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Autore: Cara_Sconosciuta    27/11/2008    26 recensioni
“Nome.”
“Kevin Jonas. Dove sono i miei fratelli?”
“Età.”
“Ventisei. Mi dice dove cazzo sono finiti i miei fratelli?”
“Non si agiti, il suo braccio è fratturato.”
“Me ne fotto del mio braccio! Voglio vedere i miei fratelli!”
“Potrà vederlo quando arriveremo in ospedale.”
“Vederlo?”
Genere: Romantico, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Eh sì, è già qui, la mia nuova ficcy che Minako aspettava con tanta ansia... Allora, prima di iniziare credo sia necessario dare un paio di avvisi. Questa non è una storia facile né divertente come Hanno rapito i Jobros, anzi, sarà molto drammatica, dato che la mia intenzione è trattare almeno tre temi abbastanza scottanti. Non saranno, ovviamente, i soliti Jonas quelli di cui leggerete qui: sono più grandi e il tempo e gli eventi li hanno cambiati non poco. Visto che la decisione di far rompere il voto a Kevin in Gabrielle ha suscitato tanto scalpore, ci tengo a dirvi che qui almeno uno dei protagonisti del voto se ne sbatterà allegramente per una serie di motivi che si capiranno lungo il racconto.

Basta, credo sia tutto qui... spero mi seguirete comunque!!!

Infine, viste le tematiche piuttosto forti, trovo particolarmente importante specificare che i Jonas Brothers non mi appartengono e non voglio in alcun modo rappresentare la loro vita o il loro carattere. La storia, chiaramente, non è scritta a fini di lucro.

Temperance

 

-Capitolo Uno-

Non deve essere facile perdere un fratello.

Io non lo so, non mi è mai successo.

A loro invece sì, loro che sono laggiù, ormai da cinque anni senza di me.

Ma voi non ci state capendo niente e forse è il caso di cominciare dall’inizio e non dalla fine. È una storia lunga, ma io non ho fretta… l’eternità è un tempo… beh, eterno, ed infinitamente monotono, quindi, se vi va di ascoltarmi, sarò ben felice di parlare un po’ per voi.

Bene, iniziamo… è passato quasi un anno, ormai da quel giorno, il giorno in cui la nostra storia prende forma.

 

He was my North, my South

My East and West

My working week and my Sunday rest

My noon, my midnight

My talk, my song

(H.Auden, Funeral Blues)

Sedici di settembre.

Il cimitero era verde come da ormai più di sei mesi autunno e inverno non gli permettevano. Verde e colorato dai petali di mille fiori che, avessero potuto scegliere, probabilmente avrebbero preferito stare in qualsiasi altro posto.

Non dev’essere bella la vita di un fiore al cimitero, ci avete mai pensato? I gambi recisi stretti in quei tristi e verdognoli vasetti di rame a cono, fissati giorno e notte da mille occhi di persone che non esistono più stampati su mattonelle di ceramica, regali inutili che non fanno altro che rattristare noi poveri morti.

Che poi, se non fosse per le troppo frequenti e forzate visite ai cimiteri, essere morti non sarebbe neanche male. Insomma, non è che cambi tanto dall’essere vivi… cambia di più per quelli che sono lasciati indietro, per quelli che vivi, in effetti, ci rimangono.

Come loro, appunto.

La ragazza dai lungi capelli rossi camminava piano sui corridoi di ghiaia bianca, circondati dalle lapidi. Quegli stessi occhi che i fiori tanto odiavano la seguivano, cercando di decifrare la strana bellezza del suo viso tondo, di quello sguardo contrito.

In mano, un mazzo di grosse margherite arancioni.

Eliza mi porta sempre e solo margherite arancioni, anche se non sono proprio convinto che lo faccia per me. La conosco da quando sono nato, non è mai stata ipocrita al punto da portare un dono a chi non lo può ricevere.

Quei fiori sono per mio fratello, per ricordargli che non è l’unico a soffrire.

Come se non fosse sufficiente Kevin a mostrarglielo.

Kevin che, in quel momento, stava in piedi all’imbocco del corridoio che porta alla mia tomba, guardando fisso davanti a sé qualcosa che solo lui poteva vedere, una sera di quattro anni prima.

 

“Fantastici! Non potevamo fare un concerto più bello!”

Joe guardò il fratello maggiore riflesso nello specchietto retrovisore, scuotendo la testa alla linguaccia che Nick, seduto al suo fianco, gli rivolse.

“E quando mai noi non siamo fantastici, Joy?”

 

“Ciao.”

Kevin si voltò verso Eliza, quasi sorpreso che una semplice voce fosse riuscita a strapparlo dai suoi ricordi.

“Ciao.” La salutò con un sorriso triste, stringendosi di più nel lungo cappotto grigio scuro.

Non nero, nero mai.

“E così è di nuovo quel giorno, eh?”

“Sì… meno male che capita una sola volta all’anno, di più non lo sopporterei. E lui men che meno.”

“Non migliora?”

Kevin si strinse nelle spalle.

“Dopo quattro anni, Liz?”

“Può darsi… il tempo cicatrizza le ferite.”

“Oppure le infetta.”

 

“Sapete che pensavo?”

“Perché, tu pensi, pure?”

“Sempre spiritoso, Kev, mi raccomando. Seriamente, io penso che dovremmo…”

“Joe…”

“Non ora, Nick, sto creando.”

“JOE, FRENA!”

 

Joe scosse la testa, riscuotendosi dalla trance che lo aveva colpito proprio lì, inginocchiato davanti alla mia lapide di marmo grigio.

Grigio, eccolo, il colore della morte.

Quell’urlo non lo abbandonava, non ne voleva proprio sapere. La voce di Kevin, terrorizzata, gli risuonava nella testa ogni giorno, quando meno se lo aspettava, riportandolo a quel sedici di settembre ormai lontano nel tempo, eppure ancora così vicino a lui.

L’urlo di un fratello che poteva vedere ogni giorno e che non faceva altro che ricordargli l’altro, quello che gli si mostrava soltanto in sogno e in fotografia.

Che non faceva altro che ricordargli me.

“Scusami.” Mormorò, chinandosi a baciare la mia fotografia, per poi tornare alla posizione iniziale.

Non si sarebbe mosso di lì finché Kevin non lo avesse chiamato e, anche allora, avrebbe fatto molta fatica a lasciarmi.

 

“Nome.”

“Kevin Jonas. Dove sono i miei fratelli?”

“Età.”

“Ventuno. Mi dice dove cazzo sono finiti i miei fratelli?”

“Non si agiti, il suo braccio è fratturato.”

“Me ne fotto del mio braccio! Voglio vedere i miei fratelli!”

“Potrà vederlo quando arriveremo in ospedale.”

“Vederlo?”

 

“Forse dovresti chiamarlo…”

“Forse non tocca a me.”

“Kevin…”

“Liz, sei la sua migliore amica, a te dà ascolto.”

“Kev, io ho paura di lui. Sì, spesso mi ascolta, ma l’ultima volta che non lo ha fatto mi ci sono voluti tre strati di fondotinta per risparmiargli la denuncia.”

“Lo so, lo so…”

 

“Mi sa dire come si chiama?”

Bianco. Non capiva.

Perché era tutto bianco?

“Signor Jonas, ricorda il suo nome?”

“Joseph.”

“Molto bene. Segua la luce…”

“Sono in ospedale?”

“Sì, Joseph.”

“Joe. Anche Kevin e Nick sono qui?”

“Potrà vedere suo fratello appena avrò finito i controlli. È stato fortunato, sa? Al volante e solo tre costole spezzate.”

“Io ho due fratelli…”

“Mi dispiace, Joe… mi dispiace davvero tanto, ma non c’è stato nulla da fare.”

 

Una mano si posò sulla sua spalla.

“Ancora qualche minuto, Kev, ti prego.”

“Dobbiamo andare a casa.”

Non era mai stata fredda, prima, la voce del mio fratellone. Lui era quello sempre pronto ad aiutare, lui quello che aveva una parola gentile anche nei momenti più brutti, lui che ci sosteneva nei successi e nei disastri.

Ma questo era prima, appunto.

La verità era che Kevin Jonas non era in grado di sopportare il dolore e ogni minuto passato in quel cimitero era per lui letale.  

Joe, invece, sembrava buttarsi contro la sofferenza a braccia aperte, stringendola forte a sé, come se gli fosse servita a rimanere ancorato alla realtà.

Diversi, semplicemente e completamente diversi.

“D’accordo.”

Lentamente, Joe si alzò in piedi, lanciando un’ultima occhiata alla mia fotografia.

 

Un cielo sereno, un prato verde, un gruppo di persone tra le lapidi grigie, la sicurezza a tenere un’orda di ragazzine chiuse fuori dal cancello.

Joe era esterrefatto... come era possibile che non capissero?

L’unica cosa che i famosi Jonas Brothers volevano quel giorno era essere lasciati in pace, senza fan, senza giornalisti. Che poi, c’era ormai ben poco per cui sgolarsi e sorridere: senza Nick il gruppo era finito.

“Coraggio...”Sussurrò Eliza, stringendosi al suo braccio.

Lui si scostò.

Non aveva bisogno di lei.

 

“Ciao, Joe.” Lo salutò Eliza, quando i due giovani uomini si trovarono nuovamente accanto a lei.

“Ciao, Liz.” Rispose lui, passando oltre, senza nemmeno guardarla.

Kevin le accarezzò piano un braccio, fermandosi un istante ad analizzare quegli occhi tristi come i suoi, ma per un motivo che certo non era la mia morte o, per lo meno, non lo era più.

“Si renderà conto di quanto sei importante per lui.”

“Ciò che conta è che si renda conto che non è lui quello morto in quell’incidente.”

Kevin annuì, chinandosi a posarle un bacio sulla guancia.

“Saluta Nick per me... e digli che mi dispiace se io non riesco mai a farlo.”

“Non ti preoccupare, Kev, ti conosce, sa che hai bisogno dei tuoi tempi.”

Con un sorriso, la donna ricambiò il bacio, accompagnandolo con un debole abbraccio, e lasciò che Kevin raggiungesse suo fratello con quattro rapidi passi di corsa.

Kevin e Joe Jonas... i suoi amici del cuore dai tempi dell’asilo ridotti a delle mere immagini di ciò che erano stati.

Sospirando, si avvicinò alla tomba e vi si inginocchiò davanti, prelevando dal suo contenitore il piccolo vaso di vetro che lei stessa aveva portato in sostituzione di quello di bronzo.

Eliza è fatta così, ha sempre un pensiero in più degli altri e così la mia tomba è l’unica del cimitero ad avere un vasetto di Murano al posto di quell’orrendo conetto di metallo.

Con gesti rapidi e nervosi rovesciò sul marmo della lastra gli scheletri delle vecchie margherite, poi riempì di nuovo il contenitore d’acqua e vi sistemò i fiori nuovi, identici a quelli vecchi.

“Non dovresti lasciare che quei due si sentano così in colpa, sai?” Con un po’dell’acqua rimasta inumidì un fazzoletto e prese a lucidare la mia fotografia. Non le importava che mi madre già lo facesse una volta a settimana, era un suo piccolo rituale al quale, presumibilmente, non avrebbe mai rinunciato. “Dopotutto, non sono stati loro ad ucciderti... è stato il caso e tu dovresti davvero  fare qualcosa per farli sentire meglio. Non so se li guardi, da ovunque ti trovi, ma sono, perdonami l’allusione, niente più che due cadaveri ambulanti. Tutti e due, Nick, anche se, come sempre, è Joe quello che non sa nascondere i propri sentimenti, Kevin è distrutto quanto lui, lo so. Io ci ho provato ad aiutarli, ma ci ho guadagnato solo qualche livido qua e là... non so se riuscirò mai a rimanere di nuovo da sola con lui... ma probabilmente sì, sai come sono fatta, lui per me è tutto. Dagli qualcosa in cui credere di nuovo, fagli trovare un lavoro, una donna, un cane, qualsiasi cosa possa farlo sentire meglio. Ti prego, Nick, facci uscire da questo incubo.”

Sospirando, Eliza si alzò in piedi e, a fatica, riportò sul suo viso ciò che poteva, almeno da uno sconosciuto, essere scambiato per un sorriso.

“Anche Frankie ti saluta, dice che verrà più tardi, perché ora è fuori con la sua ragazza. La sua ragazza, Nick... È bella, sai, ti piacerebbe, credo, e lui sta diventando un magnifico giovane adulto. Senza considerare che sembra l’unico in grado di condurre ancora una vita normale. Lo invidio, sai? I suoi diciotto anni li sta vivendo nel miglior modo possibile, mentre io ne ho ventisette e mi sento come se fossero cinquanta...”

I suoi occhi scuri si soffermarono ancora un istante sui bei fiori arancioni, per poi spostarsi sulla foto e sull’epigrafe.

Nicholas Jerry Jonas, amato figlio, fratello e amico.

Banale, o almeno, questo è quello che io ho sempre pensato.

“Bene, tra dieci minuti inizia il mio turno. Ciao, Nick, ci vediamo presto. Ti voglio bene.”

Dopo aver soffiato un bacio leggero come il vento in direzione della lapide, Eliza si voltò, lasciando che i boccoli ramati si avvolgessero con delicatezza intorno al suo collo latteo e si avviò verso l’uscita del cimitero.

E io rimasi lì, ancora una volta solo in mezzo a centinaia di fantasmi che, come me, avevano mille storie da raccontare e nessuno disposto ad ascoltarli.

Mi facevano sempre sentire in colpa, le parole di Liz. In colpa per aver ridotto così i miei fratelli, in colpa per non poter dare a Frankie consigli su questa nuova e bellissima ragazza, in colpa per aver abbandonato la mia famiglia.

In colpa, perché mi era impossibile realizzare anche uno solo dei desideri della mia amica.

Perché i morti sono morti, non divinità e non hanno nessun potere sul corso degli eventi.

Anche noi, come i vivi, dobbiamo adattarci ad un destino che non possiamo controllare.

La differenza?

Noi siamo spettatori, possiamo solo guardare e sperare.

I vivi no, loro sono gli attori e il copione lo possono cambiare.

Semplicemente, rendersene conto per loro non è poi così facile.

 

Continua...

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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