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Autore: Blackvirgo    24/11/2008    3 recensioni
Pilar non era solo un'indovina. Aveva un dono particolare che i gitani temevano e gli sciocchi sfidavano: lei non prevedeva il futuro, lo creava. Rubava l'anima coi suoi occhi così neri che iride e pupilla parevano la stessa cosa. E te la ridava cantando: come gli antichi oracoli ispirati dagli dei, lei rispondeva a qualsiasi domanda, anche a quelle di cui non avresti voluto sapere una risposta. E con un sorriso beffardo, sensuale, impertinente:Amore e Morte vanno presi col sorriso perché ti sorridano a loro volta.
Prima classificata alla seconda sfida di Anonima Autori: "streghe, vampiri e lupi mannari"
Genere: Drammatico, Sovrannaturale, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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"Nessun matrimonio si compirà:
i vivi e i morti si congiungono solo nell'aldilà."

Cantava, Pilar, come gli antichi oracoli ispirati dagli dei, mentre scopriva a una a una le carte senza degnare di uno sguardo chi le stava di fronte.

"Se qui entrerai, il tuo destino troverai," diceva la giovane gitana a chiunque la avvicinasse per conoscere il proprio futuro, con quel suo modo sfrontato e allegro, lo stesso che usava per raccontarti di un amore travolgente o di una morte tanto atroce quanto vicina.

E questa volta stava predicendo entrambe le cose a quella ragazza bionda che si era intrufolata nell'accampamento con un lungo mantello nero e il cappuccio calato sul viso, come avesse avuto paura che qualcuno la scoprisse a intrattenere rapporti con quei senza Dio. Aveva chiesto di un'indovina, Esther, qualcuno che le potesse dire se sarebbe stata felice. Perché doveva sposarsi con un uomo che i suoi genitori avevano scelto per lei, un bell'uomo a dire il vero, un buon partito. Ma nessuno le assicurava che questi l'avrebbe resa sposa e madre appagata.

La famiglia de Los Aguileros era stata ricca, un tempo. Ora era solo nobile.
E un matrimonio ben costruito avrebbe potuto rendere felice due famiglie: nuova ricchezza ai Los Aguileros e un titolo nobiliare ai mercanti de la Sierra Ombrosa.
Aveva letto tanti libri, Esther, spesso presi di nascosto nella grande biblioteca del padre, abbastanza liberale da pretendere che la figlia imparasse a leggere e scrivere, ma abbastanza bigotto da volerle vedere tra le mani solo la Bibbia, i Sermoni o le vite dei Santi.
Ma Esther, dalla natura sensibile e fantasiosa, si sentiva molto più attratta da altre storie. Che prendeva di soppiatto e leggeva di notte al lume di candela: aveva seguito Cesare in Gallia e poi combattuto la guerra civile a Roma, aveva attraversato le Alpi con Annibale e solcato i mari con Francis Drake, aveva compreso le delizie dell'amore con Giulietta e sofferto le sue pene con Ofelia. Peccato che dell'astuta Portia non avesse mai sentito parlare, perché l'intelletto avrebbe potuto salvarla dal guaio in cui la sua romantica impulsività la stava cacciando.
E quando le era stato annunciato il suo matrimonio aveva preteso di conoscere il suo futuro, di avere qualche punto fermo una volta abbandonata la sicura casa paterna: tutti quei grandi personaggi di cui aveva letto e condiviso successi e sconfitte avevano avuto aruspici e indovini che avevano tracciato per loro una strada, che li avevano messi nella condizione di essere eroi.

Proprio questo aveva detto: "ho bisogno di certezze." E la bambina a cui si era avvicinata le aveva indicato una ragazza della sua età, dalla pelle dorata e due occhi così neri che iride e pupilla si confondevano in una cosa sola. Aveva avuto paura di guardarli, quegli occhi, una paura istintiva, ma l'aveva seguita dentro la sua tenda e aveva sottoposto la sua vita alle carte.

Neppure adesso Esther osava guardare l'indovina che le parlava di due cose che avevano solo sfiorato la sua vita, senza mai lasciarne traccia: l'amore e la morte.
Tormentava con le mani sottili un fazzoletto, Esther, perché quello che le diceva l'indovina era foriero di sventura e lei temeva di sentire il resto. E nello stesso tempo non poteva fare a meno di ascoltare, rapita da quella voce melodiosa che rendeva reale ciò che ancora non lo era.
Intanto la zingara continuava a scoprire le sue carte, una per una, e a cantilenare quei versi ipnotici. Cos'è che aveva detto all'inizio?

Pura è la luna che risplende di sua beltà,
ma neppure al sole sopravviverà.
Inutile è opporsi al patrio arbitrio:
è già scritto che lui è il promesso marito.
Ma nessun matrimonio si compirà:
i vivi e i morti si congiungono solo nell'aldilà.

"Ed io la promessa vedova," pensò Esther, con un sussulto. "Oppure sarò io a morire. Perché ho chiesto, perché?" Una lacrima scese dai suoi occhi, lacrima che subito asciugò col fazzoletto spiegazzato.

"Se qui entrerai, il tuo destino troverai". Questo aveva detto la gitana. Aveva torto. Doveva avere torto. Sarebbe andata in chiesa a farsi benedire, si sarebbe confessata di essersi rivolta a un'indovina - una strega! - e avrebbe pregato. Avrebbe anche indossato il cilicio se necessario, pensò impallidendo al pensiero di fili di ferro che laceravano le sue carni abituate a soffici sottovesti e vestiti pregiati.
E improvvisamente ricord
ò che tutti gli eroi ed eroine a cui era stato predetto il futuro avevano in comune solo una cosa: una tragica fine.

Esther si alzò facendo cadere lo sgabello su cui era stata seduta fino a un momento prima, cercando di lasciarsi alle spalle la zingara, le carte e quelle parole cantilenate come una maledizione.
E che, come una maledizione la raggiunsero:

Le strade del Signore sono infinite
perché ognuno trovi la sua via:

Non poteva averle letto nella mente! Esther si voltò di scatto, tremante e incapace di guardare la gitana negli occhi.

Hai venduto la scelta alla conoscenza:
scappare non servirà!
È una dura lotta quella che ti appresti a fare:
ti auguro di averne il cuore perché ormai
non puoi più scappare.

E li vid
e, quegli occhi, Esther, occhi così neri che parevano risplendere anche al buio, come i gorghi dell'Inferno, come il fuoco di cui arde.
Vide quegli occhi, Esther, e ne fu terrorizzata ancora più che delle parole che quella ragazza dalla pelle dorata e dagli orecchini tintinnanti aveva pronunciato.
Quegli occhi promettevano vita e calore e passione e lo facevano anche quando sentenziavano la morte.
Esther non aveva ancora compreso che occhi innocenti non sempre nascondevano innocenza.

Molte volte Pilar si era svegliata da quello stato onirico in cui la divinazione la sprofondava senza trovarsi nessuno di fronte.
Era proprio come in quello stato tra il sonno e la veglia in cui uno sogna credendo di essere sveglio, che lei sentiva i rumori, percepiva emozioni e sentimenti, guardava e leggeva l'anima di chi aveva davanti, con gli occhi della sua stessa anima che erano come quelli del suo corpo: tanto neri che iride e pupilla sembravano una cosa sola. Perché il nero assorbe la luce, la mischia e la confonde.

E lei vedeva nell'anima allo stesso modo: ciò che era stato, ciò che era e ciò che sarebbe accaduto.

Avrebbe mischiato e l'avrebbe confuso.

Pilar non era solo un'indovina.
Aveva un dono particolare che i gitani temevano e gli sciocchi sfidavano: lei non prevedeva il futuro, lo creava.
Aveva promesso a Ma Elvira, la zingara che l'aveva iniziata all'arte divinatoria, che mai avrebbe offerto agli ignari il loro destino. Non sarebbe andata incontro ai passanti prendendo loro la mano in cambio di qualche moneta, né avrebbe divinato agli sciocchi che volevano solo consolazione.
Per loro bastavano le altre che nelle carte vedevano solo figure e nelle mani linee dalle strane curve, bastavano le zingare dall'occhio sagace che vedevano nella persona il suo presente, che nelle carte leggevano il passato e indovinavano un futuro plausibile.
Un futuro che non era scritto da nessuna parte se non nella mente di chi ascoltava una voce tremula quanto la luce di una candela, una voce che gettava penombra su quello che sarebbe potuto succedere, che delineava un insieme di strade che avrebbero portato a una conclusione.
Quale essa fosse, era tutta da scoprire.

Ma Pilar no. Pilar non parlava: cantava. Come gli antichi oracoli ispirati dagli dei, lei rispondeva a qualsiasi domanda, anche a quelle di cui non avresti voluto sapere una risposta. E ti raccontava che saresti morto fra atroci tormenti col sorriso sulle labbra.
Le figure dei suoi tarocchi - arabeschi disegnati con filosofica minuzia - non lasciavano nulla al caso: lo sapeva bene, Pilar, quando scompigliava le carte sul tavolo e chiedeva allo sciocco di turno di raccogliere sei carte. Tre con la mano destra - ciò che era già stato - e tre con la mano sinistra - ciò che era ancora da fare.
La settima carta era di Pilar: la più importante, l'ago della bilancia.
Ricomponeva il mazzo e disponeva le carte che il temerario di turno aveva scelto.
Tre per il passato e tre per il futuro. Tre da una parte e tre dall'altra, che stendeva sul tavolo accarezzandole come la schiena di un gatto che si inarca, compiaciuto di un tocco deciso e delicato. E la stessa espressione compiaciuta si disegnava sul volto di Pilar che già sentiva - e pregustava - tutte le storie che avrebbero potuto essere raccontate da quelle sole sei carte.
Tutte storie che avrebbero potuto essere il futuro di chiunque e di nessuno.
Si prendeva un momento, Pilar, un momento in cui respirava profondamente e fissava i suoi occhi neri in quelli del suo cliente. Perché era dagli occhi che si catturava l'anima ed era dell'anima di una persona che aveva bisogno quando cercava la settima carta.
Ne aveva visti molti di occhi nella sua breve vita: felici e tristi, verdi o marroni, azzurri a volte, e sempre vi aveva trovato un'anima da rubare. E da restituire, certo, ma non da trattare con cura.
Solo allora usciva dal mazzo la settima carta, come dotata di vita propria, e si andava a mettere in mezzo, spartiacque tra presente e futuro.
Perché Pilar rubava l'anima con gli occhi e la restituiva con le sue parole, marchiandone a fuoco il suo destino.
Era per questo che molti tentavano di scappare prima di aver sentito tutto: pensavano che nelle parole fosse la magia e che non sentirle equivalesse a cancellarle. Sciocchi!
Quel che Pilar diceva - che lo dicesse a un uomo, a una donna o anche solo al vento - accadeva.
Perché le parole potevano svanire prima di essere ascoltate, potevano essere dimenticate, ma nessuno poteva lasciarsi dietro la propria anima.

Rafael de la Sierra Ombrosa non aveva una goccia di sangue blu nelle vene. Il nonno di suo nonno era stato un pirata della peggior specie, di quelli la cui morte diventava leggenda e alla fine nessuno ricordava se fosse avvenuta per un colpo apoplettico, per un fegato crepato dal troppo alcol o da una corda stretta attorno al collo. I discendenti di questo famigerato e non compianto terrore dei mari si erano invece dimostrati individui lungimiranti che avevano investito gli averi del corsaro in una redditizia attività mercantile. Non redditizia quanto la pirateria, antica arte che continuavano a coltivare con la stessa cura di una partita a scacchi, ma sicuramente più onesta e per nulla foriera di cappi al collo. Anche se, in famiglia, non mancavano le morti per colpo apoplettico o per fegato crepato dal troppo alcol.

Rafael aveva avuto tutto ciò che il denaro può comprare: i migliori maestri, le migliori spade, superbi cavalli e un'ottima istruzione. Sua era stata la furbizia di sfruttare tutto quello che la vita o il denaro gli avevano offerto. E insieme al successo c'era anche qualche vizio. Niente di spaventoso: niente che il denaro non potesse comprare. Gioco, alcol, donne. E un duello di tanto in tanto, giusto per mantenere l'allenamento.
Solo una cosa guastava il sangue a Rafael, un tarlo che aveva ereditato dal padre: la mancanza di un titolo nobiliare che gli avrebbe aperto le porte della politica del tempo.
Rafael de la Sierra Ombrosa - dal punto di vista economico - era un ottimo partito. Ed era anche un bell'uomo, piacente e gradevole quanto pericoloso.

Iniziò a frequentare casa de Los Aguileros con l'intento di chiedere in sposa Esther. Cosa che rese molto felice il padre di lei, dato che la loro situazione economica non miserabile, ma neppure rosea non le avrebbe permesso di contrarre un buon
matrimonio all'interno dell'aristocrazia.
"Peccato per la sua fama di donnaiolo e giocatore d'azzardo," pensava Caterina, madre di Esther, ben sapendo che il matrimonio non era una medicina per certe deprecabili abitudini.

La sorpresa colse tutta la famiglia quando fu la stessa Esther, che fino ad allora aveva mostrato un discreto interesse alla corte di Rafael, a farsi trovare indisposta ogni volta che il pretendente si presentava a casa loro. Fu solo dopo molte insistenze da parte del padre e della madre che Esther accettò di nuovo di vedere Rafael e fu solo grazie al fascino di lui che Esther raccontò della sua avventura all'accampamento degli zingari.
Il padre la rimproverò e la madre la accompagnò dal confessore perché la figlia scontasse la meritata penitenza. E tutti si sentirono sollevati, perché nessuno credeva che le sei carte di una gitana potessero scompigliare le loro vite.

Non avevano fatto i conti con la settima.

Rafael de la Sierra Ombrosa avrebbe voluto ridere di gusto di gusto di fronte ai timori di Esther. Balbettando e arrossendo, gli raccontò della visita fatta alla gitana e del suo destino di un matrimonio segnato dalla morte. Faticò a non ridere, Rafael, ma non lo fece capendo che avrebbe potuto infrangere il cuore della duchessina. Probabilmente, se quelle parole gliele avesse dette Pilar dagli occhi neri e dalla voce suadente, non ne avrebbe avuto neppure voglia.
Ma una voglia gli venne: volle sapere a sua volta il proprio futuro.
E si diresse a spron battuto all'accampamento degli zingari, bello e sfrontato sul suo cavallo nero. Pareva il Diavolo in persona.
Fu così che Pilar la bella guardò negli occhi un uomo che non aveva un'anima da rubare. E dovette cedergli la propria.

Era il tramonto quando Rafael arrivò all'accampamento.
Avvicinò una delle gitane che danzavano a piedi nudi, al suono di nacchere e tamburelli, e le chiese se qualcuna di loro fosse in grado di leggere il futuro. La ragazza gli prese la mano a e cominciò a delineare col dito le linee che la solcavano, ma lui la ritrasse.
"In città si parla di una cartomante che sa il fatto suo," disse don Rafael e la ragazza iniziò a chiamare a gran voce: "Pilar! Pilar!"
E Pilar dalla pelle dorata e dagli occhi neri smise di ballare e si avvicinò alla sua compagna. Studiò l'uomo per un attimo, poi gli fece cenno di seguirla verso la sua tenda, l'unico luogo in cui le era permesso leggere le carte.
"Gli occhi ti diventano bianchi come il burro quando predici il futuro, bambina mia," le aveva detto Ma Elvira. "Se lo fai in pubblico penseranno che tu sia posseduta dal demonio e quando non riusciranno a esorcizzarti ti bruceranno viva."
E così Pilar aveva una piccola tenda illuminata fiocamente dai mozziconi di tre candele, un tavolo coperto da una tovaglia colorata e due sgabelli. Scostò un lembo della tenda, si voltò e mormorò a Rafael: "Se qui entrerete, il vostro destino troverete."
Sorrise, Rafael, sfrontato quanto la bella zingara e incurante di quelle parole che sapevano di promessa. Pilar rispose al sorriso ed entrò subito seguita da Rafael.

Il rituale cominciò, come le volte precedenti: Pilar prese il mazzo e lo sparpagliò sul tavolo. Chiese
a Rafael di raccogliere sei carte: tre con la mano destra e tre con la mano sinistra. Le accarezzò, Pilar, stendendole sul tavolo a una a una, tre da una parte e tre dall'altra. E si apprestò a scegliere la settima.
I trionfi che stringeva in mano erano confusi, quasi eccitati: era come se tutti volessero essere scelti per andare a colmare quel vuoto sul tavolo. Ma quel posto apparteneva a un solo arcano.
Alzò gli occhi, Pilar, occhi così neri che iride e pupilla erano una cosa sola e li affondò in quelli altrettanto scuri di Rafael.
Ma nulla trovò Pilar dentro quegli occhi: aveva bisogno di un'anima da fare a pezzi e da ricucire, ma nel cercarla dentro quegli occhi profondi come la notte si perse.
Fu così che Pilar diede la propria anima a Rafael e la riprese indietro col destino già scritto.
E quando scelse la settima carta e cominciò a cantilenare come gli antichi oracoli ispirati dagli dei neppure lei sapeva se fosse di Rafael o di Pilar il destino di amore e morte che raccontava col sorriso sulle labbra.

Pilar era nata in una notte di luna piena: una piccola neonata che non aveva urlato dopo il primo respiro, ma si era guardata attorno, curiosa, con i suoi occhi neri e i capelli già folti in testa. Era il settimo venerdì dell'anno e cadeva di tredici.
Ma Elvira, che l'aveva aiutata a nascere e aveva chiuso gli occhi alla puerpera appena madre e appena morta, l'aveva detto subito: "Sei nata in un giorno sfortunato, bambina. Sei nata in silenzio e hai rubato la vita a chi te l'ha data." E, quando tentò di leggere il suo futuro, si rese conto di non poterlo fare: le linee sulle piccole manine grinze si intrecciavano, confondendosi le une nelle altre. E già quello era un segno sicuro, perché nessuno può predire il futuro ai veri indovini.

Rafael rimontò a cavallo per dirigersi in città, alla propria dimora. Dentro di sé aveva riso alle parole di Esther, ma non era stato in grado di farlo a quelle di Pilar. Non le ricordava neppure: si ricordava di una cantilena, cadenzata e melodiosa, ma non avrebbe saputo ripetere quello che gli aveva detto. Si sentiva strano però, come se improvvisamente percepisse un vuoto. Qualcosa che già c'era, ma di cui solo ora si rendeva conto.
"Se qui entrerete il vostro destino troverete," aveva detto la bella zingara.
E il ricordo di quelle parole ebbe il potere di farlo infuriare tanto da spingere il cavallo a spron battuto, come se avesse avuto il Diavolo stesso alle calcagna.
Non riuscì a trovare conforto in nulla: non in un bagno caldo, non nella solita partita a carte e neppure fra le braccia di una donna. Sentiva addosso degli occhi che spiavano ogni sua mossa, che lo controllavano, che non gli permettevano più di essere se stesso.
E questo lo faceva infuriare sempre di più. E lo faceva continuare a bere. Ma quando si addormentò quegli stessi occhi vennero a trovarlo nei suoi sogni.

Esther si sentì meglio dopo aver parlato della sua bravata e aver detto tre rosari per penitenza.
E, finalmente, era felice e serena. E innamorata. Le parole di Pilar erano solo un brutto ricordo al quale preferiva non pensare. Parole a cui si era frapposta la propria buona fede e le preghiere alla Santa Vergine.
Iniziò a ritenersi fortunata e a non sentire il bisogno di certezze che nessuno avrebbe potuto darle: il suo era un matrimonio combinato, ma aveva avuto la fortuna di aver un uomo bello, ricco e premuroso. Che l'avrebbe resa sposa e madre felice.
Si dimenticò dei vizi di Rafael, vizi che - a detta della madre - potevano guastare anche il migliore degli uomini e che - a detta del padre - non si sarebbero mai intromessi fra le loro mura domestiche. Si dimenticò anche che il nonno del nonno di Rafael era stato un pirata della peggior specie e che nessuno ricordava come fosse morto.
Tutto il contrario di Rafael de la Sierra Ombrosa, del quale nessuno comprese la morte ma nessuno la dimenticò mai.

Anche Pilar era turbata. Sapeva di aver fissato per troppo tempo quell'uomo negli occhi e sapeva bene quello che dicevano gli zingari a riguardo: ci si fa portar via l'anima a fissare troppo a lungo le persone.
Non ricordava cosa gli aveva predetto, raramente ricordava le proprie divinazioni. Solo che questa volta sapeva di aver detto qualcosa anche su di sé: lo aveva fissato troppo negli occhi per trovargli un'anima e si era persa. Ma nessuno può predire il futuro agli indovini.
Perché si rischiava di fare come quello che si costruì le ali con la cera e volò tanto vicino al sole che precipitò.
Fu così che Pilar si confidò con Ma Elvira. Le raccontò tutto, di come si era persa e di come non si sentisse più se stessa. E Ma Elvira la studiò a lungo, senza rispondere. Si limitò a scuotere la testa e mormorare a bassa voce alcune parole in una lingua che neppure Pilar conosceva, che sembravano una preghiera ma suonavano come una maledizione.
"Prega, bambina," le disse infine. "Prega."

La data fissata per le nozze si stava avvicinando, ma il promesso sposo si mostrava sempre meno fedele e devoto alla sua promessa. Le sue visite erano sempre più brevi e i suoi viaggi - per mare o per terra - sempre più frequenti. Brevi tragitti che ormai avevano perso ogni efficacia nel rinfrancare il suo spirito libero. Aveva sempre degli occhi che lo seguivano, occhi neri dallo sguardo beffardo. No, gli occhi della strega non lo abbandonavano mai. Così come non lo abbandonava la sensazione che quello che aveva
detto fosse importante... se solo avesse potuto ricordarlo!
Era fermo sul molo ora, a guardare il mare, unico fedele compagno della sua inquietudine. E quegli occhi sempre davanti ai suoi - nei suoi! - sempre impressi nella mente.
Tanto che decise di tornare a vederli per davvero.

Pilar sapeva che sarebbe tornato, sapeva che se lei aveva perso qualcosa allora qualcuno lo aveva ritrovato. E sapeva benissimo chi era stato: a fissare troppo a lungo le persone si perde l'anima. Eppure lei un'anima la restituiva sempre.

Fu Rafael a stupirsi quando la incontrò in mezzo alla via. E tirò un sospiro di sollievo: quegli occhi avevano ritrovato un viso su cui stare e apparivano ora meno inquietanti. Più umani. Forse era proprio a questo che pensava stringendo la spada nel pugno: non si può uccidere uno sguardo, ma la persona a cui appartiene sì.

Sces
e da cavallo e si avvicinò alla fanciulla, che sorrideva, spavalda come suo solito.
Aveva scritto il futuro di troppe persone per non sapere che un giorno la stessa cosa sarebbe potuta accadere anche a lei. Le dava solo fastidio non ricordare, non sapere cosa l'attendeva. Sì, questa era l'unica parte che riteneva ingiusta: coloro che uscivano dalla sua tenda avevano delle parole che potevano anche essere confuse, ma che pian piano si dipanavano come una matassa, come il futuro. Ma lei non aveva neppure quella consolazione. O condanna. No, si corresse subito, consolazione. Perché un futuro già scritto era una condanna più che sufficiente.

Si avvicinò a lei, Rafael, si avvicinò piano, circospetto, nello stesso modo con cui avrebbe cominciato un duello alla spada: lentamente, studiando le mosse del nemico, studiando i punti deboli, studiando dove colpire. Ma Pilar non si muoveva: continuava a fissarlo coi suoi occhi così neri che iride e pupilla erano la stessa cosa, occhi che non avevano più smesso di seguirlo neppure nei suoi sogni.
"Cosa mi hai fatto, strega?" domandò Rafael.
"Ti ho fissato troppo a lungo," rispose Pilar, con la sua voce melodiosa.
"E cosa succede quando le zingare guardano qualcuno troppo a lungo?" volle sapere Rafael.
"Questo qualcuno ci ruba l'anima" cantilenò Pilar, seria, immobile e concentrata come un gatto che attendeva la preda.
"E allora riprenditela: una è già abbastanza da portare all'Inferno" disse Rafael a denti stretti, mentre la rabbia gli cresceva dentro, rabbia che ormai non riusciva a contenere.
"Bisogna avercela un'anima, Rafael de la Sierra Ombrosa. Un nome altisonante per un figlio di pirati che sta per diventare Duca" lo prese in giro Pilar, sempre sorridente davanti ad Amore e Morte.
"Anche questo hai letto nelle tue maledette carte?" chiese lui stizzito.
"No, questo l'ho letto nelle carte della vostra futura sposa. O futura vedova. Anche se non credo che ci sarà un matrimonio," rispose pensierosa la gitana dalla pelle dorata.
"Perché, maledetta? Perché?" domandò con veemenza, prendendole la gola sottile con una mano, senza stringere, senza lasciarla.
"Io vi ho avvertito prima di entrare nella tenda. Non date a me la colpa di ciò che voi stesso avete deciso. Non sono stata io ad invitarvi." Un lampo brillò per un attimo negli occhi neri di Pilar, come se un temporale si stesse preparando nella sua anima.
"Disfa ciò che hai fatto," le intimò Rafael.
"Non mi è possibile disfare il futuro così come a nessuno è possibile disfare il passato," rispose Pilar, sorridendo, perché così aveva sempre fatto: Amore e Morte andavano presi col sorriso perché ti sorridessero a loro volta.
"Sei una strega, lo devi poter fare," le ordinò Rafael, senza rendersi conto che la stava supplicando.
"Ho un potere, Rafael de la Sierra Ombrosa. Io lo so usare, ma non lo posso controllare. E adesso rispondete a me: cosa vi ho detto?" Volle sapere a sua volta Pilar, liberandosi da quella stretta che si stava facendo sempre più lasca sul suo collo.
"Perché volete saperlo?" chiese a sua volta Rafael: se questo era un gioco d'azzardo allora doveva trovare il modo che le carte giocassero a suo favore.
Aveva dimenticato che c'era solo una mano ed era già stata giocata.
"Perché quello che vi ho detto potrebbe essere il mio futuro oltre al vostro," sentenziò la gitana muovendo lentamente il capo e facendo tintinnare i suoi orecchini d'argento
"Ve lo dirò," rispose Rafael. "Ve lo dirò a una sola condizione: toglietemi i vostri occhi di dosso. Lasciatemi in pace."
"Voi non sapete quanto mi piacerebbe riprendermeli. Quanto mi piacerebbe tornare a vedere il sole invece di sentirne il solo calore, quanto vorrei vedere i colori, i volti delle mie compagne invece di dover attingere al mio potere per percepirne l'anima," cantilenò Pilar la bella con gli occhi neri persi nelle ombre del crepuscolo.
"Siete rimasta cieca?" chiese Rafael, passandole lentamente una mano sugli occhi. Mano che Pilar bloccò al volo.
"Voi non capite neppure di cosa io stia parlando," mormorò Pilar avvicinando il viso a quello di lui.
"Come osate, maledetta strega! Toglietemi i vostri maledetti occhi di dosso. Subito!" supplicò cercando di suonare minaccioso.

E Pilar lo baciò, a fior di labbra, con la stessa delicatezza e decisione con cui stendeva le carte sul tavolo. Rubò un bacio a quelle labbra, un brevissimo bacio perché Rafael sguainò la spada e gliela appoggiò alla gola, infuriato e impotente. "Vi ho detto riprendervi i vostri occhi non di stregarmi ancora."
"È quello che ho tentato di fare," rispose Pilar, sempre sorridente, sempre beffarda. "Ma voi non me li avete ceduti e io non posso riprendermeli con la forza. Se non facendovi molto male."
"Smettetela con inutili minacce. Toglietemi i vostri occhi di dosso, subito!" urlò Rafael, dimenticandosi di ogni contegno, di ogni etichetta. Dimenticandosi che urlare non cambia il destino né lo rallenta.
E Pilar avvicinò di nuovo le labbra a quelle di lui, senza che Rafael opponesse resistenza alcuna
. La spada - ormai inutile - cadde a terra quando le labbra della gitana si chiusero su quelle dell'affascinante libertino e Pilar iniziò a ricordare pian piano le carte che Rafael aveva steso sul tavolo per il passato - il Bagatto, l'Imperatore e il Sole - e per il futuro - il Matto, gli Amanti e la Morte. Solo un'altra carta poteva aver commisto due anime: colei che sa ma non rivela. La Papessa.
Non gli cantilenò di nuovo parole oscure, ma gli fece vedere ciò che vedevano quegli occhi che ormai lo seguivano ovunque: e Rafael si prese la testa con le mani, impreparato a quelle immagini, a quelle emozioni, al caos di tutte quelle strade che si intersecavano in un punto, strade fra le quali una era chiaramente visibile: breve e presto interrotta.

Si svegliò a notte fonda Rafael, nella tenda di Pilar. La stessa in cui divinava il futuro. Si tirò a sedere con uno scatto, la testa ancora dolente, accorgendosi delle due donne che lo assistevano solo quando i suoi occhi si furono abituati al buio.
Una era Pilar.
L'altra era Ma Elvira, che temeva per il futuro di quella ragazza che aveva fatto venire al mondo, ma che ormai non aveva più risposte né consigli.
Se ne andò quando l'uomo si risvegliò, scuotendo la testa e mormorando parole che potevano sembrare una preghiera non fossero state così cupe.

"Cosa mi hai fatto di nuovo, strega?" chiese Rafael, rassegnato e arrabbiato per non aver neppure la volontà di combattere oltre che la forza.
"Vi ho mostrato cosa vedono quegli occhi che vi seguono sempre" rispose Pilar. "Occhi che devono tornare da me."
"E allora riprendeteveli," mormorò lui, sfinito.
"E allora ridatemeli," mormorò Pilar dalla voce suadente chinandosi su di lui.

Dopo quella notte quegli occhi neri smisero di seguire Rafael, ma cominciò a farlo il pensiero della bella gitana: se prima l'aveva stregato coi suoi poteri, ora l'aveva stregato col suo corpo.
Rafael non si riconosceva più e per questo era irrequieto, arrabbiato e, nello stesso tempo, impotente: era sempre stato un libertino, aveva accettato di sposarsi solo per interesse, per ottenere il titolo di Duca come dote della futura sposa. E ora stava per perdere tutto per una zingara, una ragazza che gli aveva dato solo tormento, che gli aveva tolto il senno e che gli stava togliendo ogni ambizione, ogni desiderio diverso da quel corpo morbido e sensuale. E si trovò anche a rimpiangere quegli occhi neri che prima lo seguivano, perché se
quelli stavano soffocando la sua libertà, la mancanza di chi li possedeva ora gli toglieva il respiro.

Anche Esther se ne era accorta, perché era come se un velo fosse calato sugli occhi di Rafael. Non andava più a trovarla come prima e quando erano insieme parlava poco e mai di cose importanti. Non riferiva preoccupazioni di sorta, ma era assente.
Ed Esther non capiva e ogni giorno cercava di apparire più bella per lui, più dolce, più desiderabile. Ma Rafael non aveva occhi per guardare a lei. Né pensieri da dedicarle.

"Nessun matrimonio si compirà:
i vivi e i morti si congiungono solo nell'aldilà."

Le parole della zingara le tornarono alla mente come uno schiaffo, in tutta la loro potenza. E di nuovo le strinsero il cuore in una morsa dolorosa, ma questa volta non si fece scrupoli a versare copiose lacrime. E a rifugiarsi fra le gonne della madre come faceva quando era una bambina. E di nuovo raccontò la storia di Pilar e temette che tre rosari non fossero stati una penitenza sufficiente.

"È stata quella zingara," sentenziò Caterina, temendo di aver sottovalutato il potere di una strega. "Dobbiamo andare dal prete: gli ha sicuramente fatto una fattura e solo il Padre Eterno e i suoi servitori potranno togliergliela. E il vostro futuro marito penserà sempre e soltanto a voi."

E così fecero. Il prete chiamò i gendarmi e si fece accompagnare dagli zingari. Si fece indicare Pilar minacciando di arrestarli tutti. E Pilar, da sola, si fece avanti: perché non credeva che la sua gente l'avrebbe mai tradita, ma allo stesso modo era lei a non
volerli tradire.

Venne portata in carcere e venne istituito un regolare processo.
E Pilar rimase in silenzio, senza rispondere alle domande, senza negare le accuse. Erano giunti all'ultima carta, lo sapeva bene: solo la Morte aveva davanti. Non poteva più cambiare un destino che lei stessa aveva scritto.
Taceva, Pilar, sorridendo con gli occhi e con le labbra, spavalda e sensuale come la stessa Papessa che l'aveva condannata.
Sorrideva, Pilar, mentre Esther pregava e Rafael si straziava un'anima che ormai era sua tra lo sgomento e il sollievo.

Sorrise Pilar anche quando la legarono al rogo e appiccarono le fiamme, perché così aveva sempre fatto: Amore e Morte andavano presi col sorriso perché ti sorridessero a loro volta.
Perché lei, che per tutta la vita aveva rubato l'anima degli altri con i suoi occhi neri e restituita con parole melodiose, ora si apprestava a lasciar andare la propria, smarrendosi nel ricordo di occhi neri e insidiosi come la notte.
E - come venne al mondo - morì: senza nemmeno un grido.

Per molti anni a venire i gitani raccontarono la storia di Pilar, l'indovina che guardò il proprio futuro. E che - come accade a chi fissa il sole troppo a lungo - si accecò.

Ma badarono bene a non tornare in quella città, dove un cadavere carbonizzato venne ritrovato nel proprio letto senza segni di bruciature attorno: di Rafael de la Sierra Ombrosa non si ricordò della vita, ma nessuno scordò mai della sua morte, perché fu come se le fiamme lo avessero avvolto dall'interno, cibandosi delle sue stesse carni ed estinguendosi con esse.

Nessun ricordo per Esther de los Aguileros, solo qualche preghiera e un nome in un grande albero genealogico.

Pura è la luna che risplende di sua beltà,
ma neppure al sole sopravviverà.
Inutile è opporsi al patrio arbitrio:
è già scritto che lui è il promesso marito.
Ma nessun matrimonio si compirà:
i vivi e i morti si congiungono solo nell'aldilà.

Erano i versi, che una gitana le aveva cantilenato in un pomeriggio di autunno, e che furono il suo epitaffio. Questa fu la sua volontà, mormorata prima di morire, ultima erede dei Los Aguileros. Parole mormorate da una fanciulla in abito bianco nel giorno che l'avrebbe dovuta vedere sposa.
Era la settima domenica dell'anno 1791 e cadeva di tredici.


Note a priori...: La storia vorrebbe essere ambientata in Andalusia che, quando visitai, mi colpì – tra le altre cose – per la notevole presenza di gitani perfettamente integrati nella società senza aver perso nulla delle loro origini. Almeno apparentemente.

I gitani e gli altri personaggi da me citati sono frutto di fantasia e non di ricerche storiche. L'unica nota storica è una data: nel 1791, il 13 febbraio cadde di domenica. Ed era la settima dell'anno.

... note a posteriori: cioè che arrivano dopo il concorso, dopo un po' di discussioni sul forum dell'Anonima Autori e dopo la preziosa revisione di JeanGenie.

Prima di tutto voglio ringraziare ancora una volta chi l'ha apprezzata e votata. Mi avete reso davvero felice.

Questa storia vorrebbe essere una rielaborazione originale (o, almeno, mia) di molti cliché letterari tipici di questo genere. Sicuramente i cliché ci sono tutti, dell'originalità non sono molto sicura. Mi rendo conto che abbia vari difetti, ma la sua vittoria del concorso mi ha portato una tale emozione (piacevole, eh!) che non riesco a cambiare nemmeno una virgola... magari in futuro...

Nella storia iniziale Pilar era nata di 17, non di 13. Jean mi ha fatto notare che in Spagna il giorno sfortunato è il 13 (addirittura martedì 13! Che male avrà fatto il martedì agli spagnoli? Mah!) mentre io credevo che il 17 fosse imperante in tutti i paese latini... invece lo è solo in Italia! La scelta del 7 invece ricade sulle caratteristiche “magiche” che, in molte culture, si attribuiscono a questo numero (primo e felice, secondo la matematica!).

Altro particolare: Daeran mi ha fatto notare che non si capisce perché Rafael non abbia un'anima. Verissimo: il fatto che non ce l'abbia è legato a una maledizione dell'avo pirata poi ricaduta sulla famiglia. All'inizio avevo dato più spazio ai vari background  ma poi la storia diventava troppo dispersiva per essere una one-shot. Però il fatto che Rafael non avesse un'anima era importante ai fini della trama per cui l'ho lasciato anche se - apparentemente - immotivato. Così come ho mantenuto l'ambientazione posteriore al 1789 perché la famiglia dei Los Aguileros (cognome peraltro utilizzato da M.M. Kaye per la protagonista di “L'ombra della luna”) -  diventata una famiglia decaduta della nobiltà spagnola nella versione definitiva –  originariamente era francese, rifugiatasi in Spagna per via della Rivoluzione. Anche se in quegli di pire per le streghe se ne accendevano ormai (per fortuna!) poche.

Gli ultimi due roghi di streghe avvennero infatti nel 1792 nella Svizzera Protestante e nel 1793 nella Polonia Cattolica. Mi sono presa la (grandissima) libertà di farne avvenire uno anche in Spagna...


Credits: “la morte sorride a tutti. L'unica cosa che puoi fare è sorriderle di rimando” è una massima di Marco Aurelio nel film “Il Gladiatore”. Io l'ho presa e rivista, ma è stata questa frase a suggerirmi che possa succedere anche il contrario.

Assieme all’onore della vittoria ho anche avuto l’onere (e il piacere) di essere la banditrice della terza sfida di Anonima Autori: “artisti di strada”.

Per maggiori informazioni venite a trovarci su www.anonimautori.altervista.org e sezione apposita del forum.

Grazie dell’attenzione!

   
 
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