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Autore: S i l v e r    25/01/2015    0 recensioni
Amare era soffrire e io lo stavo facendo benissimo; soffrivo, ogni mia terminazione nervosa era pervasa da una sofferenza così grande che a volte avevo la tentazione di lasciar andare, ma ogni volta che ci provavo iniziava a mancarmi l’ossigeno, a battermi forte il cuore come se avessi appena corso una maratona e stessi per rischiare l’infarto.
Per qualche strana forza, più grande di me, probabilmente la tendenza umana a non voler mai perdere nulla, non riuscivo a lasciarlo andare e a dimenticarlo. Il mio cuore, che io volessi o meno nella mia piena facoltà di ragione, voleva continuare a battere per Neah e più mi costringevi a non farlo e più stavo male, più mi sembrava che mi stessi privando delle uniche cose che un corpo umano necessita per vivere: acqua e ossigeno.
Genere: Fluff, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Gli accarezzavo i capelli, mentre cercavo di non respirare, di non farmi sentire vicino a lui; non doveva assolutamente vedermi, se lo avesse fatto sarei morto per la vergogna.
Essere lì, nella sua stanza, osservare quelle labbra socchiuse, le ciglia lunghe e nere, la pelle chiara, una mano sullo stomaco, altra al lato del viso, era per me la cosa più incantevole del mondo, oltre che una dannazione eterna.
Mi mordevo il labbro inferiore, mentre cercavo di resistere all’impulso di baciarlo; il che non era per niente facile. Mi ero innamorato di lui quando eravamo alle elementari, praticamente lo amavo da sempre, ma sapevo di non essere ricambiato e non perché fossi un ragazzo o di qualche anno più piccolo, ma perché Neah, questo il none del ragazzo moro che stavo accarezzando, era innamorato di mio fratello maggiore.
Non me lo aveva mai detto, ma non mi servivano parole per comprenderlo; bastava il suo sguardo. Lo guardava esattamente come io guardavo lui.
Quando lo avevo scoperto il mio cuore si era spezzato, in mille pezzi, e lo sapevo che avrei dovuto arrendermi, ma non ci ero riuscito. Ogni mia particella era inevitabilmente attratta da lui: dai suoi capelli corvini, dai suoi occhi di gatto, dal suo profumo di pino e stella alpina e dal suo calore.
Essere innamorati era la peggiore maledizione al mondo e io ci ero caduto e non riuscivo ad aggrapparmi a nessuna sporgenza per fermare quell’inevitabile caduta nel vuoto. Forse, nemmeno volevo.
Mi ero costretto a fermarmi dal continuare ad accarezzarlo, ma non mi ero allontanato dal suo letto. Non ci riuscivo, le gambe erano come pietrificate e non volevano muoversi e io continuavo a cercare di farlo, dannandomi per essere così dannatamente stupido.
Amare era soffrire e io lo stavo facendo benissimo; soffrivo, ogni mia terminazione nervosa era pervasa da una sofferenza così grande che a volte avevo la tentazione di lasciar andare, ma ogni volta che ci provavo iniziava a mancarmi l’ossigeno, a battermi forte il cuore come se avessi appena corso una maratona e stessi per rischiare l’infarto.
Per qualche strana forza, più grande di me, probabilmente la tendenza umana a non voler mai perdere nulla, non riuscivo a lasciarlo andare e a dimenticarlo. Il mio cuore, che io volessi o meno nella mia piena facoltà di ragione, voleva continuare a battere per Neah e più mi costringevi a non farlo e più stavo male, più mi sembrava che mi stessi privando delle uniche cose che un corpo umano necessita per vivere: acqua e ossigeno.
«Non riesci a dormire?» aveva chiesto la sua voce, facendomi scattare sul posto. Se fossi stato un gatto, probabilmente, avrei rizzato il pelo e soffiato per la paura.
Le mie guance si tinsero di rosso, mentre le mie dita dei piedi si arricciavano su loro stesse.
E così alla fine ero stato beccato in flagrante a osservarlo mentre dormiva. Ero davvero un genio!
Lui alzò un lembo della sua coperta «Forza, vieni qui. Se non volevi dormire sul pavimento potevi dirlo.» mi aveva bonariamente rimproverato e io, come un automa o un cane a cui viene lanciato un osso, mi ero subito steso accanto a lui, vicino al suo dolce calore.
Neah aveva subito richiuso gli occhi, ignaro che il mio cuore stava battendo all’impazzata all’interno del mio petto; il sangue fluiva così velocemente che mi sembrava di poterlo udire.
Anche io subito avevo chiuso gli occhi, avevo tentato, inutilmente, per vari minuti a calmarmi, ma come potere quando ero stretto dalla persona che amavo?
Perché Neah amava mio fratello e non me? Cosa aveva Jason che io non avevo? Beh, forse l’altezza e i muscoli, ma per il resto non differivamo poi tanto.
A quel pensiero avevo sospirato e lui di rimando aveva aperto un occhio cangiante e puntato su di me; per fortuna non avevo l’abitudine di mettere in parole i miei pensieri, ma di tenermeli dentro, in un diario segreto tutto mio, interno, che non poteva essere sfogliato o toccato da nessuno.
«Qualcosa non va?» aveva chiesto e io in risposta avevo scosso la testa e gli avevo sorriso, un sorriso a cui tutti abboccavano sempre, ma che nascondeva una profonda desolazione, che urlava inudito al mondo “non sto per niente bene, ma non preoccupatevi; tanto mi avete calpestato già tante di quelle volte che l’ennesima posso sopportarla”.
Lui non sembrava esserci cascato, ma poi aveva alzato le spalle e aveva spostato il suo sguardo sul letto dall’altra parte della stanza, quello dove stava riposando Jason che non si era accorto del nostro bisbigliare o se lo aveva fatto se ne era infischiato.
Io, come Neah, eravamo consapevoli del fatto di quanto fosse viziato e insensibile il più delle volte. Si curava solo di se stesso, dei suoi desideri; quando aveva un problema diventava un agnellino, cercava le persone su cui sapeva che poteva fare affidamento e che non lo avrebbero lasciato solo, ma quando tutto si risolveva, allora, tornava a essere un gallo e se ne andava, pavoneggiandosi con la sua cresta alta, dimenticandosi completamente di chi lo aveva sorretto nel momento del bisogno.
Io e Jason anche in questo eravamo agli antipodi, per questa ragione mi chiedevo come un ragazzo come Neah avesse potuto innamorarsi di lui, ma probabilmente il fascino dei bastardi in qualche modo era più forte di qualsiasi cosa; inebriava, assuefaceva e drogava.
In quel momento la mia lingua avrebbe voluto chiedergli come poteva amarlo, ma mi ero fermato. Non volevo sorprenderlo o ferirlo e sapevo che se avessi parlato lo avrei fatto.
Rassegnato, avevo chiuso gli occhi e mi ero fatto più vicino.
Potevo fare solo questo, cercare di fargli sentire la mia presenza e tentare di rubargli il cuore che doveva essere nello stesso stato del mio: maledettamente solo e spezzato.

 
   
 
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