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Autore: Padme Undomiel    27/01/2015    3 recensioni
"Ken-kun è sempre attento, è un caro amico, ed è sempre disposto ad ascoltare quando ce n’è bisogno. Non sarà di molte parole, certo, ma quando si apre davvero con qualcuno è capace di rivelare al meglio la sua interiorità, che è meravigliosa, benché lui stesso ne dubiti. Peccato che sia convinto sul serio che non si fidanzerà mai con nessuna.
Me lo disse alcuni anni fa, quando per la prima volta noi due scoprimmo di essere davvero in grado di stringere un’amicizia speciale.Per quanto sia assurdo, lui sostiene che la sua convinzione derivi dal fatto che i suoi sentimenti sono pericolosi, fonte di guai."
[...]
"Che significava quel bacio?"
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ken Ichijoji, Miyako Inoue/Yolei
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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JGF4
Just Good Friends






4.






La notizia del litigio tra Inoue Miyako e Ichijouji Ken, che ha interrotto bruscamente l’alleanza dolciaria per Natale, arriva alle orecchie di tutti prima che io possa capire come sia successo.

Non credo sia stata colpa di Hikari: lei i segreti altrui non li divulga, è anche per questo che trovo così semplice confidarmi con lei. Credo sia stato piuttosto un concatenarsi di eventi iniziati dalla presenza di Taichi a casa Yagami quando ho avuto il mio crollo emotivo. Non credo abbia capito esattamente cosa sia successo, ma sa che io e Ken non ci vedremo più per cucinare, e tanto basta. Gli sarà scappato qualcosa con qualcuno degli altri, e da lì il passaparola non ci mette nulla a diffondersi. Ne so tanto di pettegolezzi, d’altronde sono una maestra in materia.
Non credevo che, per una volta, sarei stata io il soggetto del pettegolezzo, e non la pettegola.
In realtà ho scoperto che non m’importa granché, anzi: in un certo senso ci ho perfino guadagnato. Nessuno mi fa domande: il comportamento dei miei amici con me è il più dolce e accorto che ci sia. Mi fanno stare meglio. Mi fanno ricordare come si sorride.
Sora mi ha suggerito con delicatezza che avrei potuto cucinare qualcosa di semplice come dei biscotti alla cannella, per non stancarmi troppo – “ora che sei da sola” è rimasto solo implicito. Ma i biscotti sono veloci, e io mi sono trovata presto senza niente di preciso da fare. Così ho aiutato un po’ tutti nei due giorni che ancora mancavano alla vigilia di Natale.
Correre da una parte all’altra di Tokyo, immersa fino al collo in festoni, musica natalizia, bibite e giochi da tavolo, e rustici e stuzzichini a non finire, con i miei amici pronti a parlarmi di tutto e di niente senza domande scomode, mi ha tenuto la mente occupata, così che almeno potessi essere un minimo reattiva, e non una specie di budino squagliato andato a male, che sa solo tremolare ed accartocciarsi su se stesso.
Credo che abbiano suggerito anche a Ken di fare quello che poteva, di comprare un dolce natalizio o qualcosa del genere se era più comodo così, ma in realtà non posso saperlo. Il nome di Ken è tabù al momento, almeno in mia presenza.
Non ho notizie di Ken dal pomeriggio che sono scappata dal suo appartamento.
Gli altri hanno paura di essere inopportuni, me ne accorgo dalle occhiate caute e preoccupate che mi lanciano quando pensano di non essere visti, per questo non parlano di lui neanche per sbaglio, come se fosse un fantasma un po’ inquietante.
Quanto a me, sono affamata di notizie sul suo conto, ma non oso chiedere. E in segreto mi tormento.
Quando la giornata è finita e le luci si spengono, ciò che resta del mio mondo si riduce al led del mio cellulare, spento, a ricordarmi che non ci sarà nessun messaggio da leggere, nessuna chiamata da ricevere. Lui non mi ha cercata. Io non lo cerco.
Non faccio che ripensare alla sua espressione quando non ho saputo rispondergli.
Avrei potuto capire prima, mi ripeto senza posa annegando nel senso di colpa. Avrei potuto capire cosa provavo per lui, e dirglielo lì e subito. Avrei potuto ribattere che avrei voluto provare ad abbracciare qualsiasi cosa stesse iniziando con lui a prescindere da qualsiasi Michael, da qualsiasi compassione, da qualsiasi obbligazione portata dalla nostra amicizia, per nessun altro motivo che non fosse me stessa, lui, e noi due.
E invece non ho capito nulla. E non ho capito in tempo.
Può capitare in qualsiasi momento della giornata, anche con le mani occupate e le risate dei miei amici nelle orecchie: un ricordo passato, un frammento della mia vita, uno tra i tanti che non fanno che sommarsi tra loro, si insinua nei miei pensieri e mi costringe a fare i conti con me stessa. Ripenso alle mie storie passate, e tutto mi è sempre più chiaro. Satoshi era il perfetto opposto di Ken, mi faceva sempre complimenti e mi diceva tutto quello che gli passava per la testa, non arrossiva mai. Mashiro invece gli somigliava tantissimo: timido, riservato, tendente all’autosvalutazione, eppure più fragile di Ken: non sapeva rimettere insieme i pezzi quando cadeva. Mamoru aveva gli occhi azzurri. Come Ken.
Non voglio sostenere ora che le mie storie non fossero reali: a mio modo li ho amati tutti. Solo che ora posso tracciare una linea di continuità, e sostenere che ho sempre cercato Ken in ognuno di loro. Perfino in Satoshi, il mio primo dopo aver saputo della promessa di Ken: probabilmente cercavo di dimostrare a me stessa che non avrebbe potuto funzionare tra me e Ken, e così ho desiderato il suo opposto. Sbagliandomi.
E’ sempre stato Ken, ed è assurdo che non abbia mai capito nulla. Sono proprio stupida.
Stupida, e Ken mi ascoltava parlare di ognuno di loro come se dovesse importargli per forza, e magari soffriva in silenzio quando io andavo via. Stupida, e Ken non si lamentava mai, mi consolava quando ero giù, non mi chiedeva mai niente. Stupida, e lentamente ma inesorabilmente lo allontanavo da me quando più credevo di averlo vicino.
Stupida, stupida, stupida.
E’ chiaro poi che l’enormità di quello che ho capito guardando Ken a casa sua mi ha sopraffatta: non avevo avuto modo di ammetterlo con me stessa, mi ero preclusa qualsiasi possibilità di capirlo. Avevo scambiato le mie storielle per il massimo dell’amore romantico che potessi provare, logico poi che quella con Ken mi sembrasse una relazione completamente diversa al confronto. Questo non avrebbe dovuto escludere il fatto che Ken mi piacesse in un altro senso, che quell’etichetta di migliore amico gli stesse fin troppo stretta, ma ovviamente le cose sono andate in modo diverso. Lì a casa Ichijouji la realtà mi ha colpito come un pugno, e non ero ancora lucida abbastanza per capire che finalmente tutti i conti quadravano.
Sono scappata. Ho rovinato tutto.
“Miyako-san, la fai più terribile di quello che in realtà è”, mi risponde spesso Hikari quando i miei tentativi di distrazione falliscono, e le vomito addosso tutto questo. “In fondo il succo è che vi amate l’un l’altra. Vi siete feriti a vicenda, questo sì, ma una volta che avrete parlato tutto si aggiusterà.”
“Ah, certo. Ken-kun sarà felicissimo di accettare la dichiarazione tardiva di una stupida che lo ha tormentato per anni, illuso per un giorno, preteso una risposta per lui dolorosa e poi fatto i capricci perché la suddetta risposta non le piaceva. E non dimentichiamo il gran finale: la stupida è scappata in silenzio dopo che lui le ha aperto il suo cuore.” Questa, di solito, è invece la mia risposta sarcastica e amareggiata. “Con che faccia gli chiederò scusa?”
“Con la faccia triste che mi stai mostrando adesso. Solo uno sciocco penserebbe che tu stia mentendo, che lui non ti manchi sul serio.” Il sorriso di Hikari è una delle cose più rassicuranti che io conosca, davvero. “Non l’hai ancora perso. Non è ancora finita. Ricordati che la vigilia di Natale è vicina.”
L’idea che rivedrò Ken mi riempie di agitazione. Voglio rivederlo – ho bisogno di rivederlo, di spiegarmi, di mettere a posto le cose se posso. Eppure ho paura. Una terribile paura che non vorrà più vedermi, che non potrà mai perdonarmi.
Che non mi voglia più.
Non so cosa farei in quel caso, in realtà mi rifiuto di pensarci: è una prospettiva troppo brutta.
Così mi faccio forza, e soffocando le mie paure sorrido decisa a Hikari, come se credessi davvero in quello che dico.
“La vigilia di Natale è vicina, sì. E se siamo insieme troveremo sicuramente il modo di parlarci. Oh, che sciocca. Saremo sicuramente insieme. Ken-kun si presenterà di certo!”

***

Ken-kun non si presenta.

“Ehi, sei dei nostri? Guarda che è il tuo turno”, mi arriva la voce impaziente di Daisuke accanto a me, e io distolgo nuovamente lo sguardo dalla porta – chiusa, ancora chiusa- per tornare al gioco di carte di cui quasi mi stavo scordando l’esistenza.
Daisuke e Michael, i miei compagni di gioco, mi stanno guardando senza capire, il primo con le sopracciglia inarcate, il secondo con confusione.
Sorrido, un po’ imbarazzata, e mi affretto a tirare la mia carta. “Scusate, eccomi! Provate a battermi ora, se ci riuscite!”
Un silenzio incerto segue le mie parole.
Batto le palpebre, guardando ora l’uno ora l’altro. “Beh? Che vi prende?”
“Più che provare a batterti, potremmo provare a non farlo”, interviene Michael, e con la mossa successiva praticamente si aggiudica la partita. “Ci stai lasciando vincere?”
Arrossisco, accorgendomi di colpo dell’errore madornale che ho commesso. “Ma … no!”
“Senti, Miyako. Ma Ken ha intenzione di arrivare o no?” Esordisce Daisuke, diretto come suo solito, comprendendo qual è il problema con acume sorprendente. Io sussulto. “Sono le dieci e mezzo!”
Già. Come se non lo sapessi. Come se non stessi controllando l’orologio dall’inizio della festa, o forse anche da prima. Da un paio di ore prima, all’incirca.
Tiro una carta a caso, giusto per fare qualcosa e tenere così gli occhi bassi. “Non ha chiamato per dire che non sarebbe passato”, faccio, cercando di impersonare un agente segreto imperturbabile. “Perciò dovrebbe arrivare. Dovrebbe arrivare da un momento all’altro.”
Come agente segreto faccio schifo sul serio, il tentativo di autoconvinzione è trapelato alla perfezione. Una forte sensazione di disagio mi pervade.
“Se sei tanto preoccupato, perché non gli telefoni? E’ inutile stressare me, non sono l’unica sua interlocutrice possibile!” Scatto, prima di potermi controllare. L’espressione sul viso di Daisuke e Michael si fa ancora più preoccupata per il mio stato mentale.
Lascio le carte, e mi alzo in piedi. “Non sono in vena di giocare”, annuncio, e mi allontano senza dire altro.
Sento che mi stanno ancora guardando, ma davvero, non mi sento affatto in grado di controllarmi al momento. E non è neanche giusto che io sfoghi su di loro la mia frustrazione. In fondo non è un problema loro se è tutta la sera che ho un pensiero fisso.
Le dieci e mezzo.
Mi fermo accanto a quella porta sigillata, mi appoggio contro il muro, e incrociate le braccia guardo la festa di Natale alla quale teoricamente dovrei prendere parte anche io.
Sorrido un po’.
Siamo tutti molto carini, abbigliati per l’occasione. Mimi ha insistito che nessuno “non natalizio” dovesse varcare la porta di casa Yagami, e ha convinto anche i più riluttanti a indossare un cappello da Babbo Natale. Taichi, che non si fa mai problemi, ha indossato anche la barba bianca, e ha annunciato: “la pancia l’avrò dopo aver mangiato tutte queste prelibatezze”. Mimi invece vince il premio La più estrosa della festa: ha un abito rosso, e in testa un assurdo cappello verde a forma di albero di Natale che, non so come sia possibile, le sta benissimo ugualmente.
Io ho un paio di corna da renna sulla testa, però non mi sento tanto natalizia.
L’albero di Natale al centro del salotto brilla di mille luci, il tavolo apparecchiato ospita patatine, salatini, torte salate e tramezzini, accanto allo stereo Taichi e Jyou giocano a stonare al karaoke con Mimi che ride e li prende in giro, Yamato, Sora, Takeru e Hikari giocano ad un gioco da tavolo, Iori e Koushiro parlano davanti al tavolo del buffet e distribuiscono bicchieri di plastica a chi li chiede, i festoni colorati pendono ovunque, ma tutto quello a cui io riesco a pensare è che Ken non si farà vedere.
Avrei dovuto aspettarmelo, in effetti. Piuttosto che mettere me in una situazione imbarazzante preferisce rinunciare lui alla festa, da solito martire qual è.
Oppure stavolta non aveva voglia di vedermi, semplicemente. Più plausibilmente.
Dovevo pensarci, invece di farmi tutti quei castelli in aria su quando l’avrei rivisto, quando gli avrei parlato, quando gli avrei confessato i miei sentimenti …
“Miyako-san. Mi sembra che tu non stia molto bene.”
E poi mi accorgo che Michael si è parato davanti a me, non so come, non so da quanto.
Lo guardo, sinceramente sorpresa.
“E tu? Non stavi giocando con Daisuke?” Gli domando.
In effetti è strano che ci troviamo insieme da soli. L’ultima volta che è successo era tutto diverso: avrei esultato nel vedere il suo interesse per me, avrei cercato di essere simpatica e accattivante. Mi sarei sentita felice ed esaltata solo a guardarlo in faccia.
L’ultima volta sembra appartenere ad una vita fa. Ora lo guardo, e sento solo imbarazzo, e nient’altro.
“Sì, ma sia io che lui abbiamo avuto la sensazione che ci sia qualcosa che non va”, risponde Michael. “Se non ti piacciono le carte possiamo cambiare gioco.”
Rido. “Io amo le carte. Soprattutto a Natale”, commento, e Michael non può capire, perché non c’era quella volta. Non ha festeggiato il primo Natale insieme a casa Ichijouji. Non ha visto Ken ridere di cuore dopo uno dei miei soliti teatrini giocando a carte. Non ha quel ricordo stampato indelebilmente nei ricordi.
La mancanza mi colpisce di nuovo, violenta.
Le undici meno venti.
“Miyako-san.” Michael mi posa una mano sulla spalla, stringendola piano, e io sussulto un po’. Ora sembra davvero preoccupato, noto. In un modo che mi avrebbe fatto sentire le farfalle nello stomaco quando ancora tutto questo aveva importanza. “Se c’è qualcosa che posso fare per farti stare meglio, dimmelo.”
E Michael come si colloca nel mio nuovo mosaico ricomposto? Lo fisso con curiosità. Non c’è nulla di Ken in lui, nulla di vagamente rintracciabile di lui nel nostro amico americano. Credo sia stato piuttosto un retaggio passato, un ricordo della mia cotta infantile quando ancora Ken era il Digimon Kaiser, a riattivare il mio interesse per lui.
Già, non c’è nulla di Ken in lui. La sua preoccupazione è moderata. Nei suoi occhi non si scorge niente più di quel che dice, nessun impeto trattenuto, nessun’intensità pari a quella che mi ferma tutte le volte che lui guarda me.
Do uno sguardo alla sua mano posata sulla mia spalla, e so che è finita. Sorrido.
“Qualcosa puoi farla per me, sì.” Rispondo tranquilla. “Puoi confermarmi che per me non hai mai provato nulla di romantico.”
Michael diventa all’improvviso l’immagine della sorpresa, e lascia cadere la mano. “Cosa?” Esclama, e poi sembra capire. “Ma tu provi qualcosa per me?”
Come pensavo. “Se sei così sconvolto significa che non ti sei mai accorto di nulla. Il che può significare due cose: la prima, sono diventata improvvisamente bravissima a nascondere le mie emozioni. E qui tutto il mondo avrebbe da ridire, quindi passiamo alla seconda.” Sorrido, sentendomi finalmente libera. “Non avevi quel tipo di attenzioni per me, quindi non potevi farci caso. Se ti fossi piaciuta sul serio avresti notato tanti segnali che ti lanciavo, te lo assicuro.”
Credo di averlo shockato: mi guarda a bocca aperta, a metà tra lo stupore e un vago senso di colpa e di imbarazzo. Rido, battendogli la mano sulla spalla ripetutamente.
“E’ tutto a posto, davvero! Non ce l’ho affatto con te”, lo rassicuro. “Anzi. Si può dire che tu mi abbia aiutato a capire. E di questo non potrò ringraziarti abbastanza.”
Senza di lui Ken non sarebbe stato geloso, non mi avrebbe baciata. E io avrei continuato a recitare fedelmente la mia farsa senza capire davvero chi fosse la persona speciale che avevo accanto.
Che vorrei avere accanto adesso, disperatamente, al punto che quasi non riesco a stare ferma sul posto, che quasi correrei fino in capo al mondo per rivederlo solo un attimo-
Mi fermo.
Guardo la festa che gioiosamente continua anche senza di me, guardo l’espressione confusa di Michael. E all’improvviso capisco che non c’è nulla, al momento, che mi trattenga qui. Non se mi sembra che manchi un pezzo importante di noi – di me.
“Oh, e Michael? Ultimo favore che ti chiedo. Avvisa gli altri che mi assenterò un attimo” annuncio solenne. “Spero di riuscire a tornare qui per la fine della festa, in caso contrario non preoccupatevi.”
“Ma – aspetta! Dove te ne vai a quest’ora? Fuori nevica anche!” Protesta Michael e mi segue, mentre io mi dirigo spedita ad afferrare cappotto, sciarpa e guanti. Li indosso, senza dargli retta. “Non credi che dovresti parlare con qualcuno dei tuoi amici? Vuoi – chiamo qualcuno?”
Completamente pronta, lo guardo. Con quell’espressione sconcertata e guardinga, come se stesse parlando con una pazza scatenata, sembra davvero un pesce fuor d’acqua. E’ quasi buffo.
Mi limito a sorridere.
“Mi dispiace. Questo per me non è Natale”, gli spiego.
Non importa che non capisca: io apro la porta, ed esco, correndo il più in fretta che posso. Ho il cuore che mi martella nel petto, una paura tremenda addosso, ma non posso fare altrimenti.
Ken avrebbe dovuto pensare di presentarsi, ecco. Avrebbe dovuto avere il coraggio di mandarmi al diavolo a voce, invece adesso mi costringe a fare quello che lui non ha voluto fare. Se Maometto non va alla montagna, la montagna va da Maometto.
Giù per le scale, fuori dal condominio, lungo le strade innevate. Rallento il passo, attenta a non scivolare sul ghiaccio accumulato, la neve che cade ovunque sui miei vestiti, sul mio viso, tra i miei capelli. Sono le undici meno dieci. Se prendo in fretta il treno potrei arrivare a Tamachi per mezzanotte, o giù di lì. Appena in tempo per Natale.
Spero di farcela. Spero di non desistere per codardia.
Un passo dopo l’altro, uno dopo l’altro, stabilisco un movimento marziale, così da scaricare la tensione mentre afferro il cellulare, con mano tremante, e prima di avere il tempo di pensarci compongo un numero che conosco a memoria, e accosto l’apparecchio all’orecchio.
Ogni segnale acustico dall’altra linea mi porta il cuore in gola.
Non pensarci, Miyako. Non pensarci finché non risponde. Non chiudere. Non –
“Pronto?”
Ecco qui. Ora muoio.
“Ciao”, esordisco stranamente timida, racimolando tutto il fiato che ancora mi resta per articolare frasi di senso compiuto. Le guance mi vanno in fiamme, come mai mi era successo nella vita. “Mi … dispiace disturbarti, se poi ti disturbo – cioè, quello che voglio dire è che non ho idea di cosa tu stia facendo. Non devi dirmelo per forza, eh! Te lo dico solo per scusarmi, e …”
Mi sembra quasi di sentire un mezzo sbuffo divertito. “Non ho capito nulla, Miyako-san”, si scusa, cauto.
Nessuno dice Miyako-san in quel modo.
“Sto venendo a casa tua”, dico tutto d’un fiato, prima di potermene pentire. Un passo dopo l’altro, uno dopo l’altro. “Non ti ruberò tanto tempo, te lo giuro. Voglio solo parlarti un attimo.”
Cala il silenzio, d’un tratto. Ma sono troppo agitata per capire cosa significhi.
“Ti prego, dimmi che sei a casa”, lo imploro.
“… In realtà no.”
Mi fermo. “Ah.”
Beh, plausibile. Può aver preferito altri programmi a vedere me, è del tutto plausibile. Plausibilissimo. Non mi sento ferita. Non mi sento male-
“Sono vicino casa Yagami. Per, ah, la festa. La festa di Natale.”
Batto le palpebre un paio di volte. “Ma tu non sei venuto alla festa!” Strillo sconcertata, senza in effetti un nesso logico.
“E’ che ho fatto tardi … Aspetta. Miyako-san, ma tu sei già in viaggio verso casa mia?”
“No, io sono a pochi metri da casa Yagami!” Preda di un’irragionevole agitazione, stringendo il cellulare tra le mani, mi guardo intorno freneticamente. “Tu dove sei? Non ti vedo!”
“Ma sono a pochi metri anche io!”
“Ma come …”
E poi lo scorgo, fermo a poca distanza da me, a guardare da tutt’altra parte con aria attenta. Il mio cuore fa un buffo balzo nella mia cassa toracica.
Tremo. “Girati sulla tua sinistra, Ken-kun.”
Lo vedo irrigidirsi sensibilmente, e rimanere fermo sul posto per un paio di secondi. Poi, lentamente, si volta, i suoi occhi si fermano su di me, e mi riconosce.
La neve continua a turbinare tra noi, mentre ci guardiamo immobili.
Sembra che non ci vediamo più da una vita. Sembra che siamo diventati due estranei che si conoscono troppo bene. E sono miliardi le cose che potremmo fare in questo momento.
Muoverci, l’uno verso l’altro. Aprire la bocca e parlare. Ridere, piangere. Abbracciarci o allontanarci a spintoni.
Invece tutto quello che fa Ken è sorridere un po’.
“Belle corna da Rudolph.” Dice.
E io ricordo che le indosso ancora – come se poi avesse importanza.
Sorrido anche io. “Tu invece hai il naso rosso anche senza travestimento.”
Il suo sorriso che si amplia è riflesso del mio, e il peso nel mio petto si allenta un po’.

***

“Sei in ritardo”, gli dico a bassa voce, osservando distrattamente le corna che ho tolto dal capo e posato in grembo.

Siamo seduti sul gradino sopraelevato del condominio di casa Yagami, che se non altro è l’unico a presentare il vantaggio di non essere coperto di neve, sebbene sia ugualmente congelato. Siamo l’uno accanto all’altra, pur attenti a non sfiorarci, consapevoli che ci stiamo guardando di sottecchi a turni non sincronizzati.
“Lo so. Mi dispiace.”
“Lascia perdere, non è questo il punto.” Mi volto a guardarlo, lo stupore ora perfettamente visibile sul mio viso. “Ichijouji Ken in ritardo. Stiamo parlando della stessa persona che di solito è più puntuale di un orologio svizzero. Perciò è possibile anche per te, come i comuni mortali?”
Ken sorride, un po’ imbarazzato, e sfugge alla mia occhiata. Esita, come se volesse dire qualcosa, ma poi sembra rinunciarci.
“Sul serio”, insisto. “Cosa è successo? Credevamo … credevo che non ti saresti fatto vedere.”
L’ultima parte della mia frase si perde in un sussurro.
Ken mi lancia un’occhiata per qualche secondo, incerto. Alla fine, sospirando, si decide a parlare.
“Lo credevo anche io”, ammette piano. “Credevo che non mi sarei fatto vedere, fino all’ultimo. Ero in procinto di chiamarvi e dare forfait … e all’improvviso ho capito che non era quello che volevo. Che … che c’era una cosa che volevo fare.”
Le sue dita torturano l’incarto del pacchetto che stringe tra le mani, catalizzando di nuovo la mia attenzione.
“Cos’è che hai lì, a proposito?”
Ken arrossisce. Il suo sguardo si sposta rapidamente da me al pacchetto, e viceversa; esita, poi sembra farsi forza. Con mio grande stupore, me lo porge, serio.
“Su per giù … è questo il motivo principale per cui mi sono presentato ad un orario così indegno.”
Muta, lo tengo tra le mani per qualche secondo, cercando di elaborare il fatto che Ken sembra avermi fatto un regalo, nonostante la situazione imbarazzante nella quale ci troviamo. Poi noto l’espressione insicura di Ken, e ricordo che sta aspettando di vedere la mia reazione: lo scarto, quindi, l’impazienza che cresce all’improvviso.
Al suo interno c’è un contenitore per alimenti, e una forchettina.
E una fetta, un po’ distrutta nel taglio, di quello che sembra una torta con triplo strato di cioccolato e panna.
Spalanco la bocca, e dimentico completamente come si fa a parlare.
Con la coda dell’occhio, vedo Ken arrossire ancora di più. “Mi … mi pareva che ci tenessi, quando avevamo … beh … pianificato di cucinare insieme. Ho … chiesto aiuto a mamma, e abbiamo trovato la ricetta. Temo non sia uscita granché … non è come quella che conosci e che adori, ma ho cercato di farla da solo. Puoi … non mangiarla, se non vuoi.”
Eccone un altro, mi dico all’improvviso: ecco un altro gesto dei suoi. Uno di quelli che nessuno gli ha mai chiesto, uno di quelli che quando li ricevi ti rendi conto di avere accanto qualcuno che a te ci tiene sul serio: arrivano improvvisi,e parlano dei suoi sentimenti per te al posto del comune linguaggio verbale. Come il cappotto e i guanti della signora Ichijouji la sera della festa da Mimi. Come una serie infinita di altri piccoli gesti ai quali non ho mai dato tutta l’attenzione che avrebbero meritato.
La torta non era necessaria, e lui di solito non cucina. Ma l’ha fatta per me. Malgrado tutto, ha pensato a me.
Cos’ho fatto io di altrettanto dolce per lui?
Fisso il regalo, gli occhi che all’improvviso mi si fanno lucidi. “Credevo non ti piacesse”, è tutto ciò che riesco a dirgli, perché il resto dei miei sentimenti rischia di esplodere all’esterno se solo mi azzardo a cercare di esprimerli.
“Non importa. Era … E’ per te. Se la vuoi.”
Lo guardo, incredula. “Se la voglio?” Scandisco, le sopracciglia inarcate per l’affronto. Poi afferro la forchettina, e ne prendo un pezzo, portandolo alla bocca.
E’ un’esplosione di panna: ne ha messa tantissima, tanto che il cioccolato si sente a stento. Continuo a mangiare, incurante dell’ansia di Ken.
“Ecco, se non è buona lascia pure perdere”, straparla a tutta velocità, osservando la mia espressione con aria attenta. “Come dicevo non credo che sia uscita bene …”
“Oh, sta’ zitto.” Lo fulmino con lo sguardo. “E’ la mia torta. La mia. Non ti do il diritto di prendertela con lei, chiaro? E poi è buonissima.” La falsa indignazione scompare quando incontro di nuovo i suoi occhi, noto il lampo di sollievo che li anima, e mi accorgo che sì, aveva il terrore matto che non fosse uscita bene. Un altro piccolo segnale di quanto io conti per lui. “E’ la torta più buona che io abbia mai assaggiato”, concludo, e la voce ha un tremito.
Non so cosa Ken legga nella mia espressione, ma si fa serio. Tanto, troppo. Ancora le guance rosse, mi guarda, e i suoi occhi brillano in modo strano.
All’improvviso so che mi sta dicendo addio, e mi si stringe un nodo feroce in gola. Non riesco più a mangiare un solo boccone: poso la forchettina nel contenitore, e lo richiudo. Aspetto.
“A casa mia hai detto una cosa”, mormora Ken dopo un breve silenzio. “Hai detto … hai detto che non ti ho mai … detto niente … perché non volevo provarci.”
“Ken-kun, ti prego, ho detto tante cose quel giorno, e di molte mi vergogno-” mi affretto a dire mortificata, ma lui mi interrompe gentilmente.
“Ma su questa avevi ragione, Miyako-san.” Ken sorride un po’, e si sta di nuovo auto biasimando. “Io non volevo provarci. Sono qui per dirti che è così.”
Non so che dire, così mi limito a stringere spasmodicamente il coperchio del dolce, e distolgo lo sguardo. Il cuore mi martella furiosamente nel petto, e ogni battito è doloroso.
“Ma anche … per cercare di spiegarmi.” Continua Ken, e c’è una nota incerta nella sua voce, come se mi stesse chiedendo il permesso. Io rimango in silenzio, così lui continua. “Riguardo quella storia della … promessa di non fidanzarmi mai, a cui hai fatto cenno sempre quel giorno … L’hai anche definita sciocca un paio di volte, se non ricordo male. Devo dire che avevi ragione.”
Arrossisco, sempre più imbarazzata. “Di’ un po’, hai intenzione di farmi sentire in colpa ancora per molto?” Protesto a bassa voce, un po’ imbronciata.
Ken ride piano. “Non cerco di farti sentire in colpa”, spiega, dolce. “Ti sto solo dicendo che  non c’entra la promessa con quello che ho fatto, o non ho fatto. O, almeno, non più, e non allo stesso modo.”
Lo guardo, confusa.
“No? Ma credevo … Credevo …”
“Che avrei considerato quella promessa come un voto? Lo credevo anche io.” Ken scuote il capo, e distoglie lo sguardo. Il suo sorriso ora è un po’ amaro. “E ci ho provato, a considerarlo tale. Fin da quando ho cominciato a rendermi conto che tu … eri diversa. Da chiunque. Che non avrei mai potuto mantenermi razionale in tua presenza. A parte che tu sei tutto fuorché prevedibile.” Uno sbuffo simile ad una risata, gli occhi bassi brillano ancora. “Ho cercato di impedirmi di provare qualcosa di simile per te,con ostinazione e disperazione. Non volevo che soffrissi a causa mia, non tu. Eppure non riuscivo ad allontanarmi da te, o ad allontanarti: ogni volta che … che preferivi la mia compagnia a quella degli altri, credevo che non avrei potuto essere più felice di così. E così, man mano che il tempo passava, cedevo … e senza volerlo speravo. Avevo questa sciocca speranza che un giorno ti saresti accorta di me. Fu ormai tardi quando mi resi conto che la mia promessa non aveva potere sufficiente per vincere contro di te. Ormai non potevo più farci nulla.”
Ken torna a guardarmi, le guance in fiamme ma determinato a proseguire, mentre io non riesco a ricordarmi come si fa a respirare.
“Poi sono tornato alla realtà, e mi sono reso conto che non ero che un amico per te. Hai conosciuto altre persone …” Si interrompe di colpo. “E così la mia paura è diventata egoistica: avevo paura di perderti. Decisi che era meglio così, che preferivo … beh, guardarti con altri ragazzi invece che guardarti da lontano come vecchi compagni d’avventura. Almeno in questo modo potevamo avere un rapporto speciale. Ed ecco qui un’altra promessa: non ti avrei detto nulla. Non avevo potere sui sentimenti, ma potevo averne sulla loro espressione. E se le prime volte fu relativamente facile … man mano che passavano gli anni, e io e te ci avvicinavamo sempre più, io non sapevo più dire se avrei potuto arrivare a fine giornata senza spifferare tutto. Ero terrorizzato, ma in qualche modo resistevo.” Fa una pausa, si incupisce. “Poi è arrivato Michael. Non so dire cosa mi sia preso, probabilmente un’infantile rivendicazione di diritto … Non vedevi Michael da una vita, eppure ti … ti piaceva lui, e non io, e tu vedevi me praticamente ogni giorno … Santo cielo, mi dispiace. E’ una cosa davvero meschina.” Mortificato, Ken guarda altrove, come un criminale dopo un delitto efferato.
“Non lo è”, sussurro io, con chissà quale voce. “Non lo è per niente.”
E, tanto per cambiare, non riesco a convincerlo.
“Avrei dovuto essere più maturo, me ne rendo conto”, continua, a testa bassa. “Fare l’amico, come mi ero ripromesso fin dall’inizio. Stringere la mano a Michael, o per lo meno presentarmi a quella festa a casa Tachikawa, invece di fare il bambino. Essere coerente. Se lo fossi stato, non ti avrei fatto soffrire per qualcosa di cui, in fondo, non avevi alcuna colpa. Non riuscivo a mettere d’accordo i miei desideri contrastanti, così mi sono comportato in modo deplorevole, e ho rovinato tutto. Mi dispiace, non sai quanto. Io non so se il nostro rapporto è recuperabile, non so se vorrai più vedermi, ma una cosa la so: non voglio più mentire, scappare, nascondermi.”
Ken chiude gli occhi, fa un respiro profondo, un po’ tremante. Poi si gira completamente verso di me, e nell’intensità della sua espressione leggo quello che vuole dirmi ancor prima che apra bocca.
“La verità è che sono innamorato di te, Miyako-san. E ora di questo fa’ ciò che vuoi.”
Il nodo in gola brucia furiosamente.
Non ho idea di quanto gli sia costato arrivare ad una decisione del genere. Ha ancora paura, paura di se stesso, paura di sbagliare, e credo continuerà ad averne per altro tempo ancora. Ma non ha importanza quanto intensamente lui senta i suoi limiti: ha deciso di affrontarli. Di provarci. 
Di volere amarmi, e non di amarmi controvoglia, contro il proprio controllo, contro la propria volontà.
E ora mi lascia la libertà di colpire il fianco ferito che mi mostra, come se io fossi la padrona assoluta del suo destino da adesso in poi.
Ora più che mai so cosa provo per lui, so che nessun altro sarà mai come lui. So che vorrei stringerlo forte a me, e non lasciarlo andare più. So che vorrei chiedergli scusa di essere in ritardo, come mio solito. So che vorrei dirgli tutto, tutto quello che non ha mai saputo, e che non ho mai saputo neanche io.
Invece la mia mano parte da sola. Spostati corna da renna e contenitore con la torta sul gradino, mi volto a dargli una botta sul braccio.
“Ahi!” Sorpreso, Ken mi guarda con gli occhi sgranati.
Non ero che un amico, eh?” Strillo, fuori di me. E lo colpisco ancora. “Tu e quella maledetta promessa! Potevi anche non farmela, dato che avevi intenzione di non rispettarla! Hai una vaga idea di quanto io ci abbia sofferto?” Un altro colpo, e un altro. Singhiozzo. “Ti morivo dietro da una vita, pezzo di idiota!”
Ken mi afferra le mani, me le ferma, stringendole piano. Mi guarda, sconcertato e turbato, il viso rosso come un peperone.
Così rido istericamente, tra i singhiozzi che ormai si susseguono. “Ah, certo. Il signorino non se n’è accorto. Mi pareva strano. Perché sei così stupido? A quest’ora non avremmo mai giocato ai migliori amici, se tu non avessi avuto l’idea di diventare un monaco votato alla castità! Tu non sei mai stato il mio migliore amico! Mi sei sempre piaciuto maledettamente troppo, accidenti a te! Ma siccome sei stato stupido, hai attaccato anche a me il morbo della stupidità, e mi hai impedito di rendermi conto che non ho mai smesso di pensare a te neanche quando credevo di averci messo una pietra sopra!”
La mano di Ken ha un tremito, mentre si stacca dalla mia e, quasi sorpreso da se stesso, la posa sulla mia guancia bagnata. Nei suoi occhi vedo la lotta disperata tra gioia improvvisa e incredulità. “Miyako-san … Sei seria? Tu davvero-” E non osa continuare.
“Sì. Sono innamorata di te da tempo immemore.” Rispondo solenne, ma poi sorrido della sua sorpresa, come mai ho sorriso in vita mia. “Mi ci sono volute tre storie finite male e un bacio per capirlo sul serio, e ti ho quasi perso perché non volevo vedere la verità. Ma ecco qui. E se tu mi vuoi ancora, allora non azzardarti a ripetere che non ci vedremo mai più, perché non te lo permetterò.”
I suoi occhi ardono, proprio come è successo quella volta davanti a casa mia. Ancora una volta non respiro. Penso che non guarderò mai più altro che non siano i suoi occhi.
Mi sfiora piano la guancia, e le labbra.
“Scusami”, sussurra.
Mi bacia, e posso sentire il sorriso sulle sue labbra premute contro le mie. Mi bacia, all’inizio timido, attento a contenere la sua euforia, come se potesse rompermi solo con un movimento un po’ più deciso.
Sono io ad approfondire il bacio, allacciandogli le braccia al collo e stringendolo forte a me.
E’ così sciocco, appartenersi tanto a lungo senza mai dirselo, senza mai saperlo. E’ così sciocco essersi intralciati a vicenda per anni e anni.
Ma oramai la cosa sciocca è continuare a rimuginarci su. Perché solo ora mi sento a casa.
Ci separiamo appena, il tanto che basta per restare l’uno contro la fronte dell’altra. Ken è ancora incredulo, ma l’esultanza è ora palese nei suoi occhi.
“Buon Natale”, mi dice.
Io gli do un altro bacio a fior di labbra. “Il Natale più bello del mondo, direi”.
Non importa più il freddo del gradino, o la neve che vortica attorno a noi spinta dal vento. Quello che conta è che mi sento esplodere dalla felicità. Quello che conta è che ora che so, ora che finalmente ho capito, potrei restare qui per sempre, solo con Ken, senza curarmi del mondo esterno-
Il mondo esterno sembra leggermi nella mente, perché il telefono prende a squillare.
E così ci fermiamo entrambi, guardandoci con la stessa identica espressione.
Io rido.“Quanta sfortuna abbiamo, esattamente?” Scherzo.
Ken sorride un po’, facendo spallucce e lasciandomi andare.
Continua a guardarmi mentre rispondo e mi accosto il telefono all’orecchio, e i nostri sguardi non riescono a separarsi.
Il suo viso sereno sembra dirmi che non ha alcuna importanza se Hikari mi ha chiamata per chiedermi dove fossi, invitandomi a tornare a casa sua quanto prima. Non ha importanza, e me ne convinco anche io, rispondendole che avrei portato un ospite speciale con me, e chiudendo la telefonata senza altre spiegazioni.
Prendo la mano di Ken nella mia, e il dolce rimasto nell’altra, e guardandoci in silenzio sappiamo già che avremo tutto il tempo che vogliamo, da adesso in poi.
Tutto il tempo del mondo per riscrivere la nostra relazione con i termini giusti, finalmente.


“Secondo me avremmo potuto cercare una scusa per passare un altro po’ di tempo da soli.”
“Miyako-san …”
“Non dire Miyako-san con quel tono da papà, adesso. Renditi conto che non riusciamo mai a baciarci in tranquillità senza che qualcosa si metta di mezzo. Ecco, ora arrossisci.”
“Ma … ci aspettano di sopra. Non è mica carino.”
“Tu mi hai fatto aspettare ore.”
“Scusami.”
“E non guardarmi così che non mi faccio intenerire! Secondo me preferisci guardare Taichi che si butta sul buffet per assomigliare meglio a Babbo Natale, piuttosto che me.”
“Taichi che fa cosa?”
“Eludi la domanda? Iniziamo bene.”
“Oh, non dire assurdità adesso. Lo … lo sai cosa penso di te.”
“Mmm, potrei non saperlo così bene. Ti dispiace ripetere?”
“Non fare la furba. E poi siamo arrivati.”
“Bella scappatoia. Come minimo ora ti tocca umiliarti al karaoke. Tanto, peggio di Jyou non potrai cantare: il microfono non è certo il suo migliore amico … E ora perché ridi?”
“Sei adorabile, Miyako-san.”
“…”
“… Che c’è?”
“Non posso crederci. L’hai detto sul serio.”









E siamo giunti alla fine :) Spero davvero che vi abbia strappato almeno un sorriso! Quanto a me, ce l'ho messa tutta ^^ e ne avevo senz'altro bisogno, visti i rumors su questo famigerato Adventure Tri di cui credo stiamo aspettando tutti l'inizio con impazienza. Sono la sola a sentire la mancanza dei Digiprescelti della seconda guardia? ç_ç mi chiedo seriamente come giustificheranno la loro assenza, a questo punto. E spero che siano moooolto convincenti u.u ah, meno male che esistono le ff per dare gioia alle povere fangirl frustrate...
Grazie a tutti quelli che mi hanno seguito fin qui. In particolar modo, grazie a mia sorella nonché pazientissima beta-reader, senza la quale questa storiella sarebbe ancora a marcire nei vecchi files del mio pc. Il tuo terrorismo psicologico è sempre utile :* un ringraziamento speciale va, naturalmente, anche a chitta97: non potrei chiedere lettrice più assidua e entusiasta e carina di te <3 sarà colpa tua se finirò per montarmi la testa, sappilo :P
Con questa vi lascio, salutandovi alla prossima storia. E ricordate: Fate l'amore, non fate la Friendzone!
Padme Undomiel






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