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Autore: Nicky Rising    31/01/2015    3 recensioni
L'autobiografia della più grande rockstar degli anni '90, Minnie, in arte Aree Monroe, diventata famosa grazie al suo produttore Axl Rose e alle sue molteplici collaborazioni con i Guns N' Roses. Ripercorriamo insieme alle sue stesse parole le emozioni, e la strada che l'ha portata al successo insieme agli uomini che lei stessa, ancora oggi, definisce come i più importanti della sua vita.
Aree sono io e siete voi: prendendo spunto solamente dai sogni, un personaggio e una storia, che spero vi possano appassionare. Mia prima long degna del termine!
Genere: Drammatico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Axl Rose, Quasi tutti
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Prologo “Sandi Thom - I Wish I Was a Punk Rocker”
 
Sono nata il 5 maggio 1974, in una cittadina italiana talmente minuscola da dover condividere il nome della propria provincia con quello di un altro paesino. Una città piazzata così, in mezzo a mare e montagne, ad uguale distanza da entrambi, doveva essere proprio lei ad ospitare la mia famiglia. Una cittadina inutile, che nessuno conosceva, che quando i ragazzi di altre regioni ti chiedevano da dove venivi e tu rispondevi, finivano con il guardarti con aria interrogativa.

Mentre l’America e l’Inghilterra imparavano a conoscere il massimo splendore della musica Rock, io mi ritrovavo tra le braccia di mia madre, lontana migliaia di chilometri dal mio sogno. Eppure, a pochi giorni dalla mia nascita, non sapevo neppure che quello fosse ciò a cui ero destinata: allora non capivo nulla se non che avevo bisogno di aggrapparmi a quelle braccia calde e mangiare. E piangere se vedevo qualsiasi altra cosa che non fosse mia madre.
Nacqui con due mesi di anticipo rispetto a quello che si aspettavano tutti, con lei e papà che dovevano ancora finire di dipingere la cameretta e con la maggior parte dei miei fratelli ancora troppo piccoli per ricordarsene.
I medici dissero subito ai miei genitori che ero tanto piccola, tanto fragile, che avrebbero potuto salvarmi la vita, ma non risparmiarmi dalla debolezza caratteristica che mi avrebbe accompagnato per tutta la crescita. Esagerarono un po’, forse pensando che mamma e papà fossero solo due incoscienti con troppi figli, perché, in realtà, a parte qualche influenza in più rispetto agli altri bambini, non me la cavai così male. Nacqui come settima figlia di una famiglia che aveva già vissuto sei parti, e che si preparava ad attraversarne altri due dopo di me.
Eravamo in nove, nati ognuno quasi un anno dopo l’altro. Fortunatamente, io e i miei otto fratelli andavamo molto d’accordo: incontravo ovunque ragazzini che litigavano e picchiavano a sangue i propri, e, seriamente, non riuscivo a capirlo, per me dividere la vita con tante personalità diverse con cui esprimere pareri differenti era qualcosa che sfiorava la magia. I vicini, invece, ci guardavano sempre con uno sguardo curioso, stupiti dal credere che tutte quelle persone potessero vivere insieme sotto uno stesso tetto. Inoltre, anche gli amici, nonostante fossero ormai abituati all’idea, restavano comunque un po’ dubbiosi se venivano invitati per una cena o per un pomeriggio in casa nostra.

 Mamma non lavorava, o meglio, lavorava fin troppo considerando che passava la giornata ad occuparsi di noi, anche perché non avevamo nemmeno nonni o zii che potessero aiutarci: papà e mamma erano figli unici di genitori troppo vecchi, che solo Rebbie e Jack, i due maggiori, avevano avuto l’occasione di conoscere. A mantenere la mia grande famiglia, comunque, ci pensava papà: dipendente di una casa discografica piuttosto importante, per quanto questa lo potesse essere in Italia, era un talent scout e un produttore, lavoro che consisteva nel trovare nuovi talenti e offrire al nuovo artista la giusta somma di denaro per fargli intraprendere la carriera, sperando in un generoso profitto. Un ruolo importante, che si era guadagnato con fatica e con una grande passione per la musica, che sia lui che mamma avevano trasmesso a tutta la prole.
Lui e lei si erano conosciuti nel 1965, quando avevano rispettivamente diciotto e diciassette anni, durante un concerto dei Beatles, a Milano, ed erano rimasti stupiti della coincidenza di trovarsi, in mezzo a migliaia di persone, provenienti dalla stessa schifosa città immersa nel nulla. Avevano poi vissuto insieme la classica storia dei rocker innamorati, assistendo a tutti i concerti dei propri idoli, dai Rolling Stones agli Who, indossando giacche di pelle e fumando sigarette. Poi  quando mamma a soli diciannove anni rimase incinta, misero la testa a posto, decisero di sposarsi e papà trovò questo splendido lavoro con il quale poteva stare vicino alla sua passione per la musica e, allo stesso tempo, guadagnarsi abbastanza soldi per vivere in maniera più che benestante. Papà aveva talento, aveva orecchio, i direttori se n’erano accorti subito, e, fino ad oggi, che io sappia, non ha ancora sbagliato un colpo.

Nel 1987 inizia la mia storia, perché non ho ricordi precedenti a quel momento, ed inizia durante il mio tredicesimo compleanno, circa due mesi prima dell’avvenimento che divenne il simbolo di tutta la mia vita.
A tredici anni non si è molto, si è solo una ragazzina che frequenta la seconda media, e che, nel mio caso, è anche abbastanza asociale, senza troppi amici, con un odio represso verso tutti quei ragazzi idioti convinti di essere superiori al resto del mondo perché già strafatti persino di polvere di gesso.  La cosa divertente è che piacevo agli adulti e non ai miei coetanei, troppo matura, cortese, intelligente? Non lo so, ma so che quello che nessuno capiva, era che, professori, coetanei o scuola, a me non fregava niente di nulla. Tutto quello che volevo fare era aprire la finestra di camera mia e mettermi a cantare i nuovi pezzi degli Aerosmith, che in quel periodo stavano sfondando sia le classifiche che gli amplificatori.
La mia strada, il mio sogno, il mio tutto era quello: cantare. Facevo lezioni di canto da diverso tempo, e mai niente, prima, mi aveva così tanto appassionato. L’idea di iniziare a farlo, nacque quando sentii per la prima volta un pezzo di Michael Jackson, Billie Jean, mi sembra, proveniente dall’album Thriller del 1982.
Non avevo mai ascoltato nulla del cantante, ma quando sentii quella canzone, mi resi conto che l’interpretazione di quel ragazzo, unita alla sua voce ricca di così tante dinamiche, dava origine a quella che per me era la perfezione. Iniziai ad approfondire sempre di più la sua carriera, scoprendo che era uno dei pochi bambini prodigio che era diventato un artista di talento.
Michael aveva iniziato a cantare a cinque anni, ed era diventato famoso a dieci, decisi che dovevo raggiungerlo in qualche modo. Mi dissi: “Ok, voglio fare quello che fa lui.”.
A otto anni mi iscrissi ad una scuola di musica e di lì iniziò tutto.

Come dicevo, la passione di mamma e papà, a quanto pare, ebbe, infatti, un effetto anche genetico, perché di noi nove figli non ce n’era uno che non avesse qualche dote dal punto di vista artistico o musicale. Se Rebecca, la maggiore, che, nell’87, aveva vent’anni, praticava perfettamente ogni passo di danza moderna, Maddalena, mia sorella minore, di otto, era una virtuosa del pianoforte e se Alessandro, terzogenito di diciassette anni, suonava in maniera sublime la batteria, persino Cristiano, il più piccolo di soli cinque anni, sembrava portato per intonare le canzoncine dei cartoni animati.
Se c’era una cosa su cui, però, papà non trovava nemmeno da discutere, era che nessuno dei suoi figli sarebbe stato prodotto dalla sua casa discografica. Diceva che ogni uomo deve farsi il proprio futuro da solo, che diventare qualcuno solo per fortuna e favoritismi sminuisce qualsiasi tipo di talento. Se sognavamo il successo nel campo della musica, dovevamo sudare, lottare ed arrivare al nostro traguardo da soli, facendoci notare dal grande pubblico sfruttando solo le nostre capacità. Sapeva quant’era difficile riuscirci, e anche lui era abbastanza scettico sul nostro futuro, per quanto bravi fossimo, ma, allo stesso tempo, non avrebbe mai, mai permesso di influenzare la nostra carriera artistica. Dal canto nostro ci sembrava un discorso sensato, ma, allo stesso tempo, continuavamo a pensare che, almeno una spinta da parte sua, avrebbe fatto comodo. Mamma era abbastanza neutrale sul discorso, a lei piaceva ascoltarci, dirci che miglioravamo, che eravamo bravi ed era bello renderla felice.

Uno dei primi ricordi che ho, è uno dei nostri concerti che, io e i miei fratelli, organizzavamo per mamma e papà: era stata un’idea di Jack, Giacomo, che voleva sempre far sentire i suoi progressi alla famiglia e che aveva deciso di organizzare queste esibizioni dove loro potevano assistere alla presentazione di qualche brano o esercizio preparato da noi per l’occasione. Ognuno di noi ascoltava come un critico professionista e lo scopo delle serate era trovare difetti per poter migliorare. Inutile dire che papà era l’orecchio che trovava sempre problemi nell’esecuzione.  Ricordo una delle mie prime esibizioni per loro, in cui avevo cantato un pezzo di Ella Fitzgerald, mi pare. La mia voce sembrava quella di una negra, così diceva mamma, e la mia passione per le canzoni rock, mi spingeva ad avere una grinta che non si avvicinava neanche lontanamente al mio carattere, che, seppur maturo e alternativo, era caratterizzato da una forte timidezza e da una sensibilità esagerata per qualsiasi cosa.
Ero una ragazzina lunatica che viveva di empatia e, allo stesso tempo, di disprezzo per gli altri, che riuscivano sempre ad essere felici, mentre io volevo ragionare sui massimi sistemi del mondo, per, poi, non trovare nessuna risposta ed arrabbiarmi con me stessa per non essere semplicemente come gli altri. Tuttavia, non ero un’emarginata sociale, tutt’altro, ma nella mia classe non ero né sfigata, né popolare. Ero semplicemente “Quella che cantava con otto fratelli”.
Sì, perché, alla fine, i ragazzini hanno bisogno di classificarsi per forza, non gli serve conoscere le personalità di ognuno, gli basta qualche caratteristica, magari irrilevante, che però li colpisce, così riescono ad avere un’idea generale di come sei non appena pensano al tuo nome. Inutile dire che quelli popolari erano gli unici di cui ci si ricordava, ed erano anche quelli che odiavo di più. Il mio problema era che, se da una parte li odiavo, dall’altra, di certo, non potevo stare con quelli sfigati, o sarei diventata come loro. Per questo motivo, in seconda media, alla mia classificazione si aggiunse anche “Alternativa”, perché stavo nel mezzo alle due categorie, insieme ai metallari, agli Hippie, ai ragazzi Punk e ai Rocker come me.

Il fatto che prima avevo citato definendolo come quello che “Divenne il simbolo della mia vita”, avvenne nell’agosto del 1987, estate tra la mia seconda e terza media. Erano le tre del pomeriggio e, fuori, era un caldo spaventoso, il che impediva a chiunque di uscire di casa. I ragazzini erano bloccati nelle loro camere ad annoiarsi, ma questo non valeva per me, che, essendo sempre stata un animo solitario, non mi facevo dispiacere delle sane ore di tempo libero passato a pensare.
Accesi la radio. La voce carismatica di qualche Speaker iniziò subito a descrivere il caldo come quello più intenso di tutti i tempi, frase che, probabilmente, ripeteva tutti gli anni. Non smettevo di sperare che finisse i suoi noiosi monologhi sul tempo per dare qualche bella canzone. Dopo qualche altro minuto, in cui cercava dei nuovi sinonimi per “Afoso”, “Torrido”  e “Bollente”, iniziò la rubrica dei nuovi successi musicali del momento:
“I veri intenditori e collezionisti li ricorderanno per il loro primo EP uscito in numero limitato l’anno scorso esclusivamente negli Stati Uniti, “Live?! Like a Suicide”, gli altri, invece, dovranno per forza imparare a conoscerli, perché questi cinque ragazzacci faranno la storia della musica! Hanno pubblicato la settimana scorsa, in luglio, il loro primo album in studio, e, in America, stanno già riscuotendo un successo incredibile! Ne sentiremo parlare a lungo, sul serio. L’album s’intitola “Appetite for Destruction”. Personalmente, l’ho ascoltato, ed è veramente qualcosa di pazzesco. Non si sentiva dell’Heavy Metal del genere dalla fine dei ’70.. Ora la band sta girando gli Stati Uniti aprendo i concerti degli Aerosmith, insieme penso che riescano ad organizzare i concerti più fuori di testa del secolo.. Ma ora, vogliamo un vostro parere, questa è Welcome to the Jungle, e loro sono i Guns N’ Roses!”

“Welcome to the Jungle, we’ve got fun and games,
 We’ve got anything you want, honey we know the names..”.


Una voce cattiva. Spietata. Incazzata nera, che iniziò ad urlare versi altrettanto cattivi ed incazzati.

“Benvenuta nella giungla, abbiamo giochi e divertimento,
abbiamo tutto quello che vuoi, tesoro conosciamo i nomi..”

Rimasi ad ascoltare con un sorriso da ebete stampato in faccia. Mi bastarono i primi quaranta secondi della canzone, per rendermi conto che quella band sarebbe diventata storia.
Era già successo che un gruppo sconosciuto saltasse fuori dal nulla con dei pezzi fortissimi, così com’era stato per i Bon Jovi. L’anno prima, avevano pubblicato il loro album più famoso, “Slippery When Wet”, che nell’87 venne considerato inizialmente come il più venduto dell’anno, simbolo della rivoluzione Heavy.
Ma c’era qualcosa di speciale e diverso in quella canzone, di ultranuovo. Qualcosa che venne poi definito dai critici come Sleaze Metal, genere musicale cattivo, ribelle e grezzo. Molto più spietato dei Bon Jovi, che alla fine basavano la loro carriera su come stavano i capelli al frontman. Era un ritorno alle origini del rock, poca tecnica, tanta grinta e tanta rabbia. Perfetto.
Uscii di casa ed entrai nel negozio di dischi vicino, dove trovai il commesso, ormai abituato alle mie visite.
“Ehi, Minnie, posso fare qualcosa per te?”
“Sì, grazie, posso chiederti se hai qualcosa dei Guns N’ Roses?”
“Mi sono arrivati degli articoli l’altro ieri.. Cosa ti serve?”
“Tutto.”
Sorrise e si mise a cercare nel retro del negozio.
Se c’era qualcosa che amavo, quella era la musica, erano i sentimenti a cui portava, e quando sentivo qualcosa di vero, lo capivo. Capivo che era quello che cercavo e volevo, capivo che quella era la musica che mi avrebbe trasmesso le migliori emozioni.
Il commesso lasciò sul bancone il disco citato dalla radio insieme a qualche giornale.  Appoggiandomi al tavolo, scelsi la prima rivista su cui mi cadde lo sguardo e l’aprii in fretta, trovando una foto della band. Li guardai uno ad uno.
Il titolo citava “Sesso, droga e Guns N’ Roses”.
Vidi il ragazzo al centro, capelli rossi, lunghissimi, bandana, viso da duro, occhi verde acqua.
“W. Axl Rose, leader, cantante, autore della maggior parte dei testi della band e loro fondatore.”
Quindi era lui il leader di quella band, era lui quello con quella voce che mi aveva catturato l’anima dalla prima nota.
Era finita. Mi dissi che dovevo conoscere quel ragazzo.
Sì, io avrei conosciuto Axl Rose.
E la parte migliore, motivo per cui ora sto raccontando la mia storia,
è che è successo davvero.








--------------------- Nota dell'autore: non è mai facile trovare il modo giusto di cominciare una ff, spero che questo non vi abbia annoiato troppo. Vi assicuro comunque che la storia è già finita, quindi non rimarrà incompleta e non sarà eccessivamente lunga. Presto entreranno in scena i personaggi che state aspettando tutti, intanto vi chiedo di pazientare imparando a conoscere l'assoluta protagonista della storia.. Non scriverò tante note, durante la pubblicazione dei capitoli, ma lo farò credo solo quando lo ritengo estremamente opportuno, per lasciarvi perdere tra le pagine senza il mio disturbo;) A presto, Nicky
  
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