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Autore: zippo    24/11/2008    5 recensioni
Sono passati diversi mesi dalla morte di Dark Threat, Rebecca sta per diventare un angelo bianco e al suo fianco c’è Gabriel. Ma non sempre le cose sono così semplici come appaiono. In un angolo, in un respiro, in una lacrima…il Male è continuamente presente. E se lui non fosse morto? E se ritornasse? Il potere, dopotutto, è piacevole…e per corrompere l’animo innocente di una ragazza bastano poche finte promesse.
Il sequel di: Angelus Dominus - Il Bene -
Il secondo capitolo della saga: ALONE IN THE DARK. 
Genere: Romantico, Azione, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Cap. 1 - UNA NOTTE SENZA STELLE -

[Ti agiti perché ami,
sanguini perché sei stato ferito,
muori perché hai vissuto.

Crea il paradiso,
il paradiso al posto dell’inferno]

Elisa - Heaven out of hell -



***



L’aria quel giorno era calda, afosa, pesante. Il sole brillava nel cielo e non c’era una nuvola. Era estate, era la stagione del caldo torrido e dei bagni nel fiume. La natura era rinata da poco con la primavera, e l’estate stava dando il massimo della sua bellezza. Si potevano sentire in sottofondo il rumore degli insetti che cantavano o degli uccelli in volo. Il calpestio degli zoccoli dei cavalli o la corsa veloce e rumorosa dei centauri. Delle verdi colline coprivano il terreno e c’erano anche dei pini verde smeraldo di quando in quando. Un sentiero di terra battuta ondeggiava muovendosi attorno alle piante e ai pendii, il sentiero era una scia marroncina e dei cespugli bassi lo affiancavano. Al di là del sentiero, che lo costeggiava, un ruscello scorreva placido, le sue acque brillavano sotto i raggi cocenti del sole. Lo spettacolo era talmente bello da mozzare il fiato.

Nella calma apparente però, qualcuno si stava muovendo silenziosamente nel bosco, si acquattava e cercava di mimetizzarsi dietro ad un pino. Il respiro era regolare, i movimenti erano controllati e attenti, un sorrisino divertito le incorniciava il volto. Sentì un fruscio e subito si appiattì contro l’albero, si morsicchiò il labbro inferiore e pregò mentalmente che non l’avesse sentita. Sgattaiolò via dal tronco e andò ad cucciarsi dietro ad un cespuglio. Si aprì un varco tra le foglie con le mani per sbirciare. Aveva un occhio chiuso mentre l’altro era sbarrato, pronto ad intravedere ogni più piccolo movimento. Il cipiglio era innalzato, si stava divertendo un mondo a fare quel gioco.

Strisciò nella terra e si spostò di parecchi metri. Cercò di fare il più piano possibile ma non riuscì ad evitare di far rumore scuotendo le foglie cadute o i sassolini che si impigliavano nella sua divisa. Imprecò sottovoce e proseguì. Intravide a pochi metri di distanza un grosso albero con un grosso tronco. Guardò che ci fosse via libera e con uno scatto si alzò in piedi e corse fino all’albero. Il tutto senza creare rumore. Peccato che nella corsa il respiro si era accelerato e il cuore martellava. L’avrebbe sentita, lei stessa sentiva come il suo cuore batteva nel petto e sembrava che stesse echeggiando in tutto il sottobosco. Controllò a destra. Controllò a sinistra. Aggirò il tronco per cambiare postazione e se lo trovò davanti, il suo viso a pochi centimetri dal suo e un sorrisino inquietante stampato in faccia.

Rebecca balzò indietro dallo spavento e cacciò un urlo. Gabriel scoppiò a ridere.

La ragazza cominciò a correre e lui la rincorse. Scansava gli alberi e saltava via i tronchi per terra, voltava continuamente la testa per tenerlo d’occhio. Sperava di poterlo seminare ma lui era troppo bravo e troppo veloce nella corsa.

In meno di dieci secondi le fu addosso. Rebecca lanciò un altro urlo e il ragazzo le prese il polso e la fece cadere. Una volta che si ritrovò per terra tentò di sgusciare via e di rialzarsi ma la forza di Gabriel la tenne ben piantata al suolo. Le bloccò i polsi con le mani e le bloccò le gambe racchiudendole tra le sue. Rebecca si agitò sotto di lui ma non riuscì a toglierselo di dosso né tantomeno a spostarlo. Il bacino del ragazzo spingeva contro il suo e lei rimaneva a terra contro la sua volontà. Aveva iniziato a sudare freddo e tutt’un tratto si sentiva esausta. Sospirò frustrata e si accasciò, inerme. Uno sorriso vittorioso si dipinse sul volto del ragazzo, scoprendo una fila di denti bianchissimi e perfetti. Le fece l’occhiolino e lei per tutta risposta gli mise il broncio. Gabriel scese a baciarle il collo. La guardò esterrefatto quando sentì dei mugolii uscirle dalla bocca aperta. Inarcò le sopracciglia e lei scrollò le spalle come a dire: “che ci posso fare se mi fai impazzire?”.

Gabriel si alzò e le tese una mano per aiutarla a rialzarsi. Una volta in piedi Rebecca si scrollò la divisa verde scuro e si lisciò i capelli. Gabriel la guardava rapito. Lei gli sorrise. Lo prese a braccetto e uscirono dal bosco uniti.

Si videro arrivare incontro due marmocchi di quasi un anno. La bambina buttava la testa da una parte all’altra cosicché i lunghi capelli castani svolazzassero al vento, aveva due occhi verdi intensi e caldi. Il bambino invece correva brandendo una spada di legno, i capelli biondi erano color del grano e gli occhi grigi erano profondi e glaciali. Rebecca sorrise e si piegò sulle ginocchia per prendere al volo la bambina che si era gettata tra le sue braccia. Gabriel teneva il bambino in braccio e rideva con lui su qualcosa che si erano detti.

“Emma” disse Rebecca. “Cosa fate qui da soli? Non sapete che è pericoloso avventurarsi nel bosco? L’uomo cattivo è sempre pronto a mangiarvi, è là, in agguato che vi aspetta…”

Rebecca fece il solletico alla bambina che cominciò a dimenarsi tra le sue braccia. La guardò negli occhi e le toccò il naso con una mano. “L’uomo cattivo?” domandò divertita.

Rebecca finse una faccia allarmata. “Emma, non hai mai sentito parlare dell’uomo cattivo che mangia i bambini?” la prese in giro.

Emma scosse la testa divenendo improvvisamente seria. Il fratello la rimproverò. “Emma, non credere a quello che ti dice! Non esiste l’uomo cattivo, vero zio?” chiese con l’aria da “so-tutto-io”.

Gabriel se lo strinse a sé. “Certo che non esiste, Ian” lanciò un’occhiata severa alla ragazza vicino a lui. “La zia è molto brava a raccontare storie inventate”

Emma si divincolò dalle braccia della ragazza e scappò via, seguita a ruota dal fratello che era sceso dalla schiena di Gabriel. “Lo sapevo che non era vero!” urlò Emma a Rebecca mentre lei e Ian si rincorrevano sulle colline.

Rebecca la guardò e le sventolò la mano. “State attenti!” urlò a squarciagola perché la sentissero. Poi i due bambini sparirono oltre un pendio.

Gabriel le fu vicino e le circondò i fianchi. Rebecca alzò lo sguardo su di lui. “Non è che sia pericoloso, vero?” domandò preoccupata, lanciando occhiate furtive nel punto dove Emma e Ian erano scomparsi.

“Non si faranno niente, e poi guarda” disse, indicandole con un dito le due figure dietro di loro.

Denali e Rosalie li salutarono, si tenevano per mano.

“Avete visto la mia prole?” domandò Denali con un sorriso carico d’affetto.

“Sono andati di là” Rebecca gli indicò il punto esatto sulla collina.

Rosalie alzò gli occhi al cielo ma non potè trattenersi nel ridere. “Mi faranno morire di spavento quei due, non stanno fermi un attimo. Non ho tutto il tempo, io, di starli dietro”

Gabriel battè una mano sulla spalla della sorella. “Sorellina, immagino che sia dura tenere a bada due mocciosi ma non puoi permetterli di andarsene in giro da soli”

La ragazza incrociò le braccia al petto e fulminò il fratello con gli occhi. “Mi stai dando della madre irresponsabile?”

Denali, con timore reverenziale, si avvicinò alla compagna e le circondò le spalle per calmarla. “Andiamo, Rose. Andiamo a prenderli”

Rosalie sospirò e incrociò lo sguardo con il suo ragazzo. Si diedero un leggero bacio a stampo (Gabriel sussultò e fece una smorfia schifata) e poi se ne andarono.

Rebecca gli si avvicinò e gli diede un leggero pizzicotto al gomito. “Sbaglio o è questa sera che Bastian ha organizzato una festa in paese?”

Gabriel era distratto. “In realtà l’idea è partita da Alan. Non che io ne sia d’accordo…”

“A te non va mai bene niente”

“Non è vero. Dico solo che sarà una seccatura”

Gli occhi della ragazza cominciarono a luccicare, il suo sguardo era sognante. “Ma come fai a dirlo? I vestiti, le danze, i cavalieri, le dame, gli incontri…”

“Soprattutto gli incontri, giusto?” sbottò il ragazzo adombrandosi.

Lei gli fece la linguaccia. “Guarda che prima che ti conoscessi io ero una giovane fanciulla scapestrata e libera, che andava a feste e discoteche con le amiche pazze”

Gabriel incrociò le braccia al petto e le fece un sorrisino beffardo. “Questo accadeva prima, ora che sei mia non ti conviene far tanto la ragazza libera altrimenti ti toccherà dormire fuori stanotte”

“Giù le armi, guerriero” gli bisbigliò suadente all’orecchio premendoglisi contro.

Gabriel fu attraversato da una scarica elettrica che lo fece fremere.

Amava, adorava quella ragazza.

La sua era quasi una devozione divina. Era sacra, pura e buona.



***



Quando Rosalie e Denali tornarono a casa i bambini erano stanchi e affamati. Denali si lamentava a tavola del fatto che i suoi figli fossero troppo vivaci e selvaggi, Rosalie lo ascoltava senza commentare, non la pensava come lui. Per lei i suoi figli erano così spensierati e allegri che si divertivano come meglio potevano, ridevano, si rincorrevano e non stavano mai fermi. Erano felici, che c’era di male in questo?

Rosalie stava preparando la cena mentre Denali, seduto su una sedia, la osservava.

“Potresti anche darmi una mano, lo sai?” gli disse la ragazza mescolando con disinvoltura il contenuto nella pentola.

Un forte profumo di carne e minestra colpì il naso del ragazzo.

Si alzò e le diede una pacca sul sedere. “Tesoro, dovresti sapere quanto odio far da mangiare”

“Per favore, vai a chiamare i bambini, è quasi pronto” disse, introducendo un dito nella pentola della minestra e portandoselo alla bocca.

Denali si avvicinò silenziosamente e le circondò i fianchi con le braccia. “Sei incredibilmente bella in questo momento. Come faccio ad andare dai bambini con te in questo stato? Non posso certo lasciarti qui da sola” le sussurrò con il fiato mozzato dal desiderio.

Gentilmente Rosalie lo scansò. Denali si staccò, il suo sguardo era un misto tra l’eccitato e il deluso. “Ok, vado a prendere i tuoi figli”

Lasciò la cucina con grandi falcate, salì al piano di sopra e subito sentì degli urletti provenire dalla camera da letto dei figli. Quando aprì la porta vide che Emma era sotterrata dal peso di Ian e che questo le stava tirando i capelli fino a farla gridare.

“Ian, smettila subito!” tuonò la voce del padre. Il bambino ebbe un fremito e scappò in fondo alla stanza a nascondersi dietro la tenda.

Emma, al suolo e piangente, tese le braccia con fare disperato verso il padre. Con profonda commozione il ragazzo la prese in braccio e se la strinse al petto, lanciando occhiate di fuoco al bambino che era ancora nascosto infondo alla camera. Le accarezzò i lunghi capelli castani così simili ai suoi, perforando gli occhi grigi di Ian che erano uguali ai suoi per colore e intensità.

“Ian, ti ho detto mille volte di non dare fastidio a tua sorella. Lo sai che puoi farle male, lei è una signorina, non devi essere cattivo con lei”

Ian fece il beccuccio e si ciondolò sui piedi. “Non volevo, lei mi ha chiamato brutto stupido”

Denali guardò con aria sconvolta la sua piccola figlia adorata che ora aveva trattenuto il fiato. “Emma, è vero quello che dice?”

Il silenzio della bambina parlò da sé. Il ragazzo sospirò pesantemente. “Ragazzi, non vi voglio sentir dire quelle parolacce”

“Ma tu e la mamma lo fate!” lo rimbeccò il bambino.

“Sì, ma io e la mamma siamo grandi e alcune cose che ci diciamo non stanno bene che voi le ripetiate. Quando sarete grandi potrete fare e dire quello che vorrete ma ora, finchè siete piccoli e sotto la nostra custodia, non dovete azzardarvi ad essere maleducati. Dovete volervi bene, capito?”

I due bambini annuirono con pentimento.

Denali mise già la bambina che ora si succhiava il pollice e la guardò con amore. “Emma, vai e chiedi scusa a tuo fratello” il suo sguardo era dolce e adorante. Le tolse il dito dalla bocca e con una piccola spinta la mandò verso Ian.

Emma raggiunse Ian e lo abbracciò.

“Bravi ragazzi, così vi voglio” disse il ragazzo con orgoglio, gonfiando il petto. “Ora venite a mangiare, la mamma ci aspetta”

Il ragazzo si alzò in piedi e si sentì strattonare i pantaloni sia da una parte che dall’altra. Alzò gli occhi al cielo e con un braccio andò a prendere Ian mentre con l’altro prese Emma. Se li caricò uno su una spalla una sull’altra.

“Guarda cosa mi tocca fare” brontolò Denali arrivando in cucina con i figli in groppa che ridevano come matti.

La cena era pronta così come anche la tavola.

Rosalie li osservò divertita e lo aiutò prendendo Ian. Il bambino, che adorava particolarmente la madre, le riempì il volto di baci.

“Sapevi a cosa andavi incontro facendo il padre” disse la ragazza una volta che furono tutti e quattro a tavola.

Denali la guardò intensamente. “Non potrei mai pentirmene, tesoro”



***



Delia e Kevin camminavano mano per la mano lungo le vie del villaggio. Entrarono dentro una taverna e presero posto ad un tavolo. Una donna prorompente di mezza età, volgare e grottesca, li servì. Erano una di fronte all’altro e per un po’ rimasero zitti. Delia lanciava sguardi carichi di ostilità verso la donna della taverna e Kevin seguiva interessato lo spostamento dei suoi occhi sulla sala. Non c’erano molte persone, era quasi sera e tutti si stavano sicuramente preparando per la serata di festa al villaggio.

“Che donna vergognosa” si decise alla fine a parlare la ragazza. “Non dovrebbero lasciare ad una donna del genere la gestione di una taverna”

Kevin prese il boccale di vino in mano e bevve un lungo sorso. “Glielo lasciano gestire solo perché porta le api al miele, gli uomini vengono per lei, intanto bevono e pagano, e i proprietari si arricchiscono”

“Anche a me avevano proposto di lavorare qui” disse Delia con nonchalance.

Il ragazzo sputò fuori in un getto quello che stava bevendo. “Cosa?!” urlò sconvolto.

La ragazza, imbarazzata, abbassò gli occhi. Tenne lo sguardo basso e si contorse le mani sotto la tavola di legno.

“Che cosa hai appena detto?” fece lui.

“Me l’avevano chiesto. Dato che mio padre è il proprietario della locanda pensavano che me le sarei cavata nel gestire una taverna”

“E beh certo! Basta muovere il sedere e far vedere le tette!” esclamò Kevin completamente fuori di sé.

“Non parlare così! E comunque ho rifiutato, non sono posti per me”

“Dico bene” brontolò.

“Dovresti smetterla di essere così protettivo nei miei confronti, Kevin. Sono grande e so risolvermela benissimo da sola quando mi capitano situazioni simili”

“È successo altre volte che qualcuno ti importunasse?” domandò con tono incolore.

La ragazza scrollò le spalle. “Mah, non mi sono state fatte proposte indecenti o scandalose però…” si bloccò nel vedere lo sguardo omicida del ragazzo. Tossì. “Nessuno mi ha mai rotto le scatole. Sono stata fortunata” concluse con un sorriso tirato.  

La verità era che quando aiutava suo padre col lavoro capitava spesso che degli uomini la importunassero. Ma queste seccature non andavano oltre a delle battute. Ma questo era meglio non dirlo a Kevin. Delia sapeva, dopo la morte della compagna e della figlia, quanto lui fosse possessivo con le persone che amava. Dopotutto non le dispiaceva. La faceva sentire amata.

“E comunque ora che vivi con me nessuno oserebbe venire a bussare a casa nostra”

“Praticamente ringhi ogni volta che uno sconosciuto bussa!”

“Io mi preoccupo per te, amore. Non dire che non è vero, sarò anche oppressivo ma lo faccio perché non voglio che qualcuno ti dia fastidio. Mi irrito altrimenti. Ti lamenti ora che sono geloso, aspetta di rimanere incinta, sarò doppiamente geloso!”

Delia sorrise. “Non sarebbe una cattiva idea”

“Quella di rimanere incinta?”

“Sì”

“E ammazzo tutti gli uomini che proveranno ad avvicinarsi a te o a mio figlio”

“Ma dimmi, parli tanto di me…hai conquistato qualche cuore ultimamente?” lo minacciò facendosi avanti con il corpo.

Kevin si slacciò il primo bottone della camicia, gli era venuto improvvisamente caldo. Cercò di assumere un’aria spavalda. “Apparte il tuo nessuno”

Delia socchiuse gli occhi fino a ridurli a due fessure. “Chissà perché non la bevo”

Il ragazzo buttò le mani in aria e cominciò a parlare come una macchinetta. Le uniche, poche, parole che lei aveva capito erano state: “non centro niente”, “non è colpa mia se le donne mi adorano” e “non ti ho mai tradita”.

Beh, questo poteva bastare, no?

Delia lo interruppe. “Kevin?”

“Sì” rispose con uno stridulo acuto.

Gli occhi della ragazza erano due pozzi di profonda dolcezza. “Ti amo”



***



La piazza era in fermento, la gente passava apposta lungo la via per poter così sbirciare il lavoro che Bastian a Alan stavano facendo. I due fratelli si sentivano continuamente osservati e più di una volta Alan aveva perso la pazienza.

“Smettetela di gironzolarci intorno! Stasera vedrete con i vostri occhi cosa vi abbiamo preparato!” sbraitò ad un certo punto nel vedere un gruppo di ragazze che si erano fermate e spettegolavano eccitate sui preparativi. Queste se n’erano andate via sconcertate e offese. Bastian se la rideva sotto i baffi, continuando a tagliare la legna. Si asciugò la fronte sudata e guardò il fratello ancora di schiena che lanciava sguardi selvaggi nel punto in cui le ragazze erano sparite.

“Alan, non è così che dovresti trattare la gente del mio villaggio” lo rimproverò Bastian tirandosi dritto per sgranchire la schiena a pezzi.

Alan tornò ad aiutarlo piegandosi con noncuranza sul mucchio della legna. Prese in mano il machete e spaccò una legna con violenza. Bastian fece qualche passo indietro, intimorito.

Lo guardava esitare. “Penso proprio che tu debba trovarti una donna con cui sfogare i tuoi istinti animali, sai?”

Alan lo guardò malissimo. “Lo sai che a me non serve la compagnia di una donna”

Alan era più giovane di Bastian ma comunque abbastanza grande da dover mettere la testa apposto e fare l’uomo di famiglia. Aveva quarantatrè anni.

Prese il pezzo di legna e lo buttò nella catasta insieme agli altri già tagliati.

Bastian schioccò la lingua. “Comunque questo non ti permette di essere così scortese”

Il fratello roteò gli occhi, mise per terra il machete e si pulì le mani sui pantaloni. Guardò il fratello negli occhi, era un po’ più alto, più bello e molto più affascinante. “A quanto pare il mio carattere non è cambiato granchè durante gli anni passati rinchiuso in una cella”

“Se posso dirtelo sei diventato ancora più insopportabile” rise Bastian.

Anche Alan rise. “Forse hai ragione, mi serve una donna”

Bastian gli diede una pacca sulla spalla e risero come due bambini. Poi Bastian puntò lo sguardo verso la legna e quindi verso l’impalcatura che stavano costruendo. Tornò serio e pensieroso.

“È da giorni che ci lavoriamo, speriamo solo di riuscire a finire per questa sera”

Alan, che non si scoraggiava mai, finse un’espressione terrorizzata. “E se non dovessimo riuscirci?! Non voglio pensare alla mandria di ragazzine che ci inseguirebbero a vita per averle rovinato la serata del ballo! Dopotutto manderemo all’aria una notte di rimorchi” disse con un sorriso furbetto.

“Ma smettila” sbraitò il capo-villaggio. “Ce la faremo, dobbiamo solo evitare di fare continue pause”

“Non possiamo chiamare Rebecca?” domandò con occhi vispi e allegri. “Quella ragazza è una forza della natura, ci spezzerebbe tutta la legna in meno di venti secondi, costruirebbe il palco con la magia in due minuti e tutti gli addobbi e le luci gli farebbe in tre secondi. Senza contare che il tocco elegante di una ragazza raffinata è perfetto per la serata del rimorchio”

Bastian scrollò la testa. In realtà ci aveva pensato anche lui. “Rebecca è andata ad allenarsi con Gabriel, come ogni pomeriggio”

“E quando rientra? Potremmo chiamarla se è già a casa”

“Non so se è a casa, in ogni caso possiamo benissimo arrangiarci da soli”

Alan sospirò pesantemente. “Tu puoi arrangiarti da solo, io sono sfinito. È tutto il giorno che taglio legna e preparo addobbi. Insomma, sono pur sempre un uomo con una dignità maschile! Che figura che faccio nel farmi vedere a intagliare roselline e fiocchetti!”

“Finiscila di lamentarti, è solo per una sera”

“Hai detto che hai organizzato questa festa in paese per far divertire la gente del villaggio. È tutto o c’è dell’altro?” chiese l’uomo.

Bastian prese un profondo respiro. “In parte è vero, in parte l’ho fatto perché fra qualche giorno ho intenzione di mandare gli uomini in una spedizione al di là dei nostri territori. Pensavo di farli divertire prima di parlargli della battaglia”

“Battaglia? Spedizione? Vuoi mandarli in territorio nemico a morire?” esclamò Alan confuso.

Bastian gli fece cenno di abbassare la voce. “Dopo la morte di Dark Threat i suoi seguaci sono scomparsi e fino a qualche tempo fa non abbiamo più avuto notizie di loro. Però due giorni fa mi è arrivata una lettera da parte di un nostro villaggio alleato che vive nei territori una volta appartenuti a Mortimer. Nella lettera che mi ha spedito il capo-villaggio c’era scritto che a quanto pare i seguaci rimasti si sono radunati formando un gruppo armato. Vanno ad attaccare i villaggi con l’intenzione di riunire i territori di Dark Threat, terre che sono andate perse dopo la sua scomparsa”

“Ma non capisco, che senso avrebbe riprendersi tutti i territori dal momento in cui il loro signore è morto? Loro di certo non sono in grado di comandare”

Bastian sembrava preoccupato per qualcosa. “Infatti, non sono in grado di farlo. Quello che io temo è che lo stiano facendo a nome di qualcuno” sussurrò gravemente.

Alan spalancò gli occhi inorridito. “Vuoi dire a nome di Mortimer? È impossibile, lui è morto! Rebecca lo ha ucciso!”

“Non penso sia Dark Threat il loro nuovo signore” disse.

“E chi allora?” domandò il fratello con una nota di panico nella voce.

“Io credo che sia Atreius. Il nuovo erede”

Alan barcollò indietro e dovette aggrapparsi ad una trave per non cadere a terra. Le gambe gli tremavano, inarcò le sopracciglia ed emise un gemito soffocato.

Dovette sforzarsi molto per aprir bocca e parlare. “Gabriel non ha…? Non l’ha ucciso?”

Bastian scosse la testa. Gabriel gli aveva detto che l’aveva visto lanciarsi dalla finestra del palazzo e cadere nel vuoto. Ma mai lui aveva messo in dubbio il fatto che fosse ancora vivo, che fosse riuscito a salvarsi dopo essere precipitato nel baratro del fossato. Dopo un po’ aveva dimenticato la questione della presunta morte di Atreius, ma successivamente alla lettura della lettera il primo pensiero che aveva avuto era stato quello di un Atreius vivo e potente che prendeva il posto del padre sul trono della casata. Sarebbe stata l’unica spiegazione plausibile, Atreius era l’unico uomo che poteva prendere quella responsabilità. Conosceva il padre ed era stato addestrato da lui, perciò era logico che avrebbe ereditato tutto dopo la sua morte.

Se Gabriel ne fosse venuto a conoscenza sicuramente si sarebbe infuriato, e non solo per un fatto personale (non aveva ancora digerito la relazione che c’era stata tra Rebecca e Atreius), ma anche per un fatto di odio. Gabriel odiava Atreius, non sarebbe stato contento di saperlo ancora vivo. Anche perché avrebbe significato che lui aveva perso.   

“Non devi farne parola con nessuno Alan, mi raccomando” lo avvisò Bastian. “Non finchè non ne siamo sicuri al cento per cento”

Alan, che sembrava aver ripreso un po’ di colorito, annuii. “E quindi tu vuoi mandare un esercito a sterminare i seguaci di Mortimer in modo da fermare la loro conquista?”

“In questo momento i seguaci si sono fermati tutti nel villaggio di Numbia, pare che dopo averlo conquistato e saccheggiato si stiano prendendo un momento di pausa e riposo. Se mando in tempo un esercito nel villaggio riusciremo ad ucciderli cogliendoli di sorpresa. Il capo-villaggio, Hedger, mi ha assicurato il loro aiuto. Numbia è il villaggio più vicino al castello di Mortimer, potrei scoprire più facilmente chi sta dietro a questa guerra, se è Atreius o qualcun altro”

“Intendevi dirmelo o no? Se è un no immagino che tu mi volessi a casa”

“Infatti l’idea di portarti con me non mi eccitava granchè, dopo quello che ti è successo non vedevo di buon occhio la tua presenza nel campo di battaglia”  

“Non devi preoccuparti per me, io vengo”

Bastian tirò su col naso e lasciò cadere le braccia lungo i fianchi, afflitto e vinto.

“Chi intendi portare nella spedizione?” naturalmente intendeva dire chi voleva portare di “speciale”.

“Di sicuro Rebecca, poi chiederò anche a Gabriel”  

“E pensi che accetteranno?”

“Lei sì. Lui non so”



***



Dopo la morte di Dark Threat il castello non era stato ristrutturato, né tantomeno ripulito. Da fuori sembrava vecchio di secoli, dentro invece la maggior parte delle stanze, dei corridoio erano stati distrutti e grossi massi caduti dal soffitto ostruivano i passaggi. La sala del trono era rimasta uguale nell’arco di parecchi mesi. Era passato quasi un anno, quasi perché in realtà erano alcuni mesi. La presenza di Dark Threat sembrava non volersene andare dal castello, dalla sua casa. Nonostante fosse morto era come se continuasse a vivere in quelle mura, in quelle sale, in quei corridoi. Il peso della sua scomparsa gravava sui suoi uomini. Il più rilassato e tranquillo di tutti rimaneva comunque il figlio. Vezzen, il fidato servo di Mortimer, aveva affrontato la morte del suo padrone richiudendosi in un oscuro silenzio, serviva e riveriva l’erede ma non era più la creatura che era prima. Non era più fidata, non era più riconoscente né entusiasta di servire il Male. Ricopriva Atreius di piaceri e attenzioni ma non appena se ne andava dalla sua camera digrignava i denti e stringeva i pugni.

Atreius stava architettando qualcosa, ne era sicuro, anche se non sapeva cosa. Ogni qual volta che lo faceva chiamare compariva sul suo volto un odioso sorrisino maligno. Era accerchiato da una congrega di generali e maghi che lo aiutavano nel suo compito di governare e conquistare. Atreius parlava sempre molto con i maghi della sua congrega, prestando meno attenzione ai generali. Vezzen non capiva il perché. Non capiva come mai Atreius mettesse in secondo piano la guerra e le tattiche di conquista, privilegiando la compagnia di tre maghi oscuri. A che potevano servirli?

Ormai stava scendendo la sera, era quasi buio quando Vezzen fu chiamato dal suo signore. Lo raggiunse di corsa nella sua stanza. Le sue gambe basse e tozze lo facevano rallentare, non riusciva ad arrivare prima che il ragazzo si arrabbiasse per il suo ritardo. Bussò tre volte alla porta della sua camera da letto e aspettò con magra consolazione che lui rispondesse e gli permettesse di entrare. L’ultima volta che era entrato senza bussare gli aveva ustionato tutte e dieci le dita della mani.

Guardò le sue mani fasciate da una bianca garza e lo sentì chiamare il suo nome.

Entrò un po’ titubante, chiuse la porta dietro di sé e si portò qualche passò avanti. Si ciondolò sui piedi, in attesa. “Comandi, signore?”

Atreius era di spalle e guardava fuori dall’enorme finestrone. Era il tramonto, momento ideale per le creature della notte che aspettavano con bramosia il calare delle tenebre. Il mantello gli copriva il corpo, il cappuccio la testa.

Si voltò molto lentamente. A Vezzen mancò il respiro. Era, se possibile dirlo, diventato ancora più bello dalla morte di Dark Threat. La magia che aveva sviluppato (nonostante rimanesse comunque limitato dato che era un Nim e non un angelo) gli aveva reso i lineamenti del viso molto più raffinati ed eleganti. Sembrava un principe, ad un felino leggiadro e sadico. Era il Male che rendeva le persone capaci di diventare talmente tanto belle da possedere una bellezza inquietante e allo stesso tempo affascinante.

Si era cacciatori, non prede.

Quando Atreius parlò la sua voce venne fuori calma e melodiosa. Faceva davvero paura il suo innaturale controllo. “Questa notte non devo essere per nulla al mondo disturbato, sono stato chiaro?” tuonò.

“Certo” deglutì Vezzen.

Non prometteva nulla di buono.

“Stanotte avverrà qualcosa di molto importante, mio caro amico. Nessuno, e dico, nessuno deve entrare nella mia camera”

Vezzen era indeciso se parlare o meno. “Signore, se non sono inopportuno, posso sapere che intendete fare?”

Atreius lo squadrò da cima a fondo con uno sguardo affilato e duro. “Sei inopportuno” sibilò. “Lo verrai a sapere, lo verrete a sapere tutti quanti quando verrà il momento giusto. Ma per ora ti basti sapere che potrei diventare molto cattivo se qualcuno dovesse entrare o mi dovesse disturbare”

“Stia tranquillo, Signore. Io non lo permetterò”

“Ora vai e non farti vedere fino a domani mattina” disse il ragazzo e con un cenno della mano lo congedò.

Vezzen si trascinò fino alla porta e poi sparì dalla stanza lasciando dietro di sé il rumore della serratura che si richiudeva.

Atreius tornò ad ammirare il tramonto dalla finestra ad arco, il respiro lento e regolare, il petto che si abbassava e si alzava quasi impercettibilmente. Non era più il ragazzo impulsivo e bellicoso di una volta, ora era quello che si poteva definire “un re”.

Sorrise.

Da una porta segreta dietro di lui comparvero tre figure incappucciate. Erano i tre maghi della congrega.

“Ho sentito il vostro odore quando ancora stavate salendo le scale” disse il ragazzo non voltandosi.

I tre maghi si lanciarono tra di loro delle occhiate preoccupate e disorientate.

“Ci avete fatto chiamare per cosa, nostro signore?” domandò uno dei tre, quello in mezzo.

“Dovreste sapere il motivo per cui vi ho fatti chiamare”

Altre occhiate terrorizzate.

“Ho intenzione di eseguire con voi il rito questa notte”

Atreius potè benissimo sentire l’agitazione e la tensione materializzarsi nei loro corpi. Questi smisero per un attimo di respirare e il primo che parlò aveva la voce rauca ed esitante.

“Ma signore, così presto? Dopotutto è un rito molto difficile da eseguire”

“Non voglio sentire storie, signori. Questa notte avverrà la svolta per tutto il regno della magia e non voglio più aspettare, sono impaziente di concludere i miei piani”

“Potremmo sapere almeno a chi intende indirizzare lo spirito?”

Un ghigno terrificante comparve sul volto pallido e perfetto del ragazzo. “All’angelo. Rebecca, o Aidel, dipende da come la chiamate voi. Comunque è lei che voglio”



***



Gabriel picchiò la fronte altre tre volte contro la porta del bagno. I palmi erano aperti e una mano di tanto in tanto tentava di aprire la porta sperando di non trovarla ancora chiusa a chiave. Sentiva dei rumori provenire dal bagno e tentava di capire che stesse facendo di così importante da non permettergli di entrare a vederla.

“Rebecca?” la chiamò con stanchezza. “Mi vuoi aprire?”

Da quant’era appoggiato lì, alla porta del bagno a chiamarla?

Si tirò su le maniche dello smoking. “Guarda che facciamo tardi” era seccato.

Sentì la sua voce che gli rispondeva dal bagno, tranquilla e felice. “Ma come? Non sapevi che i vip arrivano sempre in ritardo per poter così attirare l’attenzione di tutti?”

Gabriel sbuffò. “Non mi interessa attirare l’attenzione di nessuno, voglio solo andare a quella maledetta festa in modo da tornare a casa prima”

La porta del bagno si aprì tutt’un colpo e per poco Gabriel non cadde in avanti. Barcollò sul posto e si ritrovò il volto della ragazza a pochi centimetri dal suo. Tutto ciò che vedeva erano i suoi occhi truccati di marrone, la sua pelle chiara e pulita e le sue labbra carnose tinte da un rossetto color albicocca. Per un attimo il suo cervello non connesse. Poi lei lo baciò sulla bocca con un bacio a stampo, veloce e leggero, probabilmente non voleva che il rossetto scomparisse.

“Sei bellissimo” gli disse con occhi dolci e orgogliosi.

Il mio ragazzo.

Gabriel non aveva più fiato in corpo, faticò a ritrovare l’ossigeno. “Anche tu”

Rebecca sorrise e alzò gli occhi al cielo. Le sue ciglia erano lunghissime e nere, definite dal mascara che rendevano il suo sguardo ancora più magnetico. “Ma se non mi hai neppure guardata”

Gabriel lasciò scorrere gli occhi sul suo corpo e man mano che scendeva con la visuale la bocca si apriva sempre di più.

Rebecca indossava un vestito color avorio che le arrivava leggero a sbalzi fino alle ginocchia. Le spalline erano spesse e ripiegate fra loro a formare delle pieghe, legate poi all’altezza del seno da dei nastri marroni. La scollatura era abbastanza generosa ed era a V. Il vestito nel busto era attillato e dalla vita in giù scivolava ampio, la vita era fermata da un nastro marrone che richiamava quelli delle spalline. I capelli erano sciolti ed erano tutti a boccoli, dei ricci morbidi e luminosi che risaltavano il suo colore cioccolato. Ai piedi indossava dei sandali dorati, aperti e che risalivano alla greca con dei lacci fino a metà polpaccio. La sua pelle era così perfetta che con quel vestito così candido e puro la faceva sembrare una ninfa.

Anzi, una dea.

La mia ragazza.

“Sono contenta che ti piaccia” sorrise, visibilmente compiaciuta dal modo in cui il suo ragazzo la stava guardando.

Gabriel sbattè le palpebre un paio di volte prima di riprendere conoscenza. Per un attimo non ci aveva più capito niente. Era disarmante la sua bellezza, niente a che vedere con la volgarità o la semplicità, era talmente elegante e raffinata che pareva essere fatta di luce.

Era fortunato ad averla, era stato davvero fortunato che una ragazza unica come lei avesse scelto lui come il suo compagno. Che avesse scelto lui per donare il suo cuore. Naturalmente era troppo tardi per tornare indietro, era diventato troppo possessivo e geloso nei riguardi di tutti e vederla in quelle condizioni lo fece avvampare.

Avrebbe dovuto tenerla d’occhio quella sera. Non avrebbe tollerato nessun tipo di approccio da parte di nessuno.

Maledizione, era davvero arrivato a quei livelli di amore?

Come si poteva volere così tanto per sé una persona? Tanto che ti sentivi soffocare se c’era qualcun altro che respirava la vostra stessa aria?  

Cercò di sorridere anche se il groppo che aveva in gola gli faceva sentire un macigno sul petto. “Mi piaci, dico davvero. Sei stupenda”

Rebecca aggrottò la fronte, vedeva molta sofferenza nel volto combattuto del ragazzo. “C’è qualcosa che non va, Gabriel?” mormorò vedendolo così triste.

“Sei così bella che mi fai male”

Rebecca serrò la bocca e assunse un’aria confusa. “Ti faccio male? Che stai dicendo?”

Gabriel le prese una mano e se la portò al cuore. “Mi fai male qui”

I loro sguardi si incatenarono e i loro occhi erano talmente colmi di affetto e sentimento che rimasero parecchi secondi uno di fronte all’altra senza parlare né muoversi, leggendosi fin dentro l’anima. Rebecca appariva spaventata mentre Gabriel era tutto un dolore straziante che lo faceva bruciare.

Dio, quanto l’amava.  

Poi lui parlò. “Dobbiamo proprio andare questa sera alla festa?” la sua voce era bassa e roca.

“Che cosa ti spaventa?” domandò la ragazza che pendeva dalle sue labbra.

Gabriel si lasciò andare ad una risata isterica. Lei non rideva. Lui si staccò da lei, fece dei passi indietro e la fissò da lontano, il suo volto era nascosto nella semioscurità della casa. La luce del bagno dietro Rebecca la faceva invece risplendere.

“Ho paura persino dell’aria che respiri!” urlò Gabriel che continuava a ridere nonostante fosse arrabbiato. “Ho qualcosa di sbagliato? È sbagliato che io sia così possessivo al punto da diventare paranoico?!”

“Gabriel, non è colpa tua” sussurrò Rebecca completamente sconvolta dinnanzi il suo patimento. “Non è sbagliato amare troppo una persona”

“Non mi lasciare” sussurrò con voce rotta.

Rebecca gemette e gli corse incontro. Lo abbracciò con rabbia, lo tenne stretto e nascose il volto nel suo petto, sperava che lui non la vedesse piangere. Sentiva il suo corpo inerme, fermo, pietrificato, non rispondeva al suo abbraccio, sembrava morto, fissava il soffitto e i suoi occhi azzurri erano vuoti, inespressivi.

Lei lo scorlò con forza. “Che diavolo blateri?! Non ti potrei mai lasciare, mai! Non voglio più sentire questi discorsi! Ti amo, sei tutta la mia vita, sei il mio migliore amico, la mia unica famiglia! Come potrei andarmene? Perché mi dici questo?!”

“Perché sento che tu te ne andrai”   

Rebecca singultò e per poco non si soffocò con il suo stesso pianto. Smise di scrollarlo e sbarrò gli occhi a dismisura.

Da qualche giorno strani incubi invadevano i suoi sogni, le sue notti, il suo riposo. Da qualche giorno le era crollato addosso un bruttissimo presentimento, come un senso di perdita, di distacco. Come se si sentisse in procinto di partire. La sensazione atroce di un imminente addio. Era una sensazione strana, vera, palpabile. Rebecca non aveva mai fatto parola dei suoi sogni a Gabriel, sogni nei quali si vedeva con due occhi rossi mentre gli ringhiava contro. Sogni nei quali il letto in cui dormiva non era il suo, e Gabriel non era accanto a lei. Aveva cercato di non darci peso, di non pensarci su, dopotutto erano solo incubi. Brutti presagi. Ma ora che anche Gabriel sentiva quella sua stessa sensazione…come spiegarla? Cosa dire?

Un freddo glaciale la invase. Sciolse l’abbraccio e con il volto segnato dalle lacrime se ne andò senza guardarsi indietro, senza prestare attenzione alla figura del ragazzo che era rimasto a braccia aperte nel corridoio, silenzioso, confuso, sconvolto.

È così che inizia la fine?

Con uno scontro che pian piano ti allontana sempre di più.  



***



Gabriel aprì l’uscio della porta per andare alla festa, non appena l’aprì un vento gelido lo invase e lo fece rabbrividire. Aveva sentito Rebecca uscire prima di lui, probabilmente era già arrivata alla festa. Un moto di sconsolazione lo attanagliò quando pensò che poteva aspettarlo, in modo da fare la strada insieme, per essere insieme.

Sospirò e si strinse nel suo smoking blu scuro impeccabile. Dire che era bellissimo era poco. Si lasciò trascinare dall’aria fredda mentre percorreva a piedi da solo la strada. Mise le mani dentro le tasche e cercò di farsi caldo nascondendo la faccia nell’interno del colletto della camicia.

Era più buio del solito, notò.

Alzò gli occhi in alto e rimase basito quando vide che il cielo era nero, completamente scuro. Non c’era neppure una stella che brillava. Soltanto tre volte negli ultimi tempi era accaduto che le stelle mancassero di risplendere. La prima, quando Rebecca era arrivata. La seconda, quando Rebecca era stata crocifissa. Terza, quando Mortimer era morto.

E pensare che le stelle non brillavano quando accadeva qualcosa di veramente terribile.



***













  
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