. "Vi ho detto riprendervi i vostri occhi non di stregarmi
ancora."
"È quello che ho tentato di fare," rispose Pilar, sempre
sorridente,
sempre beffarda. "Ma voi non me li avete ceduti e io non posso
riprendermeli con la forza. Se non facendovi molto male."
"Smettetela con inutili minacce. Toglietemi i vostri occhi di dosso,
subito!" urlò Rafael, dimenticandosi di ogni contegno, di
ogni etichetta.
Dimenticandosi che urlare non cambia il destino né lo
rallenta.
E Pilar avvicinò di nuovo le labbra a quelle di lui, senza
che Rafael opponesse
resistenza alcuna. La spada - ormai inutile -
cadde a terra quando le labbra della gitana
si chiusero su quelle dell'affascinante libertino e Pilar
iniziò a ricordare
pian piano le carte che Rafael aveva steso sul tavolo per il passato -
il
Bagatto, l'Imperatore e il Sole - e per il futuro - il Matto, gli
Amanti e la
Morte. Solo un'altra carta poteva aver commisto due anime: colei che sa
ma non
rivela. La Papessa.
Non gli cantilenò di nuovo parole oscure, ma gli fece vedere
ciò che vedevano
quegli occhi che ormai lo seguivano ovunque: e Rafael si prese la testa
con le
mani, impreparato a quelle immagini, a quelle emozioni, al caos di
tutte quelle
strade che si intersecavano in un punto, strade fra le quali una era
chiaramente visibile: breve e presto interrotta.
Si svegliò a notte fonda Rafael, nella tenda di Pilar. La
stessa in cui
divinava il futuro. Si tirò a sedere con uno scatto, la
testa ancora dolente,
accorgendosi delle due donne che lo assistevano solo quando i suoi
occhi si
furono abituati al buio.
Una era Pilar.
L'altra era Ma Elvira, che temeva per il futuro di quella ragazza che
aveva
fatto venire al mondo, ma che ormai non aveva più risposte
né consigli.
Se ne andò quando l'uomo si risvegliò, scuotendo
la testa e mormorando parole
che potevano sembrare una preghiera non fossero state così
cupe.
"Cosa mi hai fatto di nuovo, strega?" chiese Rafael, rassegnato e
arrabbiato per non aver neppure la volontà di combattere
oltre che la forza.
"Vi ho mostrato cosa vedono quegli occhi che vi seguono sempre"
rispose Pilar. "Occhi che devono tornare da me."
"E allora riprendeteveli," mormorò lui, sfinito.
"E allora ridatemeli," mormorò Pilar dalla voce suadente
chinandosi
su di lui.
Dopo quella notte quegli occhi neri smisero di seguire Rafael, ma
cominciò a
farlo il pensiero della bella gitana: se prima l'aveva stregato coi
suoi
poteri, ora l'aveva stregato col suo corpo.
Rafael non si riconosceva più e per questo era irrequieto,
arrabbiato e, nello
stesso tempo, impotente: era sempre stato un libertino, aveva accettato
di
sposarsi solo per interesse, per ottenere il titolo di Duca come dote
della
futura sposa. E ora stava per perdere tutto per una zingara, una
ragazza che
gli aveva dato solo tormento, che gli aveva tolto il senno e che gli
stava
togliendo ogni ambizione, ogni desiderio diverso da quel corpo morbido
e
sensuale. E si trovò anche a rimpiangere quegli occhi neri
che prima lo
seguivano, perché se
quelli stavano soffocando la sua libertà, la
mancanza di chi li possedeva ora gli toglieva il respiro.
Anche Esther se ne era accorta, perché era come se un velo
fosse calato sugli
occhi di Rafael. Non andava più a trovarla come prima e
quando erano insieme
parlava poco e mai di cose importanti. Non riferiva preoccupazioni di
sorta, ma
era assente.
Ed Esther non capiva e ogni giorno cercava di apparire più
bella per lui, più
dolce, più desiderabile. Ma Rafael non aveva occhi per
guardare a lei. Né
pensieri da dedicarle.
"Nessun matrimonio si
compirà:
i vivi e i morti si congiungono
solo nell'aldilà."
Le parole della zingara le tornarono alla mente come uno schiaffo, in
tutta la
loro potenza. E di nuovo le strinsero il cuore in una morsa dolorosa,
ma questa
volta non si fece scrupoli a versare copiose lacrime. E a rifugiarsi
fra le
gonne della madre come faceva quando era una bambina. E di nuovo
raccontò la
storia di Pilar e temette che tre rosari non fossero stati una
penitenza
sufficiente.
"È stata quella zingara," sentenziò Caterina,
temendo di aver
sottovalutato il potere di una strega. "Dobbiamo andare dal prete: gli
ha
sicuramente fatto una fattura e solo il Padre Eterno e i suoi servitori
potranno togliergliela. E il vostro futuro marito penserà
sempre e soltanto a
voi."
E così fecero. Il prete chiamò i gendarmi e si
fece accompagnare dagli zingari.
Si fece indicare Pilar minacciando di arrestarli tutti. E Pilar, da
sola, si
fece avanti: perché non credeva che la sua gente l'avrebbe
mai tradita, ma allo
stesso modo era lei a non volerli
tradire.
Venne portata in carcere e venne istituito un regolare processo.
E Pilar rimase in silenzio, senza rispondere alle domande, senza negare
le
accuse. Erano giunti all'ultima carta, lo sapeva bene: solo la Morte
aveva
davanti. Non poteva più cambiare un destino che lei stessa
aveva scritto.
Taceva, Pilar, sorridendo con gli occhi e con le labbra, spavalda e
sensuale
come la stessa Papessa che l'aveva condannata.
Sorrideva, Pilar, mentre Esther pregava e Rafael si straziava un'anima
che
ormai era sua tra lo sgomento e il sollievo.
Sorrise Pilar anche quando la legarono al rogo e appiccarono le fiamme,
perché
così aveva sempre fatto: Amore e Morte andavano presi col
sorriso perché ti
sorridessero a loro volta.
Perché lei, che per tutta la vita aveva rubato l'anima degli
altri con i suoi
occhi neri e restituita con parole melodiose, ora si apprestava a
lasciar
andare la propria, smarrendosi nel ricordo di occhi neri e insidiosi
come la
notte.
E - come venne al mondo - morì: senza nemmeno un grido.
Per molti anni a venire i gitani raccontarono la storia di Pilar,
l'indovina
che guardò il proprio futuro. E che - come accade a chi
fissa il sole troppo a
lungo - si accecò.
Ma badarono bene a non tornare in quella città, dove un
cadavere carbonizzato
venne ritrovato nel proprio letto senza segni di bruciature attorno: di
Rafael
de la Sierra Ombrosa non si ricordò della vita, ma nessuno
scordò mai della sua
morte, perché fu come se le fiamme lo avessero avvolto
dall'interno, cibandosi
delle sue stesse carni ed estinguendosi con esse.
Nessun ricordo per Esther de los Aguileros, solo qualche preghiera e un
nome in
un grande albero genealogico.
Pura è la luna che
risplende di sua beltà,
ma neppure al sole
sopravviverà.
Inutile è opporsi al
patrio arbitrio:
è già
scritto che lui è il promesso marito.
Ma nessun matrimonio si
compirà:
i vivi e i morti si congiungono
solo nell'aldilà.
Erano i versi, che una gitana le aveva cantilenato in un pomeriggio di
autunno,
e che furono il suo epitaffio. Questa fu la sua volontà,
mormorata prima di
morire, ultima erede dei Los Aguileros. Parole mormorate da una
fanciulla in
abito bianco nel giorno che l'avrebbe dovuta vedere sposa.
Era la settima domenica dell'anno 1791 e cadeva di tredici.
Note a priori...:
La storia vorrebbe essere ambientata in Andalusia che,
quando visitai, mi colpì – tra le altre cose
– per la notevole presenza di
gitani perfettamente integrati nella società senza aver
perso nulla delle loro
origini. Almeno apparentemente.
I gitani e gli altri personaggi da me
citati sono frutto di
fantasia e non di ricerche storiche. L'unica nota storica è
una data: nel 1791,
il 13 febbraio cadde di domenica. Ed era la settima dell'anno.
... note a posteriori: cioè che arrivano dopo il
concorso,
dopo un po' di discussioni sul forum dell'Anonima Autori e dopo la
preziosa
revisione di JeanGenie.
Prima di tutto voglio ringraziare ancora
una volta chi l'ha
apprezzata e votata. Mi avete reso davvero felice.
Questa storia vorrebbe essere una
rielaborazione originale (o,
almeno, mia) di molti cliché letterari tipici di questo
genere. Sicuramente i
cliché ci sono tutti, dell'originalità non sono
molto sicura. Mi rendo conto
che abbia vari difetti, ma la sua vittoria del concorso mi ha portato
una tale
emozione (piacevole, eh!) che non riesco a cambiare nemmeno una
virgola...
magari in futuro...
Nella storia iniziale Pilar era nata di 17,
non di 13. Jean mi ha
fatto notare che in Spagna il giorno sfortunato è il 13
(addirittura martedì
13! Che male avrà fatto il martedì agli spagnoli?
Mah!) mentre io credevo che
il 17 fosse imperante in tutti i paese latini... invece lo è
solo in Italia! La
scelta del 7 invece ricade sulle caratteristiche
“magiche” che, in molte
culture, si attribuiscono a questo numero (primo e felice, secondo la
matematica!).
Altro particolare: Daeran mi ha fatto
notare che non si capisce
perché Rafael non abbia un'anima. Verissimo: il fatto che
non ce l'abbia è
legato a una maledizione dell'avo pirata poi ricaduta sulla famiglia.
All'inizio avevo dato più spazio ai vari background ma
poi la storia diventava troppo dispersiva per essere una
one-shot. Però il fatto che Rafael non avesse un'anima era
importante ai fini
della trama per cui l'ho lasciato anche se - apparentemente -
immotivato. Così
come ho mantenuto l'ambientazione posteriore al 1789 perché
la famiglia dei Los
Aguileros (cognome peraltro utilizzato da M.M. Kaye per la protagonista
di
“L'ombra della luna”) - diventata
una
famiglia decaduta della nobiltà spagnola nella versione
definitiva – originariamente
era francese, rifugiatasi in
Spagna per via della Rivoluzione. Anche se in quegli di pire per le
streghe se
ne accendevano ormai (per fortuna!) poche.
Gli ultimi due roghi di streghe avvennero
infatti nel 1792 nella
Svizzera Protestante e nel 1793 nella Polonia Cattolica. Mi sono presa
la
(grandissima) libertà di farne avvenire uno anche in
Spagna...
Credits: “la morte sorride a tutti. L'unica cosa che puoi
fare è sorriderle di
rimando” è una massima di Marco Aurelio nel film
“Il Gladiatore”. Io l'ho presa
e rivista, ma è stata questa frase a suggerirmi che possa
succedere anche il
contrario.
Assieme all’onore della vittoria
ho anche avuto l’onere (e il
piacere) di essere la banditrice della terza sfida di Anonima Autori:
“artisti
di strada”.
Per maggiori informazioni venite a trovarci
su www.anonimautori.altervista.org
e sezione apposita del forum.
Grazie dell’attenzione!