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Autore: Felurian    01/02/2015    12 recensioni
"Su una sedia, in un angolo, dietro la lunga scrivania è seduto un ragazzo. Il suo nome è Amos.
E' un ragazzo estremamente bello. E' seduto sulla sedia, la testa tra le mani. Sta pensando, e ha bisogno di silenzio."
Genere: Angst, Drammatico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Amor and Mors: a story about seasons.








Immaginate una stanza.
Grande, molto grande.
Le pareti sono scrostate. Dalla finestra, dietro strati di sporco si intravede una bella giornata autunnale: c'è un lungo viale alberato, le foglie a terra sono arancioni, rosse e gialle, proprio come quelle ancora sugli alberi. Tra di esse spunta ancora qualche sprazzo di verde, ma è così rado che nemmeno ci si rende conto della sua presenza.
Un piccolo tocco di speranza, la primavera tornerà.
Le luce delle ultime ore di sole danno alla stanza un tocco magico. La illuminano a stento, mostrando ciò che si trova all'interno.
La stanza è polverosa, il pavimento pieno di carte accartocciate. Unica cosa pulita, all'interno, una lunga scrivania di legno, dipinta di rosso. E' vecchia, molto vecchia. La vernice su di essa si sta perdendo, lasciando uscire il marrone sottostante, che finalmente trova un po' d'aria.
Sulla scrivania c'è una macchina da scrivere. Anche questa è vecchia, ormai le macchine da scrivere sono solo un pezzo d'antiquariato.
Perfettamente pulita.
Su una sedia, in un angolo, dietro la lunga scrivania è seduto un ragazzo. Il suo nome è Amos.
E' un ragazzo estremamente bello. E' seduto sulla sedia, la testa tra le mani. Sta pensando, e ha bisogno di silenzio.




Inverno


Era un gelido giorno invernale.
Antonio stava camminando, proteggendosi come meglio poteva con quel suo cappotto liso. Era passato tanto tempo dall'ultima volta che aveva potuto comprarsi un cappotto nuovo. Tante cose erano successe da allora: la morte della moglie, la perdita del lavoro, la vita sotto un ponte.
'Sotto un ponte' non era solo un modo di dire, purtroppo. Quattro anni prima una serie di eventi l'avevano portato alla perdita del lavoro, e con esso della casa e di qualunque speranza.
Non che all'inizio non ci avesse sperato: aveva cercato e cercato lavoro in ogni dove, ma non c'era nessun tipo di mansione per un uomo come lui.
Così era stato costretto a prendere la poca roba che gli era rimasta e cercare di sopravvivere al meglio.

Stava camminando sul marciapiede, salutando di tanto in tanto alcuni conoscenti, senza però fermarsi a parlare con nessuno. Quello era un giorno importante, e non c'era tempo da perdere.
Si fermò a comprare un pezzo di pizza e una rosa, con i pochi spicci che era riuscito a mettere da parte dopo mesi di elemosina. Non badò a spese, era un giorno estremamente importante.
Ogni anno, infatti, ogni nove gennaio, la storia si ripeteva.
Antonio viveva ormai in attesa di quel giorno, per quella ricorrenza. Segnava i giorni sul pezzo di muro a cui si appoggiava ogni notte, da quattro anni. Era un bel pezzo di muro, ad essere sinceri. Era abbastanza caldo, essendoci dall'altra parte il forno di una pizzeria, e Antonio iniziava ad apprezzarlo.

Entrò nel bagno di un bar e si diede una pulita al viso e alle mani. Quando alzò gli occhi, guardandosi allo specchio, si ritrovò a sorridere. Era in fermento, felice, come ogni anno quel giorno.
Si diede una sistemata ai capelli, si aggiustò meglio il cappotto addosso e quando fu soddisfatto del suo aspetto uscì, con portamento fiero e sguardo felice. E una rosa in mano.

Quella rosa venne deposta cinquantatré minuti dopo, dopo un lungo viaggio a piedi tra le vie della città, davanti ad una tomba. Era il loro giorno speciale, e andava festeggiato insieme.
Dietro lui, nel cimitero semivuoto, c'era solo una persona.
Vestito completamente di nero, spicca nel paesaggio invernale come un corvo.
E' un ragazzo, alto, ed estremamente bello. In piedi, vicino ad una lapide, fissa l'anziano signore.




Primavera




Il tempo era mite in quel giorno primaverile.
Anna era seduta su una panchina nel piccolo parco vicino casa. Un libro e un paio di cuffie era tutto quello che le serviva per stare tranquilla.
Amava leggere, era il suo passatempo preferito. Amava anche scrivere: spesso si ritrovava a discutere con i suoi personaggi, cercando di convincerli a fare quello che lei suggeriva. Ovviamente, non le davano mai ascolto.
Quei figli di carta erano la sua passione. Li accudiva, li curava, li faceva nascere e dava loro un'educazione. Ma loro continuavano a non ascoltarla. Era frustrante. Era un'ottima madre, ma loro non le davano comunque ascolto, trovandosi così immersi in guai di ogni sorta da cui le toccava tirarli fuori ogni volta, come ogni madre. O quasi.

Quel libro la stava prendendo come pochi altri. I personaggi erano perfetti, dei perfetti idioti, proprio come ogni personaggio che si rispetti. Erano forti, coraggiosi, leali, vili, malvagi, simpatici, innamorati e odiosi. Ognuno di loro possedeva così tante sfumature che lo rendevano terribilmente incoerente, e lei amava questo. Si ritrovò a pensare che un giorno le sarebbe piaciuto saper scrivere qualcosa del genere, qualcosa di così reale da far male.
La musica nelle orecchie era quasi finita, permettendole così di sentire i rumori che la circondavano.
Gli uccellini cantavano vivacemente, il vento scuoteva le fronde degli alberi. Il rumore delle macchine era così attutito e lontano che quasi non riusciva a credere di essere in una grande città.
La musica finì completamente, e si ritrovò circondata dai rumori assordanti della realtà. Persone, tante persone. Decine, centinaia, migliaia, non avrebbe saputo dirlo. Avrebbe solo voluto farle smettere. Per sempre. Ma non poteva.
Era una delle tante, troppe cose che non poteva fare. A sedici anni si era resa conto che tutte le cose che non poteva fare la facevano sentire frustrata, ed era una situazione che odiava.
Non poter uscire quante volte voleva. Non poter studiare quello che voleva. Non poter essere carina come le sarebbe piaciuto. Non poter compiacere la sua famiglia. Non poter avere una famiglia orgogliosa di lei anche solo per una volta. Non poter avere una madre al suo fianco.
Non poter curare Brimble, il suo cagnolino, l'unico essere che la amava immensamente dal primo giorno che l'aveva conosciuta.
Era stato il giorno della sua morte quello in cui si era decisa a prendere le redini della sua vita, a comandarla, a piegarla al suo volere nell'unico modo che conosceva.

“Anna, vieni con me, dobbiamo rientrare.”

Si lasciò aiutare dall'infermiere ad alzarsi. Era ancora troppo debole per farlo da sola. E ne era fiera, era contenta di aver combinato il suo corpo ad un mucchio di ossa senza forze, di aver reso i suoi capelli così sottili da cadere e le sue unghie così deboli da spezzarsi come se nulla fosse. L'aveva scelto lei. I suoi genitori non erano fieri nemmeno di quello, ma pazienza. Aveva scelto lei, e ne era dannatamente fiera.

Raccolse il suo libro e il suo lettore mp3, e si diresse verso la porta della clinica insieme all'infermiere. Lo guardò, non lo aveva mai visto. Doveva essere uno nuovo. Era alto, ed estremamente bello. Se ne sarebbe ricordata, se lo avesse già visto.


“Hai mangiato la mela?”
“Sì, certo.” rispose, ricordandosi di come l'aveva nascosta e poi vista mangiare da alcuni uccellini. Sorrise, continuando a camminare.




Estate



Quel bambino piangeva incessantemente. Giorno e notte, notte e giorno. Niente riusciva a farlo smettere: non le canzoni che la madre gli cantava, piano prima, poi sempre più forte, per cercare di coprire le sue grida. Non il padre, che lo cullava con insistenza, giorno dopo giorno. Nulla sembrava riuscire a farlo smettere di esprimere il suo immenso dolore, il suo odio contro quel mondo del quale non sapeva ancora nulla. Piangeva e piangeva, giorno dopo giorno.
Il caldo infernale di quel Luglio non aiutava per nulla. Non il bambino, che aveva un motivo in più per piangere. Non i genitori, ancora più stressati da quella calura opprimente.
Non aiutava nemmeno la ragazza che viveva nella casa di fianco a loro, in piena sessione di esami e con il pianto del bambino sempre nelle orecchie. O forse quello la faceva stare bene più di qualunque altra cosa avesse mai sentito, e la faceva stare male come se la sua anima fosse di continuo dilaniata e ricostruita da qualche sadica bestia.

Il bambino continuava a piangere. Come era possibile che un bambino di così pochi mesi avesse così tanta forza in quel gracile e adorabile corpicino?
Al momento dell'adozione, avevano detto che, essendo un bambino così piccolo, non ci sarebbe stato nessun tipo di problema. Si sarebbe adattato alla sua nuova famiglia come se fosse stata la sua famiglia biologica. E allora perché piangeva così tanto?
Avevano fatto qualunque tipo di controllo medico, più e più volte. Era in perfetta salute, ma perché continuava a piangere?
Avevano provato qualunque cosa ci fosse da provare. Eppure, il bambino piangeva ancora.
E la madre lo amava alla follia, aveva desiderato quel bambino più di ogni altra cosa, e sentirlo piangere la faceva sentire inadeguata, come se stesse sbagliando qualcosa.
Era il suo piccolo bambino, ma lei non riusciva a consolarlo.

Il padre era arrivato al limite della sopportazione. Doveva lavorare, il caldo era soffocante, e quel benedetto bambino non la smetteva di piangere. Quando non gridava, singhiozzava, e nei momenti di quiete si udiva un flebile mugolio, un piccolo pianto sommesso.

Erano le tre di pomeriggio. Il caldo era insopportabile, e il bambino piangeva tremendamente, quando la ragazza della casa accanto andò a bussare alla porta.

“Signora, mi dispiace disturbarla. Sento il bambino piangere, e mi hanno sempre detto che sono molto brava con i bambini. Posso aiutarla, magari?”

La signora la fece entrare, ringraziandola, ma assicurandole che non c'era alcun modo di far smettere di piangere quel piccolo bambino.
La ragazza si avvicinò alla culla, tremando leggermente. Accarezzò piano il bambino, prima di chiederle il permesso di prenderlo in braccio.
Si abbassò, piano, e sollevò piano il bambino. Lo avvicinò al petto, con calma, l'orecchio del bambino contro il suo cuore. E iniziò a canticchiare una melodia rassicurante, a bassa voce, mentre teneva stretta quella piccola creatura.

E il bambino, tra le braccia della madre, ascoltando il battito rassicurante del suo cuore, si addormentò, tranquillo come non era mai stato.

La ragazza rimise il bambino nella culla, mentre la signora, stupita, le chiese di diventare la sua tata.

Uscì da casa correndo, aveva bisogno di allontanarsi il più possibile. Si scontrò, mentre scendeva le scale, con un ragazzo.
Era alto, ed estremamente bello. Lo fissò per un momento, prima di fuggire via.




Autunno



Amos è ancora nella sua stanza, le mani a coprirgli il viso. Ha indosso la sua felpa, ma ora il cappuccio è abbassato. Sulla nuca si intravede un tatuaggio 'Amor et Mors'. Amore e Morte.
Sembra quasi che il suo nome sia stato creato proprio per richiamarle. Amore. Morte.
Esiste l'amore senza la morte?

La sua testa è piena di pensieri e questo non gli permette di riflettere lucidamente.
Come fare?
Prende un foglio bianco, lo inserisce nella macchina da scrivere. Le ultime luci del pomeriggio gli permettono di vedere quello che scrive, ma proiettano strane ombre contro il muro.
Sembrano tante, piccole, spaventate persone.
Questo lo confonde ancora di più.
Inizia a scrivere qualcosa.
Le ombre non lo lasciano stare. Iniziano a fare una strana danza contro il muro. Amore e Morte, ancora una volta. Lo chiamano, lo vogliono. Ha bisogno di pensare.
Strappa il foglio dalla macchina da scrivere, lo accartoccia, lo getta via.
Non va bene.
Le ombre continuano a danzare, allungandosi sempre di più mentre il sole cala all'orizzonte.
Quel ballo diventa frenetico, surreale. Le ombre gli riempiono la testa. Ha bisogno di pensare.
Alza il cappuccio e lascia la stanza, vuole lasciare indietro quelle ombre. Ma lo seguono costantemente. Inizia a correre. Le ombre ridono, rincorrendolo, continuando quella loro strana e surreale danza.

Il sole sta calando. Solo qualche minuto, ancora qualche minuto.
Quella maledetta danza di Amore e Morte cessa, in un ultimo, vertiginoso giro. Lo lasciano solo, stremato.
Torna a casa. Si siede alla scrivania. Inserisce un foglio.
E' finalmente in grado di pensare.










 
   
 
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